La famiglia Borsellino: «La pista nera sulle stragi del ’92 è un altro depistaggio»
È in atto un altro depistaggio. Non lo dice così chiaramente Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, la figlia maggiore di Paolo morto nella strage di Via d’Amelio il 19 luglio 1992, avvocato di parte civile della famiglia Borsellino, ma torna all’attacco di chi, dice, sposta l’attenzione per nascondere la verità.
L’occasione è un seminario organizzato dal Dems il Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali dell’Università di Palermo diretto da Costantino Visconti dal titolo “Il danno esistenziale da strage: i 57 giorni della famiglia Borsellino”. Trizzino, affiancato da Gabriella Marcatajo, docente di Istituzioni di diritto privato che ha illustrato i profili innovativi della causa decisa dal Tribunale di Palermo, ha alternato le considerazioni sulla causa ad altre di stretta attualità.
Report sotto accusa
Intanto sulla puntata di Report e la ricostruzione fatta da Paolo Mondani sul coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie, esponente della destra eversiva, che sarebbe stato presente a Capaci per un sopralluogo qualche mese prima della strage in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta.
Una ricostruzione che, secondo Trizzino, serve a distrarre dalla verità insomma per depistare ancora una volta.
Trizzino, che ha recentemente sostenuto a Caltanissetta la sua arringa al processo per il depistaggio nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio attraverso le imbeccate a Vincenzo Scarantino: in quel processo sono imputati tre poliziotti. Il legale della famiglia Borsellino ha un’idea precisa: «È nelle indagini su mafia appalti che bisogna cercare la verità. qualche settimana prima di morire mio suocero ha incontrato il magistrato Felice Lima che gestiva il pentito Lipera il quale aveva riferito che qualcuno aveva passato i dossier delle indagini ai mafiosi». Una ricostruzione che fa il paio con un’altra: «In quei 57 giorni di Via Crucis che separano la strage di Capaci da quella di Via D’Amelio Paolo Borsellino non sorride più. Lucia (la moglie e figlia del magistrato ndr) mi ha raccontato che al padre sono diventati i capelli bianchi in dieci giorni. Ma a parte questo in quei giorni Borsellino confida a due magistrati di essere stato tradito da un amico e che, riferendosi all’ambiente della procura della Repubblica, a Palermo non ci si può fidare di nessuno. Ma quei due magistrati hanno parlato nel 2010 non subito dopo la strage».
La responsabilità della procura di Giammanco
Ma questo è solo l’antipasto di un discorso più ampio e complesso che l’avvocato fa davanti agli studenti di Scienze politiche: «È sul procuratore Giammanco che bisogna indagare altro che Delle Chiaie. Si gira sempre attorno per non cercare in quella maledetta procura». Ecco il punto: «Si parla di responsabilità istituzionali ma perché i responsabili devono essere altri e non i magistrati? Chi erano i magistrati coinvolti nel depistaggio su Via D’Amelio?» si chiede Trizzino. Il racconto del calvario di Paolo Borsellino è disseminato di riferimenti ai suoi colleghi, al «covo di vipere» che il magistrato considerava la Procura guidata da Pietro Giammanco. Senza mezzi termini Trizzino chiama in causa l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, autore poi dell’inchiesta sui Sistemi criminali che segue la pista del neofascismo e della massoneria nelle stragi e nel ’92 ma anche i magistrati Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone. Cose non nuove, per la verità, ma questa volta l’avvocato va dritto al punto: «Alla fine chi è ha fatto le inchieste su mafia e appalti è stato penalizzato, chi invece ha insabbiato tutto è stato premiato». Ma c’è di più in questo ragionamento articolato e senza peli sulla lingua: «In questi 30 anni mi sono fatto un’idea – dice Trizzino –: comincio a dubitare di tutto quello che ci hanno fatto vedere come accaduto. I responsabili sono stati dati in pasto all’opinione pubblica per coprire qualcun altro». Per coprire chi? Trizzino non lo dice ma «Riina non è il solo responsabile e ci sono altri elementi che hanno contribuito» afferma. E poi l’avvocato si chiede: «Perché c’è ancora tutto sto disinteresse per il depistaggio di Via D’Amelio e si preferisce parlare d’altro?».
Il diritto alla verità della famiglia Borsellino
E infine Trizzino chiude: «C’è bisogno di disinteresse di chi cerca questa verità. La persistenza di conflitti di interesse ha una funzione manipolativa nella ricostruzione dei fatti – dice –. Quando ho letto che Nino Di Matteo non voleva concedere il programma di protezione a Gaspare Spatuzza (il pentito che ha svelato la verità sul falso collaboratore Scarantino e quindi il depistaggio ndr), posso ipotizzare che Di Matteo avendo legato la sua immagine professionale a Scarantino temesse effetti negativi? Lo posso avere questo dubbio o no? Io voglio dire che la verità collettiva la cerca chi, modestamente, non ha interessi in conflitto. Vi assicuro che se qualcuno mi dimostra che Stefano Delle Chiaie era lì, me lo deve dimostrare con il metodo Falcone, Io sarò il primo a chiedere scusa. In trent’anni si è guardato ovunque: sono stati messi sotto accusa i carabinieri, politici, polizia. Tutte le istituzioni. L’unica istituzione che non è stata attenzionata nonostante Paolo Borsellino dica: saranno i miei colleghi ed altri. Noi questo non lo accettiamo più. Vogliamo semplicemente che anche in un’ottica di ricostruzione storica ci sia qualcuno che vada a vedere cosa è successo dentro quella procura. Perché c’è questa sovraesposizione mediatica sempre degli stessi soggetti? Qual è il vero motivo? Perché? Servono giovani che vadano a vedere le carte, in maniera asettica, senza conflitti di interesse per trovare la verità». NINO AMADORE SOLE 24 ORE 31.5.2022
28.5.2022 – Strage via d’Amelio: sui mandanti esterni non si archivia. Il Gip redarguisce i pm nisseni
Indicati alla Procura 32 punti per ulteriori indagini sulla strage di via d’Amelio
Al di là di questo, che ha portato al successivo processo contro i tre poliziotti del gruppo “Falcone e Borsellino” Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, per cui la procura ha chiesto la condanna, c’è tutto un universo inesplorato, da parte della Procura, che nei mesi scorsi era arrivata a chiedere l’archiviazione dell’indagine contro ignoti, sui cosiddetti “mandanti esterni”, “essendo intervenuta la scadenza dei termini delle indagini preliminari”.
Il gip del tribunale di Caltanissetta Graziella Luparello ha respinto la richiesta sollecitando una nuova attività istruttoria, da completare nell’arco di 6 mesi, tra acquisizioni di documenti e interrogatori, “procedendo se necessario a nuove iscrizioni nel registro degli indagati”.
Va detto che la Procura, oggi retta dal Procuratore Salvatore De Luca, non si è opposta all’eventuale investigazione suppletiva. Tuttavia una riflessione merita l’attività della precedente reggenza, perché, come dicevamo 32 punti su cui indagare non sono pochi.
Ancor più grave se si considera che la stessa Luparello ha sottolineato come le indagini “non possono ritenersi complete” nel momento in cui “non risultano avere esplorato e approfondito dei temi investigativi di particolare interesse, alcuni dei quali già noti al momento della formulazione della richiesta di archiviazione, altri sopravvenuti e divenuti ‘fatti notori’”.
Cosa ha fatto dunque in precedenza la Procura nissena dei vari Amedeo Bertone e Stefano Luciani? Ha preferito concentrarsi, speriamo in buona fede e non per totale incompetenza, esclusivamente nelle indagini sulla vestizione del falso pentito Scarantino quando questa è solo un “segmento” del depistaggio sulla strage di via d’Amelio”.
Ma la vicenda Scarantino viene usata per attaccare e delegittimare il lavoro di quei magistrati che sui mandanti esterni indagarono con convinzione: su tutti Nino Di Matteo.
Un’opera che viene condotta su due fronti. Da una parte ci sono quegli avvocati che, senza nulla togliere al diritto alla difesa e alla legittimità professionale nell’esercizio della loro professione, annoverano tra le loro difese anche quelle di soggetti che sono stati fautori delle stragi di Capaci e di via d’Amelio. E’ notorio che l’avvocato Di Gregorio non è solo il difensore di una delle vittime delle bugie del falso pentito Vincenzo Scarantino (Gaetano Murana, ndr) ma è già stata legale del boss corleonese Bernardo Provenzano ed anche del boss di Santa Maria del Gesù, Pietro Aglieri, entrambi membri della Cupola di Cosa nostra e condannati a vari ergastoli in via definitiva, anche per la strage di via d’Amelio.
Così come è noto che Giuseppe Scozzola è il difensore di Gaetano Scotto(anche lui in passato condannato per la strage di via d’Amelio, poi assolto con il processo di revisione). Il boss dell’Acquasanta oggi sotto processo per il tragico e misterioso omicidio del poliziotto Antonino Agostino e della moglie Ida, incinta, avvenuto il 5 agosto del 1989.
E lo stesso avviene per alcuni familiari di Paolo Borsellino come Fiammetta Borsellino, rappresentata in aula assieme al fratello ed alla sorella da Fabio Trizzino, genero del giudice ucciso il 19 luglio 1992, come se vi fosse proprio una convergenza di interessi, con tanto di livori e mistificazioni, pur di colpire Di Matteo anche se è stato dimostrato che questi con il depistaggio non ha nulla a che fare.
Un accanimento che contribuisce a distrarre anche dalla ricerca della verità sui mandanti esterni.
Adesso, però, eventuali immobilismi, inerzie non saranno ammesse.
Ci sono ulteriori sei mesi per approfondire ogni aspetto.
Passo primo
I primi spunti sui mandanti esterni emerso nel processo Borsellino ter, condotto dai magistrati Nino Di Matteo ed Anna Maria Palma, in cui vennero condannati in via definitiva boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe ’55) e Salvatore Biondo (classe ’56). Nella sentenza di primo grado la corte scriveva: “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”. Ricostruzioni basate sui pentiti Pulvirenti, Malvagna, Avola e, non da ultimo, Cancemi, il quale, si legge nella sentenza di primo grado, ha dichiarato come “Riina era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”. Ed è sempre Cancemi ad aver raccontato che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi. Dichiarazioni ripescate dalla Gip nel nuovo filone investigativo.
Sempre nel Borsellino ter il boss di Porta Nuova fece anche i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (oggi indagati a Firenze come mandanti esterni delle stragi del 1993).
Nomi che al tempo vennero iscritti in passato nel registro degli indagati sotto il nome di “Alfa e Beta” proprio da Nino Di Matteo e dal collega Luca Tescaroli.
Di Matteo indagò anche sulla possibile presenza in via d’Amelio di Bruno Contrada, che fu anche accusato (poi archiviato) di concorso in strage.
Oggi il Gip Luparello riparte da quel lavoro ed anche da altri elementi acquisiti nel corso di questi anni. Perché il contesto stragista va valutato nella sua interezza non solo concentrandosi su un segmento, spiegando che ci sono spunti reali che vanno ad aggiungersi al depistaggio e la scomparsa clamorosa dell’agenda rossa del giudice Borsellino.
Gli spunti del Gip
La indicazione del Gip, come ricordavamo, vanno oltre via d’Amelio. Si chiede di assumere elementi sull’omicidio di Nino Gioé e sul ruolo di Paolo Bellini.
Su Gioé, uno dei responsabili della strage di Capaci morto “suicida” (o sarebbe meglio dire “suicidato”) tra il 28 e il 29 luglio 1993, il Gip parla del contenuto dell’ultima lettera in cui fa riferimento ad “infamità” che avrebbe riferito. “Non risultano, a oggi, verbali ufficiali delle dichiarazioni di Gioè – scrive la gip – ma è possibile che quelle infamità fossero contenute in atti rimasti segreti, a seguito di colloqui informali del detenuto con i Servizi (sulla base del noto Protocollo Farfalla, che vincolava il Dap al segreto)”. Dunque tra le possibilità vi è quella che Gioè avesse “reso dichiarazioni sul conto di Bellini ad appartenenti infedeli dello Stato… e che questi, prima che il detenuto potesse entrare in contatto con i magistrati, ne avessero deciso l’eliminazione”.
Altro tema di indagine sarà la posizione di Ivana Orlando, moglie del poliziotto Giovanni Aiello, anche noto come “Faccia da mostro”, per accertare se la donna è stata anche una collega in qualche articolazione dei servizi segreti.
Si chiede anche di approfondire su un “nucleo operativo trasversale occulto” della Questura di Palermo, che potrebbe aver avuto un ruolo nella morte del poliziotto Nino Agostino e del collaboratore del Sisde, Emanuele Piazza, come nelle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Altro spunto di lavoro la questione, di cui ha parlato in una intervista l’avvocato Fabio Repici, parte civile per conto della famiglia Borsellino, relativa a una intercettazione di una conversazione avvenuta tra poliziotti della ‘squadra Contrada’, da cui si ricaverebbe che Concutelli (che uccise a Roma nel 1976 il giudice Vittorio Occorsio che indagava sull’eversione di estrema destra) si addestrava al tiro in un poligono frequentato anche da poliziotti e mafiosi.
E Nino Agostino era diventato “il testimone scomodo della contiguità di alti funzionari della polizia e dei servizi sicurezza con i mafiosi del mandamento di Resuttana, cioè quello di Nino Madonia, il suo killer”.
E, appunto, si torna ad investigare sulla “presenza di un partito politico(riferimento a Forza Italia, ndr) che potrebbe aver concorso a definire la strategia della tensione, allo scopo di legarsi, in un reciproco do ut des, a Cosa Nostra e attingere al bacino elettorale che era appartenuto a quella Dc con cui Riina aveva chiuso ogni finestra di dialogo”.
Per non parlare poi della cosiddetta “pista nera”, basata su possibili collusioni tra la mafia e destra eversiva.
Nel documento in cui dispone le nuove indagini guardando a quanto emerso nei processi sulla strage di Bologna (sulla strage alla stazione del 1980) e quello sulla ‘Ndrangheta stragista per cercare di verificare se vi fu un “ruolo assolto nelle stragi da esponenti delle istituzioni”.
