23.8.2022 A ciascuno la sua trattativa: i tormenti dell’antimafia
Maria Falcone, il volto più gentile e cerimonioso dell’antimafia militante, ha scritto una nota dolente perché l’ex procuratore Pietro Grasso, miracolato da Pierluigi Bersani nel 2013, non è stato ricandidato al Senato della Repubblica. Ce ne faremo una ragione. A Grasso non è andata poi tanto male: per cinque anni è stato al vertice di Palazzo Madama; porta a casa le onorificenze che spettano legittimamente a chi ha ricoperto la seconda carica dello Stato e un ricco, ricchissimo vitalizio. What else?
La sorella di Giovanni Falcone, il giudice dilaniato nel maggio del ‘92 a Capaci dal tritolo mafioso, avrebbe potuto consolarsi con il turn over messo in moto in queste ore dal Movimento Cinque Stelle: esce da Palazzo Madama Pietro Grasso e al suo posto entrano due campioni dell’antimafia, altrettanto intrepidi e titolati. Il primo è Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo, già approdato nei libri di storia in uso nelle scuole elementari: negli anni delle stragi, mentre tutti cercavano i killer e i mandanti di Cosa Nostra, lui si inventò la boiata pazzesca della Trattativa, un teorema sconfessato dalla Corte d’Appello e anche dai supremi giudici della Cassazione, ma con il quale lui ha convissuto per tutta la vita, scrivendo articoli di fondo per il Fatto quotidiano e saggi di voluminoso spessore per Micromega. Il secondo campione convolato a nozze con il partito fondato da Beppe Grillo è Federico Cafiero De Raho, ex procuratore nazionale antimafia, come Pietro Grasso, che per oltre cinque anni ha annunciato la cattura prossima ventura di Matteo Messina Denaro, la grande primula rossa di Cosa Nostra, ma il risultato non è mai arrivato. Dettagli, comunque. Ai fanatici della materia i risultati non interessano. E non interessa nemmeno il merito. Preferiscono gli eroi che vanno a caccia di trame oscure e di regie occulte, che ipotizzano complotti e servizi deviati; e che soprattutto non nascondono l’ambizione di riscrivere la storia d’Italia, riducendo così la vita della Repubblica a un continuo patto scellerato tra la politica e le organizzazioni criminali.
Fino all’altro ieri eravamo convinti che la confraternita della Trattativa – pane quotidiano per trasmissioni televisive come “Report” di Sigfrido Ranucci o “Atlantide” di Andrea Purgatori – avesse una leadership compatta, unita e indissolubile. E che Roberto Scarpinato fosse il fraternissimo alleato di Nino Di Matteo che, da rappresentante dell’accusa nel processo celebrato dentro l’aula bunker dell’Ucciardone, ha toccato punte di popolarità talmente alte che gli hanno consentito di essere incoronato come membro togato del Consiglio superiore della Magistratura. Ma una dichiarazione di Antonio Ingroia – l’ex procuratore aggiunto di Palermo che imbastì l’inchiesta della Trattativa e arruolò come “nuova icona dell’antimafia” il pataccaro Massimo Ciancimino, figlio e ventriloquo di Don Vito, sindaco democristiano e complice dei sanguinari corleonesi di Totò Riina – ha scombinato all’improvviso tutte le carte del gioco.
A differenza del truce Luca Palamara, reliquiario vivente delle nefandezze inconfessabili della magistratura, il ringalluzzito Ingroia non ha chiesto a Scarpinato di chiarire i suoi rapporti di amicizia con Antonello Montante, un reuccio dell’antimafia dei dossier e degli affari. In compenso ha elencato, con acribia giurisprudenziale, i motivi per cui Di Matteo resta il solo eroe duro e puro dell’antimafia chiodata mentre Scarpinato, travolto dalla sua fascinazione verso il potere, ha contrattato la propria candidatura con Giuseppe Conte, capo dei Cinque Stelle: un movimento che, oltre ad avere approvato in parlamento l’orrenda riforma Cartabia, orrendamente impregnata di garantismo, si porta dietro la colpa di avere mantenuto al ministero della Giustizia quel Fofò Bonafede che, subito dopo le elezioni del 2018, chiamò Di Matteo per promettergli la potente direzione dell’Amministrazione penitenziaria ma il giorno dopo si pentì e assegnò l’incarico a un magistrato di profilo più opaco ma sicuramente privo della devastante vocazione di utilizzare il palcoscenico delle carceri per aumentare il proprio prestigio e alimentare la propria vanità.
