Paolo Borsellino, il giudice tradito e venduto
Si scopre abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell’ombra sta trattando la resa. Sono in molti a tremare per i suoi segreti. Forse aspettano un miracolo o un’altra bomba.
Uomo di legge e di coraggio, siciliano di fibra forte, fino all’ultimo non si rassegna. Ha rabbia e orgoglio per non piegarsi nemmeno ai nemici più invisibili.
Si getta nel vuoto Paolo Borsellino, magistrato di Palermo, assassinato dall’esplosivo mafioso e dal cinismo di un’Italia canaglia che l’ha visto morire senza fare nulla. Tradito e venduto.
Va incontro al suo destino accarezzando i figli, tenta disperatamente di sopravvivere fino a quella domenica afosa di mezza estate. Il 19 luglio del 1992.
L’agenda rossa che ha sempre con sé non si troverà mai.
- A ventitré anni, Paolo Borsellino è il magistrato più giovane d’Italia
- Cresciuto alla Kalsa, il giudice recitava Goethe a memoria in tedesco
- La bomba annunciata del 19 luglio
- A Monreale le lacrime per il capitano Emanuele Basile
- Un processo simbolo della giustizia “aggiustata” nella Sicilia mafiosa
- Boss e “talpe“, una finta rivolta all’Ucciardone nella Palermo collusa
- Primo magistrato siciliano con la scorta e la “mania” delle indagini
- Un giudice nel mirino, così Cosa Nostra ha trovato il suo bersaglio
- Stanza numero 63 e stanza numero 64, una grande amicizia in tribunale
- Un giudice nel mirino, così Cosa Nostra ha trovato il suo bersaglio
- L’estate di fuoco e il soggiorno “sicuro” nel carcere dell’Asinara
- E Borsellino torna a Palermo, in procura c’è il capo nemico di Falcone
- Lapidi e ricordi, gli incontri col capitano Mario D’Aleo
- Palermo come Beirut, un’autobomba uccide Rocco Chinnici
- Palermo brucia, un’altra strage di carabinieri
- Dal pool antimafia di Palermo alle misteriose terre trapanesi
- Invidie, sentenze cassate e tanti veleni nel palazzo di Giustizia
- Paolo Borsellino è a Marsala e scopre una mafia sconosciuta
- Quell’articolo sul Corriere, le polemiche e una ferita che sanguina sempre
- Il giallo del fisico Ettore Majorana sul tavolo del procuratore Borsellino
- Lo studio di Paolo Borsellino e quella corrispondenza con Leonardo Sciascia
- La denuncia della fine del pool antimafia, così esplode il “caso Palermo”
- La guerra ai giudici e ai poliziotti dell’Antimafia
- Le indagini di Borsellino su mafia e politica nella Sicilia più ambigua
- Giovanni Falcone e l’idea della “Superprocura” antimafia
- E la “picciridda” Rita Atria consegna la sua vita al procuratore
- Allarme ai piani alti. Dopo l’omicidio di Salvo Lima, a Roma tremano
- Il cratere di Capaci e l’amico Giovanni Falcone che non c’è più
- «Non sarà la mafia ad uccidermi», le ultime parole sussurrate alla moglie
- La “cantata” di Gaspare Mutolo sul super-poliziotto Bruno Contrada
- L’ultimo discorso pubblico a Palermo è il suo testamento
- Il boato, il fumo nero, le auto distrutte. Ecco l’inferno di via D’Amelio
- Una strage senza verità, falsi pentiti e “assassini” innocenti
A ventitré anni, Paolo Borsellino è il magistrato più giovane d’Italia
Si laurea nel 1962. Quell’anno muore anche suo padre. Lo vede spegnersi. Paolo Borsellino ha ventidue anni.
La farmacia ha bisogno di un titolare ma in famiglia non c’è.
Viene data in affitto per una cifra bassissima, in attesa che la sorella Rita prenda la laurea in farmacia. È un periodo difficile, di sacrifici.
Paolo racimola qualche soldo con le lezioni private, italiano.
Fa pratica nello studio di un avvocato. Intanto si prepara a sostenere gli esami per entrare in magistratura. Ci riesce un anno dopo. A ventitré anni è il più giovane giudice d’Italia.
Per uno di quegli strani giochi del destino finisce a fare l’uditore nella stanza di Cesare Terranova, il magistrato che l’ha prosciolto qualche tempo prima dall’accusa di rissa fra gli studenti di Giurisprudenza.
Comincia al «civile» ad Enna, al centro della Sicilia. Dopo due anni, nel 1967, è pretore a Mazara del Vallo. Va avanti e indietro, dalla mattina alla sera. In uno studio notarile conosce Agnese Piraino Leto, la figlia del presidente del Tribunale di Palermo.
Un anno dopo, nel 1968, Paolo e Agnese si sposano.
Da Mazara del Vallo a Monreale. Ancora in pretura. È il 1969. Sei anni tranquilli. Nel 1975 è a Palermo. Prima giudice di Tribunale e, alla fine dell’estate del 1975, giudice istruttore.
È una città addormentata Palermo. Sembra fuori dall’Italia. Brilla di luce propria. Si sente diversa, lontana. La sua magistratura affonda nel ventre molle di una Sicilia complice.
Ma l’uomo è quello che è. Giusto. Intransigente. Educato ai vecchi principi, cresciuto con il senso del dovere.
Rispettosissimo delle regole. E della legge.
Cresciuto alla Kalsa, il giudice recitava Goethe a memoria in tedesco
Palermo l’ha indurito, vive nel dolore. I suoi figli stanno crescendo in una città che non riconosce più. Lo sa che rischia lui e rischia anche tutta la sua famiglia.
Ma Paolo Borsellino ha passione, sentimenti forti, resiste a ogni compromesso, è di una semplicità disarmante, vero, colto, capace di parlare per mezz’ora in un siciliano strettissimo e poi, all’improvviso, di recitare a memoria il Paradiso o i versi di Goethe sulla sua Palermo in tedesco.
È un uomo che ha paura per sé e per i suoi figli ma non arretra mai. È indignato.Non ci pensa un istante a mollare. E finisce giù anche lui.
Muore neanche due mesi dopo la strage di Capaci. Come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino viene dalla Kalsa. Da bambini hanno abitato a pochi passi l’uno dall’altro.
La farmacia è lì dalla fine dell’Ottocento. Il palazzo dove vivono è proprio difronte, in via della Vetreria. Al piano nobile ci sono i padroni, i marchesi Salvo, al secondo piano c’è la loro casa. Dieci stanze, pavimenti con i mosaici, soffitti altissimi, un grande terrazzo dal quale si scorge il mare del Foro Italico.
Diego Borsellino e Maria Lepanto si sposano nel 1935. Nello stesso anno si ritrovano tutti e due dietro il bancone di legno
della farmacia.
Nel 1938 la prima figlia, Adele. Nel 1940 nasce Paolo. Nel 1942 Salvatore. Nel 1945 arriva Rita.
È una famiglia rispettata alla Magione, quella dei Borsellino.
È benestante, molto religiosa. In casa sono conservatori, credono nel fascismo e sono affascinati dal Duce. Quando la guerra finisce e sbarcano gli americani crolla un mondo.
In via della Vetreria c’è anche lo zio Ciccio, fratello della madre, ex ufficiale di cavalleria, che fa rivivere Mussolini e l’Impero con i suoi strabilianti racconti sulle «campagne» d’Africa.
Paolo Borsellino non ha ancora dieci anni e lo ascolta estasiato. Raccoglie tutto quello che trova sui Savoia, studia la storia di Umberto I e di Vittorio Emanuele III, cataloga tutto quello che trova sulla famiglia reale.
Cominciano però i tempi duri, alla Kalsa. Quello che più di mille anni prima era approdo di emiri e condottieri, ora è un quartiere sopravvissuto ai bombardamenti. Paolo Borsellino cresce in una Palermo che fa fatica ad uscire dalla miseria. La farmacia di via della Vetreria non ha più i clienti di una volta, i Borsellino cambiano casa. Vanno ad abitare in una più piccola, in via Roma.
Il gelato è solo nei giorni di festa.
Alla Marina, sotto la passeggiata delle Mura delle Cattive. Da Ilardo. Spongati. Spumoni. Pezzi duri. Semifreddi. Fette brasiliane e fette gianduia.
Dopo le medie Paolo s’iscrive al «Meli», il liceo classico. La maturità nel 1958. Poi Giurisprudenza. E la politica. Entra alla «Giovane Italia» che poi diventerà Fuan, il Fronte Universitario di Azione Nazionale. È un movimento neofascista.
Davanti alle facoltà ci sono sempre scontri fra studenti. Una mattina c’è una rissa violenta. Feriti. Lì in mezzo c’è anche lui.
Lo denunciano. L’inchiesta finisce a Cesare Terranova, un magistrato che non nasconde le sue simpatie per i comunisti. Paolo Borsellino viene ascoltato in Tribunale. Dice che non c’entra niente con il pestaggio. Terranova gli crede. Archivia.
La bomba annunciata del 19 luglio
C’è l’attentato del 19 luglio 1992, ci sono i sicari di Cosa Nostra e quegli uomini “in giacca e cravatta” che si materializzano in via Mariano D’Amelio poco dopo l’esplosione. Ci sono montagne di atti processuali ma non c’è ancora una piena verità su chi ha voluto morto Paolo Borsellino.
Una sentenza di Corte d’Assise definisce l’inchiesta sull’uccisione del procuratore “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, il caso però non è chiuso e forse solo la storia ci dirà cosa è accaduto a Palermo in quell’estate.
A trent’anni dalla strage in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta – Agostino Catalano, Eddie Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Emanuela Loi – qualcosa di oscuro affiora dal passato e fa molta paura. Perché coinvolti nel massacro ci sono “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”, gli stessi che hanno indotto il “pupo” Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni accusando innocenti, quelli che hanno fatto sparire l’agenda rossa del magistrato, quelli che in più momenti hanno tentato in tutti i modi di sviare le indagini.
E poi quei cinquantasette giorni che separano il 23 maggio dal 19 luglio.