A proposito della strage di Bologna si fa riferimento anche alla recente formale desecretazione di atti. “Scorrendo la sentenza di primo grado emessa dalla Corte di Assise di Bologna a carico di Gilberto Cavallini – scrive la Gip – emergono degli elementi che possono orientare l’osservatore esterno a sospettare che le ragioni della secretazione potessero essere connesse alla ordinaria gravitazione degli esecutori della strage, ossia come detto gli esponenti della destra eversiva, nell’ambito della loggia massonica segreta P2, facente capo al “Maestro Venerabile” Licio Gelli. Loggia massonica ad indirizzo fascista che, tra l’altro, prevedeva tra i capisaldi del suo programma (denominato “Piano di rinascita democratica”), la separazione delle carriere dei magistrati, e alla quale appartenevano i vertici delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, deputati e ministri della Repubblica (secondo il Col. Massimo Giraudo, anche il suo collega Mario Mori aveva manifestato l’intenzione di iscriversi nella P2, tanto da proporlo allo stesso Giraudo)”.
Un dato, quello dell’interesse di Mario Mori per la P2, che era emerso nel corso del processo sulla trattativa Stato-mafia.
La vicenda raccontata da Giraudo riguardava le dichiarazioni di un ex ufficiale del Sid, Mauro Venturi, che negli anni ’70 lavorò a stretto contatto con Mori.
Nello specifico Venturi, ascoltato dai magistrati palermitani tra il febbraio e l’aprile 2014, raccontò questo episodio: “Io ero a capo della segreteria raggruppamento centri di controspionaggio Roma: fui chiamato da Federico Marzollo, che nel 1972 portò anche Mario Mori al Sid…. Mori venne mandato a lavorare nel mio ufficio ma rispondeva soltanto a Marzollo stesso: era il suo pupillo”.
Elementi che ora tornano di interesse nella nuova indagine della Procura nissena.
Tra i punti da approfondire anche quelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca sulle dichiarazioni da lui rese sempre nelle indagini sui mandanti esterni (che furono poi archiviati) e le parole del boss stragista di Brancaccio Giuseppe Graviano su quei presunti interessi economici con l’ex Presidente del Consiglio.
E poi ancora sentire Antonio D’Andrea, ex segretario della Lega Meridionale, “sull’impegno di Forza Italia a fare approvare normative favorevoli alle organizzazioni criminali, anche sul fronte dei pentiti”.
A trent’anni dalle stragi i quesiti e gli interrogativi sono sempre gli stessi.
Per capire quale fosse il genere di potere che voleva morti Falcone e Borsellino basterebbe girare ulteriormente indietro le lancette dell’orologio del tempo, riportando al 1989 quando, all’indomani dell’attentato fallito all’Addaura, lo stesso Falcone disse in un’intervista a Saverio Lodato: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.
Oggi più che mai quelle parole trovano una spiegazione.
A Caltanissetta ci sono stati magistrati che hanno cercato i mandanti esterni della strage di via d’Amelio e Capaci. E sono stati stoppati.
Altri nel recente passato si sono concentrati su aspetti a nostro avviso secondari.
Oggi un nuovo scandalo è rappresentato dai comunicati stampa-smentita e dalle perquisizioni condotte contro il giornalista Paolo Mondani e la redazione di Report (prima predisposte e poi revocate) per aver semplicemente messo in evidenza l’esistenza di atti e fatti che indicano la possibile ed inquietante presenza di un eversivo come Stefano Delle Chiaie a Capaci al tempo della strage. Sulla questione oggi proprio Mondani ha aggiunto dei dettagli intervenendo a Casa Minutella, il talk show prodotto da BlogSicilia. “Un mese fa fui convocato dalla Procura di Caltanissetta per capire perché io stavo facendo delle interviste. Siccome non avevo mandato in onda nulla, non avevo scritto nulla – ha detto Mondani – chiesi a loro se l’Ordinamento nostro prevede che sul giornalista venga fatto un lavoro preventivo, su quello che sta pensando, sulle fonti che sta incontrando e sulle interviste che sta facendo. Opposi il segreto professionale su tutte le cose che mi riguardavano. Mi fu risposto che se io avessi mandato in onda alcune di quelle cose, mi avrebbero smentito. Prima ancora di sapere cosa avrei mandato in onda”. Mondani ha anche detto di aver scoperto di essere stato pedinato, filmato e intercettato nel periodo precedente alla messa in onda del servizio. “Non è gradevole da parte di un giornalista subire un trattamento di questo tipo – ha spiegato Mondani – per poi scoprire su un decreto di perquisizione di essere stato seguito, filmato, pedinato e ascoltato”. E poi ancora: “E’ curioso che la Procura di Caltanissetta mi chieda, o mi contesti il fatto – rispetto alla credibilità di Alberto Lo Cicero – che nei verbali ufficiali queste cose Lo Cicero non le ha dette: non ha parlato di Stefano Delle Chiaie. Dopodiché, nel decreto di perquisizione mi si chiede di produrre i verbali di sommarie informazioni di Alberto Lo Cicero, ovvero quelli precedenti. Quelli nei quali Lo Cicero mise a verbale quelle notizie”.
Lo abbiamo detto in passato e lo ribadiamo. Oggi più che mai è necessario andare oltre i depistaggi, senza se e senza ma. Prima che la ricerca della verità su quegli attentati sprofondi nell’abisso dell’oblio e dell’impunità.
28.5.2022 Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato
Una vita, quella della figlia del magistrato, trascorsa a sensibilizzare e a educare gli altri sul valore della legalità e a cercare la verità e la giustizia per la morte di suo padre
DiLei. 28 Maggio 2022
Parlare di Paolo Borsellino e della strage di via D’Amelio è qualcosa destinato a fare male, oggi come ieri. Una ferita che sanguina nel cuore della nostra terra e che è impressa nella memoria storica di un Paese che non può dimenticare. Perché farlo è impossibile. Perché Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, era il volto di un Italia buona e coraggiosa, di una terra che non si piegava al volere della mafia, ma che anzi la combatteva. Perché “Era il papà silenzioso di tanti”, come lo ha definito sua figlia Fiammetta in un’intervista concessa a Repubblica.
Ed è proprio lei, la più piccola di casa Borsellino, che non smette di parlare di suo padre. Che non smette di cercare giustizia nei luoghi in cui questa non è stata mai fatta.
Fiammetta Borsellino ha trascorso la sua intera esistenza a sensibilizzare ed educare gli altri, e probabilmente continuerà a farlo per il resto dei suoi giorni. Ma al fianco del suo impegno c’è anche una lotta continua che non cesserà mai di esistere, quella relativa alla ricerca della verità e della giustizia per la morte di suo padre, di Giovanni Falcone e delle altre vittime delle stragi insanguinate per mano della mafia.
Ultima di tre fratelli, e figlia di Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto, Fiammetta viene al mondo nel 1972. Nasce e cresce a Palermo, e qui decide di continuare a vivere anche dopo la morte del papà, così come hanno fatto anche i suoi fratelli.
Aveva solo 19 anni quando la strage di via D’Amelio si è consumata. Per tantissimi anni, ancora scossa dal dolore, ha scelto di non parlare e poi di allontanarsi da quella città alla quale era legatissima. Ma poi, dopo gli studi di giurisprudenza all’Università di Pavia ha scelto di tornare e di mettere radici nel centro storico di Palermo e dedicarsi a tutte quelle attività di sensibilizzazione rispetto alla cultura della legalità.
Dopo aver lavorato 17 anni per il Comune di Palermo, nel Dipartimento Servizi Sociali, ha continuato a occuparsi degli altri, diffondendo il valore della legalità tra i più giovani attraverso la sua esperienza diretta.
La ricerca della verità e della giustizia
È nata e cresciuta a Palermo, Fiammetta, e in questa terra ha deciso di restare, anche se a questa sono legati i ricordi più dolori di una vita intera. “Non è questa città che ha ucciso mio padre e Giovanni Falcone” – ha raccontato la figlia del magistrato a Repubblica – “Sono passati 30 anni e ormai ci siamo rassegnati all’idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria. Perché nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare da subito: a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre”.
“Io oggi da figlia sono consapevole che mio padre è morto perché abbandonato dai suoi colleghi”, ha poi aggiunto.
La sua lotta, quella che conduce alla ricerca della verità e di giustizia, è fatta di parole, di interviste e dichiarazioni che puntano il dito. E non lo fanno solo nei confronti della Mafia e di Cosa Nostra, ma anche contro chi ha lasciato i magistrati da soli, chi ha permesso di perpetuare questa scia di sangue.
Le sue sono dichiarazioni dure, crude e forti, che non lasciano indifferenti e che pesano come un macigno, perché parlano di complicità, di abbandono e di silenzi da parte degli altri, da parte di chi avrebbe dovuto supportare e proteggere suo padre e Giovanni Falcone.
Ma ormai, il passato non si può cambiare. Quello che possiamo fare, però, è non dimenticarlo mai per riscrivere la storia del futuro così come continua a fare Fiammetta Borsellino.
28.5.2022 Strage via d’Amelio: sui mandanti esterni non si archivia. Il Gip redarguisce i pm nisseni Indicati alla Procura 32 punti per ulteriori indagini sulla strage di via d’Amelio
Giorgio Bongiovanni
Trentadue punti per approfondire i contorni di una strage come quella di via d’Amelio non sono affatto pochi. Basterebbe già questo numero per accendere un faro su quelle che sono state le attività di una Procura come quella di Caltanissetta negli ultimi anni. Sicuramente importante può essere stata l’attività investigativa per cercare di far luce sul depistaggio delle indagini su via d’Amelio, che certamente c’è stato e che ha visto, come è scritto nella sentenza Borsellino quater, un attività massiccia di “suggeritori” esterni, soggetti che avrebbero cioè imbeccato il falso pentito Vincenzo Scarantino inducendolo a mentire, mescolando informazioni false e vere, con “un’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri”.
Al di là di questo, che ha portato al successivo processo contro i tre poliziotti del gruppo “Falcone e Borsellino” Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, per cui la procura ha chiesto la condanna, c’è tutto un universo inesplorato, da parte della Procura, che nei mesi scorsi era arrivata a chiedere l’archiviazione dell’indagine contro ignoti, sui cosiddetti “mandanti esterni”, “essendo intervenuta la scadenza dei termini delle indagini preliminari”.
Il gip del tribunale di Caltanissetta Graziella Luparello ha respinto la richiesta sollecitando una nuova attività istruttoria, da completare nell’arco di 6 mesi, tra acquisizioni di documenti e interrogatori, “procedendo se necessario a nuove iscrizioni nel registro degli indagati”.
Va detto che la Procura, oggi retta dal Procuratore Salvatore De Luca, non si è opposta all’eventuale investigazione suppletiva. Tuttavia una riflessione merita l’attività della precedente reggenza, perché, come dicevamo 32 punti su cui indagare non sono pochi.
Ancor più grave se si considera che la stessa Luparello ha sottolineato come le indagini “non possono ritenersi complete” nel momento in cui “non risultano avere esplorato e approfondito dei temi investigativi di particolare interesse, alcuni dei quali già noti al momento della formulazione della richiesta di archiviazione, altri sopravvenuti e divenuti ‘fatti notori’”.
Cosa ha fatto dunque in precedenza la Procura nissena dei vari Amedeo Bertone e Stefano Luciani? Ha preferito concentrarsi, speriamo in buona fede e non per totale incompetenza, esclusivamente nelle indagini sulla vestizione del falso pentito Scarantino quando questa è solo un “segmento” del depistaggio sulla strage di via d’Amelio”.
Ma la vicenda Scarantino viene usata per attaccare e delegittimare il lavoro di quei magistrati che sui mandanti esterni indagarono con convinzione: su tutti Nino Di Matteo.
Un’opera che viene condotta su due fronti. Da una parte ci sono quegli avvocati che, senza nulla togliere al diritto alla difesa e alla legittimità professionale nell’esercizio della loro professione, annoverano tra le loro difese anche quelle di soggetti che sono stati fautori delle stragi di Capaci e di via d’Amelio. E’ notorio che l’avvocato Di Gregorio non è solo il difensore di una delle vittime delle bugie del falso pentito Vincenzo Scarantino (Gaetano Murana, ndr) ma è già stata legale del boss corleonese Bernardo Provenzano ed anche del boss di Santa Maria del Gesù, Pietro Aglieri, entrambi membri della Cupola di Cosa nostra e condannati a vari ergastoli in via definitiva, anche per la strage di via d’Amelio.
Così come è noto che Giuseppe Scozzola è il difensore di Gaetano Scotto(anche lui in passato condannato per la strage di via d’Amelio, poi assolto con il processo di revisione). Il boss dell’Acquasanta oggi sotto processo per il tragico e misterioso omicidio del poliziotto Antonino Agostino e della moglie Ida, incinta, avvenuto il 5 agosto del 1989.
E lo stesso avviene per alcuni familiari di Paolo Borsellino come Fiammetta Borsellino, rappresentata in aula assieme al fratello ed alla sorella dal genero Fabio Trizzino, come se vi fosse proprio una convergenza di interessi, con tanto di livori e mistificazioni, pur di colpire Di Matteo anche se è stato dimostrato che questi con il depistaggio non ha nulla a che fare.
Un accanimento che contribuisce a distrarre anche dalla ricerca della verità sui mandanti esterni.
Adesso, però, eventuali immobilismi, inerzie non saranno ammesse.
Ci sono ulteriori sei mesi per approfondire ogni aspetto.
Passo primo
I primi spunti sui mandanti esterni emerso nel processo Borsellino ter, condotto dai magistrati Nino Di Matteo ed Anna Maria Palma, in cui vennero condannati in via definitiva boss del calibro di Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Michelangelo La Barbera, Cristoforo Cannella, Filippo Graviano, Domenico Ganci, Salvatore Biondo (classe ’55) e Salvatore Biondo (classe ’56). Nella sentenza di primo grado la corte scriveva: “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”. Ricostruzioni basate sui pentiti Pulvirenti, Malvagna, Avola e, non da ultimo, Cancemi, il quale, si legge nella sentenza di primo grado, ha dichiarato come “Riina era solito ripetere che con quelle azioni criminose avrebbero messo in ginocchio lo Stato e mostrato la loro maggiore forza. E proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come Borsellino avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla mafia”. Ed è sempre Cancemi ad aver raccontato che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi. Dichiarazioni ripescate dalla Gip nel nuovo filone investigativo.
Sempre nel Borsellino ter il boss di Porta Nuova fece anche i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri (oggi indagati a Firenze come mandanti esterni delle stragi del 1993).