La requisitoria di Ingroia – che non a caso si è già candidato con il partito comunista di Marco Rizzo e ha trascinato con sé nell’avventura elettorale Gina Lollobrigida, 95 anni, che lui assiste come avvocato – spiazza un altro santone della Confraternita dei Chiodati: Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo, saltato in aria con gli uomini della scorta, cinquanta giorni dopo la morte di Falcone, nell’attentato di via D’Amelio a Palermo.
Dalla tragedia delle stragi mafiose alla farsa del suo tormento elettorale il passo, per Salvatore Borsellino, è stato breve. Il giorno prima – come racconta lui stesso – raccoglieva le firme per aiutare Luigi De Magistris, altro campione delle porte girevoli tra magistratura e politica, a presentare la propria lista; ma “alle due di questa notte – ha confessato su Facebook – ho letto per la prima volta il rilancio di agenzia che dava notizia della candidatura di Roberto Scarpinato e la mia unica paura è stata a quel punto di svegliarmi stamattina e rendermi conto che si trattava solo di un sogno”.
Quando ha verificato che il sogno non era un incubo e nemmeno un abbaglio, Salvatore Borsellino ha mollato De Magistris e si è schierato, ipso facto, per Scarpinato la cui candidatura gli è sembrata, manco a dirlo, “estremamente coraggiosa”. Ora però, dopo la scomunica di Ingroia, è ripiombato nel dubbio più atroce. Lui, “il fratello del giudice Paolo” – che in nome della santissima inchiesta sulla Trattativa, non esitò ad abbracciare e baciare in una pubblica piazza il pataccaro Ciancimino – è stato un devoto di Nino Di Matteo. Lo ha difeso, adorato e consacrato come il migliore apostolo dell’antimafia. Gli ha persino conferito il dogma dell’infallibilità. Pensate che quando Fiammetta Borsellino, la più giovane figlia di Paolo, ha sollevato dei dubbi sul ruolo di Di Matteo, allora giovane pubblico ministero a Caltanissetta, nel depistaggio delle indagini su via D’Amelio, lui è andato su tutte le furie e ha invitato a mezzo stampa la nipote a chiedere scusa al magistrato e a non scalfirne per nessuna ragione il mito. Ora sarà costretto a scegliere: voterà per Ingroia che è rimasto fedele a Di Matteo o per Scarpinato che ha fatto la sua trattativa per un posto al Senato con il partito che ha prima illuso e poi tradito Di Matteo?
Mai l’antimafia ha avuto una coscienza così lacerata come in questa vigilia elettorale
BUTTANISSIMA.IT
17.8.2022 Quel dossier su mafia e appalti che torna sempre ma non dà nessuna risposta
- Quell’indagine, dopo le assoluzioni per la trattativa stato-mafia, è ridiventata “popolare”. Da più parti ritenuta fondamentale per decifrare i massacri dell’estate del 1992.
- Se la pista dei soldi, più di altre, è quella da seguire per capire chi ha voluto i massacri del 1992 non ci si può certo fermare al dossier del Ros dei carabinieri. Innanzitutto perché Falcone e Borsellino non erano tanto concentrati sulla spartizione dei lavori pubblici in Sicilia, quanto all’infiltrazione dei capitali di Cosa Nostra nell’economia italiana.
- La procura di Caltanissetta ha riesumato il dossier dopo tre decenni. Aperta ufficialmente un’inchiesta e interrogati i primi testimoni.
Si fa un gran parlare del dossier “Mafia e appalti”, un’inchiesta che per qualcuno sarebbe la vera causa dell’uccisione di Paolo Borsellino. Ipotesi molto azzardata e, negli ultimi tempi, anche molto di moda. Ma ormai sulle stragi si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto oltre la mafia non si scopre mai niente. Ci si muove al buio, a volte si abbocca al primo amo che viene calato. O, come nel caso del dossier “Mafia e appalti“, ricalato nel grande magma investigativo intorno alle bombe del 1992. È vecchio di trenta e passa anni, quasi mille pagine dove gli interessi dei boss si confondevano con quelli dei colossi italiani dell’edilizia, nomi sapientemente divulgati e nomi accuratamente occultati. «Un rapporto indiziario intorno al quale si può cominciare a lavorare», confidò a noi giornalisti il giudice Giovanni Falcone che lo considerava «un buon punto di partenza». Di partenza, non di arrivo.
