🟧 ARCHIVIO ➡️ RIFORMA E INDIPENDENZA DELLA MAGISTRATURA e L’OBBLIGATORIETA’ DELL’AZIONE PENALE di Paolo Borsellino

 

Secondo le più recenti dichiarazioni del ministro di Giustizia egli non si sarebbe mai sognato di sfiorare il problema della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo di cui semmai si discuterà nell’ambito della revisione costituzionale demandata al prossimo Parlamento.
Il problema tuttavia risulta non solo sfiorato, ma affrontato di petto da parte di autorevoli esponenti dello staff ministeriale che, con elaboratissime argomentazioni, lo sollevano su prestigiose riviste specializzate come Giustizia Penale, non omettendo di accusare l’Associazione Nazionale Magistrati di rigide chiusure corporativistiche.
Gli argomenti, oltre all’insistente richiamo di diritto comparato ad altri ordinamenti statuali, sono sostanzialmente tre: la necessità che si ponga rimedio alla non soddisfacente distribuzione di magistrati del Pubblico Ministero sul territorio; la considerazione secondo cui i magistrati del pm operano già oggi scelte discrezionali in ordine all’esercizio dell’azione penale senza però risponderne ad alcuno e il difettoso coordinamento tra gli stessi organi inquirenti non realizzabile in maniera ottimale se non sottoponendolo a una unica autorità che dirigendoli possa coordinarli effettivamente nella conduzione delle indagini, specie in materia di criminalità organizzata.
Questo è l’argomento preferito dalla Direzione Affari Penali del Ministero, che ne ha fatto oggetto di un articolato questionario, inviato a tutte le procure generali della Repubblica sollecitando suggerimenti e prese di posizione che comunque sono suggerite in modo abbastanza trasparente dallo stesso interrogante. E poiché il problema del coordinamento tra pubblici ministeri nella lotta alla criminalità organizzata viene ormai in modo abbastanza palese sollevato proprio insistentemente da coloro che mirano ad un assoggettamento del pubblico ministero all’esecutivo, non è più esorcizzabile trincerandosi in difesa, soltanto in difesa, di già riconosciute garanzie costituzionalmente sancite.
Si rischia altrimenti di perdere un’altra decisiva battaglia analoga a quella referendaria sulla responsabilità civile, che è riuscita nell’unico risultato di trasformare in un pronunciamento popolare contro la magistratura e la sua credibilità quello che i fatti successivi mi sembra lo abbiano dimostrato era un problema tutto sommato risolvibile con non dirompenti concessioni da parte della magistratura associata.
Mi auguro pertanto che i Procuratori Generali e quelli della Repubblica offrano spassionatamente alla Direzione Affari Penali il loro contributo fermo nel rispetto dei principi, ma flessibile negli accomodamenti di un sistema che i principi non tocchi.
Peraltro che il problema del coordinamento delle indagini nei confronti della criminalità organizzata e di quella mafiosa in particolare sia stato risolvibile, all’interno del sistema giudiziario attuale o a quello recentemente passato, senza sottoporlo a radicali sconvolgimenti, è dimostrato proprio dalle vicende, o quantomeno dalla prima fase di esse, concernenti i cosiddetti pool antimafia, con i quali senza interventi legislativi e comunque dall’alto, ma per iniziativa degli stessi magistrati, per germinazione spontanea vorrei dire, si realizzò non soltanto il coordinamento ma addirittura l’unificazione di tutte le indagini sulla criminalità mafiosa o di gran parte di essa.
Sono stati commessi certamente errori di valutazione risoltisi purtroppo in una dirompente crisi di rigetto. Ma ciò, a mio parere, non perché il sistema non fosse funzionante, perché furono acquisite conoscenze prima di allora impensabili, ma a causa della supina accettazione da parte della magistratura della cosiddetta delega che il potere politico in genere ha lasciato loro, incoraggiandone il lavoro.
Li lasciarono rappresentando all’opinione pubblica la lotta alla criminalità mafiosa come qualcosa che avrebbe potuto risolversi nelle aule di giustizia decretando in pubblico dibattimento, o meglio, in maxidibattimento, la fine di Cosa Nostra.
Naturalmente le iniziative giudiziarie, pur incoraggiate e condotte con determinazione, non potevano incidere seriamente sulla consistenza del fenomeno che andava invece contemporaneamente e radicalmente affrontato alle sue radici con mezzi diversi da quelli meramente repressivi, con interventi sociali, economici, culturali e istituzionali dei quali non si vide traccia in quegli anni come non se ne vede seriamente traccia tuttora.
Prese allora abbondantemente campo una virulenta crisi di rigetto verso quegli esperimenti che tanta parte ha avuto nella formulazione di taluni paralizzanti principi del nuovo codice di procedura penale.
Basti pensare, come esempio lampante, alla drastica riduzione delle ipotesi di connessione che da un lato obbliga a processi separati anche nel caso di assoluta unicità di prova, dall’altro costringe a riproporre all’interno di ogni singolo processo la prova inerente ai fatti criminosi non più commessi ma solo collegati e comunque rilevanti per la decisione.
Le pochissime autorità giudiziarie che attualmente celebrano processi per criminalità mafiosa sanno che ormai ogni processo è diventato necessariamente un maxiprocesso.