Nomi che al tempo vennero iscritti in passato nel registro degli indagati sotto il nome di “Alfa e Beta” proprio da Nino Di Matteo e dal collega Luca Tescaroli.
Di Matteo indagò anche sulla possibile presenza in via d’Amelio di Bruno Contrada, che fu anche accusato (poi archiviato) di concorso in strage.
Oggi il Gip Luparello riparte da quel lavoro ed anche da altri elementi acquisiti nel corso di questi anni. Perché il contesto stragista va valutato nella sua interezza non solo concentrandosi su un segmento, spiegando che ci sono spunti reali che vanno ad aggiungersi al depistaggio e la scomparsa clamorosa dell’agenda rossa del giudice Borsellino.
Gli spunti del Gip
La indicazione del Gip, come ricordavamo, vanno oltre via d’Amelio. Si chiede di assumere elementi sull’omicidio di Nino Gioé e sul ruolo di Paolo Bellini.
Su Gioé, uno dei responsabili della strage di Capaci morto “suicida” (o sarebbe meglio dire “suicidato”) tra il 28 e il 29 luglio 1993, il Gip parla del contenuto dell’ultima lettera in cui fa riferimento ad “infamità” che avrebbe riferito. “Non risultano, a oggi, verbali ufficiali delle dichiarazioni di Gioè – scrive la gip – ma è possibile che quelle infamità fossero contenute in atti rimasti segreti, a seguito di colloqui informali del detenuto con i Servizi (sulla base del noto Protocollo Farfalla, che vincolava il Dap al segreto)”. Dunque tra le possibilità vi è quella che Gioè avesse “reso dichiarazioni sul conto di Bellini ad appartenenti infedeli dello Stato… e che questi, prima che il detenuto potesse entrare in contatto con i magistrati, ne avessero deciso l’eliminazione”.
Altro tema di indagine sarà la posizione di Ivana Orlando, moglie del poliziotto Giovanni Aiello, anche noto come “Faccia da mostro”, per accertare se la donna è stata anche una collega in qualche articolazione dei servizi segreti.
Si chiede anche di approfondire su un “nucleo operativo trasversale occulto” della Questura di Palermo, che potrebbe aver avuto un ruolo nella morte del poliziotto Nino Agostino e del collaboratore del Sisde, Emanuele Piazza, come nelle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Altro spunto di lavoro la questione, di cui ha parlato in una intervista l’avvocato Fabio Repici, parte civile per conto della famiglia Borsellino, relativa a una intercettazione di una conversazione avvenuta tra poliziotti della ‘squadra Contrada’, da cui si ricaverebbe che Concutelli (che uccise a Roma nel 1976 il giudice Vittorio Occorsio che indagava sull’eversione di estrema destra) si addestrava al tiro in un poligono frequentato anche da poliziotti e mafiosi.
E Nino Agostino era diventato “il testimone scomodo della contiguità di alti funzionari della polizia e dei servizi sicurezza con i mafiosi del mandamento di Resuttana, cioè quello di Nino Madonia, il suo killer”.
E, appunto, si torna ad investigare sulla “presenza di un partito politico(riferimento a Forza Italia, ndr) che potrebbe aver concorso a definire la strategia della tensione, allo scopo di legarsi, in un reciproco do ut des, a Cosa Nostra e attingere al bacino elettorale che era appartenuto a quella Dc con cui Riina aveva chiuso ogni finestra di dialogo”.
Per non parlare poi della cosiddetta “pista nera”, basata su possibili collusioni tra la mafia e destra eversiva.
Nel documento in cui dispone le nuove indagini guardando a quanto emerso nei processi sulla strage di Bologna (sulla strage alla stazione del 1980) e quello sulla ‘Ndrangheta stragista per cercare di verificare se vi fu un “ruolo assolto nelle stragi da esponenti delle istituzioni”.
A proposito della strage di Bologna si fa riferimento anche alla recente formale desecretazione di atti. “Scorrendo la sentenza di primo grado emessa dalla Corte di Assise di Bologna a carico di Gilberto Cavallini – scrive la Gip – emergono degli elementi che possono orientare l’osservatore esterno a sospettare che le ragioni della secretazione potessero essere connesse alla ordinaria gravitazione degli esecutori della strage, ossia come detto gli esponenti della destra eversiva, nell’ambito della loggia massonica segreta P2, facente capo al “Maestro Venerabile” Licio Gelli. Loggia massonica ad indirizzo fascista che, tra l’altro, prevedeva tra i capisaldi del suo programma (denominato “Piano di rinascita democratica”), la separazione delle carriere dei magistrati, e alla quale appartenevano i vertici delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, deputati e ministri della Repubblica (secondo il Col. Massimo Giraudo, anche il suo collega Mario Mori aveva manifestato l’intenzione di iscriversi nella P2, tanto da proporlo allo stesso Giraudo)”.
Un dato, quello dell’interesse di Mario Mori per la P2, che era emerso nel corso del processo sulla trattativa Stato-mafia.
La vicenda raccontata da Giraudo riguardava le dichiarazioni di un ex ufficiale del Sid, Mauro Venturi, che negli anni ’70 lavorò a stretto contatto con Mori.
Nello specifico Venturi, ascoltato dai magistrati palermitani tra il febbraio e l’aprile 2014, raccontò questo episodio: “Io ero a capo della segreteria raggruppamento centri di controspionaggio Roma: fui chiamato da Federico Marzollo, che nel 1972 portò anche Mario Mori al Sid…. Mori venne mandato a lavorare nel mio ufficio ma rispondeva soltanto a Marzollo stesso: era il suo pupillo”.
Elementi che ora tornano di interesse nella nuova indagine della Procura nissena.
Tra i punti da approfondire anche quelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca sulle dichiarazioni da lui rese sempre nelle indagini sui mandanti esterni (che furono poi archiviati) e le parole del boss stragista di Brancaccio Giuseppe Graviano su quei presunti interessi economici con l’ex Presidente del Consiglio.
E poi ancora sentire Antonio D’Andrea, ex segretario della Lega Meridionale, “sull’impegno di Forza Italia a fare approvare normative favorevoli alle organizzazioni criminali, anche sul fronte dei pentiti”.
A trent’anni dalle stragi i quesiti e gli interrogativi sono sempre gli stessi.
Per capire quale fosse il genere di potere che voleva morti Falcone e Borsellino basterebbe girare ulteriormente indietro le lancette dell’orologio del tempo, riportando al 1989 quando, all’indomani dell’attentato fallito all’Addaura, lo stesso Falcone disse in un’intervista a Saverio Lodato: “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi”.
Oggi più che mai quelle parole trovano una spiegazione.
A Caltanissetta ci sono stati magistrati che hanno cercato i mandanti esterni della strage di via d’Amelio e Capaci. E sono stati stoppati.
Altri nel recente passato si sono concentrati su aspetti a nostro avviso secondari.
Oggi un nuovo scandalo è rappresentato dai comunicati stampa-smentita e dalle perquisizioni condotte contro il giornalista Paolo Mondani e la redazione di Report (prima predisposte e poi revocate) per aver semplicemente messo in evidenza l’esistenza di atti e fatti che indicano la possibile ed inquietante presenza di un eversivo come Stefano Delle Chiaie a Capaci al tempo della strage. Sulla questione oggi proprio Mondani ha aggiunto dei dettagli intervenendo a Casa Minutella, il talk show prodotto da BlogSicilia. “Un mese fa fui convocato dalla Procura di Caltanissetta per capire perché io stavo facendo delle interviste. Siccome non avevo mandato in onda nulla, non avevo scritto nulla – ha detto Mondani – chiesi a loro se l’Ordinamento nostro prevede che sul giornalista venga fatto un lavoro preventivo, su quello che sta pensando, sulle fonti che sta incontrando e sulle interviste che sta facendo. Opposi il segreto professionale su tutte le cose che mi riguardavano. Mi fu risposto che se io avessi mandato in onda alcune di quelle cose, mi avrebbero smentito. Prima ancora di sapere cosa avrei mandato in onda”. Mondani ha anche detto di aver scoperto di essere stato pedinato, filmato e intercettato nel periodo precedente alla messa in onda del servizio. “Non è gradevole da parte di un giornalista subire un trattamento di questo tipo – ha spiegato Mondani – per poi scoprire su un decreto di perquisizione di essere stato seguito, filmato, pedinato e ascoltato”. E poi ancora: “E’ curioso che la Procura di Caltanissetta mi chieda, o mi contesti il fatto – rispetto alla credibilità di Alberto Lo Cicero – che nei verbali ufficiali queste cose Lo Cicero non le ha dette: non ha parlato di Stefano Delle Chiaie. Dopodiché, nel decreto di perquisizione mi si chiede di produrre i verbali di sommarie informazioni di Alberto Lo Cicero, ovvero quelli precedenti. Quelli nei quali Lo Cicero mise a verbale quelle notizie”.
Lo abbiamo detto in passato e lo ribadiamo. Oggi più che mai è necessario andare oltre i depistaggi, senza se e senza ma. Prima che la ricerca della verità su quegli attentati sprofondi nell’abisso dell’oblio e dell’impunità. ANTIMAFIA DUEMILA
26.5.2022 Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato
Una vita, quella della figlia del magistrato, trascorsa a sensibilizzare e a educare gli altri sul valore della legalità e a cercare la verità e la giustizia per la morte di suo padre
Parlare di Paolo Borsellino e della strage di via D’Amelio è qualcosa destinato a fare male, oggi come ieri. Una ferita che sanguina nel cuore della nostra terra e che è impressa nella memoria storica di un Paese che non può dimenticare.
Perché farlo è impossibile. Perché Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, era il volto di un Italia buona e coraggiosa, di una terra che non si piegava al volere della mafia, ma che anzi la combatteva. Perché “Era il papà silenzioso di tanti”, come lo ha definito sua figlia Fiammetta in un’intervista concessa a Repubblica.
Ed è proprio lei, la più piccola di casa Borsellino, che non smette di parlare di suo padre. Che non smette di cercare giustizia nei luoghi in cui questa non è stata mai fatta.
Fiammetta Borsellino ha trascorso la sua intera esistenza a sensibilizzare ed educare gli altri, e probabilmente continuerà a farlo per il resto dei suoi giorni. Ma al fianco del suo impegno c’è anche una lotta continua che non cesserà mai di esistere, quella relativa alla ricerca della verità e della giustizia per la morte di suo padre, di Giovanni Falcone e delle altre vittime delle stragi insanguinate per mano della mafia.
Ultima di tre fratelli, e figlia di Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto, Fiammetta viene al mondo nel 1972. Nasce e cresce a Palermo, e qui decide di continuare a vivere anche dopo la morte del papà, così come hanno fatto anche i suoi fratelli.
Aveva solo 19 anni quando la strage di via D’Amelio si è consumata. Per tantissimi anni, ancora scossa dal dolore, ha scelto di non parlare e poi di allontanarsi da quella città alla quale era legatissima. Ma poi, dopo gli studi di giurisprudenza all’Università di Pavia ha scelto di tornare e di mettere radici nel centro storico di Palermo e dedicarsi a tutte quelle attività di sensibilizzazione rispetto alla cultura della legalità.
Dopo aver lavorato 17 anni per il Comune di Palermo, nel Dipartimento Servizi Sociali, ha continuato a occuparsi degli altri, diffondendo il valore della legalitàtra i più giovani attraverso la sua esperienza diretta.
È nata e cresciuta a Palermo, Fiammetta, e in questa terra ha deciso di restare, anche se a questa sono legati i ricordi più dolori di una vita intera. “Non è questa città che ha ucciso mio padre e Giovanni Falcone” – ha raccontato la figlia del magistrato a Repubblica – “Sono passati 30 anni e ormai ci siamo rassegnati all’idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria. Perché nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare da subito: a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre”.
“Io oggi da figlia sono consapevole che mio padre è morto perché abbandonato dai suoi colleghi”, ha poi aggiunto.
La sua lotta, quella che conduce alla ricerca della verità e di giustizia, è fatta di parole, di interviste e dichiarazioni che puntano il dito. E non lo fanno solo nei confronti della Mafia e di Cosa Nostra, ma anche contro chi ha lasciato i magistrati da soli, chi ha permesso di perpetuare questa scia di sangue.
Le sue sono dichiarazioni dure, crude e forti, che non lasciano indifferenti e che pesano come un macigno, perché parlano di complicità, di abbandono e di silenzi da parte degli altri, da parte di chi avrebbe dovuto supportare e proteggere suo padre e Giovanni Falcone.
Ma ormai, il passato non si può cambiare. Quello che possiamo fare, però, è non dimenticarlo mai per riscrivere la storia del futuro così come continua a fare Fiammetta Borsellino: «L’eredità di mio padre è la faccia pulita dell’Italia, io oggi mi sento ricca, non sola, per la grandissima relazione che ho con tantissima gente onesta, vera». DI LEI
25.5.2022 TRENT’ANNI MA CON UNA SPERANZA
Come sono risuonati, alle vostre orecchie, i discorsi di commemorazione per i 30 anni dell’attentato di Capaci? Ho ascoltato quasi tutto (credo), ho rivisto video, letto interviste e dichiarazioni di questi giorni. Provo un senso di delusione, di straniamento, di tristezza. Perchè sono passati 30 anni, ma “le menti raffinatissime” citate da Falcone sono ancora senza nome. E’ ormai chiaro che fu la delegittimazione non mafiosa a cominciare ad uccidere il giudice che violò i santuari bancari. E 57 giorni dopo Capaci, per l’uccisione di Paolo Borsellino, l’alter ego di Falcone arrivato ad un passo dalla verità, non c’è ancora chiarezza parlando ormai in modo chiaro del “più grande depistaggio della storia”. Cosa dobbiamo sentire, allora, con le povere orecchie e le menti di cittadini ignari, se non un senso di tristezza per due uomini che hanno cambiato la storia solo grazie alle loro morti? Eppure la forza bisogna averla ed è nelle parole di Fiammetta Borsellino: «Non possiamo cadere nel disfattismo, con il rischio di cedere alla sfiducia, tradiremmo il senso dell’impegno di mio padre». Perché, aggiunge, la speranza viene dal senso di giustizia e dalla purezza che si riscontra nei giovani. «In loro – scrive Fiammetta – raccolgo il principale insegnamento di mio padre: malgrado tutto considerare lo Stato come amico e non come nemico». PROVINCIA GRANDE
24.5.2022 – Castellabate. Giornata della Legalità: successo per le testimonianze di Angiolo Pellegrini e Fiammetta Borsellino
Si è celebrata ieri la Giornata della Legalità, istituita nel 2002 per poter ricordare tutte le vittime della mafia. Quest’anno ricorre il trentennale di due avvenimenti che nel 1992 scossero l’Italia intera: il 23 Maggio perdeva la vita il Giudice Falcone nella strage di Capaci e 57 giorni dopo il Giudice Borsellino nella strage in Via D’Amelio. Un giorno importante per ricordare non solo i due magistrati simbolo della lotta alla mafia ma tutte le persone uccise per mano mafiosa. Il Comune proprio in occasione del trentennale ha avuto modo di organizzare due importanti giornate sulla legalità: la prima qualche mese fa con il Generale Angiolo Pellegrini, uomo di Falcone nel pool antimafia, e la seconda qualche settimana fa con Fiammetta figlia di Borsellino. Entrambe testimonianze vere e dirette di chi davvero ha vissuto quegli anni drammatici in Sicilia, di chi ha vissuto personalmente quella quotidiana lotta alla mafia e di chi continua a portare avanti il ricordo di due grandi uomini. “Una giornata molto importante quella di oggi, per ricordare e conoscere. Infatti, è nostro dovere ricordare due grandi uomini come Falcone e Borsellino che con grande coraggio hanno sacrificato la loro vita nella lotta alla mafia. E’ nostro dovere far conoscere ciò che è accaduto trenta anni fa, educarli alla legalità nella sua applicazione quotidiana affinchè in loro cresca sempre più forte un sentimento di totale rigetto verso il fenomeno mafioso” dichiara il Sindaco Marco Rizzo.