Un documento controverso
Documento controverso, al centro di polemiche, di scontri feroci fra magistrati palermitani e apparati sfociati in indagini finite nel nulla. Tutti senza un torto e senza una ragione, vicenda sopita in una camera di decompressione giudiziaria di altro distretto.
Per i pubblici ministeri della procura di Palermo non c’erano elementi sufficienti per procedere penalmente contro alcuni personaggi dell’imprenditoria nazionale, per i carabinieri dei reparti speciali, il Ros – che quell’inchiesta l’avevano condotta – il rapporto è stato scientificamente insabbiato per salvare un sistema di corruzione che altrimenti avrebbe anticipato la stagione giudiziaria milanese di Tangentopoli.
Di sicuro il dossier “Mafia e appalti” non è mai morto. Torna, torna sempre. È come un fantasma che riappare, quando sfumano o si aggrovigliano altre piste alla ricerca di un movente sulla strage di via D’Amelio. È un feticcio agitato permanentemente dal Ros dell’allora colonnello Mario Mori, poi diventato direttore dei servizi segreti interni nel secondo governo Berlusconi, lo stesso ufficiale assolto nel processo sulla trattativa stato-mafia e regista della mancata perquisizione della villa di Totò Riina dopo la sua misteriosa cattura. Ora, questo dossier, è ridiventato “popolare”, da più parti ritenuto fondamentale per decifrare i massacri dell’estate del 1992.
Come lo era stata la famigerata trattativa fino al verdetto della corte di appello di Palermo che ha restituito l’innocenza a Mori & compagni, che pur avevano barattato qualcosa con la controparte per evitare altri spargimenti di sangue. Il dossier “Mafia e appalti” rilanciato come fattore che ha “accelerato” la decisione di far saltare in aria il procuratore, appena cinquantasei giorni dal cratere di Capaci.
Movente della strage
Ne è convinta Fiammetta Borsellino, una delle figlie del magistrato, insieme a Fabio Trizzino, il legale che ha rappresentato la famiglia nei processi sul grande depistaggio. Ne sono rimasti in qualche modo condizionati i giudici di Palermo che hanno assolto Mori, quando nelle loro motivazioni si spingono un po’ avventurosamente – perché la genesi di quel dossier non è mai stato oggetto del processo – a scrivere che «si ritiene che quell’input dato da Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione, possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto mafia e appalti».
Alla fine sono stati costretti a rioccuparsene anche i procuratori di Caltanissetta, quelli che indagano sulle stragi, che un paio di settimane fa hanno deciso di riesumarlo dopo tre decenni. Hanno ufficialmente aperto un’inchiesta e interrogato i primi testimoni. Tutto top secret o quasi.
Trattativa e mafia e appalti, sono stati a lungo i totem delle fazioni avverse dell’antimafia per “spiegare” le stragi. Schiere di fan di qua e di là, la maggior parte dei quali che non ha mai letto una sola pagina di una o dell’altra inchiesta, solo raffiche di like sui profili Facebook e qualche sproloquio.
Ridimensionata (o, se vogliamo, anche definitivamente cancellata) la vicenda della trattativa il campo investigativo adesso è occupato da “mafia e appalti”. E proprio come possibile movente dell’autobomba del 19 luglio. Movente – almeno questa è la mia opinione – riduttivo e anche fuorviante.
La pista dei soldi
Se la pista dei soldi, più di altre, è quella da seguire per capire chi voleva i massacri del 1992 non ci si può certo fermare al dossier del Ros. Innanzitutto perché Falcone e Borsellino non erano tanto concentrati sulla spartizione dei lavori pubblici in Sicilia (con il patto fra le cosche e le grandi aziende del Nord, comprese le coop rosse emiliano romagnole), quanto all’infiltrazione dei capitali di Cosa nostra nell’economia italiana.
