BUNKERINO – Paparcuri: “me ne vado “/ ANM e PROGETTO LEGALITÀ : “aperti al confronto, Paparcuri ci ripensi”

 

Giovanni Paparcuri e il Bunkerino

 


ME NE VADO…  

21.8.2022 – Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più.
Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza.
Scrivo perchè i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido.
Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro.
Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco, sono stanco di chiedere continuamente scusa, sono stanco di leggere certe cose, stanco della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, stanco dei sospetti, stanco delle lamentele, stanco di raccontare, stanco di tutto, comunque è da parecchio che ci penso.
Scrivo perché mi sarei aspettato un incontro de visu con i vertici per un chiarimento definitivo e risolutorio, invece silenzio assoluto, salvo rare telefonate di soli rimproveri.
L’ultima è stata veramente pesante, dove sono stato accusato di essere egocentrico, ma lo sapete perché? Perché ho detto metaforicamente “da padrone di casa sono diventato nemmeno un inquilino, nessuno”. Ma, credetemi, era in senso figurativo per spiegare il mio malessere interiore. Comunque, la risposta è stata: “tu sei padrone di niente e sei solo egocentrico”.
È vero, sarò padrone di niente – forse – (poi vedremo in seguito), ma della mia dignità sono più che padrone.
Scrivo perché c’è gente che mi cerca tramite la fondazione progetto legalità, e a quanto mi riferiscono, non rispondono.
Scrivo perché io non mi nascondo, né mi trincero ai non sapevo.
Scrivo per la delusione di due magistrati che ritenevo amici, invece anche da loro silenzio assoluto ed è quello più assordante, ma il sistema è questo: Canis canem non est (cane non mangia cane).
Riconosco anche di avere fatto degli errori, ma sempre in buona fede.
Non so se c’è un cielo, né se ci sono degli angeli che mi guidano, ma, vede cara signora, noi siamo umani, viviamo in questa terra, e contano solo i fatti reali, belli o brutti che siano, conta quello che accade in questo istante e quello che riusciamo e vogliamo vedere.
E quando vedi che ti hanno “rubato” anche i tuoi ricordi e che ci sono cento cani attorno ad un osso, è meglio lasciare.
Tuttavia la vita è fatta di scelte, anche dolorose, e quando arriva l’ora non puoi tirarti indietro, ed io scelgo da uomo libero consapevole di avere fatto il mio dovere fino in fondo.
Chiudo esortandovi a venire, gli uomini passano, ma la vita continua.

 
Ragazzi, credetemi, io non volevo arrivare a tanto, ma la misura ormai è colma, né voglio alcun merito, a me bastava essere lasciato tranquillo, e l’ho fatto in primis per i giudici Falcone e Borsellino e per le tante persone che sono venute in visita. Invece è stato tutto un susseguirsi di ostacoli, dall’impedirmi di andare in bagno chiudendomi i varchi, dal mettermi una persona a fianco che doveva soltanto aiutarmi nel gestire le prenotazioni, invece è diventato anche un censore e controllore dei miei ricordi e invadente nei miei rapporti con le persone. Che tra l’altro, non è nemmeno un collega, né dell’ambiente, che chiamerò Atanus, sì, come il mago. Poi c’è stata la vicenda del parcheggio, il caldo, la vicenda della dottoressa Boda e tanto altro ancora, che racconterò in seguito.
Intanto rinfresco la memoria, che non guasta, con queste foto scattate nel 2009 pochi giorni prima che andassi in pensione, pubblicate dal giornale La Repubblica e dimostrano, qualora ce ne fosse bisogno, che appunti, libri, apparecchiature e altro ancora, che ho riportato al museo Falcone Borsellino, li ho sempre custoditi io.
Altri ancora sono esclusivamente miei, cioè regali del dr. Falcone, altri oggetti e documenti solo io sapevo dove erano custoditi.
Sempre per cronaca: subito dopo il suo insediamento, il dr. Natoli quale presidente della Corte d’Appello, mi ha testualmente detto: “Giovanni sei l’unico a fare rinascere quei luoghi”. Il 16 dicembre del 2015 il dr. Matteo Frasca quale Presidente distrettuale dell’Associazione Nazionale Magistrati mi ha ufficialmente dato l’incarico.
 

Fare memoria a parole.

 
 
Comunque, fare Memoria non è semplicemente ricordare il passato. Fare Memoria è conoscere le storie del passato perché quelle storie diventino nostre.
Questi faldoni sono la copia intera degli atti processuali del maxi processo, si trovavano nella parete poco prima di entrare al bunkerino. Non racconto perché avevamo fatto queste copie, ma erano molto importanti, avevano una loro storia, ebbene, anni addietro, qualcuno del palazzo ha pensato bene di sbarazzarsene mandandoli al macero, ma per fortuna i ragazzi del Cidma Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia, di Corleone hanno evitato questo scempio, e qui li ringrazio.
Saputa la notizia andai di corsa al Bunkerino, perché ho avuto timore che smantellassero anche quegli uffici, comunque, trovai solo deturpazione, l’archivio pieno di calcinacci e mobili rotti come una discarica, l’unica stanza in ordine era quella occupata da un giudice. In ogni caso me ne andai sconsolato, perché temevo che quei luoghi di storia sarebbero andati (come i faldoni) persi per sempre, ma per fortuna, come più volte detto, il dr. Natoli mi chiamò e li ho fatti rinascere.
Fare memoria a parole.

Vi ringrazio per la vostra solidarietà e mi scuso se non rispondo ai vostri messaggi, ma ripeto fino alla noia, che non è da oggi che esistono svariati problemi, ma per amore di quei giudici sono tornato sempre sui miei passi, per ultimo l’ho fatto presente il 24 maggio (per una vicenda che racconterò in seguito), ed è da quel giorno che aspetto quanto meno una convocazione, per un chiarimento e per definire una volta per tutte i ruoli, ma anche per sentirmi dire “Giovanni hai rotto il cazzo, invece nulla. Ho aspettato inutilmente, solo silenzio, e il silenzio dice più di mille parole.
 