24.5.2022 Lagalla sostenuto dai condannati Cuffaro&Dell’Utri. Rabbia di Maria Falcone e Fiammetta Borsellino
Nonostante il giorno solenne per ricordare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, ieri non poche polemiche hanno coinvolto il trentesimo anniversario della Strage di Capaci. Il caso è scoppiato attorno alle prossime comunali di Palermo, in programma il 12 giugno 2022. Dopo la lunghissima stagione della primavera di Palermo, guidata dal sindaco Leoluca Orlando che ha svolto ben cinque mandati da primo cittadino, la città di Falcone e Borsellino tornerà presto alle urne per decretare il suo futuro.
Molte polemiche, però, in questi giorni hanno colpito il candidato sindaco del centrodestra Roberto Lagalla che, da poco, ha ottenuto il sostegno politico ed elettorale di due personalità condannate per mafia: Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri. L’ex presidente della Regione Cuffaro è stato condannato per favoreggiamento aggravato, mentre l’ex senatore forzista Dell’Utri – amico intimo di Berlusconi – è stato condannato per concorso esterno. Due appoggi che, soprattutto in questo trentennale, non potevano passare inosservati. Domenica, infatti, da Palermo a Milano molte sono state le condanne e gli avvertimenti. Dal Foro Italico è stata proprio Maria Falcone, sorella di Giovanni, a condannare questo fatto. “Questa terra – ha detto la Falcone nell’evento di Repubblica – ha avuto una politica collusa. Non si può permettere che un candidato politico di qualsiasi corrente abbia come sponsor un personaggio il cui passato non sia adamantino. Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri hanno scontato la pena. Ma non sono adamantini e limpidi”. Nelle stesse ore, da Milano, intervistata da Fabio Fazio, Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, ha ribadito le stesse cose espresse da Maria Falcone. “Oggi Palermo, alla fine dell’era Orlando sia appresta ad affrontare delle nuove elezioni e purtroppo assistiamo alla riemersione nell’impegno elettorale – seppur nell’ombra – di persone che purtroppo hanno scritto delle pagine buie della nostra terra e sono condannati per mafia: Salvatore Cuffaro e Marcello Dell’Utri. Il problema è di dire che questa cosa è politicamente e moralmente inopportuna”. Domenica, dopo le parole di Maria Falcone, Lagalla ha abbandonato la manifestazione, mentre alla celebrazione ufficiale del 23 maggio di ieri non si è proprio presentato. Il candidato ha spiegato la sua impossibilità di partecipare alla manifestazione per il timore di violenze. “Sono stato costretto a prendere questa decisione per evitare che qualche facinoroso, sensibile al fascino di certe parole, potesse macchiare uno dei momenti simbolici più importanti della città”. IL SIPONTINO
23.5.2022 Mafia, Fiammetta Borsellino: ‘C’è anche un’omertà istituzionale’
(askanews) – ‘Il depistaggio pur nella sua grossolanità, perché è stato proprio definito un depistaggio grossolano, ha ottenuto il suo principale effetto che è stato il passare del tempo: il passare del tempo allontana la verità per lo sgretolamento delle prove, la morte dei testimoni. Non si può, dico sempre, buttare tutto sui morti. In questi anni ci sono stati i processi, potevano essere assunte, come dire, testimonianze anche incentrate sulla collaborazione e invece io stessa a Caltanissetta, avendo partecipato a quest’ultimo processo, ho assistito a testimonianze di funzionari dello Stato piene di ‘non ricordo’. ‘Questa è una cosa molto triste perché denota che l’omertà non è soltanto quella mafiosa ma c’è un’omertà istituzionale che è ben più grave’: così, Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato anti-mafia ucciso nell’attentato di Via d’Amelio nel luglio 1992, ospite di Che tempo che fa su Rai3 domenica 22 maggio. Clip integrale al sito raiplay.it
23.5.2022 FIAMMETTA BORSELLINO IERI SERA È STATA OSPITE A CHE TEMPO CHE FA: LE SUE PAROLE SULLA STRAGE DI CAPACI E DI VIA D’AMELIO Oggi è il trentennale della morte del giudice Giovanni Falcone. Proprio ieri sera a Che tempo che fa è stata ospite Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo Borsellino, ucciso in via D’Amelio a 57 giorni di distanza dall’amico e collega Falcone.
Che cosa vuol dire ricordare e qual è il senso del ricordare? Ha chiesto Fabio Fazio a Fiammetta Borsellino. “Ricordare vuol dire riappropriarsi delle testimonianze di vita di determinati uomini affinché diventino patrimonio di tutti noi, lo dico sempre ai ragazzi perché costituiscano un faro per il nostro avvenire. Solo così la vita può avere una prevalenza sulla morte. Ricordare non può essere una mera celebrazione, non può essere una santificazione perenne, quando ciò accade diventa retorica, un oppio, e svia dai problemi. La memoria non può essere disgiunta dalla ricerca verità. In questi anni abbiamo assistito a tantissime celebrazioni ma il diritto alla verità su queste terribili vicende, che io definisco una ferita collettiva, non individuale, è stato totalmente calpestato attraverso percorsi voluti e depistaggi”.
La verità disattesa, spiega la Borsellino: “parte innanzitutto in quei 57 giorni che intercorrono tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Lì inizia il depistaggio perché a mio padre fu impedito di riferire quello che stava facendo anche in riferimento a delle indagini sulla morte di Falcone. Lui chiese alla Procura di Caltanissetta di essere sentito ma non lo vollero mai ascoltare, tant’è che al famoso discorso alla Biblioteca Comunale di giugno in un atto di disperazione si mise in pericolo dicendo di sapere ma che avrebbe riferito solamente alle autorità giudiziarie. Fu gettato in una solitudine assoluta, che poi è l’origine della maggiore esposizione al pericolo: tutti coloro che sono morti in quegli anni, sono morti sicuramente per mano mafiosa ma principalmente perché lo Stato italiano non è stato in grado di difendere i suoi uomini migliori”. E continua: “nei minuti successivi alla strage di via D’Amelio, quando non viene attuata nessuna forma di tutela per quel luogo, tanto da permettere alla “mandria di bufali” di cancellare qualsiasi prova, grazie anche al comportamento inadeguato di addetti ai lavori che maneggiarono la borsa senza accertarsi del contenuto e della persona a cui andava consegnata. Dopo di questo abbiamo una serie di indagini e processi condotti violando le norme del codice, in quegli anni duranti i processi non furono fatte verbalizzazioni di sopralluoghi importantissimi da cui si poteva immediatamente evincere l’inattendibilità del falso pentito Scarantino, il “pupo” scelto per auto-accusarsi di questa strage nonostante le evidenze che fosse assolutamente inattendibili”. 361MAGAZINE
23 maggio 2022 – Fiammetta Borsellino: verità disattesa “Ricordare non può essere mera celebrazione, non può essere una santificazione perenne, quando ciò accade diventa retorica, oppio, e svia dai problemi”. Così Fiammetta Borsellino da Fazio. “La memoria non può essere disgiunta dalla ricerca di verità. In questi anni abbiamo assistito a tantissime celebrazioni ma il diritto alla verità su queste terribili vicende, una ferita collettiva, non individuale, è stato totalmente calpestato attraverso percorsi voluti e depistaggi”. “Lo Stato non ha saputo difendere i suoi uomini migliori”.RAI NEWS
22.5.2022 – Il Sussidiario – Fiammetta Borsellino, chi è/ Figlia Paolo Borsellino: “Miei fidanzati temevano di…”
Fiammetta Borsellino è la figlia 49enne del magistrato Paolo Borsellino, il magistrato antimafia morto nell’attentato di via D’Amelio il 19 luglio 1992 e di Agnese Piraino Leto. Ultima di tre fratelli, è nata dopo Lucia (1969) e Manfredi (1971). Fiammetta non ha mai pensato di andare via dalla sua Palermo, così come i suoi fratelli e nonostante sia la città che le ha portato via il padre in maniera così drammatica, non smette comunque di restare molto legata: “Non è Palermo che l’ha ucciso. Io non ho mai pensato di lasciare questa città come peraltro non fece mai neanche mio padre in quegli anni. Nutro una passione viscerale anche se piena di conflitti nei confronti di questa città”, ha ammesso in una recente intervista ripresa da PalermoToday.Da trenta anni Fiammetta Borsellino si batte affinché possa scoprire la verità sulla strage di via D’Amelio e avere giustizia per la morte del padre, ucciso dalla mafia. Anche per questo oggi si occupa di educare e sensibilizzare i più giovani a una vera cultura della legalità. All’epoca della strage di via D’Amelio, Fiammetta aveva appena 19 anni. In una intervista dello scorso anno a Il Giornale, la donna ha spiegato qual era il rapporto privato con il genitore: “Il rapporto con lui è sempre stato un rapporto normale, anche se so che può apparire strano da pensare e soprattutto da capire. Mio padre ha sempre cercato di impostare con noi figli un rapporto basato sull’ascolto, sul dialogo e sui valori dell’umiltà e del rispetto. Il rapporto con mio padre era come quello che hanno tutte le figlie con il loro genitore”, confessò.
Fiammetta Borsellino: l’adolescenza e il grande dolore dopo l’attentato Prima che venisse assegnata la scorta a Paolo Borsellino, nel 1984, l’ultimogenita, Fiammetta Borsellino, viveva la sua giovinezza come un suo qualunque coetaneo: “quando mi accompagnava a scuola scendevo sempre prima e non proprio vicino all’ingresso, perché mi vergognavo e la stessa cosa facevo quando magari rientravo la sera in compagnia di alcuni miei amici. I miei fidanzati, come capita spesso, ovviamente temevano già solo di incrociare lo sguardo di mio padre sotto casa”. Nonostante tutto, ammise, non ha mai temuto per la sua vita, fino ai suoi 19 anni, anche se tutta la sua famiglia si impegnò a tenere lontano quel sentimento inevitabile. Dopo il grande dolore per la perdita del padre ed aver terminato gli studi, Fiammetta Borsellino accettò di lavorare per il Dipartimento Servizi Sociali del Comune di Palermo, in qualità di figlia di vittima della mafia. “In quel periodo desideravo una normale quotidianità, volevo che si spegnessero i riflettori sulla mia vita come “figlia di Paolo Borsellino” e volevo cercare di essere soltanto Fiammetta”, ammise. Per questo dopo aver lavorato per il Comune di Palermo per 17 anni ha compreso che non era ciò che desiderava. “Ho deciso di lasciare il “posto fisso” e dedicarmi ad altro, soprattutto a testimoniare il valore della legalità agli studenti di scuole superiori”, ha svelato. In merito alla sua vita privata non si conoscono molti dettagli, avendo preferito dedicare la sua intera esistenza proprio all’educazione alla legalità.
23.5.2022 Giornale di Sicilia – PIETRO GRASSO, “Mi indigna l’isolamento di Fiammetta Borsellino” Le sue parole vanno ascoltate, anche quando fanno male
Da allora avete cominciato a lavorare insieme? No, non subito. La nostra diventò un’amicizia quando venni designato giudice a latere del maxiprocesso. Credo, anche se non ne posso avere la certezza, che ci sia proprio il suo zampino dietro la mia nomina. Ad ogni modo, dopo avere ricevuto l’incarico andai a trovarlo nella sua stanza. Appena entrai sul suo viso si disegnò un sorriso sornione e senza dire nulla mi accompagnò in una saletta comunicante interamente ricoperta sui quattro lati di fascicoli fino al soffitto. «Ti presento il maxiprocesso», aggiunse allora. Capii di essere sotto esame, e risposi con la stessa aria ironica: «Dov’è il primo volume?». Una mole di lavoro impressionante: quattrocentomila fogli. Mi buttai a capofitto in quell’impresa titanica, ma per fortuna mi venne in soccorso Borsellino che mi mise a disposizione i suoi appunti e mi consentì di orientarmi meglio in quel labirinto di carte. Poi durante il processo Falcone evitò di avere contatti assidui con me, anche per il rispetto sacrale che aveva dei ruoli istituzionali. Piuttosto erano le nostre mogli a essere in contatto: conservo un bel ricordo di Francesca, che durante i trentacinque giorni della camera di consiglio fu molto presente con mia moglie facendole sentire tutta la sua vicinanza con telefonate quotidiane.