Il procuratore Paolo Borsellino mai ascoltato come testimone dai suoi colleghi di Caltanissetta, i titolari dell’inchiesta sul massacro di Capaci. L’isolamento subito da Borsellino dentro la procura di Palermo guidata da Pietro Giammanco, le indagini affidate “irritualmente” dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra ai servizi segreti, in particolare a Bruno Contrada che appena qualche mese dopo sarà accusato di connivenza con i boss.
A Monreale le lacrime per il capitano Emanuele Basile
Boss e “talpe“, una finta rivolta all’Ucciardone nella Palermo collusa
All’alba del 4 maggio del 1980 sono ancora a Monreale, fra i vicoli dove è passata la processione del Santissimo Crocifisso. Di mattina scendo alla caserma «Carini» di Palermo, dietro il mercato del Capo. Ci sono tre ufficiali dei carabinieri stravolti, per tutta la notte hanno interrogato – e forse anche torturato – i tre killer del capitano. Ma quelli non hanno aperto bocca. Verso le dieci arriva la notizia che sono stati appena arrestati una ventina di mafiosi della borgata dell’Uditore. Gli Spatola, gli Inzerillo, i Gambino. È un’altra operazione, questa volta si è mossa la polizia. C’è confusione. Noi giornalisti siamo disorientati. Non riusciamo a capire il collegamento che c’è fra i tre killer del capitano Basile e i boss dell’Uditore. Sappiamo ancora poco di quello che sta accadendo dentro la mafia palermitana, non conosciamo esattamente chi sono i Corleonesi di Totò Riina. Nei nostri articoli chiamiamo «vincenti» quelli che vengono dai paesi della provincia e «perdenti» quegli altri della città. Sto per tornare al giornale per scrivere in fretta il mio «pezzo», ed è allora che si diffonde la notizia. Non è solo una voce. Il questore di Palermo Vincenzo Immordino, all’una del mattino, ha svegliato tutti i funzionari della squadra mobile e li ha convocati d’urgenza «per sedare una sommossa all’Ucciardone». Ma non c’è rivolta, nei bracci del carcere è tutto tranquillo. Il questore Immordino ha fatto scortare alla Lungaro – da agenti scelti da lui, uno per uno – i funzionari della squadra mobile. E li ha rinchiusi lì dentro, nella caserma della polizia stradale, fino all’alba. Sono «consegnati» in alcune stanze, praticamente prigionieri. Non possono uscire, non possono telefonare, non possono parlare con nessuno. Il questore non si fida di loro. Deve partire la retata contro i boss dell’Uditore e, per non farseli scappare, ha chiamato poliziotti da fuori. Alcuni sono arrivati da Roma, altri da Reggio Calabria. Non so come iniziare il mio articolo. Dall’arresto dei killer del capitano? Dal sequestro di persona compiuto dal questore Immordino? Dalla retata?
Primo magistrato siciliano con la scorta e la “mania” delle indagini
Ricorda sua moglie Agnese: «Fino all’omicidio di Emanuele Basile la nostra è stata una vita normale, come quella di tante famiglie palermitane. Ci incontravamo nei giorni di festa con i parenti o con gli amici, qualche collega di mio marito, i ragazzi erano spensierati». Poi è il finimondo.
Paolo Borsellino è il primo magistrato siciliano con una scorta. Tre carabinieri e una sgangherata Alfa Romeo color amaranto che divide con Antonino Gatto, il sostituto procuratore della repubblica titolare con lui dell’inchiesta sull’uccisione dell’ufficiale dei carabinieri. È una tranquilla vita borghese quella che viene sconvolta.
Tutta la città è testimone della metamorfosi di un uomo e di un giudice.
«Chi te lo fa fare?», gli dice qualche amico.
«Tanto la medaglia non te la danno lo stesso», lo avvertono alcuni colleghi.
Paolo Borsellino scuote la testa, perde il sorriso. Non gli piacciono quei discorsi. Non li manda giù. Sente un groppo in gola. È un magistrato, un uomo perbene, ha giurato di far rispettare la legge. Quelle chiacchiere non lo fermano. Ma neanche lui sa ancora in quale fossa si sta per infilare.
Né Paolo Borsellino né nessun altro, in quegli ultimi mesi del 1980, può sospettare che dietro a quei tre sicari presi a Monreale ci siano i nuovi capi della mafia siciliana.
C’è Totò Riina.
In un Tribunale dove è consuetudine «buttarsi dietro il pietrone», confondersi, nascondersi, Paolo Borsellino si ritrova sempre un passo avanti agli altri. È in vista, allo scoperto. Additato come un giudice troppo audace e con la «mania» delle indagini.
Lui è convinto di aver fatto tutto quello che doveva fare nell’istruttoria sulla morte di Basile. Ed è sicuro che i tre sicari del capitano saranno condannati. C’è ressa al Palazzo di Giustizia, la mattina del 7 ottobre del 1981. Una folla di parenti. Nonne, figli, nipoti. Nella prima aula della Corte di Assise di Palermo comincia il processo per l’agguato nella notte del Santissimo Crocifisso.
Una bella giornalista americana della Cbs si aggira per il tribunale con la sua troupe, i principi del Foro sono tutti schierati, gli imputati ai ceppi. Ridono spavaldi, i tre. Come se non temessero l’ergastolo.
Un giudice popolare viene subito cacciato. È pregiudicato. Un altro è già stato «avvicinato» da un avvocato del suo
paese. Alla quarta udienza, il primo presidente della Corte di Appello Giovanni Pizzillo firma a sorpresa un’ordinanza di espulsione dall’aula di tutti i fotografi e cineoperatori. Vuole «evitare elementi di distrazione».
È quasi un processo a porte chiuse.
Più il dibattimento va avanti e più s’intuisce che in quel processo c’è un solo imputato: il giudice istruttore. È lui, Paolo Borsellino, la fonte di tutte le «disgrazie» dei tre dietro le sbarre. È lui che non ha creduto a certi testimoni, che non ha tenuto conto di una nuova perizia sulle armi, che ha voluto investigare solo su di loro scartando fin dal principio qualsiasi altra pista.
Un giudice nel mirino, così Cosa Nostra ha trovato il suo bersaglio
La mafia di Palermo ha individuato il suo obiettivo.
In procura, per una volta sono tutti uniti. Il pubblico ministero Vincenzo Geraci chiede tre ergastoli. Il processo sembra segnato. La sentenza è vicina.
Ma non è così. Una mattina, il presidente della Corte di Assise Carlo Aiello ordina la sospensione del dibattimento.
Il pretesto è una macchia. Una macchia bianca ritrovata su uno stivale di cuoio nero di Giuseppe Madonia e mai esaminata
dai periti. Da dove viene? Cos’è? Perché nessuno l’ha mai notata prima?
Un processo che si sta avviando verso la conclusione viene fermato. Tutti gli atti tornano al giudice istruttore. A Paolo Borsellino.
Deve ordinare una perizia su quella macchia bianca. È una manna che cade dal cielo per i tre killer.
La «prova del fango», come viene definita con evidente allusione dai palermitani, dura quindici mesi.
La perizia non accerta niente. È servita solo a prendere tempo.
Il processo riprende in un clima di terrore. Minacciano altri avvocati. I giudici popolari tremano. E intanto il presidente della prima Corte di Assise cambia. Non è più Carlo Aiello ma Salvatore Curti Giardina. È un anonimo magistrato che ha fatto una carriera silenziosa nei Palazzi di Giustizia di mezza Sicilia, fino a quando arriva a Palermo e si ritrova difronte ai tre killer di Emanuele Basile.
Il processo che a qualunque costo non si doveva celebrare, è un’altra volta alla vigilia del verdetto. Sembra scontato. Condanne. Ergastoli.
Il 31 marzo del 1983, nemmeno tre anni dopo l’uccisione del capitano, gli imputati vengono assolti. Tutti per insufficienza di
prove. I testimoni non vengono creduti, le prove spazzate via.
Clamorose le motivazioni del presidente della Corte: «Paradossalmente bisogna concludere, quindi, che meno problematico, se non addirittura certo, sarebbe stato il convincimento di colpevolezza di questa Corte in presenza di un più ristretto numero di indizi».
Troppi indizi per una condanna.
Così, il presidente Salvatore Curti Giardina ordina «l’immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa» di Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia. Gli avvocati difensori sono euforici: «Per fortuna ci sono ancora magistrati coraggiosi».
I carabinieri si sfogano: «Qui a Palermo succedono cose molto gravi, ora sappiamo che non possiamo contare sull’appoggio di altre forze dello Stato».
Il giudice Paolo Borsellino è annichilito.
La sua istruttoria è stata demolita con cavilli e mosse fraudolente. L’assoluzione lo lascia ancora più solo, indifeso. Nel mirino.
Il giorno dopo la sentenza, firma un’ordinanza di «accompagnamento coatto» degli imputati del processo Basile in tre comuni della Sardegna. Al soggiorno obbligato. Ci stanno due settimane. Poi fuggono indisturbati su grossi motoscafi d’altura.
Tornano a Palermo. Per uccidere. È la prima volta che Paolo Borsellino ha veramente paura. Per sé e per la sua famiglia. Nella sua casa di via Cilea quei nomi – Bonanno, Madonia, Puccio – si ripetono sottovoce ogni giorno. Sono fuori. Sono «innocenti» e pronti a sparare ancora
Stanza numero 63 e stanza numero 64, una grande amicizia in tribunale
Uno dei primi fascicoli che arriva nel suo ufficio è un’indagine preliminare sulle ruberie della Valle del Belice, i fondi che sono spariti per la ricostruzione dei paesi distrutti dal terremoto del 1968. Comincia a indagare su un presidente della Regione. È un’inchiesta choc. In città parlano tutti del giudice che è partito all’attacco dei potenti. Arriva sulla sua scrivania anche l’indagine su un appalto sospetto che coinvolge il presidente della Provincia Gaspare Giganti. Si convince della sua colpevolezza, piomba in consiglio provinciale insieme agli agenti di polizia giudiziaria, sequestra documenti, firma contro di lui un mandato di cattura. Gaspare Giganti è il primo uomo politico di Palermo che entra all’Ucciardone. Gli anni di Palermo «felicissima» stanno per finire. Cominciano quelli della paura e dei «grandi delitti». Anche l’inchiesta sull’uccisione del commissario Boris Giuliano è sua. Mese dopo mese, insieme al capitano Emanuele Basile, si avvicina alla mafia di Monreale. E alla notte del Santissimo Crocifisso.
