DI MATTEO racconta SCARANTINO

 

Al “BORSELLINO QUATER” DI MATTEO RACCONTA SCARANTINO  
Il pm palermitano sentito come teste a Caltanissetta  

 

Dal primo interrogatorio tenuto con il “falso pentito” Vincenzo Scarantino al confronto con i collaboratori di giustizia Totò Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera; poi ancora il processo “Borsellino bis” ed il “Borsellino ter” passando per le inchieste sui “mandanti esterni” e la condanna a morte vissuta sulla propria pelle. Per cinque ore di udienza il sostituto procuratore di Palermo, Antonino Di Matteo, sveste i panni del pm e, di fronte alla Corte d’assise di Caltanissetta al processo “Borsellino quater”, viene sentito come teste per ricostruire in particolare le indagini condotte soprattutto sulla strage via d’Amelio. Con grande precisione Di Matteo ricostruisce pezzi di indagine che lo hanno visto tra i protagonisti solo a partire dall’ottobre-novembre del 1994, quando venne incaricato dal Procuratore capo Tinebra di entrare nel pool che si occupava delle stragi. “Il mio primo atto istruttorio – ricorda Di Matteo in aula – fu una serie di interrogatori di Scarantino alla Questura di Genova. Vi erano già state attività istruttorie e all’arresto di Scarantino si arrivò tramite le dichiarazioni di Salvatore Candura e Francesco Andriotta, ma io non ho mai partecipato a quelle indagini condotte dalla dottoressa Boccassini, da Cardella e da Petralia. Con loro spesso vedevo anche Arnaldo La Barbera, soprattutto con la Boccassini che era ritenuta il motore delle indagini”. Passo dopo passo il magistrato ricostruisce quegli anni partendo da dati di fatto come i risultati ottenuti nel secondo e nel terzo procedimento sulla strage del 19 luglio 1992, che portarono a 26 condanne definitive mai messe in discussione.