I fatti presi singolarmente sembrano minchiate, ma solo chi le vive sa quanto pesano, oggi questo, domani quello, poi li metti tutti insieme e ti senti schiacciato, l’unico modo che ho per sfogarmi è scrivere, tanti mi hanno chiesto di scrivere un libro, e questo è il mio libro, preciso che non intendo attaccare nessuno, né alimentare polemiche, qualcuno si offende? Mi spiace, ma è solo la verità e fatti realmente accaduti, ci sono nomi e cognomi, date e foto, e chiunque può smentirmi.
Come detto il 16 dicembre del 2015 il presidente Natoli unitamente al presidente Frasca mi comunicarono che l’unico a fare rinascere quei luoghi ero io, e per quello che può servire li ringrazio per avermi dato questa opportunità, ma che ha avuto una triste fine, che parlando fra noi me l’aspettavo, sarà anche un controsenso, ma rifarei tutto, dalla A alla Z.
Felice mi misi in moto, mi spogliai anche degli oggetti che mi aveva regalato il giudice Falcone e li misi a disposizione per la società, ma io non li ho donati, né regalati a nessuno, sfido chiunque a dimostrare il contrario.
Comunque, le maestranze del Tribunale cominciarono a tinteggiare le stanze e a fare qualche altro lavoro. Rimase il problema chi doveva aiutarmi a trasportare mobili e apparecchiature varie, per cui un giorno si presentarono tre operai comunali, non mi ricordo quanti giorni lavorarono, però cominciarono a lamentarsi, due avevano problemi fisici e uno poteva lavorare solo un’ora, con calma ho detto loro che gli avrei offerto il caffè a patto che se ne sarebbero dovuti andare via e a non tornare mai più. Ma rimasero con me le uniche persone che mi hanno aiutato veramente col cuore: due semplici cittadini, Federica Colletta, adesso avvocato, e Giovanni Perna, allora tipografo. Abbiamo fatto i facchini e passato anche lo straccio, con il furgone dei carabinieri, condotto dal bravo Luigi Formati, siamo andati all’aula Bunker a caricare diverse apparecchiature. Ad attenderci c’era il compianto Enzo Mineo e Giovanni Moriggi, i quali si sono messi totalmente a disposizione.
Alcuni colleghi si rifiutarono a restituirmi quei mobili che erano appartenuti ai due giudici, c’è voluto l’intervento del presidente Natoli o del presidente Frasca. In uno di questi mobili ritrovai un mazzo di chiavi che ero convinto di averli persi, erano chiavi (numerate) dei contenitori dei dischetti, ogni numero corrispondeva al contenitore che avevo assegnato a ognuno dei componenti del pool.
Poi andai a casa del giudice Borsellino, dove Manfredi mi diede altri oggetti e documenti, Luigi Furitano, mi portò altro ancora.
Il 24 maggio 2016 fu tutto pronto.
Ci fu l’inaugurazione (poi racconterò cosa avvenne due giorni prima), tutto bello, tutto lucido, tutto collocato esattamente come lo avevano lasciato i giudici Falcone e Borsellino.
Ma la cosa più importante era quella di aver messo a disposizione i miei ricordi, gli aneddoti e quant’altro, ma mi sono stati “rubati”. Ma non ha importanza.
Nel corridoio installai due grandi pannelli di un collage di foto, bellissimi, uno dedicato al dr. Falcone e uno al dr. Borsellino, realizzati dal bravo Giovanni Perna. Per una foto piccola piccola ( che mi diede Manfredi) presi una parete intera, perchè per me rappresenta la solitudine di quel periodo. Per dare un tocco di colore, appesi anche dei quadri realizzati dal professore Gaetano Porcasi, li andai a prendere personalmente io a Partinico, nel trasporto ci rimisi un paio di pantaloni e una camicia, perché uno dei quadri aveva bisogno di un ritocco, per cui quando li scesi dalla macchina mi macchiai, ma non ha importanza. Poi mesi dopo nella stanza del giudice Falcone, appesi un quadro realizzato dalla signora Sofia Gargano, non l’avessi mai fatto, e il motivo ve lo spiegherò in un altro post. E poi ancora altre foto stampate sempre da Giovanni Perna.
Bene, ci fu l’inaugurazione, a tutti ed ancora oggi quei due collage di foto piacciono tantissimo, ma nessuno quel giorno mi ha chiesto chi li avesse pagati, perché hanno avuto un costo. Li ho pagati io, non li potevo fare pagare a Giovanni. Ma non m’importava nulla, per i miei giudici avrei fatto ancora di più.
Però dovevo fare qualcosa per questi due ragazzi, oltre a offrirgli i pranzi, meritavano di più, per cui chiesi per ben due volte all’Anm e se non ricordo male anche alla fondazione (spero lo ricorderanno) di scrivere due parole di ringraziamento a questi cittadini. È inutile stare a dire che non sono stato accontentato, comunque tutte le persone succitate li ho ringraziati pubblicamente nel mio intervento pubblico quando ci fu l’inaugurazione.
 
 
GIOVANNI PAPARCURI 21 – 22 agosto 2022 Profilo FB
 

RASSEGNA STAMPA

 

La polemica sul “bunkerino”, replicano Anm e Progetto Legalità: “Aperti al confronto, Paparcuri ritorni”

 

Dopo la decisione di lasciare il museo della sua storica guida, le due associazioni che gestiscono il museo rispondono alle dichiarazioni postate su Facebook: “Queste polemiche non rendono onore alla memoria dei nostri martiri, il contributo di Giovanni Paparcuri è fondamentale e speriamo possa tornare sui suoi passi”

Dopo la decisione di Giovanni Paparcuri di lasciare il “bunkerino”del palazzo di giustizia, di cui è stato l’anima e la guida sin dalla sua inauguarazione, la giunta esecutiva di Palermo dell’Anm e la Fondazione Progetto Legalità, che gestiscono il museo, hanno deciso di replicare alle dichiarazioni (molto dure) pubblicate da Paparcuri su Facebook. Al di là delle polemiche, il succo è che si spera di potere ricucire la frattura e che Paparcuri ci ripensi.

“Il Museo Falcone-Borsellino racchiude la memoria dei nostri martiri e per questo la sua gestione deve essere rivolta ad assicurare la più efficace e completa conoscenza e diffusione della storia che racchiude. Il rispetto dei suoi valori comporta quindi l’impegno di tutte le persone ed istituzioni interessate a portare il proprio contribuito a tale scopo, in un comune spirito di serietà e collaborazione, e quindi ad evitare di farne oggetto di inopportune polemiche, che – prima di ogni altra considerazione – certamente non rendono onore a tutti quelli che, con sacrificio infinito, hanno operato in quelle stanze. Tra costoro vi è indiscutibilmente Giovanni Paparcuri, che – come è noto – ha fortemente voluto mantenere viva la memoria di quella stagione, prodigandosi nella raccolta del materiale e nell’allestimento della sede in cui è sorto il museo, e quindi dedicandosi ad esserne guida appassionata e a dare testimonianza, con insostituibile forza emotiva, di ciò che avveniva in quei locali”.

“Di questo siamo stati sempre consapevoli e grati. E – si sottolinea – non c’è stato un momento in cui è stato posta in discussione la sua figura ed il suo ruolo all’interno del museo. Abbiamo però registrato negli ultimi mesi il suo progressivo e volontario distacco dal museo, che abbiamo ritenuto temporaneo, così come lo riteniamo ancora adesso, dato che non ce ne sono mai state esplicitamente – e nelle opportune sedi – manifestate le ragioni. In tutto questo tempo, comunque, la continuità delle visite è stata sempre assicurata, e sempre lo sarà, perché ciò è reso necessario dalla importanza del luogo e dalla esigenza di far fronte al numero elevato di richieste, che non hanno mai smesso di arrivare da ogni parte. La notizia della sua decisione di lasciare il museo, appresa dalla stampa e dai social, quindi ci stupisce e addolora fortemente, anche per le modalità con cui ne siamo venuti a conoscenza. Non riusciamo invero a comprenderne le ragioni, perché quelle riportate dalla stampa risalgono prevalentemente a problemi antichi, in gran parte superati anche grazie al nostro intervento, e comunque di rilevanza modesta e agevolmente risolvibile con un adeguato confronto al quale nessuno di noi si è mai sottratto”. PALERMO TODAY


“Museo Falcone-Borsellino”, il comunicato di ANM e Fondazione progetto Legalità

22 Agosto 2022 GLI STATI GENERALI

Nella giornata di ieri Giovanni Paparcuri, custode della memoria e anima del “Museo Falcone-Borsellino” il c.d. bunkerino, spazio nel quale, all’interno del palazzo di Giustizia palermitano hanno svolto il loro lavoro il dottor Falcone e il dottor Borsellino durante il loro lungo impegno per la preparazione del Maxiprocesso, ha dichiarato sul suo profilo Facebook la sua intenzione di cessare il suo impegno a seguito di amarezze, incomprensioni e mancanza di dialogo.

L’ANM Palermo e la “Fondazione Progetto Legalità per Paolo Borsellino e tutte le vittime di mafia”, che gestiscono lo spazio hanno emesso oggi un comunicato stampa che riportiamo integralmente:

Il Museo Falcone-Borsellino racchiude la memoria dei nostri martiri e per questo la sua gestione deve essere rivolta ad assicurare la più efficace e completa conoscenza e diffusione della storia che racchiude.