La sua stanza all’ufficio istruzione del tribunale di Palermo è la numero 64. La numero 63 è quella di Giovanni Falcone. Si conoscono fin da ragazzi, fra i vicoli e della Kalsa e i cortili intorno alla chiesa della Magione. Si rivedono nelle aule della facoltà, a Giurisprudenza. Si rincontrano lì, al Palazzo di Giustizia, tanto tempo dopo. Nel 1979 Borsellino ha trentanove anni, Falcone uno di più. Sono fianco a fianco, giorno dopo giorno. Lo resteranno fino alla primavera del 1992. La scrivania di Paolo Borsellino è un mare di carte, faldoni, rapporti di polizia. C’è l’inchiesta sul Palazzo dei Congressi, uno scandalo sulle alleanze mafiose e imprenditoriali svelate nel 1982 da Pio La Torre e dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa. C’è quella sull’avvocato Salvatore Chiaracane, un penalista legato alla feroce cosca di Corso dei Mille.
C’è anche l’indagine su Giancarlo Parretti, il cameriere di un hotel di Siracusa, Villa Politi, che dopo pochi anni è diventato un noto finanziere e il boss della società cinematografica più famosa del mondo, la Metro Goldwyn Mayer.
Paolo Borsellino va ad ascoltare Luciano Liggio nel carcere di Bad’ e Carros in Sardegna. Interroga Vito Ciancimino, per la prima volta in carcere, a Rebibbia.
Lui e Giovanni Falcone sono legatissimi, due fratelli. E buoni sono anche i rapporti con gli altri giudici dell’ufficio istruzione. Soprattutto con Leonardo Guarnotta. Tutti indagano su tutto. Si scambiano informazioni, incrociano nomi e dati. Mafia. Traffico di droga e armi. Riciclaggio. Cominciano le prime rogatorie internazionali. Singapore. Ankara. New York.
Un giudice nel mirino, così Cosa Nostra ha trovato il suo bersaglio
Il pretesto è una macchia. Una macchia bianca ritrovata su uno stivale di cuoio nero di Giuseppe Madonia e mai esaminata
dai periti. Da dove viene? Cos’è? Perché nessuno l’ha mai notata prima?
Un processo che si sta avviando verso la conclusione viene fermato. Tutti gli atti tornano al giudice istruttore. A Paolo Borsellino.
Deve ordinare una perizia su quella macchia bianca. È una manna che cade dal cielo per i tre killer.
La «prova del fango», come viene definita con evidente allusione dai palermitani, dura quindici mesi.
Il processo riprende in un clima di terrore. Minacciano altri avvocati. I giudici popolari tremano. E intanto il presidente della prima Corte di Assise cambia. Non è più Carlo Aiello ma Salvatore Curti Giardina. È un anonimo magistrato che ha fatto una carriera silenziosa nei Palazzi di Giustizia di mezza Sicilia, fino a quando arriva a Palermo e si ritrova difronte ai tre killer di Emanuele Basile.
Il processo che a qualunque costo non si doveva celebrare, è un’altra volta alla vigilia del verdetto. Sembra scontato. Condanne. Ergastoli.
Il 31 marzo del 1983, nemmeno tre anni dopo l’uccisione del capitano, gli imputati vengono assolti. Tutti per insufficienza di
prove. I testimoni non vengono creduti, le prove spazzate via.
Clamorose le motivazioni del presidente della Corte: «Paradossalmente bisogna concludere, quindi, che meno problematico, se non addirittura certo, sarebbe stato il convincimento di colpevolezza di questa Corte in presenza di un più ristretto numero di indizi».
Troppi indizi per una condanna.
Così, il presidente Salvatore Curti Giardina ordina «l’immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa» di Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia. Gli avvocati difensori sono euforici: «Per fortuna ci sono ancora magistrati coraggiosi».
I carabinieri si sfogano: «Qui a Palermo succedono cose molto gravi, ora sappiamo che non possiamo contare sull’appoggio di altre forze dello Stato».
Il giudice Paolo Borsellino è annichilito.
La sua istruttoria è stata demolita con cavilli e mosse fraudolente. L’assoluzione lo lascia ancora più solo, indifeso. Nel mirino.
Il giorno dopo la sentenza, firma un’ordinanza di «accompagnamento coatto» degli imputati del processo Basile in tre comuni della Sardegna. Al soggiorno obbligato. Ci stanno due settimane. Poi fuggono indisturbati su grossi motoscafi d’altura.
Tornano a Palermo. Per uccidere. È la prima volta che Paolo Borsellino ha veramente paura. Per sé e per la sua famiglia. Nella sua casa di via Cilea quei nomi – Bonanno, Madonia, Puccio – si ripetono sottovoce ogni giorno. Sono fuori. Sono «innocenti» e pronti a sparare ancora
L’estate di fuoco e il soggiorno “sicuro” nel carcere dell’Asinara
Paolo Borsellino, un giorno, deve affrontare un viaggio molto lungo, arrivare fino in Brasile per interrogare quattro mafiosi a Belo Horizonte. Gli altri, così, scoprono che ha paura di volare. Salire su un aereo per lui è un incubo. Si affida sempre a riti scaramantici. Sono in quattro, in Brasile. C’è Falcone. C’è il sostituto procuratore Giuseppe Ayala e c’è anche Ninni Cassarà, il capo della sezione investigativa della squadra mobile. La sentenza ordinanza del maxi processo nell’estate del 1985 è quasi conclusa. Ma, a pochi mesi dall’inizio del dibattimento, Ninni Cassarà muore ammazzato. Una settimana prima hanno ucciso anche Giuseppe Montana, il suo collega che dà la caccia ai latitanti. Un funzionario di polizia avverte il consigliere istruttore Antonino Caponnetto che una sua «fonte», all’interno delle carceri, gli ha raccontato che stanno per far fuori anche due giudici. Prima Borsellino e poi Falcone. I due giudici vengono caricati dopo poche ore su un elicottero. Borsellino, la moglie Agnese, i tre figli. Falcone, la compagna Francesca e la madre di lei. Conoscono il luogo dove li nasconderanno solo in volo: l’isola dell’Asinara. Li rinchiudono in un carcere di massima sicurezza. Sono al sicuro soltanto in mezzo al mare. La tragedia pubblica di Palermo per Paolo Borsellino è anche una grande tragedia privata.
Lucia, la figlia più grande, si ammala. Non mangia più. Da molti mesi è scivolata in un malessere profondo. È una ragazzina, la vita blindata del padre la sta devastando. La sera prima dell’Asinara, nella loro casa sul mare di Villagrazia irrompono all’improvviso gli agenti dei corpi speciali. C’è anche un mezzo blindato per trasportare la famiglia Borsellino fino all’aeroporto.
Su quei giorni all’Asinara, il ricordo di Lucia è affidato al giornalista Umberto Lucentini: Sono lì da una settimana quando decido di passeggiare, di esplorarla un po’ quest’isola dove ci hanno spedito lontano dal pericolo di vendetta della mafia. È il momento che mi rendo conto che nemmeno all’Asinara possiamo stare tranquilli… Nell’attimo in cui metto un piede fuori dal giardino che circonda la foresteria e mi incammino con mia sorella tra i campi, scorgo un corteo di persone che ci seguono, si nascondono dietro i cespugli, con i mitra spianati… mi crolla il mondo addosso, altro che rifugio sicuro. Da quell’attimo mi passa la voglia di passeggiare, di fare qualsiasi cosa. Mi rinchiudo in camera per cinque giorni di fila. Non ho più fame. Ogni giorno che passa è sempre peggio. Mio padre capisce subito cosa sta succedendo. Io no: quando mi chiede «Perché non mangi?» non so dargli risposta. Gli dico che vorrei tornare a casa. Papà sa che il rischio è altissimo, ma non sente ragioni: prende me e Fiammetta, ci infila in gran segreto in elicottero e ci accompagna fino a Palermo. Restiamo con i nonni a Villagrazia, lui torna all’Asinara. Sono ridotta a uno scheletro quando papà torna a Palermo. Da quel momento papà non mi lascia un secondo.
E Borsellino torna a Palermo, in procura c’è il capo nemico di Falcone
Lapidi e ricordi, gli incontri col capitano Mario D’Aleo
«Stasera sali a Monreale e poi ce ne andiamo su, a San Martino delle Scale, in una trattoria in mezzo al bosco», mi dice Mario un pomeriggio. San Martino delle Scale, quasi a 600 metri, un monastero benedettino, carne alla brace, forno a legna per le pizze. Siamo quasi coetanei, lui ha ventinove anni, io ventotto. Ci siamo conosciuti in Tribunale, ogni tanto ceniamo insieme. A volte ci sono altri due ufficiali, Diego Minnella e Tito Baldo Honorati. Mario D’Aleo è romano. Altissimo, magro come un chiodo. Si sente solo a Monreale. Ha bisogno di compagnia. È molto diverso da Emanuele Basile, che ho conosciuto solo fra i corridoi delle caserme e della procura. Basile era un uomo molto formale, sempre impeccabile nella sua divisa nera e le scarpe tirate a lucido, di poche parole, grande investigatore, serissimo. Mario è più ragazzo. Come me. La sera di via Scobar non riesco ad avvicinarmi al marciapiedi dove c’è il suo cadavere. Comincio a tremare. Più di venticinque anni dopo, andando in giro per San Giovanni, a Roma, una mattina mi trovo a passare per caso da via Imera. E vedo una lapide che lo ricorda e una corona di fiori appassiti. Era la sua casa. C’è un cancello, resto lì per dieci minuti, non so cosa fare, se bussare alla porta, chiedere di qualcuno, presentarmi – come, dopo tutto quel tempo? – e raccontare a qualche parente che io lo conoscevo, che l’ho visto a San Martino delle Scale e anche in via Scobar. Non ce la faccio. Sfioro la lapide con la mano e me ne vado. Qualche mese fa, ho letto una piccola notizia sulle pagine di cronaca. Il 15 ottobre 2011, durante la manifestazione violenta dei black bloc a Roma, qualcuno ha preso a martellate quella targa di via Imera. Sarà stato un ragazzo. Uno dei tanti che non sa niente di questa Italia
Palermo come Beirut, un’autobomba uccide Rocco Chinnici
Dopo l’omicidio di Mario D’Aleo, a Palermo c’è paura di un’altra strage.
