Il giudice chiude un occhio sul suo avvocato?

Roberto Greco IL RIFORMISTA 14.8.2022

 

“La fiducia è una cosa seria e si da alle cose serie”. Queste parole arrivano dalla pubblicità, per la precisione da un Carosello del lontano 1973, di un’azienda produttrice di latte e suoi derivati. Questa frase, non la fiducia, andrebbe prescritta come sistema di prevenzione o vaccino e distribuita generosamente a tutti, con una posologia particolare: da leggere, memorizzare e applicare ogniqualvolta la si dimentica. La fiducia, invece, non c’è dubbio che sia una cosa seria e che non tutti la meritino.

Ovviamente in qualsiasi ambiente di lavoro i rapporti tra colleghi sono soggetti a dinamiche, a volte, molto esasperate o, per contro, si basano su consolidati rapporti di stima e fiducia. Il primo che non divide i suoi colleghi di lavoro nel terrificante elenco “buoni-cattivi” alzi la mano. È quindi normale che anche all’interno di una Procura, ma anche di un’azienda commerciale o manifatturiera, si instaurino rapporti di fiducia, competizioni, invidie, passioni, atteggiamenti camerateschi e, forse, sudditanze. Tutto ciò, però, non deve e non può influire sul lavoro dei singoli e, soprattutto, condizionarlo.

Mi è capitato di leggere, nei giorni scorsi, alcuni commenti relativi alla sentenza del processo “Bagarella e altri”, il c.d. “processo trattativa”. Diverse persone lamentano che una sorta di guanto di velluto abbia vestito le mani del dottor Angelo Pellino (il magistrato che ha presieduto la Corte nel processo), tutte le volte che, in sentenza, tratta dell’operato dei magistrati. Qualcun altro, invece, sostiene che abbia sposato le tesi dei suoi colleghi, titolari dell’indagine “mafia-appalti” cui fu assegnata, che la definirono in diverse occasioni “robetta”, “cosa da quattro colletti bianchi siciliani” o ancora una “minestra risciacquata”.

Altri ancora, invece, sostengono che non abbia ben sviscerato le problematiche relative al “nido di vipere”. Durante il procedimento di primo grado del processo “Bagarella e altri”, Massimo Russo, che negli anni novanta era un giovane magistrato, dichiarò che, un mese prima di morire, Paolo Borsellino «appariva come trasfigurato, senza più sorrisi. Era provato, appesantito, piegato». Da poche settimane la mafia aveva ucciso il suo amico Giovanni Falcone e lui continuava a lavorare nel suo ufficio di procuratore aggiunto a Palermo, che però considerava – riporta sempre Russo – «un nido di vipere».

Questa dichiarazione si lega a quella di Alessandra Camassa alla quale Borsellino confidò di essere stato “tradito” da un amico: «Paolo si distese sul divano che c’era nella stanza e cominciò a lacrimare in modo evidente dicendo “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”». Chi fosse quell’amico i due giovani magistrati non lo chiesero. Peraltro non è possibile dimenticare i sospetti che lo stesso Paolo Borsellino il giorno prima dell’attentato aveva confidato alla moglie Agnese, quando le disse «che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse».

E di tutto ciò, in realtà, non si legge nella sentenza ma si legge invece: «il dott. BORSELLINO non mancò di esprimere perplessità sull’impostazione generale e sull’indirizzo impresso dalla Procura di Palermo (cfr. PATRONAGGIO e GOZZO), e platealmente formulò l’auspicio che dalle rivelazioni di un nuovo pentito potessero venire elementi utili per ulteriori e più fecondi sviluppi (cfr. ancora GOZZO e SABBATINO). Insomma, tenne un atteggiamento che non tradiva affatto sfiducia e diffidenza nei confronti dell’operato dei colleghi titolari del procedimento, ma, al contrario denotava la volontà di aprire un confronto sincero sul tema in discussione, come aperte e trasparenti furono le critiche e le perplessità e le richieste di chiarimenti esternate in quella sede».