Il rispetto dei suoi valori comporta quindi l’impegno di tutte le persone ed istituzioni interessate a portare il proprio contribuito a tale scopo, in un comune spirito di serietà e collaborazione, e quindi ad evitare di farne oggetto di inopportune polemiche, che – prima di ogni altra considerazione – certamente non rendono onore a tutti quelli che, con sacrificio infinito, hanno operato in quelle stanze.

Tra costoro vi è indiscutibilmente Giovanni Paparcuri, che – come è noto – ha fortemente voluto mantenere viva la memoria di quella stagione, prodigandosi nella raccolta del materiale e nell’allestimento della sede in cui è sorto il Museo, e quindi dedicandosi ad esserne guida appassionata e a dare testimonianza, con insostituibile forza emotiva, di ciò che avveniva in quei locali.

Di questo siamo stati sempre consapevoli e grati. E non c’è stato un momento in cui è stato posta in discussione la sua figura ed il suo ruolo all’interno del Museo!

Abbiamo però registrato negli ultimi mesi il suo progressivo e volontario distacco dal Museo, che abbiamo ritenuto temporaneo, così come lo riteniamo ancora adesso, dato che non ce ne sono mai state esplicitamente – e nelle opportune sedi – manifestate le ragioni.

In tutto questo tempo, comunque, la continuità delle visite è stata sempre assicurata, e sempre lo sarà, perché ciò è reso necessario dalla importanza del luogo e dalla esigenza di far fronte al numero elevato di richieste, che non hanno mai smesso di arrivare da ogni parte.

Le notizia della sua decisione di lasciare il Museo, appresa dalla stampa e dai “social”, quindi ci stupisce e addolora fortemente, anche per le modalità con cui ne siamo venuti a conoscenza.

Non riusciamo invero a comprenderne le ragioni, perché quelle riportate dalla stampa risalgono prevalentemente a problemi antichi, in gran parte superati anche grazie al nostro intervento, e comunque di rilevanza modesta e agevolmente risolvibile con un adeguato confronto al quale nessuno di noi si è mai sottratto.

Continuiamo allora ad essere convinti che la presenza e la testimonianza di Giovanni Paparcuri siano componente fondamentale del Museo e che di conseguenza egli possa ritornare quanto prima ad attraversarne la porta – che non è mai stata chiusa– e a riprendere il cammino insieme, nella considerazione che contrapposizioni banali e prese di posizione rigide e ingiustificate non rappresentano certo un omaggio alla memoria dei nostri eroi.

LA GIUNTA ESECUTIVA DI PALERMO DELLA  ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI

LA FONDAZIONE PROGETTO LEGALITA’ PER PAOLO BORSELLINO E TUTTE LE VITTIME DELLA MAFIA


Così è morta per sempre l’Antimafia 

21.8.2022 – Giovanni Paparcuri lascia il bunkerino. C’è bisogno che dica chi è? No, lo conoscono migliaia di persone in tutta Italia, quelle che in questi anni sono andate a visitare l’unico “museo” che, a detta di tutti, ricorda senza retorica il sacrificio di Falcone e Borsellino, quelle che lo hanno sentito parlare, sempre semplice e diretto, sincero, se stesso fino in fondo.

Perché lascia? Ha scritto: non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma devo farlo perché sono stanco, e ha parlato di ipocrisia, falsa solidarietà, invidia, sospetti, lamentele. Aveva chiesto un incontro con i vertici, “definitivo e risolutorio”, ha ricevuto in cambio silenzio assoluto e “solo rare telefonate di rimprovero”. L’ultimo colloquio? Gli hanno detto: tu sei padrone di niente, sei solo egocentrico. “Mi hanno rubato anche i ricordi, cento cani intorno a un osso” ha commentato amaramente.
Per me così è morta definitivamente l’Antimafia, non me ne parlate più, tenetevela per voi e le vostre fandonie. La presenza di Giovanni in quel velenoso panorama costituiva una delle ultimissime ragioni per sopportare quella baracca maleodorante, che insulta ogni giorno la memoria dei caduti e delle vittime.
Il 27 prossimo sarei dovuto andare a Grotte, al premio Racalmare fondato da Leonardo Sciascia a ritirare un riconoscimento che la giuria ha generosamente riconosciuto al mio libro “Paolo Borsellino per amore della verità”, il cui capitolo “Senza tante cerimonie” era dedicato proprio al museo del bunkerino e a Giovanni Paparcuri, in rappresentanza di quei collaboratori veri e diretti del pool dei giudici antimafia di Palermo che mai vengono invitati alle cerimonia ufficiali. Alla presentazione del libro, il 4 luglio scorso alla facoltà di Giurisprudenza con Fiammetta Borsellino, Giovanni era venuto, non per me, ma per tributo alla memoria del magistrato.
Ebbene, scriverò alla cortese giuria ringraziandola, ma aggiungerò che non mi sento di ritirare il premio per solidarietà con Giovanni Paparcuri. Mi auguro che vorranno leggere pubblicamente la breve nota che invierò.
Ora vedrete che qualcuno correrà ai ripari, per evitare il danno di immagine. E qualcun altro farà invece il duro, perché la baracca ha bisogno di espellere definitivamente i Paparcuri per poter funzionare come funziona, ovvero per pura immagine.
Per quanto mi riguarda il danno è fatto. Se non dobbiamo arrenderci, come ci invita Giovanni, per la memoria oppure per la legalità o per quello che volete, dovremo trovare un altro luogo, altri ambiti, altri contesti, che non siano mai più la cosiddetta “Antimafia”, almeno per quanto mi riguarda.
Ce ne ricorderemo di questo Trentennale. Sono stati toccati i punti più alti di un ridicolo e mefistofelico disegno che va avanti da decenni: fare carriere e avere potere e successo calcando un teatrino di guitti e falsari che prevede di pasteggiare sulla memoria dei caduti.

22.8.2022-Non è che si abbandona oppure mai si abbandona la Sicilia, è che la Sicilia ti perseguita comunque. In tutti quei modi sofisticati e strani che somigliano alla carta moschicida, e noi ad insetti che ci caschiamo dentro.