Gli apparati investigativi sono allo sbando. I funzionari della squadra mobile una mattina si ribellano, protestano a Villa Whitaker contro «i ministri di Roma». Davanti alla prefettura ci sono centinaia di poliziotti respinti a forza da altri poliziotti.
Il Palazzo di Giustizia è una sacca di veleni. Il presidente della Commissione Antimafia, Nicola La Penta, è in Sicilia con una delegazione di parlamentari per ascoltare i magistrati. Dopo tre giorni di audizioni annota nella sua relazione: «La Commissione ha potuto osservare negli incontri con i giudici siciliani atteggiamenti molto diversi. Vi è una larga fascia che fa il proprio dovere, senza però spingersi molto in avanti. Vi è anche qualche pusillanime. Ve ne sono quattro o cinque che dimostrano uno straordinario coraggio e ogni giorno rischiano la vita».
Sta parlando del consigliere Rocco Chinnici, dei giudici Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello. E di Paolo Borsellino.
Non passano due mesi dall’agguato di via Scobar e, il 29 luglio 1983, salta in aria anche il consigliere istruttore Rocco Chinnici.
Palermo è nel dramma.
Quella mattina Paolo Borsellino è nella sua casa in riva al mare, a Villagrazia di Carini. Squilla il telefono.
Il giudice sbianca in volto. Dice alla moglie come un automa: «È morto Rocco».
Rocco Chinnici è uno di famiglia. Arriva a casa loro senza annunciarsi. È affettuoso, protettivo. Per Lucia, la primogenita di Paolo e Agnese, è come uno zio. La settimana prima, è andata con Chinnici e sua figlia Caterina in gita a Pantelleria in elicottero.
Borsellino si ritrova ormai circondato da cadaveri.
Boris Giuliano. Emanuele Basile. Mario D’Aleo. Rocco Chinnici.
Si rintana nel bunker. Con Giovanni Falcone. Con Leonardo Guarnotta. Si immerge nelle indagini. Affoga fra le sue carte. Ha un debito d’amore verso gli amici che non ci sono più e verso se stesso.
«Chi te lo fa fare?», continuano a ripetergli conoscenti e colleghi.
Taglia rapporti, seleziona le frequentazioni, si fa sempre più guardingo. Si tiene vicino solo gli amici veri.
È un uomo diritto Paolo Borsellino, ha il culto della parola data, il senso dell’onore, è leale, generoso, sanguigno.
L’uccisione di Rocco Chinnici l’ha scaraventato in una Palermo sempre più minacciosa che nasconde tanti tradimenti.
Sfila come testimone davanti ai suoi colleghi di Caltanissetta che indagano sulla morte del consigliere istruttore, racconta gli ultimi giorni di Rocco Chinnici, trascina gli esattori Nino e Ignazio Salvo in un vortice. È solo anche in quel momento.
Molti magistrati palermitani «dimenticano» quello che aveva in mente Chinnici, le sue indagini sui potenti cugini di Salemi, la sua intenzione di indagarli per mafia. Borsellino riferisce ogni dettaglio, spiega tutto.
Palermo brucia, un’altra strage di carabinieri
Paolo Borsellino ormai è dentro ai gironi infernali di Palermo. La città brucia. Una sera d’inizio estate, qualche mese dopo la facile evasione dei tre sicari, qualcuno attacca un cartello alla vetrina della gelateria di via Scobar. È una stradina al confine fra le borgate della Noce e dell’Uditore. Una scritta in rosso: «Fate pagare questa strage a chi ha assolto i killer di Emanuele Basile». Il consigliere istruttore Rocco Chinnici e il giudice Paolo Borsellino, la sera del 13 giugno 1983 sono davanti a un altro morto. È il nuovo comandante della Compagnia dei carabinieri di Monreale Mario D’Aleo, l’ufficiale che ha preso il posto di Emanuele Basile. È a qualche metro dal palazzo dove abita Antonella, la sua fidanzata. Non ci arriva mai al portone. Accanto all’auto sono morti anche i brigadieri Giuseppe Bommarito e Pietro Morici. Il capitano D’Aleo, sceso in Sicilia cinque settimane dopo l’uccisione di Basile, aveva ripreso le sue indagini. Il messaggio che i boss lanciano allo Stato è molto diretto: l’Arma dei carabinieri non può e non deve occuparsi della mafia di Monreale. Con Mario D’Aleo, sono ventisei i carabinieri uccisi nella provincia di Palermo negli ultimi vent’anni. La mattina dopo l’agguato di via Scobar, l’Alto Commissario per la lotta alla mafia Emanuele De Francesco, quello nominato dal governo con poteri speciali nei giorni successivi alla morte del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, convoca i giornalisti a Villa Whitaker e indica pubblicamente i mandanti della strage. Dice che sono stati i Gambino, gli Spatola, gli Inzerillo. Tutte «famiglie» mafiose ormai decimate dalle vendette dei Corleonesi. L’Alto commissario mente o ignora tutto di Palermo? Depista o è all’oscuro di vicende che persino noi giornalisti conosciamo?
Dal pool antimafia di Palermo alle misteriose terre trapanesi
Paolo Borsellino è segnato dal dolore. Fuori la guerra a Cosa Nostra e una città nemica, in famiglia il dramma di Lucia. Ma quel 1985 non è ancora finito. Gli ultimi mesi riservano altre sofferenze. È il 25 novembre e un corteo blindato attraversa a tutta velocità le strade di Palermo. È all’altezza di un incrocio di via Libertà, quasi davanti al «Meli», il liceo che ha frequentato Borsellino. Sbuca un’utilitaria, una delle Alfette dei carabinieri sbanda e finisce su un marciapiedi dove stanno gli studenti appena usciti dalla scuola. Biagio Siciliano, 15 anni, muore sul colpo, Maria Giuditta Milella, 16 anni, muore dopo sette giorni. Altri tre sono in coma. Sull’auto blindata ci sono Paolo Borsellino e il suo amico Leonardo Guarnotta.
Per la Palermo infastidita o spaventata dalle indagini antimafia, è il momento ideale per scatenarsi. Per rilanciare le polemiche sulla magistratura che sta «rovinando» la città. Gli sciacalli non mancano. Si avvicina l’inizio del maxi processo.
E ogni occasione è buona per dare addosso ai giudici del pool.
Ricomincia la campagna contro una Palermo sotto assedio. La «lotta alla mafia» che porta solo sventure in Sicilia. Uccide «anche gli innocenti».
Ogni sera, Paolo Borsellino va a trovare in ospedale i ragazzi feriti. Parla con i loro genitori. Per gli anni che gli restano si trascinerà un profondo senso di colpa per i ragazzi del «Meli».
La monumentale istruttoria è conclusa. Nel bunker dell’ufficio istruzione c’è molta eccitazione, l’aula bunker ha bisogno degli ultimi ritocchi. Una cinta esterna, le telecamere, un camminamento sotterraneo per trasferire ogni mattina in sicurezza i detenuti rinchiusi all’Ucciardone.
Il lavoro del pool è finito, per il momento.
È in quelle ultime settimane del 1985 che Paolo Borsellino decide di presentare una domanda al Consiglio Superiore della Magistratura: è in pista per la nomina a procuratore capo della repubblica a Marsala.
Ne parla con gli amici del pool. Sono tutti felici. Il sostituto procuratore Vincenzo Geraci – il pubblico ministero che ha
sostenuto in aula l’accusa contro gli assassini del capitano Basile nel primo processo – è al Consiglio Superiore della Magistratura e gli annuncia il suo appoggio e quello della sua corrente.
Paolo Borsellino non sta abbandonando la prima linea, non sta scappando da Palermo. Al contrario. Marsala è una città al centro di una provincia, quella di Trapani, dove da vent’anni non si celebra un processo alla criminalità organizzata. Il territorio, dal golfo di Castellammare fino alla Valle del Belice e a Mazara del Vallo, è governato da decine di famiglie mafiose.
Nessuno ha mai indagato.
Invidie, sentenze cassate e tanti veleni nel palazzo di Giustizia
Paolo Borsellino vuole ricominciare da lì. Da Marsala. Candidati a quel posto di procuratore ci sono altri due magistrati. Tutti e due godono di una maggiore anzianità in magistratura. Uno è Giuseppe Alcamo, presidente di una sezione del Tribunale di Palermo. L’altro è Giuseppe Prinzivalli, presidente di Corte di Assise.
Il più giovane fra loro è proprio Paolo Borsellino. Ma è anche quello che, dopo quasi sei anni all’ufficio istruzione, ha accumulato una straordinaria esperienza in materia di indagini mafiose.
Il Consiglio Superiore deciderà a breve. Paolo Borsellino è in attesa. Ma intanto a Palermo una sua inchiesta viene cancellata con una sentenza.
«Un brutto segnale per il maxi processo», scrivono sui giornali i commentatori di cose di mafia.
È l’istruttoria sul massacro di piazza Scaffa, otto morti ritrovati la notte del 18 ottobre 1984 in una stalla nei quartieri orientali della città. Macellavano clandestinamente senza l’«autorizzazione» dei boss di Ponte Ammiraglio e di Sant’Erasmo, gli Zanca e i Vernengo. Uno sgarro che provoca la strage.
*Paolo Borsellino istruisce l’inchiesta sulle accuse della moglie di una delle vittime – Pietra Lo Verso – e di due pentiti, Vincenzo Sinagra e Stefano Calzetta.
Per la Corte di Assise, la denuncia della donna «è il risultato di uno scambio di idee fra comari». Ai pentiti non credono. Tutti assolti anche questa volta. Anche i latitanti Carmelo Zanca e Pietro Vernengo.
Il presidente della Corte di Assise è Giuseppe Prinzivalli, uno dei «concorrenti» di Paolo Borsellino alla guida della procura della repubblica di Marsala.
L’aula bunker è avvolta nel silenzio quando all’improvviso sento una voce: «Quel giudice ha coraggio da vendere: ha due
palle come il mio mulo di Ciaculli». Mi volto e vedo un sorridente Michele Greco aggrappato alle sbarre della sua cella. Sta commentando la sentenza con la quale – per la prima volta – una Corte lo ha appena assolto dal reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Con lui, altri 78 imputati vengono dichiarati innocenti. È il verdetto di un troncone del maxi processo, presidente è Giuseppe Prinzivalli, giudice intento solo a demolire tutte le inchieste del pool antimafia. Chiacchierato da anni per i suoi benevoli giudizi nei confronti dei boss della Cupola, Prinzivalli è «chiamato» da alcuni pentiti che raccontano di borse piene di soldi e di favori che non si possono rifiutare.