Inoltre, per tornare alla fiducia, dalla lettura delle audizioni effettuate dal Csm nei giorni 28, 29, 30 e 31 luglio 1992 ai magistrati allora applicati alla procura di Palermo che in parte la stessa sentenza cita, appare in effetti un non edificante panorama della Procura palermitana sia in termini di rapporti interpersonali sia di secreti. Ma, come dicevamo poc’anzi, all’interno di qualsiasi ambiente di lavoro queste cose succedono e, proprio per questo, le persone su cui si ripone fiducia ci accompagnano nel nostro lungo cammino e, alla fine, si consolidano rapporti di amicizia. C’è da dire che, al di là delle critiche che gli vengono rivolte, il dottor Angelo Pellino è una magistrato di grande esperienza. Non possiamo dimenticare la sua sentenza di primo grado relativa al processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, le cui motivazioni contavano oltre 3000 pagine, e a ciò si aggiunge la profonda conoscenza della Procura di Palermo e dei magistrati che ci hanno lavorato.

E qui torna in ballo la fiducia che si accompagna alla stima. Che sia chiaro: chi siamo noi per capire realmente il rapporto che c’era all’interno di quella Procura, i rapporti di fiducia, l’affiatamento e l’intesa che, negli anni, si sono creati tra colleghi in un ambiente di lavoro che non è il nostro? A dimostrazione che la fiducia è una cosa seria e che la si da alle persone serie, quando, il 22 settembre 2000, il dottor Angelo Pellino fu oggetto del procedi-mento disciplinare N. 44/2000 del Consiglio Superiore della Magistratura – che riguardava oltre a lui anche i dottori Ajello, Cavarretta, Provenzano, Scaduto, Serio e Tardìo – non ebbe dubbio alcuno nel nominare come difensore un suo pari del quale si fidava, tant’è che la scelta si indirizzò nei confronti del dottor Guido Lo Forte.

Si trattò di una banalità, di un fascicolo che non era al suo posto, banalità che però creò alcuni problemi nella decorrenza dei termini cautelari mettendo un Gip in difficoltà. Nulla di grave, ripetiamo, perché durante il dibattimento emerse che il dottor Pellino non aveva un assistente fisso e che, spesso, era costretto a chiederlo in prestito a qualche collega sia per gli interrogatori sia per le udienze, vista l’eccessiva mole del carico di lavoro che gli era affidato: quindi, un fascicolo fuori posto, rappresentava un’inezia che non lede minimamente né la sua persona tantomeno le sue qualità professionali.

Ma, al netto di quanto scritto fino a questo punto, una domanda sorge spontanea. Ma il giudizio sull’operato dei magistrati, ancorché positivo, può essere competenza del giudice naturale di un procedimento anche quando, per competenza, questo deve essere demandato a altra Procura?Nel caso specifico, si sarebbe dovuto trattare della Procura di Caltanissetta che, a trent’anni anni esatti all’archiviazione del dossier “Mafia-appalti” a Palermo, su cui aveva indagato il giudice Giovanni Falcone e su cui stava indagando il giudice Paolo Borsellino subito prima della sua morte, ha riaperto, per competenza, l’inchiesta. Si tratta di quel dossier che il dottor Giovanni Falcone chiese al Ros per concretizzare la sua linea investigativa denominata “follow the money” e determinare gli scellerati, questi sì, intrecci che sin dalla fine degli anni ’60 erano in essere tra mafie e imprenditoria, quindi capitale.

Il dossier fu presentato il 20 febbraio 1991 quando i Carabinieri del ROS depositarono presso la Procura della Repubblica di Palermo l’informativa denominata “mafia-appalti” e il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, fu presentata, nonostante il forte e acclarato interesse di Paolo Borsellino per lo sviluppo delle indagini, dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte (che è quello che difese Pellino davanti al Csm ) e Roberto Scarpinato, titolari del fascicolo, con il visto dell’allora Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, richiesta di archiviazione che verrà depositata il 22 luglio 1992 e accolta dal Gip il 14 agosto, ( poi si parla di lentezza della giustizia…!).

L’importanza del dossier “mafia-appalti” è tale che ben due sentenze di appello lo indicano come una delle cause della morte di Paolo Borsellino, quella del “Borsellino quater” e quella emessa dal giudice Pellino “Bagarella e altri” di cui abbiamo parlato in precedenza. È evidente che, come dicevamo in premessa, «la fiducia è una cosa seria e si da alle cose serie».

di Roberto Greco