La questione primaria è la Sicilia, non la mafia. La mafia sta dentro la Sicilia. Poi ci sono quelli che la rimuovono dal quadro. E poi quegli altri che la rimettono, anche quando non c’è più come prima. E dentro questi giri vorticosi ci stanno i siciliani.
***
Ieri ho scritto di getto sul caso di Giovanni Paparcuri che lasciava amareggiato il museo del bunkerino di Palermo. Ho detto che per solidarietà con lui non sarei andato a ritirare il premio di Racalmare a Grotte, per il libro su Paolo Borsellino, in cui un capitolo importante è oltretutto dedicato proprio a Paparcuri e ai “testimoni di memoria” dimenticati dall’Antimafia ufficiale. Ho aggiunto anche che l’Antimafia è morta.
Alcuni amici, al contrario, mi hanno chiesto di andare ugualmente e di parlare del caso in quella sede siciliana e prestigiosa (il premio è stato istituito da Leonardo Sciascia, che in queste storie di mafia e antimafia, come ben sapete, c’e voluto entrare eccome; chissà cosa avrebbe detto oggi, così io mi stavo zitto).
Giovanni Paparcuri è stato in questi anni, credo non solo per me, un riferimento. E lo è ancora. Una specie di previsione meteorologica della temperatura di una certa Palermo, un google maps delle strade da imboccare o da evitare. A volte non ero d’accordo con le sue opinioni, ma non è stato mai questo l’importante, credo in virtù della rarità della persona, che avrà pure una montagna di difetti, ma se ripenso alla frase di Paolo Borsellino sul profumo della libertà, immediatamente mi viene in mente lui.
Nulla sapevo, quando ieri ho scritto, dei motivi specifici che lo hanno portato a lasciare quel piccolo luogo di “memoria”, oggi visitato da migliaia di persone che solo per questo scopo vengono a Palermo da tutto il mondo. Normale: quella di Falcone e Borsellino è una delle storie più potenti del secolo passato. Oggi dell’affaire se ne sa di più, tra post, articoli,comunicati, controrepliche, ma credo anche che in questo caso i torti o le ragioni non siano decisivi. E nemmeno i dettagli. Può anche darsi che un domani la frattura addirittura si ricomponga. Lo invocano in parecchi. Ma per me non è così. Non mi si ricompone nulla. E non per colpa di nessuno. Un fatto simbolico è accaduto, piccolo per i più, significativo per tanti, totalizzante per un uomo per bene, un sopravvissuto, una vittima, un collaboratore leale prima di Falcone e Borsellino, poi del loro ricordo e dei loro insegnamenti. Non sarà facile per nessuno rimettere insieme i pezzi, quando si è spezzato il meglio che aveva dentro un uomo. Ma sono già certo cosa accadrà: si farà finta niente.
Il vero cuore del problema è un altro. Il colpo veniva da lontano, e non dalle circostanze che hanno determinato questa faccenda. Posso sbagliarmi, ma penso che il disagio di Giovanni Paparcuri avesse vecchie radici e non fosse, e non sia, solo il suo.
Ho cercato di raccontarlo nel capitolo del libro: lui rappresenta tutti quei testimoni diretti di quei fatti, a volte come lui sopravvissuti per miracolo agli attentati, altre volte sempre come lui al lavoro per anni gomito a gomito con Falcone e Borsellino, che poi non vengono mai invitati alle cerimonie ufficiali e ai rituali della memoria, che non hanno mai un posto. Perché? In questo c’è qualcosa che accomuna in qualche modo Giovanni Paparcuri ai figli di Borsellino. Quando le istituzioni, dopo una mutilazione, non ti legittimano, si limitano a tollerarti o ti tengono ai margini per varie ragioni, spesso inconfessabili, proprio come nel caso dei figli di Borsellino, il danno di cui sei vittima diventa doppio e a volte insostenibile. E questa volta ad arrecartelo non è più stata la mafia, ma uomini delle istituzioni.
Così ieri la vicenda di Giovanni mi è sembrata un punto di non ritorno e un caso mefiticamente esemplare. Da trent’anni la mafia, arrestati e morti i corleonesi, non ci attenta più. I “nuovi” attentati sono stati solo virtuali. Non sappiamo neppure con certezza se l’era post-corleonese sia coincisa con la scomparsa definitiva di Cosa Nostra siciliana, ormai soppiantata da altre mafie, oppure se essa si sia trasformata per metamorfosi in qualcosa d’altro di cui nulla sappiamo. Indagini e sentenze che perennemente ci dividono hanno un difetto: la testa rivolta solo al passato.
L’Antimafia, le procure, gli apparati dello Stato, le questure, le caserme, gli ordini degli avvocati eccetera eccetera sono sempre stati anche (per fortuna non solo) covi di veleni e intrighi, quando non di giochi di ombre. Ma in passato si doveva tenerne conto e tollerarlo, perché c’era da combattere un potente nemico. Ma adesso? Non ditemi, per favore, che il potente nemico assedia ancora oggi – con la stessa invulnerabilità di ieri – Stalingrado. E che siamo tutti chiamati alla nuova resistenza. Quindi, cosa rimane oggi veramente dell’Antimafia? I veleni, gli interessi, la burocrazia, le carriere, l’esposizione mediatica totalitaria, una idolatria cieca pari a quella di cui usufruiscono le star della TV, mistiche religiose, posizioni talebane, la vanità, i piccoli o grandi privilegi eccetera eccetera eccetera. Ma anche, diciamolo chiaro e tondo, il business.
Ah, e poi ci siamo anche noi, ultime ruote del carro, che schizofrenici ondeggiamo dall’unanimismo più letale (per carità, mai criticare pubblicamente una fondazione, una associazione, un prelato, un pm, una procura, una candidatura elettorale, un giudice scrittore più prolifico di Camilleri: sarebbe lesa maestà) alle risse forsennate, purché sempre e solo tra di noi, tra i senza potere, a ogni nuova sentenza, guardandoci in cagnesco perché un nemico alla fine bisogna sempre averlo.
Infine, c’è una voce di corridoio dal sen fuggita che
dice: quel Paparcuri durante le visite del pubblico al bunkerino, avrebbe avanzato critiche non gradite verso qualcuno di “importante”. Non posso crederci che ci sarebbe anche questo nel mazzo. Non voglio crederci. Anzi, non ci credo. Perché altrimenti, che lezioni di moralità vengono poi a darci?
Così, pur costandomi, e anche restando molto dispiaciuto per non aver seguito il consiglio di persone che stimo moltissimo, non andrò a ritirare il premio a Grotte. E non andrò per Giovanni Paparcuri. Mi imbarazza non poco doverlo scrivere e spiegare a una giuria che troppo generosamente mi ha premiato. Ma lo sento come un obbligo. Non tanto per i motivi specifici che hanno portato Giovanni Paparcuri a lasciare il museo del bunkerino (anch’io spero che tutto si ricomponga e lui ci ripensi) ma perché la cosiddetta Antimafia, nata negli anni ’80, senza che persone come Paparcuri – che ne sono il cuore – vi abbiano un ruolo e una voce, autorevole e riconosciuta almeno al pari delle altre, non ha più senso di esistere ed è morta. Senza cuore, solo con le strategie e le tattiche, i rapporti di forza o il marketing, alla fine si distrugge tutto.
Forse si dovrebbe tornare a quella “cosa” più antica che fu dei Dolci, Pantaleone, Consolo, Sciascia, e di certi registi neorealisti, che non dettero alcuna etichetta e nessuna particolare sigla alle loro antiche lotte per la Sicilia, ma invece semplicemente le hanno fatte.
 

27 agosto 2022. La mafia uccide, il silenzio pure. Invece l’Antimafia ti spegne lentamente.