Il valore dato alle parole di Scarantino  Di Matteo, parlando anche del possibile depistaggio sulle indagini, evidenzia alcuni aspetti chiave. “Se vi è stato – ricorda – bisogna chiedersi come mai tra le cose che Scarantino dice vi siano anche elementi di coincidenza, seppur parziali, con quanto riferito poi da Spatuzza. Scarantino aveva indicato come partecipi componenti di due mandamenti: Guadagna e Brancaccio. Il soggetto che per primo parlò del coinvolgimento di Tagliavia ed anche di Giuseppe Graviano, per Brancaccio, è proprio Scarantino. Quindi non è vero che Brancaccio fu tenuta fuori dalle indagini, tanto che arrivammo anche alla condanna di questi soggetti. Scarantino è stato anche il primo a parlare delle intercettazioni sul telefono della madre di Borsellino e a riferire sui fratelli Scotto. I nipoti di Borsellino indicavano la presenza di Pietro Scotto in via D’Amelio a completare dei lavori per la Sielte. Quando Scarantino parlava di Scotto, ricollegando quanto dichiarato dai parenti di Borsellino, ecco che le perplessità venivano superate. Vi erano elementi di convergenza delle prove”. Tra gli aspetti ricordati vi è poi anche il dato che all’arresto di Scarantino si arriva in base alle attività di intercettazioni telefoniche sull’utenza di Pietrina Valenti, sulle dichiarazioni di Candura ed Andriotta. “Candura l’ho interrogato solo al processo – ricorda il magistrato – Andriotta fu indicato dalla Procura di Milano, segnalato dai pm Zanetti e Boccassini, come soggetto che avrebbe potuto dire delle cose sulla strage di via d’Amelio. Non avevamo elementi per ritenere che la convergenza fosse frutto di una situazione patologica”.Il pm palermitano chiarisce anche come furono affrontate le continue ritrattazioni dello stesso ex picciotto della Guadagna: “Noi credevamo che Scarantino fosse a conoscenza di alcuni segmenti dell’organizzazione materiale e della preparazione dell’attentato e che avesse detto la verità nei primi tre interrogatori, quelli precedenti al 6 settembre ’94 dove si parla della riunione nella casa di Calascibetta. Pertanto nel ‘Borsellino Bis’ avevamo chiesto di non utilizzarlo quando non era riscontrato, tanto che chiedemmo l’assoluzione di Calascibetta, Murana e Gambino. In secondo grado sulla base di nuove prove alcune di quelle assoluzioni furono trasformate in condanne. A un certo punto lui stesso inquinò un quadro probatorio che ritenevamo genuino, inserendo un dato falso della partecipazione dei tre collaboratori di giustizia alla riunione di Calascibetta (Cancemi, Di Matteo e La Barbera). Quest’opera di inquinamento vi fu sin dall’inizio, sin dalla prima ritrattazione televisiva ad Italia uno, di cui appresi solo qualche giorno dopo dalla stampa, vi fossero pressioni (sia esponenti della famiglia, che da parte di certi avvocati, ndr) per farlo ritrattare”. Diversamente da quanto dichiarato dal “picciotto” della Guadagna, Di Matteo ricorda di aver anche ricevuto delle telefonate dallo Scarantino: “Qualcuno, certo non io, diede al collaboratore di giustizia la mia utenza telefonica. Ricordo che era maggio giugno, io avevo finito un’udienza del processo Saetta e spensi il telefonino. Quando lo riaccesi c’erano otto messaggi vocali di Scarantino che si lamentava che diceva di voler tornare in carcere ‘nell’inferno di Pianosa’ piuttosto che vedere tradite ‘le promesse di assistenza’ alla sua famiglia. Mancate promesse che imputava al dottor Gabrielli, dirigente del servizio centrale di sicurezza, e poi Arnaldo La Barbera e Vincenzo Ricciardi. Scarantino si lamentava sempre di queste persone, ma a me non ha mai detto di essersi inventato le cose o che gliele avevano fatte dire. Se lo avesse fatto avrei fatto delle relazioni di servizio. Di queste cose, in riferimento alla sua assistenza si lamentava spesso ma erano cose non rilevanti processualmente. Solo poi ho saputo che a dare il mio numero era stato il Procuratore capo Tinebra”.

La lettera con le perplessità della Boccassini e Sajeva  Rispondendo alle domande dell’avvocato Giuseppe Scozzola, Di Matteo parla anche della lettera firmata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e Roberto Sajevainviata nell’ottobre del ’94 al procuratore aggiunto Giordano e inserita poi al protocollo riservato. Il ricordo sul punto è chiaro: “Non l’ho mai vista. Ho appreso dell’esistenza di questa lettera soltanto molti anni dopo. Con la dottoressa Boccassini non ho mai parlato, lei non mi ha mai parlato di Scarantino e sono certo di non aver mai parlato con la Boccassini di vicende relative all’indagine, né tanto meno io ne ho parlato con La Barbera. Con la Boccassini non ho mai partecipato a una riunione in Dda e la Boccassini non mi ha mai esposto le sua valutazioni. Dell’esistenza di una relazione di questo tipo ho appreso anni dopo dalla stampa”. Il pm palermitano ricorda di riflessioni sull’attendibilità di Scarantino ma nella stessa misura che avveniva anche per altri collaboratori. “In quel periodo – dice Di Matteo – Io ed altri colleghi eravamo convinti, basandoci su elementi di fatto, che fino all’agosto ’96 fosse poco credibile quello che affermava Salvatore Cancemi. Ricordo che le perplessità legate a Cancemi erano condivise da tutti. Non era plausibile che Cancemi con un ruolo così importante su Capaci non sapesse nulla su via D’Amelio. Analoghe perplessità vi erano anche in riferimento a Mario Santo Di Matteo, a suo dire ignaro di ogni fase su strage via D’Amelio. Di Matteo era stato sottoposto, dopo i il sequestro del figlio, ad intercettazione ambientale con la moglie Franca Castellese. Un dialogo in cui implorava al marito di non parlare della strage di via d’Amelio con riferimento ad ‘infiltrazioni della polizia’. Facemmo anche un interrogatorio alla moglie di Di Matteo facendole ascoltare la registrazione. Le perplessità sulla Castellese aumentarono ma non si procedette perché mancavano ulteriori riscontri. E queste perplessità vi furono anche per Gioacchino La Barbera”.

