Testo integrale dell’ intervento tenuto dal dottor Borsellino durante il dibattito organizzato dal cordinamento antimafia, CGIL Sicilia, nell’anniversario dell’assassinio di G. Montana, N. Cassarà e R. Antiochia, Palermo, 28 luglio 1986.
Ancora una volta, purtroppo, nel pieno di una estate palermitana carica di tensioni, è doveroso ricordare, in coincidenza con la ricorrenza annuale, un’altra tragica estate tra le numerose che hanno visto consumarsi per mano mafiosa le vite di fedeli servitori dello stato ed insieme a loro distruggersi l’immenso patrimonio di conoscenze, di volontà, di coraggio ed abnegazione di cui erano portatori. Cadevano un anno fa vittime della mafia Beppe Montana, Ninni Cassarà e l’agente Antiochia, vittime altresì di pericolose altrui illusioni e gravi omissioni. E mi sia consentito spiegarmi partendo da due struggenti ricordi personali che li riguardano. Con Beppe Montana avevamo da qualche mese scoperto la nostra comune passione per il mare e nelle pause dei nostri frequenti incontri di lavoro non mancavamo di informarci scambievolmente sulle prestazioni delle nostre barchette di impiegati statali. In una di queste occasioni Montana mi confidò che le poche ore libere che avrebbe dovuto trascorrere spensieratamente sul mare, lontano dagli assillanti problemi di lavoro ed, in particolare, di ricerca dei latitanti (servizio che gli era affidato) le dedicava a procedere con la sua barca e col carburante pagato di tasca sua ad appostamenti ed avvistamenti, che altrimenti, per la scarsezza, se non per l’inesistenza, dei mezzi e degli uomini da impiegare all’uopo, non avrebbero potuto essere effettuati. E questo è stato il primo struggente pensiero che mi ha assalito allorché una sera, alla luce delle lampare e dei riflettori, ho visto il corpo martoriato di Beppe Montana disteso tra barche ed attrezzi marinari, in costume da bagno, sul litorale di Porticello. Mi aveva accompagnato Ninni Cassarà, con il quale anni di comune lavoro avevano cementato una affettuosa amicizia, consolidatasi specialmente durante una comune missione in Brasile nel novembre del 1984. In quella occasione avevo avuto più che mai modo di apprezzarne le straordinarie doti di umanità, che per altro ben conoscevo dapprima, e la purezza d’animo, quasi da fanciullo, che traspariva dalla espressione del suo viso, intelligente e pulito. Ebbene, questo Ninni Cassarà, sempre allegro ed ottimista come tutti i fanciulli puri di cuore, nel riaccompagnarmi a casa dopo il pietoso e doloroso ufficio della visita al cadavere di Montana, nel salutarmi in fretta per recarsi a riprendere il suo incessante lavoro investigativo, mi disse questa frase, che fu l’ultima che ascoltai da lui, poiché dopo qualche giorno mi toccava rivederlo nel lago del suo stesso sangue, proteso verso le scale di casa sua, quasi in un impossibile estremo e vano tentativo di riabbracciare i suoi cari. Mi disse, dunque, in quella occasione Ninni Cassarà: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”. Qualche giorno più tardi la sua disperata profezia si sarebbe avverata su di lui. “Dei cadaveri che camminano”. Era la fine di una illusione che, in verità, nessuno di coloro che seriamente si occupano e si occupavano allora di faccende di mafia aveva mai nutrito. Ricordo gli sforzi costanti, successivi alle clamorose tappe del cosiddetto maxiprocesso (in particolare i mandati di cattura conseguenti alle rivelazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno) per smorzare i facili trionfalismi, per avvertire che la mafia non era sconfitta, che ancora lungo era il cammino da percorrere per contenere il fenomeno, che lunghi anni di vigili e penetranti indagini attendevano l’apparato investigativo e repressivo statuale, che non poteva concedersi sosta alcuna o allentamento di tensione senza rischiare di trovarsi dopo breve periodo nella stessa situazione di partenza, poiché le organizzazioni mafiose sono ancora in grado di ricostituire i loro organigrammi con la stessa velocità con la quale da parte delle organizzazioni statuali riesce a seguirsi l’evolversi delle vicende criminose ed infliggere seri colpi alla criminalità organizzata. L’illusione di aver sconfitto la criminalità mafiosa costò negli anni ‘70 un vuoto di indagini di un decennio, al termine del quale, non per scelta ma per necessità inderogabile, divenne indispensabile tentare di recuperare il tempo perduto con lo strumento del maxiprocesso, i cui denigratori farebbero bene a ricordare che “maxi” esso non sarebbe stato se non fosse stato necessario affrontare il problema di una organizzazione criminale di proporzioni gigantesche, cresciuta a dismisura tra l’indifferenza generale o l’assuefazione alle più efferate forme di violenza, esplose in una città dove ogni giorno dell’anno aveva il suo omicidio ed ogni settimana la sua “lupara bianca”, per trascurare le altre minori forme di criminalità. Coloro i quali avevano, superficialmente o forse anche in mala fede, salutato le iniziative giudiziarie a cavallo degli anni 1984 e 1985, non come l’inizio di una adeguata risposta statuale allo straripare incontrollato della violenza e della potenza di Cosa Nostra, bensì come una conclusiva risposta alla “emergenza mafiosa” avevano finito per alimentare una pericolosissima illusione, poiché da una siffatta erronea impostazione del problema discendeva un inevitabile corollario, ai nostri giorni ormai chiaramente enunciato da certi manipolatori di opinioni: cessata l’emergenza (sono diminuiti gli