Poi lei ha condiviso con Falcone l’esperienza romana per la quale lui ha ricevuto critiche acerrime da parte dei suoi colleghi, dai movimenti antimafia e dalla sinistra di allora. Finito il maxiprocesso mi proposero di fare il consulente fuori ruolo della Commissione parlamentare antimafia. La proposta mi arrivò mentre ero a Roma a cena proprio con Falcone: io avevo resistenze perché temevo potesse essere inopportuno assumere ruoli connessi alla politica. Fu lui a farmi cambiare idea, convincendomi che era un bene mettere la mia esperienza a disposizione della commissione. Qualche tempo dopo accadde che fu lui ad accettare la sollecitazione di Martelli a dirigere gli Affari penali del ministero della giustizia e mi chiese di lavorare con lui al Ministero. Quello è stato il periodo di maggiore vicinanza fra noi due, non solo professionale. Falcone era infaticabile e credeva molto nel lavoro di squadra, in quel periodo vennero ideate la Procura nazionale e la Direzione investigativa antimafia. Peraltro a Roma lui sentiva meno il problema della sicurezza e si sentiva più libero, così spesso rinunciavamo alle scorte e cenavamo insieme nei ristoranti intorno a via Arenula.
Come lo sintetizzerebbe oggi il famoso metodo Falcone? È un metodo che sarà sempre valido, perché mette insieme la visione strategica, la capacità di analisi, la solidità delle prove, l’accuratezza nel seguire le tracce del denaro, la tenacia nel lavoro, la comprensione del contesto, la lettura delle cause e delle conseguenze dei singoli reati per cercare il disegno complessivo. Tutti gli investigatori e i magistrati dovrebbero avere questi principi come regola quotidiana.
E allora cos’è successo nel frattempo alla magistratura? Siamo all’indomani di uno sciopero contro la riforma del sistema elettorale del Csm e dell’ordinamento giudiziario, a giugno pendono i referendum non graditi alle toghe e la magistratura accusa un calo di fiducia tra i cittadini senza precedenti. E forse non sempre tra i magistrati si ricorda con la dovuta accuratezza che Falcone dal Csm non ebbe mai il sostegno che si aspettava, dalla mancata nomina a capo dell’ufficio istruzione dopo Caponnetto alla mancata elezione in qualità di membro togato a opera dei suoi stessi colleghi. I magistrati sono oggi ottomila: quelli che eccedono i limiti per manie di protagonismo sono davvero pochi, gli altri lavorano in silenzio e con grande professionalità. Comunque va detto che l’eredità di Falcone non consiste solo nell’esempio eccezionale di professionalità. Lui contribuì anche a far nascere importantissimi strumenti normativi fondamentali nel contrasto alle mafie, dalla legge sui pentiti all’ergastolo ostativo al 41 bis. Della Direzione nazionale antimafia ho già detto, ma ce le ricordiamo tutti le difficoltà che dovette affrontare, dalla lettera dei colleghi, anche amici, contrari ad uno sciopero praticamente contro di lui. Ma sapeva che era quella la via da percorrere: «Vedrai che alla fine la ragione prevarrà» mi diceva. Rimase sempre fedele al suo ruolo di magistrato e di uomo delle istituzioni.
Lei invece in politica ha finito per impegnarsi direttamente. Si, per anni ho declinato ogni invito finché non ho accettato la proposta di entrare in Parlamento nel 2013, ma tengo a sottolineare che, dopo aver servito la magistratura per oltre quarant’anni, prima di candidarmi ho fatto domanda di pensionamento.
Ancora di recente Fiammetta Borsellino non manca di rimarcare l’ignominia dei depistaggi perpetrati da uomini dello stato per allontanarci dalla verità sulla strage che gli portò via il padre Paolo e la responsabilità collettiva della magistratura per non aver sostenuto con coerenza e trasparenza le indagini. È una ferita aperta e io come semplice cittadino ne avverto il peso. Lei come ex magistrato e ora nelle vesti di uomo politico sente questa responsabilità?
Ho incontrato Fiammetta a Terrasini un paio di settimane fa. Voglio ribadire che il suo isolamento, che è percepibile, mi indigna e mi preoccupa. Le sue parole vanno ascoltate, anche quando fanno male. Da parte mia posso dire di aver dato la spallata definitiva al depistaggio convincendo Spatuzza a collaborare e a svelare quanto già a molti era evidente sulle falsità di Scarantino. Nelle vesti di procuratore nazionale antimafia ho fatto di tutto per sollecitare e coordinare le indagini delle procure competenti. Sul periodo stragista degli anni novanta ci sono cose ancora da chiarire. Ad esempio, è provato che già nel febbraio di quell’anno per eliminare Falcone era stato organizzato un attentato a Roma. C’era già un commando pronto ad entrare in azione, composto anche da Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. L’idea era quella di colpirlo fuori dalla Sicilia per spostare l’attenzione altrove, utilizzando la sigla «Falange armata«. Un modo per far passare l’idea che potesse non essere stata la mafia e così evitare reazioni repressive forti. Era la linea di Provenzano e Piddu Madonia, il capomafia di Caltanissetta. Poi, all’improvviso, cambiarono strategia. Fu Riina a deciderlo. Alcuni collaboratori rivelano che disse di aver «trovato di meglio» dopo aver «consultato persone importanti». Chi ha ispirato quel cambio di strategia? Chi ci ha guadagnato? Di certo non Cosa nostra.
Non è forse il momento di cominciare a pensare a una Commissione parlamentare d’inchiesta ad hoc? Se trent’anni di indagini e processi hanno lasciato tanti interrogativi senza risposta non è ragionevole desumere che occorre una visione ricostruttiva non meramente giudiziaria di quegli eventi? Nel 2013 da presidente del Senato chiesi che venne istituita, ma i partiti non vollero. Ora c’è un comitato che però si sta occupando solo di un pezzetto del puzzle. Sono convinto che il Paese meriti tutta la verità, almeno a livello storico se non sarà possibile a livello giudiziario.
Chiudiamo come sempre la nostra conversazione con un consiglio letterario. Ne vuole dare uno ai nostri lettori? Quando mi chiedono un consiglio letterario non ho dubbi, indico sempre due libri: «Cose di cosa nostra«, di Falcone e Padovani, e «Storia di Giovanni Falcone» di Francesco La Licata.
Ancora livore e mistificazioni su Nino Di Matteo Al processo depistaggio l’arringa “fake” dell’avvocato Trizzino per i figli di Borsellino
L’avvocato Fabio Trizzino (genero di Borsellino), la dott.ssa Fiammetta Borsellino, la dott.ssa Lucia Borsellino ed il commissario Manfredi Borsellino avranno letto queste considerazioni prima di pronunciare in un’aula di tribunale falsità contro Nino Di Matteo?
Non è dato sapere.
Al processo sul depistaggio della strage di via d’Amelio, in corso davanti al tribunale di Caltanissetta, ci sono tre imputati: i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di avere indottrinato il falso pentitoVincenzo Scarantino per accusare degli innocenti. Fabio Trizzino, legale dei figli Borsellino, nonché genero (è il marito di Lucia) del giudice ucciso il 19 luglio 1992, al termine della sua arringa, ha chiesto la condanna per i tre imputati.
Tuttavia, in due ore di discussione, che abbiamo sentito con attenzione, sotto accusa non c’erano i poliziotti, ma i magistrati. O forse si dovrebbe dire in particolare un magistrato: Nino Di Matteo.
E’ lui l’obiettivo da colpire.
Trizzino, dopo aver elogiato il lavoro del pm Stefano Luciani ha affermato: “Mi rendo conto che è un’affermazione forte e dolorosa, ma visto il contegno tenuto nel corso del loro esame, per quanto riguarda la dottoressa Palma e Petralia come indagati di reato connesso, e il dottor Di Matteo, noi diciamo che ‘per quanto loro si possano credere assolti, riteniamo che siano lo stesso per sempre coinvolti’, e lo dimostrerò nel corso di questa arringa la validità”.
E questa sua tesi l’abbiamo ascoltata.
Nessuno nega che sulla strage di via d’Amelio vi siano state anomalie, così come gravissime responsabilità istituzionali a cominciare dalla sparizione dell’agenda rossa che, è evidente, non fu opera di uomini di mafia.
Ma i fatti vanno raccontati per quello che sono, nella loro interezza.
Non utilizzando mistificazioni e deliri, specie nel momento in cui si parla di “disegno criminoso” con chiaro riferimento ai magistrati, nonostante sia stato provato che Nino Di Matteo non ha nulla a che vedere con il depistaggio.
Sulla sua persona non è neanche stato aperto un fascicolo di indagine dalla competente Procura di Messina.
Il Gip per i due magistrati Carmelo Petralia ed Anna Maria Palma, che erano stati indagati con l’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra, archiviò l’indagine in quanto “sono insussistenti gli elementi probatori certi e univoci tali da consentire la sostenibilità in un eventuale futuro dibattimento dell’accusa di calunnia a carico degli indagati”.
Ma torniamo a questo processo sul depistaggio e all’arringa, nella migliore delle ipotesi sconclusionata, nella peggiore inquietante e falsa.
Trizzino, confusionariamente, dapprima dice correttamente che il depistaggio ha inizio con la sparizione dell’agenda rossa e con quell’incarico investigativo dato dal Procuratore nisseno Tinebra ai servizi di sicurezza. Poi però inciampa.
Un’anomalia che a detta di Trizzino, “si sarebbe anche potuta capire, se fosse stata l’unica anomalia”.
Un costrutto che somiglia tanto a quella normalizzazione dell’opera del Ros che, mentre esplodevano le bombe, si era recato dall’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino per capire cosa fosse “il muro contro muro”.Un’azione che diede vita all’apertura di un dialogo che non salvò vite umane, ma produsse altre stragi.
Il mondo alla rovescia
Trizzino proseguendo nell’arringa ha preso per buone le versioni dell’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada (“il 20 luglio si comporta correttamente e dice a Tinebra che non può fare indagini”) fino a sostenere che i Servizi, autori di due note, una ad agosto ed una ad ottobre che avvalorarono la pista Scarantino, erano quasi succubi della Squadra mobile e del gruppo investigativo Falcone-Borsellino.
Un altro passaggio che ci ha colpito è quello in cui si è voluto sottolineare (quindi imputando la colpa ai magistrati) che “se il collaboratore ha nuove dichiarazioni da fare, anche per mettere le difese nelle condizioni di poter svolgere il proprio compito, le dichiarazioni vanno verbalizzate per consentire la dialettica processuale dell’elemento costitutivo dello stato di diritto”.
Certamente questa è la regola. Ma bisogna tener conto anche di ciò che avveniva all’epoca e che è avvenuto anche con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Entrambi hanno escusso collaboratori di giustizia come Francesco Marino Mannoia, Gaspare Mutolo o Leonardo Messina. Ed oggi sappiamo che in quei colloqui vi furono anche dichiarazioni non verbalizzate.
Ci riferiamo alle parole di Mannoia su Cinà, Berlusconi e Manganoo le dichiarazioni di Mutolo su Bruno Contrada e Signorino o ancora le dichiarazioni fuori verbale di Messina sul piano che si stava portando avanti con le stragi.
Dovremmo dedurre che i due magistrati-martiri stessero compiendo anche loro atti illeciti, fuori dalle regole ordendo dei “disegni criminosi”?
Ovviamente di tutto questo non si è parlato.
Si è parlato invece del grande valore di Ilda Boccassini, la pm che avrebbe capito tutto in anticipo su Scarantino, inviando una lettera ai colleghi, assieme a Saieva, prima di andarsene da Caltanissetta. Poco importa se, come ha diversamente ricordato il legale di Salvatore Borsellino Fabio Repici, a luglio 1994 in conferenza stampa si sperticò di elogi, tanto per Tinebra quanto per il valore delle dichiarazioni del “pupo vestito” Scarantino.
Ancora una volta si è parlato della questione dei confronti tra quest’ultimo e i collaboratori di giustizia Mario Santo Di Matteo, Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera che non furono immediatamente depositati. Un leitmotiv già riferito in aula dai soliti avvocati, Rosalba Di Gregorio e Giuseppe Scozzola, nonostante ciò avvenne comunque prima della fine del dibattimento Borsellino bis e nonostante il Gip di Catania, che archiviò l’inchiesta sugli allora sostituti procuratori di Caltanissetta, denunciati da parte di tre legali delle difese, valutò l’operato dei pm come privo di “comportamento omissivo”.
In ogni modo si è cercato di tirare in ballo Di Matteo anche se è un fatto noto che subentrò alle indagini a partire dal novembre 1994, così come è noto che parte delle dichiarazioni di Scarantino sono incredibilmente coincidenti con quelle di Spatuzza, come è scritto nella sentenza Borsellino Quater.
Basti ricordare, per fare un esempio, che sia Scarantino che Spatuzza “indicano le stesse persone come partecipi della fase cruciale della strage. Scarantino dice che quando la macchina viene portata nel garage per essere imbottita di esplosivo c’erano Graviano, Tagliavia e Tinnirello, così come poi dirà in perfetta coincidenza Spatuzza. Quest’ultimo dice anche che era presente un uomo che non apparteneva a Cosa nostra. Secondo le regole della mafia quando un uomo d’onore commette un reato con un altro uomo d’onore devono essere presentati a vicenda, in caso contrario si tratta di un soggetto esterno”.
In questi anni sono stati oggetto di revisione due processi sulla strage. Il Borsellino Uno ed il Bis.
E’ noto che molte condanne inflitte in quel processo – Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Francesco Tagliavia, Giuseppe Graviano – non sono mai state messe in discussione.
E’ noto che gli stessi pm di allora, Nino Di Matteo e Anna Maria Palma per alcuni degli ingiustamente condannati, chiesero ed ottennero le assoluzioni per il delitto di concorso in strage di Giuseppe Calascibetta, Gaetano Murana e Antonino Gambino. Soggetti poi condannati in successivi gradi di giudizio. O si vuole far credere che anche in queste condanne successive c’era la mano dei pubblici ministeri?
Livore, odio ed accanimento
L’avversione nei confronti di quei magistrati che non hanno fatto altro che ricercare la verità sulla morte di Borsellino, concentrandosi in particolare nella ricerca di mandanti esterni delle stragi. E’ così che nel mirino è finito anche Roberto Scarpinato, su cui si punta il dito per la storia del rapporto “mafia-appalti” di cui abbiamo abbondantemente parlato in altre occasioni.
Il magistrato più citato, però, resta sempre Di Matteo. Come se fosse il “nemico pubblico numero uno” da abbattere.
Una “campagna” di isolamento e delegittimazione costante che, purtroppo, vede coinvolti anche familiari di Paolo Borsellino, nella fattispecie una delle figlie, cioè Fiammetta Borsellino che si è sempre espressa con particolare odio nei confronti del magistrato.
Tutti omettono un pezzo di storia ed ogni scusa diventa buona per colpire il magistrato.