La querelle sul confronto Si torna a parlare della vecchia polemica scaturita dalla richiesta degli avvocati Di Gregorio, Marasà e Scozzola di poter leggere i verbali del confronto svoltosi il 13 gennaio 1995 tra Vincenzo Scarantino e i collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera. Come è noto il deposito posticipato di quegli atti al processo “Borsellino bis” era costata una denuncia da parte dei tre legali nei confronti dei pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo per “comportamento omissivo”. A loro volta i magistrati avevano denunciato per calunnia i tre avvocati. Il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”.

“Io propongo e concordo la necessità di un confronto – racconta Di Matteo affrontando l’argomento –, e i confronti si tengono presso la sede del Ros di Roma. A quei confronti partecipo anch’io ma partecipavano anche altri magistrati della Dda di Caltanissetta, non solo i colleghi Petralia, Palma e Giordano. Ricordo che i tre soggetti (Cancemi, Brusca e Di Matteo, ndr) smentirono Scarantino”. Di Matteo spiega quindi che il confronto mirava a chiarire la partecipazione, o la mancata partecipazione, ad una riunione operativa a casa di Giuseppe Calascibetta alla Guadagna una decina di giorni prima della strage di via D’Amelio. “Eravamo in un momento in cui c’erano dei procedimenti in fase di indagine – sottolinea il sostituto procuratore di Palermo –, in quel momento noi ritenevamo che i tre non ci fossero alla riunione, ma noi avevamo delle indagini e sospettavamo che quei tre soggetti (che avevano negato la loro partecipazione in quel luogo), in quel momento erano reticenti su via D’Amelio”. Di Matteo ribadisce che quella riunione coinvolse “tutta la Dda” in relazione “agli atti da predisporre e da depositare in vista del rinvio a giudizio dei 15 o 16 nel processo Borsellino Bis”. “In quel momento tutti i componenti della Dda di Caltanissetta (in relazione alla pendenza di queste indagini, che poi sfociarono un anno dopo nella richiesta di rinvio a giudizio per il Borsellino ter), si espressero per una scelta processuale che venne presa sulla base dell’articolo 130, primo comma, sulle disposizioni di attuazione”. “Siccome Di Matteo, La Barbera e Cancemi erano indagati nell’altro procedimento in quel momento non si depositarono gli atti relativi a questo confronto”, prosegue il magistrato. “Gli atti vennero depositati con il Borsellino ter, ma nel corso del Borsellino Bis, e prima della conclusione dell’istruttoria dibattimentale, lo stesso pm all’udienza in cui venne sentito Cancemi, produsse il verbale di confronto. Fu ammesso anche un confronto con Brusca da parte dello Scarantino e si tenne a Como prima che si esaurisse la fase istruttoria dibattimentale quei confronti furono messi a disposizione dei difensori anche del Borsellino Bis”. “Nel momento in cui ci furono i confronti per la pendenza di indagini – sottolinea infine Di Matteo –, in quel momento si ritenne che per consentire la prosecuzione delle indagini quegli atti dovessero essere coperti ancora per un certo periodo dal segreto investigativo”. Di fatto il 14 ottobre ’97 al Borsellino Bis il pm chiese l’acquisizione del verbale di confronto tra Cancemi e Scarantino alla stessa udienza in cui era chiamato Cancemi.