Per certo la crisi della giustizia esisteva ancor prima del nuovo codice di procedura, ma non v’è dubbio che il nuovo contesto normativo e la realtà giudiziaria all’interno della quale esso è stato intempestivamente introdotto hanno cagionato, sommandosi, i paralizzanti effetti che sono sotto gli occhi di tutti. Ma a fronte di questa desolante realtà, ormai unanimemente riconosciuta e non modificabile con meccanismi previsti dalla legge delega che anzi, anche per il succedersi incessante di decreti e modifiche di decreti, aggrava ancor più la situazione invece di affrontare il radicale problema ponendo mano a radicali riforme di taluni principi sanciti dal legislatore delegante, si è innescata, secondo un disegno già da alcuni ampiamente previsto, una dissennata campagna contro l’obbligatorietà dell’azione penale, contro l’attuale posizione istituzionale del pubblico ministero, sottolineando innanzitutto la carenza di collegamenti tra i vari organi inquirenti dispersi sul territorio nazionale.
Ed accusando la magistratura associata di inammissibili resistenze corporative all’ipotesi di radicali riforme in questa direzione. Resistenze asseritamente corporative che in realtà si risolvono nella doverosa difesa di principi costituzionalmente garantiti.
L’obbligatorietà dell’azione penale indispensabile per assicurare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge non è, senza gravissimi danni, removibile dal nostro sistema, a nulla rilevando in contrario i dotti richiami di diritto comparato riferibili a sistemi politici costituzionali profondamente diversi dal nostro. Ed a nulla vale l’ossessivo richiamo alla cosiddetta discrezionalità di fatto che indurrebbe il Pubblico Ministero a operare comunque scelte discrezionali delle quali non risponderebbe ad alcuno.
E’ vero che l’estensione a dismisura della tutela penale conseguentemente all’enorme numero di procedimenti che grava sul sistema giudiziario penale impedisce di fatto agli organi di accusa di perseguire ogni caso con eguale sollecitudine, ma resta sempre da dimostrare che da parte dei pm vengano di fatto operate vere e proprie scelte discrezionali, nel senso che l’attività repressiva venga deliberatamente omessa in casi nei quali potrebbe realmente essere dispiegata.
Solo scelte siffatte potrebbero essere correlate ad una responsabilità politica quale è quella prefigurata dall’organo di accusa mentre invece la soluzione sta a monte espellendo dal sistema penale le miriadi di piccoli reati che estendono a dismisura una tutela che dovrebbe essere riservata, secondo quanto ci hanno insegnato, ai fatti di più apprezzabile rilevanza.
E d’altra parte un legislatore, abituato da decenni a vanificare con ricorrenti provvedimenti di amnistia, l’incessante lavoro della magistratura per tener dietro a migliaia di ipotesi di reato ben più efficacemente perseguibili in via amministrativa, non è poi per certo legittimato ad addebitare alla magistratura la responsabilità di avere adottato asserite irresponsabili scelte che in realtà sono poi soltanto la risultante di un’intollerabile sproporzione fra quantità di casi penali da un lato, termini e mezzi per occuparsene dall’altro.
Se pertanto è pretestuoso invocare la cosiddetta discrezionalità di fatto, cui può porsi rimedio per altra più accettabile via, per richiamare invece ad una responsabilità politica del pm e se pertanto l’azione penale è, e deve restare obbligatoria, non vi è più motivo che un organismo soggetto soltanto alla legge debba essere invece posto alle dipendenze dell’esecutivo.
Resta però, specie in materia di indagini sulla criminalità organizzata, il problema del collegamento fra i vari organi del pm, che in tale indagine hanno l’obbligo della direzione.
Ma il problema è tecnico, non politico, a meno che l’insofferenza verso qualsiasi forma di direzione dell’esecutivo, e anche verso quelli che non intacchino l’indipendenza e l’autonomia del pubblico ministero, non finisca per precludere alla magistratura associata qualsiasi possibilità di manovra. La criminalità organizzata spazia con la sua attività ben oltre i limiti angusti delle circoscrizioni, che nella quasi totalità dei casi sono addirittura meno ampie delle stesse province. Il pool antimafia di Palermo intuì questa innegabile realtà con riferimento a Cosa nostra e ritenne di risolvere il problema attuando quella radicale forma di collegamento costituito dalla unificazione di tutte le indagini su questa più grave forma di criminalità.
A seguito di note decisioni della Suprema Corte, si ritornò al nefasto sistema delle indagini parcellizzate e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Nonostante le promesse del ministro Vassalli, il problema dei pool, che è poi quello del collegamento delle indagini, non venne affrontato legislativamente se non con inconcludenti disposizioni del nuovo codice di procedura penale esortanti al coordinamento volontario. Nessuno tuttavia può realmente coordinare, se non dirigendo.
Il radicale ridimensionamento contenuto nel nuovo codice di procedura penale e dei principi gerarchici all’interno degli uffici di procura, fra le procure generali e quelli della repubblica, ha reso di fatto impossibile coordinare alcunché.
Queste gerarchie vanno ricostituite, almeno a livello di procure generali, esistenti su base regionale, ove dovrebbero essere accentrate, ripristinando i poteri di allocazione, le indagini sulla criminalitĂ  organizzata operante oltre le sedi circoscrizionali.
Il rifiutare anche questi accomodamenti interni irrispettosi dei principi in cui tutti crediamo rischia di avere un unico sbocco, che è quello perseguito, più o meno dichiaratamente, dal potere politico.

 

(7 giugno 1991 Vasto Congresso nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati “il giudice fra crisi della giurisdizione e problemi…”) di Paolo Borsellino