Condannato a 10 anni in primo grado per l’«aggiustamento» di processi, condannato a 8 anni in Appello, il presidente Prinzivalli viene graziato dalla Cassazione e poi ancora condannato da un’altra Corte di Appello. Ma è troppo tardi. Il reato contestato ormai è prescritto. Anche se viene accertato «il suo contrasto livoroso» per tutte le inchieste del giudice Falcone e la sua disponibilità «ad assecondare le richieste degli imputati di mafia».
Il mulo di Ciaculli non gli somigliava per niente
Paolo Borsellino è a Marsala e scopre una mafia sconosciuta
«I professionisti dell’Antimafia», l’attacco di Sciascia contro Borsellino
La mattina del 10 gennaio 1987 un articolo in prima pagina su Corriere della Sera parla di lui. E di come è diventato procuratore capo della repubblica di Marsala.
Il titolo è una perfetta sintesi: «I professionisti dell’Antimafia».
L’articolo è di Leonardo Sciascia, il siciliano che ha fatto conoscere con i suoi libri la mafia agli italiani.
Che cosa scrive Sciascia?
Prende spunto da una documentata analisi dello storico inglese Christopher Duggan sulla mafia ai tempi del Fascismo, ricorda le retate del prefetto Mori, poi sostiene che l’antimafia può trasformarsi in «uno strumento di potere». E fa due esempi. Il primo è quello del popolarissimo sindaco di Palermo: Leoluca Orlando. È un democristiano che, proprio sul tema dell’antimafia, ha diviso e fatto rivivere Palermo. Leonardo Sciascia non cita il suo nome. Cita però quello di Paolo Borsellino.
È lui il secondo «campione» di quell’antimafia che può raggiungere «un potere incontrastato e incontrastabile».
La riflessione di Sciascia parte proprio dalla nomina del nuovo procuratore capo di Marsala, scelto per «meriti di antimafia» a scapito dei criteri di «anzianità». Borsellino, grazie alla sua attività nel pool di Caponnetto e di Falcone, ha superato in graduatoria colleghi – come Alcamo e Prinzivalli – che potevano contare su una più lunga carriera in magistratura.
L’articolo del Corriere ha l’effetto di una bomba. Con Leonardo Sciascia si schiera quasi tutta l’Italia. Intellettuali. Professori. Uomini politici al di sopra e al di sotto di ogni sospetto. E tutti i personaggi di quella Sicilia livorosa che detesta il pool. C’è chi non sta più nella pelle per la felicità: uno dei più grandi scrittori italiani del secolo è al loro fianco.
Non se ne può più di indagini nel mucchio. Finiamola con i talebani della giustizia. È la dittatura dell’antimafia.
Contro Leonardo Sciascia scrivono Eugenio Scalfari, Giampaolo Pansa, Nando dalla Chiesa e pochi altri.
La polemica monta giorno dopo giorno.
Si scopre anche che un paio di vecchi giudici del Tribunale di Palermo hanno incontrato Sciascia per consegnargli la copia della sentenza sulla strage di piazza Scaffa, il verdetto del presidente Giuseppe Prinzivalli che ha annullato e mortificato l’istruttoria di Paolo Borsellino.
Il procuratore di Marsala è nella tempesta. Per alcuni giorni tace. Tutti lo cercano, Borsellino si fa negare. Anche perché lui, come moltissimi siciliani, ha sempre amato i libri di Sciascia. Le parole dello scrittore offrono a tutti i nemici dell’antimafia l’occasione di scatenarsi una volta ancora contro i giudici. Il maxi processo è in corso. La sentenza è attesa per la fine dell’anno.
Quell’articolo sul Corriere, le polemiche e una ferita che sanguina sempre
Il giallo del fisico Ettore Majorana sul tavolo del procuratore Borsellino
Lo studio di Paolo Borsellino e quella corrispondenza con Leonardo Sciascia
La denuncia della fine del pool antimafia, così esplode il “caso Palermo”
La guerra ai giudici e ai poliziotti dell’Antimafia
Lo ascoltano al Consiglio Superiore della Magistratura. Dice: «Ho riferito solo mie convinzioni mentre si discuteva dello stato delle indagini antimafia. O parliamo per enigmi e per allusioni e parliamo di “una caduta di tensione” e la gente poi non capisce bene che cosa significa, oppure, se questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente, dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire che c’è un organismo centrale delle indagini antimafia che in questo momento non funziona più».
Paolo Borsellino ripete il suo atto di accusa a Palazzo dei Marescialli.
Il Guardasigilli Giuliano Vassalli annuncia alla commissione giustizia del Senato: «Io non punirò Borsellino». E invia un ispettore ministeriale in Sicilia, Vincenzo Rovello, un magistrato di grande esperienza e di straordinaria umanità che qualche anno dopo sarà nominato procuratore generale a Palermo.
In una relazione di 54 pagine, l’ispettore Rovello ricostruisce ciò che è avvenuto nel Palazzo di giustizia di Palermo negli ultimi mesi. Conferma al ministro la denuncia lanciata da Borsellino: il consigliere istruttore Antonino Meli ha distrutto il pool antimafia.
Il Consiglio Superiore della Magistratura fa finta di niente. Alla fine di una lunghissima seduta notturna, decide di non «punire» il procuratore capo di Marsala per la sua intervista. Certifica che Paolo Borsellino «ha sbagliato», ma «in buona
fede». È il 14 settembre del 1988. Borsellino se ne torna a Marsala. Falcone resta al suo posto all’ufficio istruzione. Sempre più solo e sempre più disarmato.
Ricominciano gli attacchi a mezzo stampa. Questa volta è il Giornale di Indro Montanelli che va alla carica contro Giovanni Falcone e il pool. Dietro, ci sono i soliti «suggeritori» del Palazzo di giustizia di Palermo. Quelli che odiano Giovanni Falcone sono sempre più numerosi. Sono giorni molto difficili per Palermo. Il sindaco Orlando parla di una mafia che «ha il volto delle Istituzioni».
Alla squadra mobile di Palermo vengono rimossi tutti i capi. Cambia anche l’Alto Commissario Antimafia. Il prefetto Pietro Verga viene sostituito da Domenico Sica. I poliziotti che quell’estate si schierano al fianco di Paolo Borsellino e dei giudici del pool di Palermo, vengono tutti trasferiti. Qualcuno nei commissariati della città. Uno nel luogo più distante da Palermo, dall’altra parte dell’Italia.
È Francesco Accordino, capo della sezione omicidi della squadra mobile, uno dei migliori investigatori siciliani. Prima lo «comandano» a Bressanone, in provincia di Bolzano. Poi lo nominano capo della polizia postale di Reggio Calabria.
Dalle indagini sui boss al furto delle raccomandate.
Le indagini di Borsellino su mafia e politica nella Sicilia più ambigua
Il pentito Rosario Spatola fa a Borsellino alcuni nomi di uomini politici invischiati in faccende di mafia. Soprattutto gliene fa uno: Calogero Mannino. È uno degli uomini più potenti della Sicilia, in quel 1989 Mannino è la stella del partito nell’isola. E Il pentito Spatola racconta a Borsellino che i mafiosi lo chiamano confidenzialmente Caliddu.
E, in Sicilia, ricominciano anche a uccidere i magistrati.
Ce n’è uno che ha appena condannato i tre killer del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Ma Totò Riina condanna a morte lui.
È il 25 settembre del 1988 e il presidente della Corte di Appello Antonino Saetta è ucciso insieme al figlio Stefano.
Le motivazioni della sentenza con la quale Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia vengono ritenuti colpevoli dell’omicidio sono depositate in cancelleria intorno a mezzogiorno del 16 settembre 1988. Un’ora dopo, a Palermo, rubano l’auto che servirà per l’agguato al giudice.
È finito dopo quattordici anni e dodici dibattimenti. Cancellato a più riprese dalla Cassazione, si è lasciato alle spalle una scia
di morti. Il processo Basile pesa un quintale di carte nel 1994, quando l’ultimo imputato minore – un favoreggiamento – è sballottato fra una Corte e l’altra indecise su chi lo deve giudicare.
Iniziato nel 1981, sospeso per una perizia e rinviato alla primavera del 1983, i sicari del capitano ucciso ricevono la prima grazia dai giudici di Palermo. Condannati in Appello all’ergastolo il 24 ottobre del 1984, il processo viene annullato per un cavillo da Corrado Carnevale il 23 febbraio 1987 e rimandato a un’altra Corte di Assise di Appello. Passa un altro anno.
È il 23 giugno quando 1988 i tre sicari vengono condannati ancora all’ergastolo. La sentenza definitiva arriva solo nel febbraio del 1992. Ma ormai due dei tre sicari del capitano sono morti. Uno, Armando Bonanno, lo fanno sparire. Un altro, Vincenzo Puccio, viene assassinato nella cella dell’Ucciardone dove è stato rinchiuso qualche mese prima.
Rimane vivo solo Giuseppe Madonia.
L’INCHIESTA SU “CALIDDU”
Il procuratore Borsellino è ormai da tre anni a Marsala. Ha cominciato a indagare sulla mafia della provincia con il «metodo» sperimentato al pool dell’ufficio istruzione, paese dopo paese, famiglia dopo famiglia. Prima Partanna, poi Castelvetrano. Adesso tocca a Campobello di Mazara.
Una mattina, il maresciallo Carmelo Canale entra nella sua stanza e gli comunica che un grosso trafficante di droga vuole
«parlare», collaborare con la giustizia. Si chiama Rosario Spatola, è solo un omonimo dello Spatola dell’Uditore sul quale ha indagato Giovanni Falcone nei primi Anni Ottanta.