Rispetto tutti coloro che con affetto ritenevano dovessi andare a ritirare lo sciasciano premio Racalmare ed esprimere da quel palco la mia solidarietà a Giovanni Paparcuri. Così però non avrei lasciato alcun segno concreto né rinunciato a nulla (e invece ogni cosa per incidere deve costare un prezzo) e, anziché limitarmi a ringraziare, come si usa quando si ritira un riconoscimento, avrei anche dovuto fare un lungo comizietto, in un contesto che non ha alcuna responsabilità rispetto alla vicenda. Diverso sarà – se vorranno – leggere una nota che ho inviato alla giuria, che aprirà e chiuderà una breve parentesi, senza guastare più di tanto una festa.
A chi interessa tutto questo? A pochi. E si sbaglia. Perché, a prescindere da me, questa è una bellissima e amarissima e attualissima storia sciasciana. Sono queste le storie che fanno della Sicilia, nel bene e nel male, uno specchio e una metafora, persino dell’agire umano. In queste ore, per esempio, Giovanni Paparcuri è diventato per molti (che si limitano però solo a sussurrarlo e suggerirlo) una persona egocentrica, affetta da protagonismo. Ma perché lo si dice improvvisamente del solo Paparcuri? Potremmo fare un lunghissimo elenco di individui verso cui si potrebbe nutrire un simile sospetto. Perché allora dirlo solo di lui? Mi pare come quando fu detto alla sola Fiammetta Borsellino che i parenti delle vittime sono affetti da “incontinenza verbale”. Perfetto, sono d’accordo. A volte, anziché limitarsi a testimoniare sulla propria tragedia, brandendo il proprio dolore e il rispetto che si aspettano da noi come un’arma, scavandosi un ruolo nel senso di colpa collettivo, i parenti delle vittime discettano di elezioni politiche, equilibri internazionali, riforme della giustizia. Ma allora, perché muovere questa critica solo ed esclusivamente a Fiammetta (che per altro di temi così generali non ha parlato mai)? Non ci sarebbero, semmai, anche altri nomi da indicare prima di lei? E a parte i parenti, quanti protagonisti della giustizia esulano spessissimo da temi loro propri? Questa selezione preventiva tra chi viene bollato di protagonismo e chi invece non lo viene mai suona come molto interessata.
Altro elemento sciasciano: l’ex ispettore Pippo Giordano, in una intervista a Sandra Figliuolo, in cui ha chiesto a Paparcuri di ripensarci, ha dissentito sulla morte dell’Antimafia, citando le migliaia di giovani e la sete di giustizia. Vorrei tanto dissentire anch’io da me stesso. Anch’io sento come una ferita questi due aspetti. Ma non posso perpetrare ancora una volta la logica (che ci rese ciechi sui casi Montante e Saguto, come sul depistaggio Scarantino) di non gettare via il bambino con l’acqua sporca. Non sono più i tempi dello stragismo corleonese, che richiedeva sempre e comunque un fronte comune, e nemmeno quelli successivi in cui a dare patenti di legalità era Montante, ma non lo si poteva denunciare per non guastare tutto. Non ripetiamo gli errori del passato. Certo che ci sono migliaia di giovani e che c’è bisogno di giustizia, ma oggi l’impegno sincero di tanti viene cavalcato da personaggi che hanno fatto dell’Antimafia una vetrina della vanità, un business, un trampolino per fare carriera. E questo secondo aspetto ha cannibalizzato il primo. Ragion per cui dico che l’Antimafia è morta sul caso Paparcuri.
E in tale sciascianamente paludoso contesto (ecco il lato disumano) questi “professionisti dell’Antimafia” se ne sbattono altamente del doppio danno, inflitto tanto a Paparcuri che ai figli di Borsellino. Il primo è sopravvissuto a una strage, i secondi alla mutilazione di un’altra. Ma dopo, anziché essere pienamente accolti e legittimati dalle istituzioni, ne vengono respinti e isolati. Non riesco a concepire nulla di più perverso. È un modo di spegnere lentamente, tramite sofferenza ulteriore inflitta, chi già è una vittima.
Infine c’è il silenzio. Di tanti. Di troppi. Meglio non schierarsi, non sbilanciarsi, non inimicarsi mai nessuno, essere prudenti e accomodanti, quando saltano fuori i casi più scottanti. Non costa nulla oggi dire “la mafia è una montagna di merda” oppure “io sto con Gratteri”. Ma un passo o due dentro le segrete stanze dell’Antimafia ufficiale pare sia diventato più pericoloso che avere a che fare con i vecchi boss o i servizi deviati. E questo ha un olezzo antico e tutto siciliano. Nell’Isola c’è sempre un santuario da non mai violare.
Sulla Sicilia è inutile scrivere racconti. La Sicilia si scrive da se stessa. Disprezza l’invenzione. Pretende di incidere le storie direttamente nella carne e nel sangue. Persino nella pietra. Perciò la Sicilia tante volte è incomprensibile. Finché non accetteremo che è solo letteratura, continueremo a confondere la realtà con i sogni.

30.8.2022 – Quanto vale un simbolo? E quanto vale un uomo?
Lo sfregio ad alcuni simboli della “Palermo che cambia” ha comportato l’immediata e unanime mobilitazione dei più visibili rappresentanti dell’Antimafia nazionale. Eppure, nelle stesse ore, lo sfregio a un uomo, Giovanni Paparcuri, non ha comportato analoga mobilitazione, ma soltanto solidarietà (e moltissima) da parte della cosiddetta “gente comune”. Anzi, il caso dei simboli ha finito per coprire il caso dell’uomo, e comunque tra i due casi si registra una ben differente visibilità.
Attenzione, facciamo i doverosi distinguo: per tantissime persone non c’è stata alcuna differenza tra il solidarizzare con Paparcuri e condannare nello stesso tempo lo sfregio vandalico. Non solo: qualche importante solidarietà diretta a Paparcuri è anche arrivata, in questi giorni, anche se non pubblicamente. Ma qui pongo altra questione: perché tutti i nomi rilevanti scesi in campo contro lo sfregio ai simboli, nelle stesse ore non hanno invece detto o scritto una parola sul caso Paparcuri? Forse perché non lo ritengono uno sfregio? Forse perché uno come lui, “iddu”, non è neppure degno di essere preso in considerazione?
Devo ricordare qui, ancora una volta, alcuni fondamentali: sopravvissuto a una strage, per anni collaboratore fedele di Falcone e Borsellino, fondatore e animatore del museo del bunkerino. Se uno come lui, se uno così, non trova posto fisso nell’Antimafia ufficiale, nei suoi riti, nelle sue commemorazioni, nelle sue cerimonie, non significa che c’è qualcosa che non va? E poi, peggio mi sento: il suo caso non sarebbe il solo, bensì la punta di un malessere che avrebbe radici antiche, profonde e collettive.
Dunque, chiedo ancora: quanto vale un simbolo? E quanto vale un uomo? Gli antichi greci hanno trattato questa materia nella tragedia su Ifigenia. Trasformare una persona in un simbolo, per sacrificarla, ebbe come risultato una ingiustizia infinita, più tremenda e sanguinaria del male a cui si voleva porre rimedio con quel sacrificio. Neppure in nome degli dei, pensavano i Greci, una persona può essere imprigionata dentro un simbolo, ed essere considerata soltanto tale. Chissà cosa avrebbero pensato di un’epoca in cui i simboli sono diventati addirittura più importanti delle persone.
Senza arrivare, a proposito di un uso “disumano” e distorto dei simboli, al veterotestamentario Vello d’Oro, al barbarico concetto di idolatria o all’uso del mito a fini politici nella propaganda nazista, vorrei solo far presente che, proprio perché maneggiamo per lo più parole o simboli, non dovremmo mai trascurarne l’intima potenza. Se male o inavvertitamente utilizzata, può infatti trasformare in un attimo una vittima nell’ennesimo carnefice. Metaforicamente parlando, ovviamente. PIERO MELATI
 

Il premio letterario Racalmare Leonardo Sciascia della città di Grotte (Agrigento), 27 agosto 2022.