Altrettanto grave è la conclusione dell’arringa nel momento in cui si usano le dichiarazioni di Di Matteo nella riunione del 22 aprile 2009 davanti la Direzione nazionale antimafia, in cui i magistrati delle Procure di Firenze, Caltanissetta e Palermo erano stati convocati per una prima valutazione su quella collaborazione e per esprimere un parere sull’inserimento di Spatuzza nel programma di protezione.
In quella riunione Di Matteo intervenne e Trizzino ha letto alcuni passaggi estrapolati senza contestualizzare il momento in cui certe considerazioni erano state fatte.
Misurandosi con sentenze che comunque erano definitive è ovvio che l’approccio degli organi inquirenti è di cautela.
E’ stato omesso, però, che nel 2010 proprio Di Matteo si espose in più sedi proprio per difendere e promuovere il programma di protezione e l’attendibilità di Spatuzza, nel momento in cui la Commissione centrale del Viminale per la definizione e applicazione delle misure speciali di protezione, allora presieduta da Alfredo Mantovano, non stava ammettendo Spatuzza nel programma di protezione definitivo.
Ma ripetiamo, tutto fa brodo per puntare il dito contro il “bersaglio”, anche un incontro di un familiare vittima di mafia con un boss stragista.
L’incontro con Graviano
E’ quello che è avvenuto nel 2018 quando la signora Fiammetta Borsellino si è incontrata con il boss stragista di Brancaccio. Lo scambio tra i due è sintetizzato in un verbale riassuntivo in cui la figlia del giudice è stata sentita nell’ambito dell’inchiesta di Messina (archiviata) contro i magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia.
Sentita dai magistrati messinesi, coordinati dal Procuratore capo Maurizio De Lucia, la Borsellino raccontava: “Mi ha fatto attendere(Graviano, ndr), si è presentato in vestaglia e poi ad un certo punto l’ha buttata sui magistrati della serie ‘perché viene da me a chiedere le cose, non l’ha visto che hanno fatto i depistatori, Di Matteo…’ ha fatto dei nomi pure. Senza cadere nella trappola gli ho detto guardi io non lo so quello che hanno fatto altri, non ho elementi ma l’unica cosa che mi sono limitata a dire è che spostare la responsabilità su altri non serviva deludere le sue di responsabilità soltanto questo”.
Leggendo questi atti vogliamo davvero sperare che la signora Fiammetta Borsellino sia stata in buona fede, ma è chiaro che Graviano ha colto l’assist di quell’incontro per poter attaccare, minacciare, insultare e mandare messaggi inquietanti all’esterno: colpire Nino Di Matteo.
Un’indicazione che possono cogliere gli uomini di Cosa nostra, memori di quella condanna a morte che pende sulla testa del consigliere togato al Csm ordinata dal superlatitante Matteo Messina Denaro (così come raccontato dal collaboratore di giustizia Vito Galatolo) e successivamente da Totò Riina(direttamente dal carcere). Un attentato chiesto anche da quegli apparati deviati che operano direttamente accanto alla mafia nell’esecuzione delle stragi.
Lo insegnano le stragi di Capaci e via d’Amelio, dove l’ombra di mandanti e concorrenti esterni è emersa in maniera sempre più decisa da inchieste e processi.
Apparati deviati (“gli stessi di Borsellino” li definiva Vito Galatoloraccontando i contenuti delle missive di Messina Denaro nel dicembre 2012) che così come hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vorrebbero eliminare anche quei magistrati come Nino Di Matteo che, prima di insediarsi al Csm, coordinava il pool della Procura nazionale antimafia sui mandanti esterni delle stragi (ruolo che tornerà ad occupare al termine della consiliatura).
Parliamo di inchieste scomode al Sistema criminale, così come scomode in questo versante sono quelle condotte oggi dai procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco a Firenze e Giuseppe Lombardo a Reggio Calabria.
La signora Fiammetta Borsellino in quel verbale riassuntivo ha ammesso che Graviano di nomi ne avrebbe fatti anche altri, ma la signora Fiammetta Borsellino ne ha indicato solo uno: Di Matteo appunto.
Un uomo nel mirino
Del resto, da qualche tempo a questa parte, sembra essere lui l’unico nemico da colpire.
Ed anche in quel verbale la signora Fiammetta Borsellino non manca di tirare in ballo Di Matteo con supposizioni ed illazioni, anche se il consigliere togato, come già detto, non fosse oggetto di quell’indagine e non sia stato mai indagato per il depistaggio.
In quel verbale, che alcune testate hanno riportato in passato, si parla di rapporti personali ed amicizia fraterna tra lo stesso Di Matteo e la famiglia Borsellino, nonché dei motivi per cui, si sarebbe poi giunti alla rottura.
Una versione a senso unico che in maniera ingenerosa è stata data in pasto al pubblico senza alcuna possibilità di replica, sul punto, da parte dello stesso Di Matteo. Sospetti e non nobili sentimenti emergono nel fraseggiato della Borsellino.
A questo punto ci sorge spontanea una domanda che rivolgiamo direttamente al Procuratore Capo di Messina Maurizio De Lucia: perché si è dato spazio ad una testimone informata sui fatti, permettendole di dire una serie di illazioni che non riguardano gli indagati?
Che cosa si voleva valutare? L’attendibilità del testimone o cercare responsabilità su un soggetto che non è indagato?
Che senso ha compulsare sul punto, quasi morbosamente, alla ricerca di non si sa bene quale dettaglio?
Ma torniamo a Scarantino.
Come abbiamo detto più volte, la vicenda del falso pentito della Guadagna non è altro che “un segmento” del grande scenario investigativo nella ricerca della verità sulla strage. Parliamo di uno scenario investigativo che Di Matteo, assieme a pochi altri magistrati, ha cercato in questi anni di riportare alla luce. E’ per questo che Di Matteo fa paura. E’ per questo che le “menti raffinatissime” puntano a delegittimare il magistrato, approfittando anche delle esposizioni di quei familiari vittime di mafia, come la signora Fiammetta Borsellino, che con livore colpiscono il magistrato strumentalizzando anche fatti totalmente personali. Uno stillicidio ingiustificato, pur comprendendo la rabbia per una verità completa sulla strage che manca da trent’anni. I fatti sono evidenti e la storia racconta che proprio Di Matteo, insieme a pochi altri colleghi come lui, ha impegnato la propria vita nella ricerca della verità sulle stragi ed in particolare sui mandanti esterni che si celano dietro ad esse. Si dimentica che Di Matteo istruì in toto le indagini sul “Borsellino ter”, assieme a Maria Palma, che portarono alla condanna di tutti i capi della Commissione provinciale e regionale di Cosa nostra, tracciando il percorso delle indagini sui cosiddetti mandanti esterni.
Si dimenticano le inchieste pesantissime, condotte assieme al collega Luca Tescaroli, che si sono sviluppate negli anni successivi, come quelle su “Alfa e Beta” (ovvero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri) oppure sulla presenza in via d’Amelio di Bruno Contrada, che fu anche accusato di concorso in strage (e poi archiviato). Il processo trattativa Stato-mafia, attendendo di leggere le motivazioni della sentenza di appello, ha mostrato con le condanne in primo grado uno spaccato preciso sul perché si sono consumate le stragi degli anni Novanta.
E non dimentichiamo che neanche la sentenza di appello ha messo in discussione molti dei fatti accertati dalla Procura, nonostante l’assoluzione dei soggetti istituzionali (Dell’Utri, Mori, Subranni e De Donno). La mancata condanna di alcuni imputati non significa che non ci sia stata la trattativa tra lo Stato e la mafia, ma che quelle condotte anomale non costituirebbero reato. E il processo ha evidenziato fatti che sono ampiamente dimostrati.
In conclusione, tornando a ciò che è avvenuto nell’aula bunker di Caltanissetta, è ovvio che per sostenere le proprie tesi un avvocato in aula può assumere legittimamente qualsiasi linea difensiva. Anche quella degli “asini che volano” e raccontare, dicendo il falso, tutte le malefatte svolte dal pm Di Matteo.
Più volte è stato chiarito dallo stesso magistrato, carte alla mano, come fu valutata la vicenda Scarantino. E’ avvenuto nelle testimonianze al Borsellino quater, ed ancora l’audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia, al Csm (e anche in questo processo).
Nonostante ciò si continua l’opera di denigrazione.
Per spiegare la demente arringa, tra insinuazioni e mistificazioni, dall’avvocato Trizzino l’unica logica possibile è la cattiva fede.
Visti i continui riferimenti alla sentenza del Borsellino quater, forse l’avvocato Trizzino e la signora Fiammetta Borsellino dovrebbero leggere le parole del Presidente della Corte d’Assise Antonio Balsamo, oggi Presidente del Tribunale di Palermo, che definì il depistaggio di via d’Amelio come il “più grave della storia”.
In un capitolo in cui si parla anche della condanna a morte subita da Di Matteo, raccontata in aula dal collaboratore di giustizia Vito Galatolo, il giudice di fatto difende e mette in evidenza il lavoro svolto dal consigliere togato nel corso della propria storia.
“Nino Di Matteo è uno dei magistrati che hanno indossato la toga per la prima volta in una notte, quella del 24 maggio 1992, quando lui e gli altri giovani uditori giudiziari in tirocinio al Tribunale di Palermo (tra cui l’autore di questo libro), sono stati chiamati a fare il picchetto davanti ai corpi straziati di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani, uccisi il giorno prima nella strage di Capaci – scrive Balsamo nella recente pubblicazione “Mafia. Fare memoria per combatterla”edito da “Piccola biblioteca per un paese normale – Vita e pensiero” – In quella notte, erano tanti i sentimenti che si agitavano nell’animo di quel gruppo di uditori: dolore, rabbia, ma anche voglia di riscatto per la propria terra, e orgoglio di far parte di una magistratura che aveva tra le proprie fila degli autentici eroi civili, capaci di dare la loro vita per lo Stato. Sono i sentimenti che hanno accompagnato in ogni giorno del suo percorso professionale Nino Di Matteo, che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta alla mafia, prima alla Procura di Caltanissetta, poi a quella di Palermo, quindi alla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo. Un impegno coraggioso che è continuato anche quando è stato eletto al CSM nel periodo più difficile della storia dell’autogoverno della magistratura”.
E poi ancora si legge: “Nel corso delle elezioni del Capo dello Stato, nel gennaio 2022, già dal terzo scrutinio si è evidenziato un notevole consenso per il nuovo incarico al Presidente Sergio Mattarella, che ha ricevuto il massimo numero di voti. Dal quarto scrutinio, svoltosi il 27 gennaio, è emersa spontaneamente la tendenza di numerosi parlamentari a esprimere il proprio sostegno per Nino Di Matteo, che è risultato al secondo posto tra i più votati. Nello scrutinio finale, tenutosi il 29 gennaio, all’elevatissimo consenso raggiunto dal Presidente Sergio Mattarella (rieletto con 759 preferenze), si sono accompagnati 37 voti per Nino Di Matteo: oltre l’80% dei componenti dell’assemblea elettrice ha visto rappresentato nel modo più alto il senso dello Stato da due persone che hanno sempre assegnato una priorità assoluta al contrasto alla mafia. È la riprova di quanto l’impegno contro la mafia – con i suoi valori, la sua storia e i suoi sentimenti più intensi – sia entrato a far parte della nostra identità nazionale”.
Basterebbero questi fatti e queste considerazioni di stima per affermare, ancora una volta, che Nino Di Matteo non ha nulla a che fare con depistaggi e disegni criminali. Tutto il resto sono solo falsità.
Non è la prima volta che i figli di Paolo Borsellino cadono in tranelli e vengono strumentalizzati. Un esempio è la storia di Padre Bucaro (già fondatore del Centro Paolo Borsellino) che finì coinvolto in una inchiesta giudiziaria sul riciclaggio che fu costretto a dimettersi.
Oggi, un caso perverso del destino fa sì che, anziché tendere la mano verso chi li ha amati ed ha speso parte della propria vita (se non tutta) nella ricerca della verità sugli assassini del padre e degli uomini e donne della sua scorta, i figli di Borsellino pongono in essere i sentimenti di odio ed ingratitudine.
22.5.2022 Chi è Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato Paolo Borsellino . Fiammetta Borsellino è una dei tre figli del magistrato Paolo Borsellino, ucciso nell’attentato in via D’Amelio dopo Giovanni Falcone: la sua storia.
Tra i tre figli del magistrato Paolo Borsellino c’è Fiammetta Borsellino, che spesso ha ricordato il padre ucciso a Palermo nell’estate 1992, vittima di un attentato pochi mesi dopo la strage di Capaci in cui morirono l’amico e collega Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della loro scorta. Scopriamo la sua storia, tra biografia e vita privata…
Fiammetta Borsellino è la figlia di Paolo Borsellino, magistrato antimafiaucciso nell’attentato di via d’Amelio, a Palermo. La sua famiglia viveva nella stessa città siciliana baricentro di un dramma che, da decenni, scuote le cronache e le coscienze di chi crede nella giustizia.
La vita privata di Fiammetta Borsellino
Fiammetta Borsellino è nata nel 1973 dal matrimonio, celebrato nel 1968, tra il giudice Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto. Ha altri due fratelli: Manfredi Borsellino (classe 1971) – diventato commissario della polizia di Stato a Palermo – e Lucia Borsellino (classe 1969). Il nonno materno di Fiammetta Borsellino, che è la terzogenita della coppia, è Angelo Piraino Leto, ex magistrato e presidente del Tribunale di Palermo.
Fiammetta Borsellino e la morte del padre Paolo Borsellino
Paolo Borsellino, famoso giudice antimafia che diede impulso, con Giovanni Falcone, al maxi processo che avrebbe inchiodato centinaia di criminali di mafia a Palermo, è stato vittima di Cosa nostra. Il magistrato è stato ucciso il 19 luglio 1992 nella strage di via d’Amelio, morto insieme ai cinque agenti della sua scorta – Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina – tutti coinvolti nell’esplosione all’esterno della casa della nonna paterna di Fiammetta Borsellino.
La figlia del giudice, insieme ai fratelli, non ha mai smesso di gridare il suo pensiero sulla tragedia che ha travolto la loro famiglia e l’Italia intera, privando il Paese di uno degli uomini simbolo della lotta alla criminalità organizzata.