Rosario Spatola è originario di Campobello di Mazara e non ha conti con la giustizia da regolare. Ha qualcosa di più importante da difendere: la vita. I suoi vecchi amici sospettano che abbia fatto sparire un carico di cocaina, lo cercano per ucciderlo. Comincia a svelare particolari dell’omicidio di un sindaco a Castelvetrano, degli interessi economici dei Madonia di Palermo nel trapanese, del delitto di un siriano a Milano. Paolo Borsellino lo studia, capisce che sta dicendo la verità.
Ha grande esperienza il procuratore. Ma Spatola è un tipo stravagante, non sembra il classico mafioso, veste vistoso, è chiacchierone, molto esuberante. Con lui, il procuratore di Marsala stabilisce un rapporto ravvicinato ma sempre dentro le regole. Appena si accorge che Spatola fa le bizze, ne approfitta, Borsellino lo fa rinchiudere in un carcere. Quando esce, un mese dopo, il pentito elenca a Borsellino alcuni nomi di uomini politici invischiati in faccende di mafia.
Soprattutto gliene fa uno: Calogero Mannino.
È uno degli uomini più potenti della Sicilia. Enfant prodige della Democrazia Cristiana agrigentina, in quel 1989 Mannino è la stella del partito nell’isola. Dicono che, forse, è ancora più potente di Salvo Lima. È il padrone dei voti, nella Sicilia occidentale e in quella orientale. È uno degli uomini voluti dal segretario nazionale della Dc Ciriaco De Mita per portare avanti il «rinnovamento» al Sud, è ministro della Repubblica, uno che conta molto anche a Roma. Il pentito Spatola racconta a Borsellino che i mafiosi lo chiamano confidenzialmente Caliddu. Nella suggestione di questo nomignolo, Caliddu, qualcuno imbastisce un’operazione per «azzoppare» o avvertire – non si è mai capito – l’interessato, il ministro Mannino.
La notizia del coinvolgimento di Calogero Mannino in un’inchiesta di mafia finisce sulle prime pagine dei giornali a tempo di record.
Non è l’indagine del procuratore Borsellino, è una parallela aperta a sua insaputa da un magistrato di Trapani che ascolta Rosario Spatola senza informarne lui, titolare del caso, il procuratore di Marsala. Con nomi e cognomi gettati in pasto all’opinione pubblica ancor prima di far partire una verifica o un riscontro.
Paolo Borsellino sospetta una trappola. Frena, procede con prudenza, prova a districarsi da una polemica dove altri lo vogliono trascinare a ogni costo. Una cautela – altra lezione appresa negli anni del pool a Palermo – che però in questo caso rischia di travolgerlo. Qualcuno insinua perfino che intenda «insabbiare» l’inchiesta su Calogero Mannino e gli altri personaggi politici. Fanno girare la falsa voce che per lui «è pronto un seggio al Senato» nelle liste socialiste. Prima gli «bruciano» l’inchiesta e poi tentano di sputtanarlo. Come uno che si è venduto al potere.
Non perde la calma. Fa la sua indagine. Anni dopo sarà ripescata anche dalla procura palermitana di Gian Carlo Caselli che mette sotto accusa il ministro per concorso esterno in associazione mafiosa. Assolto in primo grado, condannato in Appello, Calogero Mannino sarà definitivamente scagionato dalla Cassazione.
Giovanni Falcone e l’idea della “Superprocura” antimafia
Giovanni Falcone lancia l’idea di una Superprocura, un organismo di coordinamento di tutti i pubblici ministeri antimafia. Pensa anche alla Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, una polizia sul modello americano del Federal Bureau of Investigation. Paolo Borsellino, per la prima volta dopo tanti anni, non è d’accordo con il suo vecchio amico.
È il gennaio del 1991. Sono settimane di grande fermento. Il suo amico Falcone sta per lasciare la Sicilia e trasferirsi a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia.
Giovanni Falcone lancia l’idea di una Superprocura, un organismo di coordinamento di tutti i pubblici ministeri antimafia.
Pensa anche alla Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, una polizia sul modello americano del Federal Bureau of Investigation.
Paolo Borsellino, per la prima volta dopo tanti anni, non è d’accordo con il suo vecchio amico. La Superprocura gli sembra un organismo «pericoloso», troppo potere concentrato in una sola struttura per indagini da sviluppare non solo in Sicilia ma in tutta Italia e nel mondo. Borsellino ha molti dubbi. Ne parla privatamente con Giovanni Falcone. Discutono per settimane.
Falcone non riesce a convincere nessuno. Neanche Paolo. Quando il dibattito sulla Superprocura diventa pubblico 63 magistrati italiani firmano un documento contro il decreto Martelli che istituisce la Procura nazionale antimafia. Ci sono i nomi degli amici di una vita e di quasi tutti i colleghi che stimano Falcone, che l’hanno sempre sostenuto.
Firmano Armando Spataro e Mario Almerighi, Gian Carlo Caselli e Roberto Scarpinato, Gerardo D’Ambrosio e Giuliano Turone. Firma anche Paolo Borsellino.
La Superprocura passa. E negli uffici giudiziari sedi di Corte di Appello vengono istituite le procure «distrettuali», le sole che d’ora in poi saranno titolate a condurre inchieste antimafia. Procure come quelle di Marsala non potranno più indagare sui boss ma trasferire gli atti a Palermo.
«Che ci faccio io qui?», si sfoga Borsellino con i giudici del pool di Palermo.
Si muove tutto velocemente fra la fine del 1991 e l’inizio del 1992. Nei piani del ministro della Giustizia Claudio Martelli, il giudice Falcone è destinato alla Superprocura. Se Borsellino torna a Palermo potrebbe diventare il suo punto di riferimento per la mafia siciliana.
E la “picciridda” Rita Atria consegna la sua vita al procuratore
Rita è una ragazzina di diciassette anni. Lei e Piera Aiello spezzano il vincolo di omertà della famiglia. Paolo Borsellino le ascolta. Rita è fragilissima, per raccontare il mondo mafioso ha dovuto abbandonare tutto. Famiglia, amici, fidanzato. Vengono allontanate dal loro paese, Borsellino sente ogni giorno Rita, appena può la va trovare.
Con Rosario Spatola, c’è qualcun altro che decide di vuotare il sacco. È Giacoma Filippello, la donna di Natale L’Ala, il boss di Campobello. Lo vede morire e consuma la sua vendetta raccontando tutto quello che sa a Paolo Borsellino.
Un anno dopo, sono due donne che si presentano al procuratore capo della repubblica di Marsala. Sono cognate. Piera Aiello e Rita Atria. Sono tutte e due di Partanna, in fondo alla provincia di Trapani. Piera è la moglie di Nicola Atria, un mafioso ucciso dai boss rivali. Anche il padre di Nicola – Vito – è morto ammazzato tanto tempo prima. Rita è figlia di una vittima e sorella dell’altra.
È una ragazzina di diciassette anni. Lei e Piera spezzano il vincolo di omertà della famiglia. Paolo Borsellino le ascolta.
Rita è fragilissima, per raccontare il mondo mafioso ha dovuto abbandonare tutto. Famiglia, amici, fidanzato. Vengono allontanate dal loro paese, Borsellino sente ogni giorno Rita, appena può la va trovare.
Una settimana dopo il 19 luglio 1992 Rita Atria, una «picciridda» che aveva creduto nello Stato, decide che non ha più senso vivere. Si lancia dal settimo piano di un palazzo di Roma, sulla Tuscolana, dove è nascosta.
Si pente con Paolo Borsellino anche Vincenzo Calcara, uomo d’onore della famiglia di Castelvetrano. Il procuratore lo incontra nel carcere di Favignana. Il mafioso lo abbraccia e gli dice: «Mi avevano incaricato di ucciderla. Con un fucile di precisione». Se non avesse trovato lui, Calcara aveva l’ordine di far fuori uno dei suoi «ragazzi» di Marsala, uno dei giovani sostituti al suo fianco.
Paolo Borsellino chiama il ministero e fa assegnare la scorta a tutti. Vuole dare subito la sua blindata ad Antonio Ingroia, quello che si muove più per le indagini, che si sposta, viaggia. Ingroia è il più esposto. Anche Marsala adesso è come Palermo. Un fortino assediato.
«Mi piacerebbe conoscere Borsellino», mi dice Giorgio Bocca. Dopo qualche giorno è in Sicilia. Alloggia in una bella stanza sul mare di Villa Igiea, un pomeriggio un taxi lo porta in pochi minuti a casa del procuratore. Stanno insieme per quattro ore. Bocca ne rimane incantato. Mi racconta tutto a cena. Entriamo in un ristorante di Mondello e mentre ci avviciniamo al tavolo, qualcuno mi ferma. Ufficialmente lo spione è in polizia, ma tutti in città sanno che lavora per i «servizi».
Saluta e lancia il suo avvertimento: «Ne avevano cose da dirsi oggi il giudice Borsellino e il dottor Bocca eh…». Sapeva già dell’incontro. Tenevano d’occhio lui o il procuratore. O tutti e due insieme. Glielo racconto. Lo ricorderà anche nel libro che sta scrivendo, L’Inferno, che uscirà un anno dopo. Come scriverà anche quello che mi dice quella sera a cena, fra un polpo bollito e i ricci di mare.
«Paolo Borsellino è uno che non parla l’italiano del potere ma dei provinciali che l’hanno studiato come una lingua straniera e ne hanno fatto qualcosa di essenziale, di scarno, con pochi aggettivi e nessuno eclatante, un italiano che va dritto al cuore delle cose con evidente fastidio per i ghirigori e i salamelecchi»
Sono passati appena quattro giorni dalla morte di Salvo Lima e un nuovo inquietante messaggio scuote i Palazzi. Questa volta arriva dagli uffici del Viminale.
È un telegramma inviato dal capo della Polizia, Vincenzo Parisi, a prefetti e questori, comandanti dei Carabinieri e della Guardia di Finanza per segnalare il rischio di una campagna terroristica in grande stile che punterebbe all’eliminazione di politici di primo piano dei maggiori partiti.
L’allarme, che fa riferimento a documenti e telefonate anonime, parla di “eventi omicidiari” e “strategie destabilizzanti che in breve tempo potrebbero insanguinare il Paese”.
Il capo della Polizia teme stragi. Fra i personaggi a rischio vengono indicati il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, i ministri siciliani Calogero Mannino, Carlo Vizzini e Salvò Andò, il ministro della Giustizia Claudio Martelli.
Ma il suo avvertimento cade nel vuoto.