 
Caro presidente e cari membri della giuria,
devo anzitutto ringraziarvi per il prestigioso riconoscimento che avete voluto attribuire con generosità al libro “Paolo Borsellino Per amore della verità” e per le motivazioni che lo hanno accompagnato. Tanto più perché il premio è legato alla figura di Leonardo Sciascia. Ma è anzitutto in virtù del suo magistero che sono costretto a rinunciarvi. E lo faccio con dolore e scusandomi profondamente con voi, cercando di spiegarne le ragioni.
Appresa la notizia del riconoscimento, lo avevo subito dedicato a Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, i figli del giudice Paolo Borsellino, alla cui figura e al cui esempio il libro è ispirato. E avevo intenzione di limitarmi a dire questo dal vostro illustre palco.
Poi è accaduto qualcosa. Uno dei capitoli del libro parla di Giovanni Paparcuri. Era negli anni Ottanta l’autista giudiziario del consigliere istruttore Rocco Chinnici, sopravvissuto per miracolo e con danni permanenti alla strage con autobomba di via Pipitone Federico del 29 luglio 1983, nella quale perirono lo stesso Chinnici, Mario Trapassi, Salvatore Bortolotta e Stefano Li Sacchi. Successivamente Paparcuri venne riassegnato agli uffici giudiziari, dove fino alle stragi del 1992 è stato uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, costruendo con i due magistrati una comunanza di intenti fatta di lealtà, fiducia e affetto, che prescindeva dal semplice rapporto professionale. In particolare con Borsellino e con i figli si era creato un legame che, da parte dello stesso Paparcuri, non esito a definire di religiosa devozione.
Dal maggio del 2016 Paparcuri era diventato un custode della memoria, avendo messo in piedi dal nulla, con grandi sacrifici e con le sue forze, coadiuvato da Manfredi Borsellino e dal compianto Vincenzo Mineo, un piccolo museo all’interno degli uffici-bunker dove aveva lavorato insieme ai due magistrati. Il museo è stato visitato in questi anni da oltre trentamila persone provenienti da tutto il mondo e dal presidente della Repubblica Mattarella, in occasione del trentennale dell’uccisione del giudice Rosario Livatino. Troverete su internet numerosi commenti dei visitatori. La testimonianza viva di Paparcuri, dentro quegli uffici ricostruiti con i veri oggetti di lavoro e personali dei magistrati, è stata per molti una esperienza indimenticabile.
Nei giorni scorsi Paparcuri è stato però costretto a dimettersi dall’incarico, pronunciando amarissime parole. Ne è nato un caso che ha rimesso al centro del dibattito la questione della memoria, chi ne sono i suoi veri testimoni, che senso abbia oggi una Antimafia che, a trent’anni dalle stragi siciliane, somiglia sempre di più ad una passerella della vanità e a una scorciatoia per le carriere, come ebbe a scrivere Sciascia nel suo famoso e profetico articolo sul Corriere della Sera del 10 maggio del 1987.
Nel libro avevo già cercato di raccontare come il malessere di Paparcuri venisse da lontano. Lui stesso sopravvissuto a un attentato, amico e collaboratore di due “eroi” riconosciuti in tutto il mondo, non ha mai trovato il posto che gli spetta nelle ricorrenti cerimonie ufficiali. La stessa gestione del piccolo museo lo ha visto spesso sopperire a carenze varie di tasca propria, in un percorso costellato da invidie e diffidenze. Fino alla decisione finale di mettersi da parte.
Caro presidente e cari membri della giuria, oggi non ritiro il premio per solidarietà piena e convinta a Giovanni Paparcuri, uno dei protagonisti principali del libro che qui avete insignito. Si tratta di un piccolo gesto, ma che faccio lucidamente, dopo tormentata riflessione e pur se gravato dal peso di farvi una scortesia. Ma lo sento come un obbligo e un dovere. A futura memoria, se la memoria avrà ancora un futuro.
(Questa lettera di PIERO MELATI è stata letta da Elvira Terranova, che ringrazio, nel corso della serata)
 

Palermo è un cimitero, ci sono targhe ovunque che ricordano il sacrificio di decine di uomini e donne, bambini, che con coraggio e pur sapendo a che fine andavano incontro hanno deciso di non piegarsi, hanno creduto che questa terra, prima o poi, sarebbe stata liberata da Cosa nostra. Non a chiacchiere, ma mettendosi in gioco in prima persona, con i fatti. Eppure Palermo è una città smemorata, dove quelle lapidi – mute – sbiadiscono al sole, accanto ai rifiuti e alle auto. Sono lì, ma quasi nessuno se ne accorge.
Non funziona la memoria in questo posto, anche perché praticata in questo modo, tra annuali passerelle e deposito di corone, parole di circostanza, ceroni, foto, navi e stupidaggini il passato non viene realmente elaborato e non può quindi germogliare in certi valori ed ideali, basi per il futuro, ma anche per la comprensione del presente.
È un passato non del tutto passato, peraltro, perché solo timidamente (e ereticamente) oggi qualcuno riesce a dire che Cosa nostra, quella dei corleonesi che insanguinava le strade, è finita, morta. Passata, appunto.
In un contesto simile un sopravvissuto è fondamentale: sta tra i vivi e i morti, a volte porta i segni fisici della fine di tutto che ha intravisto e da cui si è salvato. Fu – non a caso – un sopravvissuto alla guerra del Vietnam, con qualche proiettile ancora nelle carni, a chiedere che i suoi compagni venissero ricordati. Fu lui a battersi perché venissero ricordati negli Stati Uniti i caduti di una guerra oscena e persa, che nessuno avrebbe voluto invece celebrare. La Storia – si dice – la scrivono i vincitori e quell’uomo è riuscito a ribaltare questa affermazione con la sua sola forza morale, con la sua terribile testimonianza, quella di chi aveva visto, provato sulla sua pelle ed era però scampato all’inferno.
La memoria delle vittime di mafia in questo posto è inceppata. Ricordo quando 20 anni fa venni per la prima volta a Palermo e vidi il monumento ai Caduti nella lotta alla mafia di piazza XIII Vittime, dove la gente portava a cagare i cani, che tutti definivano “brutto e arrugginito” senza sapere che quel colore era stato cercato dall’artista, Mario Pecoraino, proprio per ricordare il colore bruno al tramonto del sangue. Senza sapere che quel particolare acciaio fu donato dalla Fincantieri, coinvolgendo quindi tanti operai, gli stessi che con l’uccisione di Dalla Chiesa ritennero che “la speranza dei palermitani onesti” fosse morta. Senza sapere nulla. E senza neppure fare lo sforzo di capire. Io rimasi così sconvolta che ci feci la tesi.
Sulla scena della così detta antimafia in questi anni c’è stato veramente di tutto, compresi personaggi poi finiti sotto inchiesta che con la “legalità” ci avevano semplicemente mangiato. Attori da quattro soldi, imbecilli di rara imbecillità, finti minacciati (la minaccia è diventata un titolo di merito nel tempo), pagliacci e cialtroni. Persino un canazzo di bancata come Uccio, il randagio che per anni ha vissuto al palazzo di giustizia, è stato incredibilmente santificato e trasformato in un eroe. Un mito: il cane della legalità, che tuttavia mai incontrò “Giovanni e Paolo”.
L’antimafia è diventata un business e coltivare la memoria realmente in fondo non aveva alcuna importanza. Hanno prevalso narrazioni distorte, fornite spesso da chi non sapeva proprio niente, presunti amici, conoscenti e strani parenti. Hanno vinto i più forti (economicamente, non moralmente). Tante vittime considerate “minori” sono state completamente dimenticate. E infatti a 30 anni dalle stragi è difficile sostenere che questa città abbia fatto tesoro del suo terribile passato. Basta banalmente guardare i manifesti elettorali, i nomi, le facce, i simboli (a momenti sembra di essere in pieni anni Ottanta, in altri all’inizio dei Novanta, comunque mai nel 2022), gli slogan ridicoli, da imbonitori, possibili solo in una città dove prevale una profonda arretratezza culturale, a dispetto della storia magnifica e millenaria.
Giovanni Paparcuri è come quel sopravvissuto del Vietnam: lui ha visto, sentito sulla sua pelle ed è sopravvissuto all’inferno. Che si possa accettare di rinunciare al suo contributo, al suo ruolo fondamentale nel complesso processo di memoria, per giunta inceppato e “arrugginito”, è la vera eresia. Una città che resta indifferente a questo, che tra qualche giorno, finiti i post sui social, avrà dimenticato lui come ha fatto con tutto il resto, è una città senza passato e dunque senza futuro.