omicidi, vengono catturati i latitanti ed il maxiprocesso procede regolarmente nelle sue tappe dibattimentali) è venuta meno la necessità di una straordinaria risposta dello Stato ed occorre ripiegare sulla “normalizzazione”.Noi rifiutiamo il concetto di “emergenza” nella lotta alla criminalità mafiosa e riteniamo pertanto senza significato valido i costanti richiami alla “normalizzazione”. La risposta dello Stato deve essere continua e costante nel rispetto doveroso delle garanzie del cittadino. Non sono consentiti allentamenti di impegno e di tensione, non perniciose illusioni di cessata pericolosità solo in presenza di un calo statistico degli episodi di violenza, per altro niente affatto scomparsi. All’inizio dell’estate 1985 non era difficile incontrare chi parlava di mafia sconfitta o di mafia che sarebbe stata definitivamente sconfitta sol che fosse stata assicurata la conclusione, ormai allora alle porte, della indagine istruttoria in corso (la sentenza – ordinanza, come è noto, venne depositata l’8 novembre 1985) e la celebrazione del relativo dibattimento. Con l’uccisione di Montana, Cassarà e Antiochia, Cosa Nostra dimostrò di avere ancora pressoché intatte tutte le sue capacità decisionali ed operative, se è vero che in tal modo palesò di essere in grado di adottare così terribili decisioni e tradurle in atto a mezzo di potentissimo gruppo di fuoco. E gli avvenimenti successivi ne danno conferma, anche con riferimento ai traffici di sostanze stupefacenti, in ordine ai quali basta accennare agli ingenti sequestri di eroina operati nel corso di quest’anno sulla tratta aerea Palermo-Roma-New York, sulla linea cioè di tradizionale sviluppo dei traffici internazionali di droga gestiti da Cosa Nostra che è impensabile siano in così breve tempo caduti in gestione di mani diverse, nonostante il coinvolgimento in tali indagini, in prevalenza, di soggetti insospettabili di estrazione non mafiosa: circostanza, anzi, che induce a ritenere intatte, se non addirittura accresciute, le capacità di reclutamento della organizzazione mafiosa. Ad un anno di distanza dalle stragi del luglio e agosto 1985 e nonostante gli indubbi successi conseguiti dalle forze dell’ordine con la cattura di numerosi latitanti, resta, pertanto, ancora pienamente valida la richiesta del massimo sforzo statuale per il massimo possibile potenziamento dell’apparato investigativo e repressivo. Perduranti omissioni in proposito si rivelerebbero grandemente perniciose. Ho parlato all’inizio di omissioni che resero più agevole il compito degli assassini di Cassarà, Montana e Antiochia. Omissione dei responsabili organi statuali centrali è stata certo quella che rese possibile l’identificazione della squadra mobile di Palermo, cronicamente carente di uomini e di mezzi sin dai tempi dell’assassinio di Boris Giuliano, nella persona di Ninni Cassarà, tanto da far concepire alle organizzazioni criminali il proposito, freddamente e barbaramente attuato, di azzerare di colpo con l’omicidio del funzionario e per diversi mesi a venire ogni seria capacità investigativa della polizia a Palermo, come del resto erasi già in modo identico verificato con l’omicidio del vice questore Giuliano nel 1979. Omissione dei responsabili organi statuari centrali è stata certo quella che costringeva Beppe Montana a ricercare pericolosissimi latitanti, avvalendosi di mezzi personali ed esponendosi costantemente in prima persona per la mancata disponibilità di adeguato numero di collaboratori. Perdurante omissione sarebbe quella che sulla scia della invocata “normalizzazione” continuasse a mantenere insufficiente l’apparato investigativo e repressivo palermitano, senza considerare che la stagione dei grandi processi deve considerarsi appena iniziata, mentre occorre sollecitamente già procedere ad un aggiornamento della mappa del potere e delle attività mafiose, essendo rimasto fermo il quadro conosciuto (e delineato nella sentenza ordinanza dell’8 novembre 1985) al primo biennio degli anni ‘80. Sul piano strettamente giudiziario è necessaria l’immediata istituzione a Palermo di una terza sezione di Corte d’Assise, poiché, delle due esistenti, una rimarrà impegnata sino alla metà del 1987 nella celebrazione del primo maxiprocesso e presso l’altra è stata già fissata la celebrazione di altri gravissimi procedimenti concernenti anche la criminalità mafiosa, quale ad esempio quello per la strage di piazza Scaffa. Occorre pertanto un’altra sezione, da istituire, che si occupi del secondo poderoso stralcio del maxiprocesso, la cui sentenza istruttoria è in corso di deposito in questi giorni e concerne circa 100 imputati. La necessità di celebrazione di detti procedimenti e le conseguenti misure di sicurezza da adottare distoglieranno altro rilevante numero di uomini e mezzi dall’attività repressiva ed investigativa, per cui ulteriori poderosi interventi in tale campo si rivelano indispensabili. Gli enti, le associazioni ed i comitati che si sono dati come finalità nobilissima quella della lotta alla criminalità mafiosa hanno il gravoso e meritorio compito di tenere ora come non mai desta l’attenzione dell’opinione pubblica sugli accennati problemi, affinché dietro il paravento della cosiddetta “normalizzazione” non si pervenga invece ad una frettolosa “smobilitazione” dell’apparato antimafia e coloro che, doverosamente e dolorosamente, hanno ritenuto in questa lotta di trovarsi in prima fila non vengano addirittura additati, come recentemente è avvenuto, alla pubblica esecrazione.