«È lo scherzo di un pataccaro», si precipita a dichiarare il capo del governo Andreotti. Anche il presidente della Repubblica Cossiga ridimensiona il pericolo.
Alcuni degli uomini politici nel mirino della mafia siciliana però hanno paura. Vogliono salvarsi la pelle. E, dopo l’omicidio di Salvo Lima, sanno bene che potrebbe toccare a loro.
Così incaricano uomini di fiducia dei servizi segreti e dei reparti investigativi di agganciare i boss per fermare i sicari.
È il principio di quella che – si scoprirà solo molti anni dopo – diventerà la prima trattativa fra Stato e mafia. Un patto che non cerca la mafia ma che vuole lo Stato.
Allarme ai piani alti. Dopo l’omicidio di Salvo Lima, a Roma tremano
Il cratere di Capaci e l’amico Giovanni Falcone che non c’è più
«Non sarà la mafia ad uccidermi», le ultime parole sussurrate alla moglie
Paolo Borsellino torna a Palermo. È carico di pensieri neri. E ha paura. La «cantata» di Mutolo è solo all’inizio. Ha tanti altri nomi da fare. Tutti importanti. Avvocati. Alti magistrati. Commercialisti. Uomini politici. Altri poliziotti. Medici. Notai. Imprenditori. Tutta la Palermo che conta, la Palermo più insospettabile. Di giorno Borsellino legge e rilegge i verbali del pentito e di notte – chiuso nel suo studio di casa, in via Cilea – riempie la sua agenda rossa.
E mentre lui entra in un gorgo di solitudine e di terrore per la sua famiglia che lascerà – è sicuro di morire Paolo Borsellino, ormai è certo che da un momento all’altro lo ammazzeranno – a Palermo accade qualcosa di definitivo.
È la mattina del 10 luglio. La signora Pietrina Valenti entra nella stazione dei carabinieri «Oreto» per denunciare il furto della sua Fiat 126 color amaranto, parcheggiata in una stradina della borgata della Guadagna. Non è un furto qualsiasi.
Quell’auto serve a qualcuno per imbottirla di esplosivo e fare una strage.
«È arrivato il tritolo per me», dice Paolo Borsellino ai pochi amici che gli sono rimasti in Procura.
Il 14 luglio c’è «Il Festino», è Santa Rosalia patrona di Palermo, la Santuzza quest’anno è tutta per Giovanni Falcone e Francesca Morvillo assassinati a Capaci.
È venerdì 17 luglio. Paolo Borsellino è ancora a Roma per interrogare Gaspare Mutolo. Di sera torna a Palermo, poi va a Villagrazia di Carini dove – in una casetta in riva al mare – Agnese e i suoi figli si sono trasferiti da alcuni giorni. Una notte agitatissima, di incubi. Paolo Borsellino è segnato. La mattina del 18 luglio prende per mano Agnese, percorrono da soli un viottolo e scendono fino al mare. Una passeggiata sulla spiaggia, senza la scorta. Non c’è nessuno. Camminano in silenzio per qualche minuto, le prime barche cariche di pesce stanno tornando a riva. Borsellino e sua moglie sono lì, incantati, a guardarle. Poi un altro lungo silenzio. E finalmente il magistrato parla. Dice ad Agnese: «Non sarà la mafia ad uccidermi ma saranno altri. E questo accadrà perché c’è qualcuno che lo permetterà. E fra quel qualcuno, ci sono anche miei colleghi…».
Agnese è senza fiato. Si copre il viso con le mani e scoppia in un pianto. Paolo Borsellino è venuto a sapere della trattativa fra Stato e mafia. Il giorno dopo, di pomeriggio, qualcuno vede uscire il procuratore dalla casa di Villagrazia di Carini, lo segue a distanza. Qualcun altro tiene sotto controllo i telefoni nell’appartamento della madre. I mafiosi sanno che Paolo Borsellino sta per arrivare lì, in via Mariano D’Amelio, alle 17 di domenica 19 luglio.
La “cantata” di Gaspare Mutolo sul super-poliziotto Bruno Contrada
In quei giorni Totò Riina sta stilando un «papello» da sottoporre allo Stato, una serie di richieste – l’abolizione del carcere duro, la modifica della legge sui pentiti, nuove norme sulla confisca dei beni – per fermare le stragi.
Borsellino non lo sa ancora. Ma altri uomini dello Stato stanno scendendo a patti.
In procura arriva una segnalazione su un possibile attentato contro di lui. Non gli dicono niente. Va ad ascoltare un nuovo pentito, Leonardo Messina. Decide di collaborare con la giustizia anche Gaspare Mutolo, il mafioso che nel dicembre precedente aveva chiesto di parlare con Giovanni Falcone.
«Mi pento ma mi fido solo di Borsellino», fa sapere questa volta Mutolo.
Il procuratore capo Piero Giammanco gli spedisce un altro magistrato. L’aspirante pentito fa scena muta. Borsellino, di ritorno dalla Germania per una rogatoria, va su tutte le furie.
Il 1 luglio è anche lui a Roma – con il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò – per ascoltare Gaspare Mutolo.§Il mafioso annuncia subito a Borsellino che ha «delle cose importanti da dire» su «esponenti delle istituzioni che sono collusi». Si avvicina a Borsellino e gli bisbiglia un nome all’orecchio: «Il dottore Contrada…».
È il poliziotto più famoso di Palermo. Ex capo della squadra mobile della città ed ex capo della Criminalpol della Sicilia occidentale, Bruno Contrada in quel luglio del 1992 è il numero tre del Sisde, il servizio segreto civile. E ha anche un incarico operativo all’Alto Commissariato antimafia. Paolo Borsellino ascolta e comincia a verbalizzare. Gaspare Mutolo è un fiume in piena, ha una memoria di ferro, ricorda tutto. Va avanti per più di due ore e mezzo fino a quando, alle 17.40, sul cellulare del procuratore arriva una telefonata. È il Viminale. Un funzionario comunica a Borsellino che il nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino – nominato proprio quel 1 luglio – lo vuole incontrare.
Il magistrato chiude il verbale e dà appuntamento a Mutolo per le 19.
Un’auto blindata porta lui e Vittorio Aliquò a tutta velocità nel centro di Roma, al Viminale. Neanche venti minuti dopo entrano nella stanza di Mancino. Una brevissima chiacchierata, i soliti convenevoli per l’insediamento di un nuovo ministro. Mancino non ricorderà mai, in futuro, di avere incontrato quel giorno Paolo Borsellino. Nemmeno quando glielo chiederanno i procuratori: «Quel giorno ho visto tanta gente…», risponde. Quando esce dalla stanza del ministro, Borsellino incrocia il capo della polizia Vincenzo Parisi. Lui sa che Borsellino è a Roma per interrogare Mutolo. Alle spalle di Parisi c’è un uomo, Bruno Contrada, lo stesso funzionario indicato qualche ora prima dal pentito di Palermo come «colluso». Glielo aveva appena detto Mutolo: «Il dottore Contrada…». Paolo Borsellino torna dal pentito Mutolo. Quello ricomincia a parlare.
Dopo mezz’ora, quattro pagine di verbale sono piene del racconto di Gaspare Mutolo sul poliziotto più famoso della Sicilia.
L’ultimo discorso pubblico a Palermo è il suo testamento
Così Paolo Borsellino va da solo incontro alla morte. Da solo.
In un incontro pubblico a Roma il ministro degli Interni, Vincenzo Scotti, lo candida alla carica di Superprocuratore. Dice di parlare anche a nome del ministro della Giustizia Claudio Martelli. Paolo Borsellino è frastornato. Non gli hanno comunicato niente, prima. Lo sta sapendo solo ora, in diretta, alla presentazione di un libro. Borsellino pensa che Falcone sia stato ucciso anche perchè stava per diventare Superprocuratore. E, adesso, indicano lui per quell’incarico.
Comincia il mese di giugno. Comincia anche il conto alla rovescia. Gli agenti della scorta di Borsellino segnalano mancanza di protezione in via D’Amelio, dove il procuratore va a trovare l’anziana madre. «Non si possono lasciare parcheggiate tutte quelle auto nella strada: è troppo pericoloso», dicono i poliziotti.
Il questore Vito Plantone e il prefetto Mario Iovine non si muovono. Il 20 giugno il socialista Giuliano Amato è il nuovo capo del governo.
La mattina del 25 giugno il procuratore Paolo Borsellino viene a sapere che alcuni ufficiali dei reparti speciali dei carabinieri stanno incontrando l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. È un’altra trattativa fra pezzi dello Stato e i Corleonesi. Cercano Totò Riina e chiedono aiuto a don Vito. In cambio di che cosa?
Contro ogni patto da sempre, Paolo Borsellino è turbato. La sera del 25 giugno Paolo Borsellino parla in pubblico per l’ultima volta. È un dibattito organizzato dalla rivista «Micromega» nella biblioteca comunale di Casa Professa. L’atrio è stracolmo. Paolo Borsellino arriva con qualche minuto di ritardo. Non ha niente di scritto. Parla con il cuore e a braccio. Intorno a lui ci sono l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Nando dalla Chiesa, l’avvocato Alfredo Galasso e Tano Grasso, il leader dei commercianti di Capo d’Orlando che si sono ribellati al racket.
E una Palermo sfregiata dal dolore. Paolo Borsellino ricorda l’amico Falcone e «il giuda che si impegnò a prenderlo in giro», ricostruisce i due fatti che secondo lui hanno segnato il percorso tormentato di Giovanni Falcone: la scelta di avergli preferito il consigliere Meli e la polemica sui «Professionisti dell’Antimafia».
È il testamento di Paolo Borsellino.
Una corsa contro il tempo, Paolo Borsellino sempre più isolato approfondito con un nuovo contenuto al giorno in
Il giorno dopo Paolo Borsellino chiama il nuovo procuratore di Caltanissetta. Gli fa sapere che è pronto ad affiancarlo, a collaborare subito per raccontargli tutto quello che ha saputo dal suo amico Falcone.
Gli dice anche che ha informato il Csm della sua disponibilità per un trasferimento a Caltanissetta: vuole buttarsi a capofitto, con un ruolo istituzionalmente riconosciuto, nell’inchiesta su Capaci. Anche nel dolore è pronto ad andare avanti. Indagare per rendere giustizia a Giovanni Falcone.