Il dossier “Mafia e appalti” era solo uno dei passaggi, i due giudici guardavano oltre: avevano capito che Totò Riina – attraverso i fratelli Buscemi della famiglia mafiosa palermitana di Boccadifalco – era socio nella Calcestruzzi spa con Raul Gardini, uno dei più famosi capitani d’industria italiani.
Ci sono sentenze passate in giudicato che, al di là delle confessioni di pentiti come Angelo Siino, Leonardo Messina e Giovanni Brusca, certificano l’accordo fra i Corleonesi e il gruppo Ferruzzi rappresentato dal “Contadino”. Quel Raul Gardini che, la mattina del 23 luglio 1993, si sparò un colpo di Walther Ppk alla testa nella sua casa milanese di piazza Belgioioso alla vigilia di un suo possibile arresto per la maxi tangente Enimont. Dopo quasi trent’anni resta sempre il dubbio: un suicidio per l’inchiesta di Milano o per le spericolate relazioni di Palermo?
Il suicidio di Raul Gardini
È questo il quadro che avevano presente Falcone e Borsellino nei mesi a cavallo fra il 1991 e il 1992, quando uno era stato appena nominato direttore degli Affari Penali al ministero della Giustizia e l’altro procuratore aggiunto a Palermo. E non gli appalti e i sub appalti delle dighe e delle strade, dei viadotti e delle opere “chiavi in mano” che mafiosi e ditte del nord si dividevano in Sicilia.
Quel rapporto si fermava lì. Nessuno è mai andato avanti alla ricerca di un possibile legame fra le intuizioni di Falcone e Borsellino e il suicidio di Gardini, nessuno ha mai più approfondito dove portavano – e proprio su quel fronte – gli investimenti di Cosa nostra.
Il rapporto “Mafia e appalti” bisognerebbe valutarlo per quello che realmente è e non per come è stato propagandato, in qualche modo spacciato all’opinione pubblica.
Per di più, assai contorta è la sua storia fin dalla nascita. Consegnato “a puntate“ in procura a Palermo, prima nomi fatti circolare sulla stampa, prove presentate solo per imprenditori locali di modesto spessore, poi ancora il rapporto trasmesso ad altra procura (Catania) per trovare migliore accoglienza.
Un gioco degli specchi che ha acceso un corto circuito istituzionale, scatenato una faida fra i magistrati palermitani e i carabinieri di Mario Mori. Due le “versioni” del dossier: una mediatica e l’altra ufficiale, la prima con la presenza di tanti uomini politici e la seconda priva di quell’elenco.
Un’intercettazione che riguardava Salvo Lima, il potente console siciliano di Giulio Andreotti, è stata nascosta ai magistrati e ricomparsa miracolosamente solo molti mesi dopo l’omicidio dello stesso Lima avvenuta nel marzo del 1992. Non è tutto oro quello che luccica fra le pieghe del dossier.
I ricordi dei magistrati di Palermo
Negli anni a seguire il Consiglio Superiore della Magistratura ha raccolto testimonianze di una mezza dozzina di procuratori palermitani, ricordi a volte vaghi, discordanti anche su una riunione tenuta in procura – il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima della strage di via D’Amelio – dove Paolo Borsellino non fu informato dai suoi colleghi della richiesta di archiviazione per alcuni indiziati di quel rapporto.
In sostanza qualcuno gli aveva nascosto “sviluppi” sull’inchiesta, Borsellino (che giustamente non si fidava del suo procuratore capo Pietro Giammanco) se ne lamentò. Ma tutto questo è davvero sufficiente per legarlo all’attentato del 19 luglio o è, piuttosto, una diversione che è anche servita – legittimamente – agli imputati della trattativa stato-mafia per difendersi in aula?
A Caltanissetta hanno ripescato tutto. I carabinieri del Ros, ormai non più “traditori“ in quanto assolti nel processo d’appello, andranno a riproporre le loro argomentazioni. Sempre le stesse dal 1991. Vedremo cosa faranno i magistrati delle stragi. Quelli che hanno già avuto fra i piedi il falso pentito Vincenzo Scarantino, quelli che sono stati costretti a indagare per mesi e mesi su quel pagliaccio di testimone che era Massimo Ciancimino. Dopo trent’anni, speriamo che non si perda altro tempo.
DOMANI Attilio Bolzoni