“La verità giudiziaria non potrà dare conto dell’omertà di Stato che ha coperto e copre chi ha lavorato nelle istituzioni per inquinare tutto“. Questa una delle amarissime constatazioni di Fiammetta Borsellino, scritta in un suo articolo su l’Espresso, in merito alla morte del padre. DONNA GLAMOUR
19 MAGGIO 2022 Mafia, Fiammetta Borsellino: “Mio padre è morto perché è stato abbandonato dai suoi colleghi”
“Dopo la strage di Capaci disse a mia madre: ‘La mafia ucciderà anche me quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che adesso sono rimasto davvero solo””, ricorda. E così è stato? “Senza dubbio”, commenta Fiammetta Borsellino. “C`è stata la mano armata di Cosa nostra ovviamente ma anche chi a questa mano armata ha spianato la strada, consegnando le teste di Falcone e Borsellino su un piatto d`argento. L`ormai famosa convergenza di interessi di cui parlava Falcone. Io oggi da figlia sono consapevole che mio padre è morto perché è stato abbandonato dai suoi colleghi”, aggiunge.
Le parole della figlia del magistrato sono molto dure.
“E dirò anche di più. Fin quando siamo stati zitti, il salone di casa nostra era pieno di presunti amici di mio padre che venivano a raccontare balle a mia madre. Da quando invece io ho deciso di parlare, di dire senza peli sulla lingua che le responsabilità delle stragi di Capaci e via D`Amelio sono a più livelli, da quel momento ci siamo improvvisamente ritrovati soli”, sottolinea. “Di tutto quello stuolo di magistrati che ci stava attorno non si vede più nessuno. Qualche settimana fa sono andata a Marsala, la città dove mio padre è stato procuratore, per l`intitolazione di una strada ad Emanuela Loi, una degli agenti di scorta uccisi con lui. Sono rimasta sola. Nessuno, dico nessuno dei magistrati presenti, mi ha avvicinato anche solo per salutarmi. Ma a me sta bene così”. CORRIERETNEO
14 maggio 2022 – Lagalla, lotta a cosa nostra impegno ineludibile. Candidato sindaco centrodestra, apprezzo appello Maria Falcone
“Comprendo e apprezzo lo spirito che anima la dichiarazione della professoressa Maria Falcone. Con me i mafiosi e i loro complici rimarranno fuori dal governo della città. Difenderò sempre il percorso etico e morale di redenzione e riscatto che la nostra città ha attraversato negli ultimi trent’anni. Ma più che le parole e le abiure, vale la mia storia personale e il progetto per il futuro di Palermo. L’impegno antimafia è un presupposto ineludibile non un quid pluris, da dover rivendicare, sfoggiandolo alla bisogna o a richiesta. Lo onorerò con i comportamenti e le idee. In memoria dei nostri martiri, ma ancor prima per il futuro dei nostri figli”. Lo dichiara in una nota Roberto Lagalla, candidato Sindaco del centro destra al Comune di Palermo sottolineando di essere “immune da qualsivoglia ingerenza o influenza estranea alla legalità”. “La lotta alla mafia – aggiunge – ha bisogno di un salto di qualità. Grazie alle intuizioni del giudice Giovanni Falcone, magistratura e forze di polizia hanno sviluppato un’attività repressiva intensa e stabile che ha decimato l’ala militare di Cosa nostra. Ma se la mafia non spara, non significa che è sconfitta. Anzi, dobbiamo evitare il rischio che ritorni alla sua tradizione secolare. La mafia si combatte e sconfigge soprattutto con i fatti e non con strampalate teorie complottiste”. Lagalla ricorda poi che “il sistema politico prodotto dal professionismo dell’antimafia, come quello del governo Crocetta, è attualmente alla sbarra. Ci ispiriamo alle parole pronunciate da Fiammetta Borsellino, quando ha avuto modo di affermare che “l’antimafia non può non essere disinteressata, non può mirare al potere e non può diventare essa stessa potere” Quando l’antimafia diventa potere il suo campo di azione viene fortemente vincolato e circoscritto e questo non deve assolutamente accadere”. “Sfidiamoci su questi contenuti, allora, – conclude Lagalla . per spiegare ai cittadini chi tra noi candidati ha la ricetta migliore. Io sono pronto”, (ANSA).
Deflagra la polemica sui condannati. Lagalla mette pezze
La campagna elettorale di Palermo si snoda attorno alla presenza ingombrante di Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri, che, in maniera diversa, appoggiano la candidatura di Roberto Lagalla. Cuffaro, condannato per favoreggiamento, e Dell’Utri (che ha scontato una condanna per concorso esterno) erano finiti qualche giorno fa nel mirino di Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, morta nell’attentato di Capaci con il giudice Falcone, suo marito. Ma adesso un’altra voce autorevole dell’Antimafia, quella di Maria Falcone, torna a premere sull’argomento: “E’ inaccettabile che in una città che per anni è stata teatro della guerra che la mafia ha dichiarato allo Stato e che ha contato centinaia di morti sia ancora necessario ribadire che chi si candida a ricoprire una carica importante come quella di sindaco e qualsiasi altra carica elettiva debba esplicitamente prendere le distanze da personaggi condannati per collusioni mafiose”.
“Dovrebbe essere assolutamente scontato, ma evidentemente non lo è, che chi aspira a rappresentare la capitale dell’antimafia, la città di Falcone e Borsellino, senza alcuna titubanza prenda posizione rifiutando endorsement di personaggi impresentabili. Eppure – spiega la donna – a pochi giorni dal trentesimo anniversario della strage di Capaci ci troviamo costretti a chiedere a chi intende amministrare Palermo di dire parole chiare contro i mafiosi e chi li ha aiutati e di ripudiarne appoggi e sostegno. Condivido in pieno ogni parola pronunciata da Alfredo Morvillo. In tema di mafia i grigi non sono ammessi”.
Lagalla ha dovuto chiarire per l’ennesima volta la sua posizione: “Con me i mafiosi e i loro complici rimarranno fuori dal governo della città – ha scritto, senza alcun riferimento a Cuffaro e Dell’Utri -. Difenderò sempre il percorso etico e morale di redenzione e riscatto che la nostra città ha attraversato negli ultimi trent’anni”. E ancora: “Più che le parole e le abiure vale la mia storia personale e il progetto per il futuro di Palermo”. “Ricordiamo che il sistema politico prodotto dal professionismo dell’antimafia, come quello del governo Crocetta, è attualmente alla sbarra. Ci ispiriamo alle parole pronunciate l’anno scorso da Fiammetta Borsellino, quando ha avuto modo di affermare che l’antimafia non può non essere disinteressata, non può mirare al potere e non può diventare essa stessa potere”. BUTTANISSIMA
11.5.2022 – La scuola di Aquino si chiamerà ”Agnese Piraino Leto Borsellino” Questa mattina la cerimonia d’intitolazione presso l’istituto dedicato alla moglie del giudice, dinnanzi alle autorità civili, militari, religiose e scolastiche.
Si è svolta questa mattina la cerimonia d’intitolazione presso la scuola primaria e secondaria di primo grado di Aquino, dedicata alla figura di Agnese Piraino Leto, moglie del giudice Paolo Borsellino, scomparsa nel 2013. La manifestazione, iniziata tra le note dell’inno di Mameli, ha visto una platea costituita dagli allievi della scuola, elementare e media, che hanno garantito alla cerimonia una coreografia indossando t-shirt bianche rappresentanti slogan contro la mafia e quindi in tema di legalità. Ad osservare gli onori di casa, Iolanda Nappi, dirigente scolastico dell’istituto comprensivo Guglielmo II di Monreale, la quale ha dato la parola a Manfredi e Fiammetta Borsellinoche, presenti oggi per l’occasione, hanno rivolto importanti messaggi ad “uomini e donne” del futuro. Agli alunni, è stata data l’opportunità di interagire, ponendo diversi quesiti, tutti soddisfatti dalla terzogenita del magistrato caduto in via D’Amelio, nel ‘92.Spazio, inoltre, all’esibizione degli allievi che, coordinati dal corpo docenti, hanno restituito, prima, la rappresentazione della celeberrima scena del film “I cento passi”, cantando a cappella l’omonimo brano dei Modena City Ramblers e, successivamente, il testo di Fabrizio Moro, “Pensa”, vincitore del festival di Sanremo, sezione giovani, nell’edizione del 2017, considerato un vero e proprio inno alla lotta alla mafia.
Al termine delle esibizioni e degli interventi, sono state svelate le due targhe inizialmente coperte dalla bandiera tricolore poste presso la superficie della parete principale dell’impianto.
Presenti alla manifestazione, il sindaco di Monreale, Alberto Arcidiacono, gli assessori Rosanna Giannetto, Geppino Pupella, Paola Naimi e Luigi D’Eliseo, il consigliere Santina Alduina, il presidente della Consulta di Aquino, Benedetto Annaloro, il comandante della Compagnia Carabinieri di Monreale, capitano Andrea Quattrocchi, il comandante della Stazione Carabinieri, maresciallo Antonio La Rocca e don Giuseppe Spera, parroco della chiesa di San Giuseppe della frazione che, portando i saluti dell’arcivescovo Pennisi, ha raccolto in un momento di preghiera i partecipanti, prima della consueta benedizione. di Domenico Prestifilippo – Scuole di Monreale
10.5.2022 Castellabate, incontro con Fiammetta Borsellino presso Villa Matarazzo Testimonianze dirette della lotta alla mafia Venerdì 13 Maggio 2022 alle ore 18:30 presso Villa Matarazzo si terrà l’incontro di Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso dalla mafia trenta anni fa, con la cittadinanza di Castellabate. Parteciperanno il sindaco Marco Rizzo, l’assessore alla cultura Luigi Maurano, l’assessore alla pubblica istruzione Marianna Carbutti, il Presidente del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni Tommaso Pellegrino, la dirigente scolastica Gina Amoriello, la docente del Liceo scientifico G.B. Piranesi Annamaria Di Bartolomeo ed Enrico Nicoletta, responsabile ufficio promozione turistica come moderatore. “Trenta anni fa perdeva la vita il magistrato Borsellino per mano della mafia in via D’Amelio. Questo incontro in occasione del trentennale della strage permetterà di ricordare e rendere onore a personaggi importanti come Borsellino che hanno fatto della lotta alla mafia la loro vita”, dichiara il sindaco Rizzo. “Si tratta di un’iniziativa culturale rivolta alla cittadinanza tutta. Testimonianze dirette della lotta alla mafia come quella che darà la figlia del magistrato Borsellino serviranno a mantenere sempre accesa l’attenzione e il ricordo di grandi uomini come Paolo Borsellino che hanno sacrificato la loro vita in nome dei loro ideali, come la libertà e la legalità”, afferma l’assessore Maurano. CILENTO NOTIZIE
9.5.2022 – A 30 ANNI DALLE STRAGI DI PALERMO, UN INCONTRO PUBBLICO CON FIAMMETTA BORSELLINO ALLO SPAZIO SANT’ANNA Martedi 17 maggio alle ore 21 presso lo Spazio di Incontro Sant’Anna di via Belgio, nel solco delle iniziative del progetto UPSIDE DOWN, verrà ricordato il trentesimo anniversario delle stragi mafiose di Palermo del 1992. Intervistata da don Angelo Nigro, Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo Borsellino, incontrerà istituzioni, cittadini e associazioni presenti. L’ingresso è libero. Upside Down è il progetto a cura di don Angelo Nigro, parroco di Ghiffa e docente dell’Istituto Cobianchi, sostenuto dalla Città di Verbania e dalla Città di Baveno per promuovere un nuovo umanesimo scolastico e aperto alla cittadinanza. L’evento è organizzato in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura e il Coordinamento di Avviso Pubblico Vco, per consentire non solo agli studenti, ma anche a famiglie e rappresentanti delle Istituzioni di rinnovare la memoria per il sacrificio civile di donne e uomini dello Stato e l’impegno per un’Italia sempre più libera da mafie e corruzione. Sono numerosi gli altri appuntamenti di spicco previsti nell’aula magna dell’Istituto Cobianchi nell’ambito del progetto; se domani sera ci sarà l’economista Carlo Cottarelli, seguiranno l’ex magistrato Gherardo Colombo, il filosofo Vito Mancuso (in videoconferenza), i comici Ale e Franz, il campione di tennis Lorenzo Sonego, il campione di calcio Giorgio Chiellini. VERBANIA EVENTI
5.5.2022 – Fiammetta Borsellino, processo trattativa pompato mediaticamente Parla a convegno a Cinisi dell’associazione Casa Memoria
“Trent’anni dalle stragi, bilancio dell’antimafia” è il titolo dell’incontro che si è tenuto oggi pomeriggio a Cinisi al cinema Alba organizzato dall’associazione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato.
Hanno preso parte al dibattito Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo ucciso insieme alla scorta nella strage del 92 in via D’Amelio, Peppino Costanza, autista del giudice Falcone, Piero Grasso ex presidente del Senato, Umberto Santino, e il giornalista Francesco La Licata.
Nel corso dell’incontro è stato proiettato il cortometraggio “Il solito pranzo”, dedicato alla memoria di Rita Atria, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Peppino Impastato, don Peppe Diana, Antonino Scopellitti, con la presenza del regista Andrea Valentino e dell’autore Aldo Rapè.
“Il processo sulla trattativa è stato pompato mediaticamente di cui si scrivevano libri e si facevano interviste ad opera degli stessi autori prima ancora che finisse il primo grado e questo di sicuro non è frutto dell’insegnamento delle persone che ci hanno lasciato – ha detto Fiammetta Borsellino nel suo intervento – Nessuno ha mai conosciuto il Borsellino quarter perché non ne hanno parlato i giornalisti. I magistrati che non facevano parte di quelle procure, ma che erano a Palermo, non si sono mai messi di traverso e non hanno mai avvertito noi familiari di quello che stava succedendo. Ricordiamoci che Scarantino, mentre diceva falsità a Caltanissetta, si era autoaccusato di un duplice omicidio a Palermo“. (ANSA).
Fiammetta Borsellino, processo trattativa pompato mediaticamente (VIDEO)
“Trent’anni dalle stragi, bilancio dell’antimafia” è il titolo dell’incontro che si è tenuto oggi pomeriggio a Cinisi al cinema Alba organizzato dall’associazione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato.