La sicurezza di Scarantino  Parlando della tutela data all’epoca al collaboratore di giustizia, principale accusatore sulla strage di via d’Amelio, Di Matteo, rivolgendosi alla Corte, riferisce di non aver mai saputo le modalità, ma di ricordare che al tempo anche chi faceva le indagini, come i funzionari del Gruppo Falcone e Borsellino, si alternavano per svolgere attività di tutela nella località protetta dello Scarantino. “Non so questo per conoscenza diretta, ma per quello che sentivo dai colleghi. Era una cosa che al tempo accadeva. Un episodio simile era avvenuto per Cancemi al Ros. In quel caso, nel corso di indagini successive, mi sono imbattuto in documenti d’autorizzazione scritti dalle Procure di Caltanissetta e Palermo. Non mi risultano documenti simili su Scarantino”. Di Matteo, oltre a chiarire di “non aver mai autorizzato dei colloqui investigativi tra funzionari del Gruppo Falcone Borsellino e lo Scarantino dopo che questi aveva iniziato la collaborazione (se ciò è avvenuto prima ha detto di non esserne a conoscenza, ndr)” parla anche del suo rapporto con alcuni funzionari del gruppo investigativo guidato da Arnaldo La Barbera. “Con l’ex questore non ho mai avuto rapporti. Quelle volte che lo vedevo la sera con la dottoressa Boccassini il La Barbera nemmeno salutava. Casomai aveva buoni rapporti con Tinebra, la Palma e Petralia. Personalmente avevo un rapporto di buona collaborazione con il dottor Bo. Questi mi diceva che non viveva bene il fatto di essere stato incaricato della protezione di Scarantino. Ricordo che non era contento di essere stato incaricato di una cosa che non lo riguardava”. In merito alle parole riferite dallo stesso Scarantino nella ritrattazione di Como, dove indicava i suggerimenti che venivano fatti dai funzionari in alcuni verbali in suo possesso, Di Matteo spiega inoltre di non aver svolto indagini per un semplice motivo: “Scarantino, quando ritrattò a Como, accusò i magistrati, tra cui anche me, di averlo costretto a ritrattare ritrattazioni. Diedi per scontato che su quel tipo di accuse abbia proceduto la procura di Catania. Come mai Scarantino aveva quei verbali? Non so chi abbia fatto quelle indicazioni, non ho riconosciuto la scrittura. Nella grande maggioranza dei casi il difensore aveva diritto della copia dell’interrogatorio per farlo avere al suo assistito. A me risulta che l’avvocato Falzone, che in quel periodo assisteva moltissimi pentiti, era solita chiedere copia dei verbali dei suoi assistiti. Credo che possa essere avvenuto anche per Scarantino”.  ANTIMAFIA DUEMILA 16.11.2015 di Lorenzo Baldo e Aaron Pettinari


“25 anni alla ricerca di una scomoda verità”. Lodato intervista Di Matteo

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A venticinque anni di distanza dalle stragi di Capaci e via d’Amelio, che hanno portato alla morte di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, sono ancora diversi i pezzi mancanti che si intravedono sotto le macerie. Quali sono queste “verità scomode” celate? Si potrà mai raggiungere una completa verità? Perché quello della mafia è un fenomeno che resiste nel nostro Paese da oltre 150 anni? Sono questi alcuni temi affrontati a Pavia, nella meravigliosa aula del ‘400, in occasione dell’ultimo incontro organizzato per la XIII edizione di “Mafie, Legalità ed Istituzioni” 2017, dedicato alla memoria del Prof. Grevi, ed intitolato “25 anni alla ricerca di una scomoda verità”.Da una parte Saverio Lodato, giornalista, scrittore, autore del best seller “Quarant’anni di mafia” ed editorialista della nostra testata. Dall’altra Nino Di Matteo, sostituto procuratore nazionale antimafia, pm di punta del pool impegnato nel processo sulla trattativa Stato-mafia e per anni pm nella indagini sulla ricerca dei mandanti delle stragi. A seguito della condanna a morte di Totò Riina, e con l’arrivo a Palermo di duecento chili di tritolo per compiere un attentato nei suoi confronti, Di Matteo è diventato il magistrato più scortato d’Italia. Con le sue domande, di fronte ad una platea composta soprattutto da giovani universitari, Lodato e Di Matteo hanno fatto il punto sulla lotta alla mafia sottolineando come l’impegno nel contrasto sia un preciso dovere non solo per gli addetti ai lavori ma, soprattutto, per la politica. da ANTIMAFIA DUEMILA