SANDRA FIGLIUOLO cronista giudiziaria Palermo Today 


In tanti, troppi, hanno dimenticato che Giovanni Paparcuri ha salvato carte importatissime del giudice Falcone, che ancora molto potrebbero dire oggi. Forse, per questo, è diventato un uomo scomodo #nessunotocchipaparcuri
SALVO PALAZZOLO
 

Mi sembra un tempo ormai lontanissimo quando ebbi la possibilità di conoscere personalmente Giovanni Paparcuri. Conoscevo la sua storia di superstite di un attentato, di miracolato, ma non avevo mai avuto modo di incontrarlo, di ascoltarlo e di percepire le sue emozioni quando parlava del suo attaccamento a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Quel giorno sentirlo parlare della sua storia, del rapporto di stima, prima di tutto, e di amicizia che si era instaurato tra lui e Giovanni e Paolo, mi emozionò molto. Dopo una lunga chiacchierata ci fece visitare quei luoghi dove aveva trascorso una buona parte della sua seconda vita insieme ai due magistrati, prima ancora che diventassero, per suo volere e con il suo enorme impegno, il Bunkerino ovvero un piccolo museo in cui si può ancora percepire sulla pelle l’emozione della presenza di Paolo e Giovanni e tutto questo grazie alla guida vera e sapiente di Giovanni Paparcuri. Oggi apprendo che Giovanni vuole lasciare il Bunkerino, vuole abbandonare il suo ruolo di guida illuminante per migliaia di giovani che ogni anno vanno a visitare quel luogo simbolo. Le ragioni sono complesse e se volete informarvi potete leggere quello che altri colleghi, molto più autorevoli di me, hanno scritto (Piero Melati e Sandra Figliolo ad esempio). La decisione di Giovanni ha scatenato un altro terremoto all’interno del famoso palazzo dei veleni (in effetti ci sarà una ragione per cui è stato definito così) ma al di là dei torti e delle ragioni io sto con Giovanni e a lui, per quello che vale, manifesto tutta la mia solidarietà. Non mollare Giovanni, compi la tua scelta libera e tieni la schiena dritta come hai fatto fino ad ora, questa è l’unica antimafia che mi piace.  UMBERTO LUCENTINI
 
 

 


 

Paparcuri lascia il ‘bunkerino’ di Falcone, “Basta, è il Palazzo dei veleni”

Paparcuri lascia il ‘bunkerino’ di Falcone, “Basta, è il Palazzo dei veleni”

 

Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici, lascia, tra le polemiche, il ‘bunkerino’, il museo realizzato sei anni fa dall’Anm di Palermo nell’ufficio del Tribunale in cui lavorarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Uno dei pochi veri luoghi di memoria, proprio grazie all’impegno di Paparcuri, chiamato da tutti ‘Papa’. Ma adesso, a sorpresa, Giovanni Paparcuri, a cui fu affidato fin dall’inizio il ‘bunkerino’ ha annunciato il suo addio e parla di “Palazzo dei veleni”. Il museo si trova al piano ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo dove i due magistrati lavorarono negli anni Ottanta. E’ stato inaugurato il 24 maggio del 2016 e ad oggi è stato visitato da oltre 30 mila persone, venute da ogni angolo del mondo. Qui si trovano le scrivanie dei due magistrati, i loro oggetti personali, copie di atti. E, soprattutto, qui venne scritto il Maxiprocesso. L’addio è stato annunciato con un post su Facebook: “Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più. Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza. Scrivo perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco”. “Sono stanco di chiedere continuamente scusa, sono stanco di leggere certe cose, stanco della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, stanco dei sospetti, stanco delle lamentele, stanco di raccontare, stanco di tutto, comunque è da parecchio che ci penso”, scrive Paparcuri. “In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni, ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare – prosegue Giovanni Paparcuri – E mai ho detto non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione. Il mio sogno era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni…”. Dopo l’a strage Chinnici, in cui Paparcuri venne gravemente ferito, Giovanni Falcone lo chiamò per informatizzare le carte del maxi processo nel suo bunkerino. Falcone e Borsellino sapevano della sua passione per l’informatica e gli chiesero di aiutarli. Così Paparcuri prese in mano il lavoro già avviato da una ditta esterna e iniziò a creare la banca dati, internalizzando il sistema”.

ADNKRONOS Elvira Terranova


‘Aspetto dal 24 maggio una convocazione mai arrivata’

Qualche tempo fa, Paparcuri rispose così a chi gli chiedeva se il ‘bunkerino’ fosse la sua seconda casa, dal momento che vi trascorreva giornate intere: “La mia seconda casa? Direi anche la prima casa. Qui ho passato tanti momenti intensi al fianco di Falcone e Borsellino durante il lavoro con il pool antimafia e, oggi, continuo il lavoro con i ragazzi delle scuole. A loro vanno insegnati i veri valori della legalità, cioè essere persone oneste nella vita e rispettare sempre le regole”.

Poi, rispondendo alle decine e decine si messaggi ricevuti, con le richieste di restare, Paparcuri replica: “Vi ringrazio per la vostra solidarietà e mi scuso se non rispondo ai messaggi e alle telefonate, ma sono di pessimo umore, comunque, ripeto fino alla noia, che non è da oggi che esistono svariati problemi, ma per amore di quei giudici sono tornato sempre sui miei passi, per ultimo l’ho fatto presente il 24 maggio (per una vicenda che racconterò in seguito), ed è da quel giorno che aspetto quanto meno una convocazione, per un chiarimento e per definire una volta per tutte i ruoli, ma anche per sentirmi dire “Giovanni hai rotto il cazzo, invece nulla’. Ho aspettato inutilmente, solo silenzio, e il silenzio dice più di mille parole”.

A prendere posizione è lo scrittore e giornalista Piero Melati, autore del recente libro: ‘Paolo Borsellino, per amore della verità’. “Così è morta per sempre l’Antimafia. Giovanni Paparcuri lascia il bunkerino. C’è bisogno che dica chi è? No, lo conoscono migliaia di persone in tutta Italia, quelle che in questi anni sono andate a visitare l’unico “museo” che, a detta di tutti, ricorda senza retorica il sacrificio di Falcone e Borsellino, quelle che lo hanno sentito parlare, sempre semplice e diretto, sincero, se stesso fino in fondo”, scrive Melati.

(di Elvira Terranova)


Paparcuri lascia il bunkerino: “Sono stanco…”, ed è polemica

Giovanni Paparcuri lascia, sbattendo la porta. Lui, sopravvissuto alla strage in cui morirono Rocco Chinnici e altri giusti, lui, collaboratore storico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non sarà più al ‘bunkerino’, il museo della memoria del Palazzo di giustizia, lì dove è stato ricostruito l’ambiente di lavoro in cui i giudici operarono. Era stato proprio Paparcuri uno degli artefici della ricomposizione del luogo ed era lui a fare da cicerone ai tanti che, visitando quelle stanze, vengono tutti presi da una forte emozione.

La rottura è affidata a un post su Facebook in risposta a chi gli domanda qualcosa sulla sua presenza: “Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più. Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza. Scrivo perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco, sono stanco di chiedere continuamente scusa, sono stanco di leggere certe cose, stanco della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, stanco dei sospetti, stanco delle lamentele, stanco di raccontare, stanco di tutto, comunque è da parecchio che ci penso”.

E’ un lunghissimo post che chiunque può consultare nel profilo facebook di ‘Papa’, come lo chiamavano Falcone e Borsellino e che racconta un momento di sconforto che, peraltro, non è l’unico. Qualche tempo fa c’era stato un problema per i ventilatori e l’impianto dell’aria condizionata, poi ricomposto. Ma, stavolta, sembra proprio un addio.

Che fa rumore, soprattutto sui social. Il giornalista Piero Melati,autore del recente e appassionato libro: “Paolo Borsellino, per amore della verità” e occhio puntato, da sempre, con attenzione sulle cose siciliane, scrive a sua volta su Facebook: “Così è morta per sempre l’Antimafia. Giovanni Paparcuri lascia il bunkerino. C’è bisogno che dica chi è? No, lo conoscono migliaia di persone in tutta Italia, quelle che in questi anni sono andate a visitare l’unico “museo” che, a detta di tutti, ricorda senza retorica il sacrificio di Falcone e Borsellino, quelle che lo hanno sentito parlare, sempre semplice e diretto, sincero, se stesso fino in fondo”. 