Hanno preso parte al dibattito Fiammetta Borsellino, figlia del giudice Paolo ucciso insieme alla scorta nella strage del 92 in via D’Amelio, Peppino Costanza, autista del giudice Falcone, Piero Grasso ex presidente del Senato, Umberto Santino, e il giornalista Francesco La Licata.
Nel corso dell’incontro è stato proiettato il cortometraggio “Il solito pranzo”, dedicato alla memoria di Rita Atria, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Peppino Impastato, Don Peppe Diana, Antonino Scopellitti, con la presenza del regista Andrea Valentino e dell’autore Aldo Rapè.
“Il processo sulla trattativa è stato pompato mediaticamente di cui si scrivevano libri e si facevano interviste ad opera degli stessi autori prima ancora che finisse il primo grado e questo di sicuro non è frutto dell’insegnamento delle persone che ci hanno lasciato – ha detto Fiammetta Borsellino nel suo intervento – Nessuno ha mai conosciuto il Borsellino quarter perché non ne hanno parlato i giornalisti. I magistrati che non facevano parte di quelle procure, ma che erano a Palermo, non si sono mai messi di traverso e non hanno mai avvertito noi familiari di quello che stava succedendo.
Ricordiamoci che Scarantino, mentre diceva falsità a Caltanissetta, si era autoaccusato di un duplice omicidio a Palermo. Allora procuratore era Caselli, ma nessuno lo denuncio per calunnia. Quindi sicuramente la responsabilità è di quei magistrati, di quei poliziotti di cui oggi tre sono imputati al processo a Caltanissetta, ma sicuramente non siamo deficienti e sappiamo che i depistaggio non avvengono per un manipolo di poliziotti, ma c’è una catena”. BLOG SICILIA 5.5.2022
Fiammetta Borsellino: «Il processo sulla trattativa è stato pompato mediaticamente»
«Il processo sulla trattativa è stato pompato mediaticamente. Si scrivevano libri e si facevano interviste ad opera degli stessi autori prima ancora che finisse il primo grado e questo di sicuro non è frutto dell’insegnamento delle persone che ci hanno lasciato– ha detto Fiammetta Borsellino nel suo intervento -. Nessuno ha mai conosciuto il Borsellino quarter perché non ne hanno parlato i giornalisti. I magistrati che non facevano parte di quelle procure, ma che erano a Palermo, non si sono mai messi di traverso e non hanno mai avvertito noi familiari di quello che stava succedendo. Ricordiamoci che Scarantino, mentre diceva falsità a Caltanissetta, si era autoaccusato di un duplice omicidio a Palermo». GIORNALE DI SICILIA 5.5.2022
Fiammetta Borsellino al Cenacolo: “Quel 19 luglio non ci è piombato addosso” Testimone della vita del padre, ha raccontato Paolo Borsellino magistrato e genitore
La figlia di Borsellino agli studenti “La mafia è un cancro da togliere” La città di Bergamo ha scoperto una targa in ricordo delle stragi
A 30 anni dalle stragi mafiose di via Capaci e via D’Amelio, Bergamo ha incontrato ieri Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice Paolo Borsellino ucciso dalla mafia il 19 luglio 1992 in via D’Amelio con 5 agenti della scorta (Falcone venne ammazzato a Capaci). Ieri nel giardino dei Giusti si è tenuta la cerimonia di piantumazione dell’ulivo e lo svelamento della targa in memoria delle stragi mafiose in cui persero la vita Falcone e Borsellino e gli uomini delle scorte. Presente tra gli altri, l’assessora alla pace e all’Educazione alla Cittadinanza, Marzia Marchesi, che si è detta onorata della presenza di Fiammetta Borsellino a Bergamo. “Il padre è stato uno dei simboli più alti della lotta alla mafia”, ha sottolineato Marchesi. Borsellino, invece, ha ringraziato per la targa dedicata al padre e al giudice Falcone e ha invitato a “non abbassare la guardia nella lotta alla criminalità mafiosa. Molto resta da fare per debellare questo cancro che attanaglia la società”. La cerimonia è stata preceduta dall’incontro che Fiammetta ha avuto con gli studenti nell’auditorium dell’Isis Natta. La figlia del giudice ha portato la sua e stimonianza a 250 alunni, chiudendo il percorso “Parole dedicate. Gli studenti incontrano i testimoni della memoria e dell’impegno civile”, a cura del Centro di Promozione della Legalità per la Provincia, con l’istituto Natta capofila, Ust, col Comune. M.A. IL GIORNO 3 MAGGIO 2022
Fiammetta Borsellino: “Gli errori di 30 anni di indagini? Il segno del cancro dentro lo Stato”
A Bergamo per il trentennale della strage di via D’Amelio: “Solo i giovani possono diffondere quel fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso”
Bergamo. Lei, Fiammetta Borsellino, ha fatto della sua vita il simbolo della legalità. Tutto è cambiato, così, drasticamente e drammaticamente, in un battito di ciglia, quando aveva solo 19 anni, con la strage di via D’Amelio.
Un attentato mafioso in cui persero la vita, oltre a suo padre Paolo, anche cinque agenti della scorta. E lunedì 2 maggio, nel trentennale della drammatica vicenda, l’ultima dei tre figli del magistrato che ha fatto la storia della lotta alla mafia insieme a Giovanni Falcone, è arrivata a Bergamo per portare la sua testimonianza ai 250 studenti dell’istituto Natta, concludendo così il percorso “Parole dedicate”, nel corso del quale gli studenti hanno incontrato i testimoni della memoria e dell’impegno civile sui temi della Legalità e della Costituzione, percorso in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Territoriale e il Comune di Bergamo. Ed è stata in redazione a Bergamonews, dove l’abbiamo intervistata.
Laureatasi in Giurisprudenza, dopo anni di lavoro al Comune di Palermo in un dipartimento dedito all’attenzione dei più bisognosi, ha scelto di lasciare tutto per portare in giro per l’Italia, soprattutto ai giovani, la memoria di suo padre e la lezione di legalità che lui stesso le ha trasmesso.
“Il mio è un impegno giornaliero, ogni giorno parlo con i giovani, vado nelle scuole perché credo che la memoria sia legata alla pratica dell’antimafia quotidiana e che questa vada coltivata sempre, credo che bisogna riappropriarsi del patrimonio di vita di certi uomini per portare avanti le idee e gli insegnamenti che ci hanno lasciato”.
Investire sui giovani, spiega, “significa investire sul futuro perché, come diceva sempre mio papà, la lotta alla mafia non può essere una mera opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che deve coinvolgere le nuove generazioni perché nessuno meglio dei ragazzi può contrastare il fenomeno e diffondere quel fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso e perché le mafie, da sempre, si nutrono anche del consenso giovanile”.
“Io credo fortemente nello Stato, nella magistratura e nella giustizia perché questi sono gli unici modi per onorare la morte di questi uomini e fare memoria. Ecco, per me fare memoria vuol dire necessariamente passare attraverso la giustizia che si consegue solo con la ricerca della verità”.
Verità la cui ricerca è ancora in corso, trent’anni dopo, tra nuove e false piste. Un tempo tragico, oscuro e colmo di tensione. Un depistaggio che non è mai finito. Nuove indagini, processi, ex pentiti che tornano alla ribalta… Un’ombra lunga che ancora non è stata dissolta.
“Il fatto che ci sia stato sicuramente un lavoro fatto male altro non denota che la presenza di un cancro all’interno dello Stato, uguale o comunque simile a quello della mafia. Detto questo voglio anche ricordare che bisogna comunque guardare agli esempi positivi di uomini che hanno creduto fino allo stremo nello stato, fino al punto di fare sacrificio della vita. L’esempio viene anche da molti uomini che lavorano in silenzio, con sobrietà: a loro dobbiamo tendere il volto per credere in quella idea di stato sano che mio padre ha difeso fino al punto di morirne. Lui diceva sempre che lo stato va considerato come un amico e non come un nemico”.
“I concetti di legalità, pace e bene comune vanno sempre coltivati: non bisogna mai cedere alle semplificazioni dicendo che la mafia ha vinto o ha perso, perché non si può ridurre ai minimi termini un discorso così complesso. Sicuramente negli anni le coscienze sono cambiate, ma questo è un fuoco che va tenuto vivo e acceso, una pianta che va nutrita. Bisogna dire ogni giorno, con fatti concreti, il nostro no alle mafie“.
Nel pomeriggio, Fiammetta Borsellino è stata presente, al giardino dei Giusti in via Galgario, insieme alle autorità, alla cerimonia di piantumazione dell’ulivo e svelamento della targa in memoria delle stragi mafiose. BERGAMO NEWS 2 maggio 2022
1.5.2022 – Il depistaggio su Borsellino scaricato su due morti La “colpa” di aver creduto al finto pentito Scarantino attribuita a Tinebra e La Barbera. Ma gli altri dov’erano?
Non c’è miglior colpevole di un morto. Qui di morti ce ne sono addirittura due. Quindi c’è poco da stupirsi se a venire indicati come gli inventori di questo scandalo, efficacemente – ma non del tutto correttamente – etichettato come «il più grande depistaggio della storia d’Italia», siano due defunti, incapaci di difendersi o almeno di spiegare come sia accaduto che un balordo di terza fila sia stato trasformato in un superpentito di mafia, e le sue «sciocchezze» (copyright di Ilda Boccassini) sul massacro di Paolo Borsellino e della sua scorta siano state spacciate per verità assolute, portando alla condanna all’ergastolo di sette innocenti. I due geni del male, viene raccontato ora, furono un magistrato, Giovanni Tinebra, procuratore di Caltanissetta, e un poliziotto, anzi un «superpoliziotto», Arnaldo La Barbera, che avrebbero convinto Vincenzo Scarantino, ladro d’auto, a inventare accuse false. Morti Tinebra e La Barbera, sul banco degli imputati nel processo che si avvia a conclusione a Caltanissetta sono rimasti tre pesci piccoli, tre poliziotti accusati di calunnia.
Ma anche nella ricostruzione dell’accusa non sono certo loro tre ad avere architettato la gigantesca messa in scena, né sono loro a sapere quali inconfessabili interessi abbiano mosso il depistaggio. Gli ordini venivano dall’alto. Tinebra e La Barbera d’altronde sono i colpevoli ideali, non solo perché morti ma per il resto che emerge post mortem su di loro: il primo animatore della fantomatica Loggia Ungheria, il secondo a libro paga dei servizi segreti. Un profilo perfetto di depistatori al soldo di poteri oscuri.
Ma tutti gli altri dov’erano? Basta frugare senza paraocchi gli archivi per avere contezza che se le «scemenze» di Scarantino gli vennero messe in bocca a forza di pestaggi e di ricatti nel carcere di Pianosa, e poi messe a verbale e portate con successo fino in Cassazione, questo avvenne sotto il naso di magistrati, giornalisti, politici che all’operato di La Barbera e della sua squadra applaudivano senza porsi domande. Salvo poi defilarsi, non ricordare, quando lo scandalo esplode. Uno per tutti: Gian Carlo Caselli, allora procuratore di Palermo. Che adesso dice di non avere mai utilizzato le dichiarazioni di Scarantino, ma nel luglio 1995, quando la moglie del «pentito» accusa La Barbera di avere fatto torturare il marito per convincerlo a riempire i verbali sulla strage di via D’Amelio, insorge a difesa del superpoliziotto, e accusa i giornali che danno retta alla donna di «contribuire a una campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia».
Si dirà: allora nessuno poteva sapere che Scarantino mentiva. Invece no, perché almeno due pm in servizio nel pool che indagava sulle stragi sentirono puzza di bruciato e misero per iscritto i loro dubbi: Ilda Boccassini e Roberto Saieva. Ma il resto del pool andò avanti per la sua strada: non il solo Tinebra ma una sfilza di pm – Anna Maria Palma, Carmelo Petralia, Antonino Di Matteo – vengono indicati dalla figlia di Borsellino, Fiammetta, come coloro che presero per oro colato le dichiarazioni di Scarantino, che dopo avere detto di avere rubato la 126 da imbottire di tritolo e da piazzare in via D’Amelio aveva accusato come mandati una lunga serie di mafiosi che non c’entravano niente. Da allora i sopravvissuti si rimpallano le colpe, Di Matteo – nel frattempo approdato al Consiglio superiore della magistratura – dice che lui nel pool nemmeno c’era, e che anzi la prima a interrogare Scarantino era stata la Boccassini. Ma in questo valzer di verità l’unica certezza che emerge è quella di una gestione scellerata dei pentiti, con Scarantino che nel suo ricovero protetto ha persino i numeri di cellulare privati dei pm, e con loro si sfoga, chiede aiuti, conforto. C’è una frase che andrebbe resa immortale, perché riassume bene l’intero clima. Quando il pentito Scarantino si mette a piangere, a dire che lui in realtà della strage non sa niente e sta accusando degli innocenti si sente consolare così dalla Palma: «Mi disse di stare tranquillo e aggiunse: se non hanno fatto questo hanno fatto altre cose e pagano».
Come tutti i bravi pentiti, Scarantino ha ritrattato anche questo, dicendo che a istruirlo, a suggerirgli cosa dire, erano solo i poliziotti e non i pm. Il Csm ne ha approfittato per archiviare il fascicolo aperto dopo l’esposto di Fiammetta Borsellino, che accusava i pm di avere avallato le «gravissime, grossolane anomalie investigative» nell’inchiesta sulla strage. Niente da fare. La colpa ufficiale è tutta dei due morti, il procuratore Tinebra e lo sbirro La Barbera. Eppure è lo stesso La Barbera che quando nel 2001 lo cacciarono dall’Antiterrorismo per i fatti del G8 i giornali che oggi lo indicano come il genio del male descrivevano come «un grande poliziotto», «un generoso, imprevedibile mastino».
Resta da chiedersi: perché? Perché il «generoso mastino» si inventa il pentito, perché Tinebra e i suoi gli vanno dietro? È qui che mostra la corda l’etichetta di «depistaggio» affibbiata a questa storia. Perché sottintende che ci fossero altri, veri colpevoli da salvare: al di fuori della mafia, sopra la mafia. È il teorema Ingroia. Ma di questi mandanti eccellenti in trent’anni non si è mai trovata traccia. E l’intero affare Scarantino va forse allora letto come una truce storia di furore investigativo, di ansia da risultato priva di scrupoli, di ambizione di carriera: nella convinzione di essere comunque nel giusto, perché dovunque si fosse colpito si sarebbe colpito bene. 1 Maggio 2022 Luca Fazzo IL GIORNALE