Passano pochi giorni e qualcuno dal Consiglio Superiore della Magistratura – presidente è Giovanni Galloni – comunica «amichevolmente» a Paolo Borsellino «l’inopportunità di una sua partecipazione alle indagini per il suo coinvolgimento emotivo». Il procuratore resta di sasso. Non ne parla con nessuno.
A Caltanissetta vengono inviati intanto alcuni sostituti procuratori da Catania e Messina, magistrati che non conoscono quasi niente di Cosa Nostra.
Borsellino è avvilito. E mette in fila cattivi pensieri: il Consiglio superiore che non lo vuole trasferire a Caltanissetta è lo stesso che, qualche settimana prima, si è violentemente opposto alla nomina di Falcone al vertice della Superprocura.
Paolo Borsellino capisce che nemmeno la strage di Capaci è servita a qualcosa.
Da alcuni giorni è sempre impegnato a riempire i fogli di un’agenda.
È di colore rosso, con lo stemma dell’Arma dei carabinieri in copertina. Lì dentro, probabilmente, ci sono tutti i segreti della morte di Giovanni Falcone. E anche altro.
Borsellino annota tutto. Incontri. Telefonate. Ordini che riceve dal suo capo Giammanco. Segna data e ora di ogni appuntamento con ufficiali dei carabinieri e funzionari del ministero dell’Interno, con giornalisti e avvocati. Meticoloso, riporta ogni particolare. Vorrebbe urlare al mondo quello che sa, ma aspetta.
Aspetta che i magistrati di Caltanissetta lo convochino per ascoltarlo. Un interrogatorio formale, vero, e non quelle due battute al volo scambiate nei corridoi. Aspetta una settimana. Aspetta due settimane. Aspetta inutilmente. Nessun magistrato di Caltanissetta si fa vivo.
Il testimone chiave della strage di Capaci, l’uomo più vicino a Falcone negli ultimi dieci anni, il depositario dei suoi segreti, il suo erede non sarà mai interrogato dai magistrati titolari delle indagini su Capaci.
Perché?
Il boato, il fumo nero, le auto distrutte. Ecco l’inferno di via D’Amelio
Alle 16.58 e 20 secondi il procuratore salta in aria con i cinque poliziotti della sua scorta. I resti di Emanuela Loi, pezzi di carne insanguinata, finiscono appiccicati al quinto piano sulla parete dell’edificio. Morti anche Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.
Le due auto blindate del magistrato imboccano via Sampolo, proseguono in via Ammiraglio Rizzo e svoltano a tutta velocità su via Mariano D’Amelio. Giuseppe Graviano aspetta che le due macchine si fermino davanti al palazzo. Poi schiaccia il pulsante.Alle 16.58 e 20 secondi il procuratore salta in aria con i cinque poliziotti della sua scorta. I resti di Emanuela Loi, pezzi di carne insanguinata, finiscono appiccicati al quinto piano sulla parete dell’edificio. Morti anche Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.
La prima notizia Ansa viene battuta alle 17.16: «Un attentato dinamitardo è avvenuto a Palermo nei pressi della Fiera del Mediterraneo. Vengono richieste ambulanze da tutti gli ospedali. Secondo le prime indicazioni della polizia, sembra che sia rimasto coinvolto nell’attentato un magistrato»
La seconda Ansa è delle 17,47: «Secondo le prime notizie fornite dalla polizia, nell’attentato di Palermo sarebbe rimasto ferito il giudice Paolo Borsellino».
La terza esce alle 18.14: «Il giudice Paolo Borsellino è rimasto ucciso nell’attentato».
Fumo, urla, fiamme, sirene, terrore. Cinquantasei giorni dopo Capaci, hanno ammazzato anche Paolo Borsellino.
Tornano i ministri a Palermo. Tornano anche le rivendicazioni della Falange Armata.
La zona dell’attentato non viene recintata. Una folla di curiosi avanza fra i rottami delle due auto blindate e i copertoni che ancora bruciano. C’è qualcuno che prende in mano un parafango, chi rovista fra i sedili delle auto, chi calpesta la carcassa della Croma del magistrato. Non c’è protezione della scena del crimine.
Fra i resti delle auto blindate si aggirano centinaia di uomini. In divisa e in borghese. Ci sono magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, avvocati, tantissimi palermitani attirati dal fuoco.
Nello scompiglio c’è però qualcuno che si muove con freddezza. Sa che deve trovare qualcosa lì in mezzo: la borsa di cuoio di Paolo Borsellino. E un’agenda rossa. Un’agenda di pelle con lo stemma dell’Arma dei carabinieri stampato sulla copertina.
C’è un uomo che apre il portabagagli della Croma del magistrato, la blindatura ha risparmiato tutto quello che si trovava al suo interno. La borsa di Paolo Borsellino è intatta. Passa di mano in mano, poi finisce in quelle di un capitano dei carabinieri e ancora in quelle di qualcun altro. Alla fine sparisce. L’agenda dove Borsellino segnava ogni suo pensiero dal giorno della morte di Giovanni Falcone, è ormai al sicuro. Nelle mani di chi non vuole fare sapere certi segreti.
La borsa di cuoio viene subito consegnata ai familiari di Paolo Borsellino. Non manca niente. Sigarette. Fogli di interrogatorio. Oggetti personali. C’è tutto tranne quell’agenda rossa.
Una strage senza verità, falsi pentiti e “assassini” innocenti
Testi tratti da
di Attilio Bolzoni
Un giudice nel mirino, così Cosa Nostra ha trovato il suo bersaglio
La mafia di Palermo ha individuato il suo obiettivo. In procura, per una volta sono tutti uniti. Il pubblico ministero Vincenzo Geraci chiede tre ergastoli. Il processo sembra segnato. La sentenza è vicina.
Ma non è così. Una mattina, il presidente della Corte di Assise Carlo Aiello ordina la sospensione del dibattimento.
Il pretesto è una macchia. Una macchia bianca ritrovata su uno stivale di cuoio nero di Giuseppe Madonia e mai esaminata
dai periti. Da dove viene? Cos’è? Perché nessuno l’ha mai notata prima?
Un processo che si sta avviando verso la conclusione viene fermato. Tutti gli atti tornano al giudice istruttore. A Paolo Borsellino.
Deve ordinare una perizia su quella macchia bianca. È una manna che cade dal cielo per i tre killer.
La «prova del fango», come viene definita con evidente allusione dai palermitani, dura quindici mesi.
La perizia non accerta niente. È servita solo a prendere tempo.
Il processo riprende in un clima di terrore. Minacciano altri avvocati. I giudici popolari tremano. E intanto il presidente della prima Corte di Assise cambia. Non è più Carlo Aiello ma Salvatore Curti Giardina. È un anonimo magistrato che ha fatto una carriera silenziosa nei Palazzi di Giustizia di mezza Sicilia, fino a quando arriva a Palermo e si ritrova difronte ai tre killer di Emanuele Basile.
Il processo che a qualunque costo non si doveva celebrare, è un’altra volta alla vigilia del verdetto. Sembra scontato. Condanne. Ergastoli.
Il 31 marzo del 1983, nemmeno tre anni dopo l’uccisione del capitano, gli imputati vengono assolti. Tutti per insufficienza di
prove. I testimoni non vengono creduti, le prove spazzate via.
Clamorose le motivazioni del presidente della Corte: «Paradossalmente bisogna concludere, quindi, che meno problematico, se non addirittura certo, sarebbe stato il convincimento di colpevolezza di questa Corte in presenza di un più ristretto numero di indizi».
Troppi indizi per una condanna.
Così, il presidente Salvatore Curti Giardina ordina «l’immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa» di Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia. Gli avvocati difensori sono euforici: «Per fortuna ci sono ancora magistrati coraggiosi».
I carabinieri si sfogano: «Qui a Palermo succedono cose molto gravi, ora sappiamo che non possiamo contare sull’appoggio di altre forze dello Stato».
Il giudice Paolo Borsellino è annichilito.
La sua istruttoria è stata demolita con cavilli e mosse fraudolente. L’assoluzione lo lascia ancora più solo, indifeso. Nel mirino.
Il giorno dopo la sentenza, firma un’ordinanza di «accompagnamento coatto» degli imputati del processo Basile in tre comuni della Sardegna. Al soggiorno obbligato. Ci stanno due settimane. Poi fuggono indisturbati su grossi motoscafi d’altura.
Tornano a Palermo. Per uccidere. È la prima volta che Paolo Borsellino ha veramente paura. Per sé e per la sua famiglia. Nella sua casa di via Cilea quei nomi – Bonanno, Madonia, Puccio – si ripetono sottovoce ogni giorno. Sono fuori. Sono «innocenti» e pronti a sparare ancora.
La bomba annunciata del 19 luglio
C’è l’attentato del 19 luglio 1992, ci sono i sicari di Cosa Nostra e quegli uomini “in giacca e cravatta” che si materializzano in via Mariano D’Amelio poco dopo l’esplosione. Ci sono montagne di atti processuali ma non c’è ancora una piena verità su chi ha voluto morto Paolo Borsellino.
Una sentenza di Corte d’Assise definisce l’inchiesta sull’uccisione del procuratore “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, il caso però non è chiuso e forse solo la storia ci dirà cosa è accaduto a Palermo in quell’estate.
A trent’anni dalla strage in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta – Agostino Catalano, Eddie Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Emanuela Loi – qualcosa di oscuro affiora dal passato e fa molta paura. Perché coinvolti nel massacro ci sono “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”, gli stessi che hanno indotto il “pupo” Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni accusando innocenti, quelli che hanno fatto sparire l’agenda rossa del magistrato, quelli che in più momenti hanno tentato in tutti i modi di sviare le indagini.
E poi quei cinquantasette giorni che separano il 23 maggio dal 19 luglio.
Il procuratore Paolo Borsellino mai ascoltato come testimone dai suoi colleghi di Caltanissetta, i titolari dell’inchiesta sul massacro di Capaci. L’isolamento subito da Borsellino dentro la procura di Palermo guidata da Pietro Giammanco, le indagini affidate “irritualmente” dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra ai servizi segreti, in particolare a Bruno Contrada che appena qualche mese dopo sarà accusato di connivenza con i boss. UOMINI SOLI di Attilio Bolzoni