MAFIA: PAPARCURI LASCIA IL ‘BUNKERINO’ DI FALCONE AL TRIBUNALE, ‘BASTA, E’ IL PALAZZO DEI VELENI’
Durissimo il sopravvissuto alla strage Chinnici, ‘Sono stanco dell’ipocrisia, delle falsità’.
Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici, lascia, tra le polemiche, il ‘bunkerino’, il museo realizzato sei anni fa dall’Anm di Palermo nell’ufficio del Tribunale in cui lavorarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Uno dei pochi veri luoghi di memoria, proprio grazie all’impegno di Paparcuri, chiamato da tutti ‘Papa’. Ma adesso, a sorpresa, Giovanni Paparcuri, a cui fu affidato fin dall’inizio il ‘bunkerino’ ha annunciato il suo addio e parla di “Palazzo dei veleni”. Il museo si trova al piano ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo dove i due magistrati lavorarono negli anni Ottanta. E’ stato inaugurato il 24 maggio del 2016 e ad oggi è stato visitato da oltre 30 mila persone, venute da ogni angolo del mondo. Qui si trovano le scrivanie dei due magistrati, i loro oggetti personali, copie di atti. E, soprattutto, qui venne scritto il Maxiprocesso. L’addio è stato annunciato con un post su Facebook: ”Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più. Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza. Scrivo perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco”. “Sono stanco di chiedere continuamente scusa, sono stanco di leggere certe cose, stanco della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, stanco dei sospetti, stanco delle lamentele, stanco di raccontare, stanco di tutto, comunque è da parecchio che ci penso”, scrive Paparcuri. “In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni, ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare – prosegue Giovanni Paparcuri – E mai ho detto non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione. Il mio sogno era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni…”. Dopo la strage Chinnici, in cui Paparcuri venne gravemente ferito, Giovanni Falcone lo chiamò per informatizzare le carte del maxi processo nel suo bunkerino. Falcone e Borsellino sapevano della sua passione per l’informatica e gli chiesero di aiutarli. Così Paparcuirui prese in mano il lavoro già avviato da una ditta esterna e iniziò a creare la banca dati, internalizzando il sistema”.
Anche da notizie come queste si capisce quanta falsità vi debba essere in certi Palazzi, paradossalmente di Giustizia.
E, naturalmente, si fa finta di nulla!
NICOLA MORRA Presidente Commissione Parlamentare Antimafia 

 

Mafia: Paparcuri lascia il ‘bunkerino’ di Falcone al tribunale. “Basta, è il palazzo dei veleni”

Collocato al piano ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo, l’ufficio in cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino lavorarono negli anni Ottanta, nel 2016 è stato trasformato in un museo e ad oggi è stato visitato da oltre 30 mila persone, venute da ogni angolo del mondo. Qui si trovano le scrivanie dei due magistrati, i loro oggetti personali, copie di atti. E, soprattutto, qui venne scritto il Maxiprocesso.

“In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni – scrive Paparcuri – ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare – prosegue Giovanni Paparcuri – E mai ho detto non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione. Il mio sogno era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni…”.


Antimafia, Paparcuri lascia il “bunkerino” al Tribunale di Palermo: “Palazzo dei veleni”

L’addio è stato annunciato attraverso un post su Facebook nel quale Paparcuri spiega le motivazioni della sua decisione

Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage di via Pipitone a Palermo, nella quale perse la vita il magistrato Rocco Chinnici, lascia il “bunkerino”, il museo realizzato sei anni fa dall’Anm di Palermo nell’ufficio del Tribunale dove lavorarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

L’addio è stato annunciato attraverso un post su Facebook nel quale Paparcuri spiega le motivazioni della sua decisione.

“Ecco perché non vado più al bunkerino”

“Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più. Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza”.

“Scrivo – prosegue Paparcuri – perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco”.

“Sono stanco di chiedere scusa e dei sospetti”

Sono stanco di chiedere continuamente scusa, sono stanco di leggere certe cose, stanco della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, stanco dei sospetti, stanco delle lamentele, stanco di raccontare, stanco di tutto, comunque è da parecchio che ci penso”.

In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni, ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare. E mai ho detto non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione”.

“Rimarrà il palazzo dei veleni”

“Il mio sogno – continua Paparcuri – era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni“.
QUOTIDIANO DI SICILIA


Giovanni Paparcuri lascia il ‘bunkerino’ di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: “E’ il palazzo dei veleni” L’annuncio arriva con un post in cui Paparcuri si dichiara “stanco”.

Lascerà direzione del ‘bunkerino’, Giovanni Paparcuri, sopravvissuto della strage Chinnici. L’annuncio delle dimissioni dal museo, realizzato sei anni fa dall’Anm di Palermo nell’ufficio del Tribunale in cui lavorarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, arriva tra le polemiche per mezzo di un post.

Si tratta di uno dei pochi veri luoghi di memoria, proprio grazie all’impegno di Paparcuri, chiamato da tutti ‘Papa’. Ma adesso, a sorpresa, Giovanni Paparcuri, a cui fu affidato fin dall’inizio il ‘bunkerino’ ha annunciato il suo addio e parla di “Palazzo dei veleni”.

Il museo si trova al piano ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo dove i due magistrati lavorarono negli anni Ottanta. È stato inaugurato il 24 maggio del 2016 e ad oggi è stato visitato da oltre 30 mila persone, venute da ogni angolo del mondo. Qui si trovano le scrivanie dei due magistrati, i loro oggetti personali, copie di atti. E, soprattutto, qui venne scritto il Maxiprocesso.

L’addio è stato annunciato con un post su Facebook: “Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più. Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza. Scrivo perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco”. GLOBALIST


Veleni al “bunkerino” del palazzo di giustizia, Giovanni Paparcuri: “Vado via, sono inviso a troppi”

Bufera sui social per la decisione del sopravvissuto alla strage di via Pipitone Federico che lavorò con Falcone e Borsellino, anima del museo: “Sono stanco e disgustato, è stato un susseguirsi di ostacoli, invidie e ipocrisia”. Il giornalista Piero Melati rinuncia a ritirare un premio letterario per solidarietà. Anm e Progetto Legalità: “Ci ripensi”

E’ amareggiato, più precisamente – perché Giovanni Paparcuri non è uno che gira intorno alle cose e che le sfuma per renderle più gradevoli – disgustato. “Sono stanco, adesso davvero non ce la faccio più e non voglio più sentire parlare di nulla”. E’ così che commenta la sua decisione – resa pubblica ieri attraverso una serie di post su Facebook – di lasciare il bunkerino, ovvero il museo realizzato nelle stanze dove lavorò con i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Museo di cui è l’anima, tanto che molte persone gli hanno scritto, deluse per la sua assenza.

Una scelta, quella di Paparcuri (sopravvissuto alla strage in cui morì il padre del pool antimafia, il giudice Rocco Chinnici) che ha suscitato tanto frastuono sui social, indignazione e delusione e centinaia di richieste di ripensarci. La reazione più incisiva (e quasi immediata) è stata quella del giornalista Piero Melati che “in segno di solidarietà con Giovanni” ha deciso di non ritirare il riconoscimento nell’ambito del premio Racalmare, fondato da Leonardo Sciascia, al suo ultimo libro, “Paolo Borsellino, per amore della verità”. E Melati (che ha un approccio molto particolare al tema della memoria e chi ha letto i suoi “Vivi da morire” o “La notte della civetta” lo sa bene) non ha esitato a scrivere “così è morta definitivamente l’Antimafia”. Una presa di posizione molto netta, dunque, con la quale il giornalista non esita a puntare il dito contro quel fare memoria che è solo “immagine”, facciata, sul quale “costruire carriere e successo” e che ha ammorbato la possibilità di fare memoria “vera” negli ultimi decenni.

“Dissapori e ostilità, lascio il bunkerino”

Alla base della scelta di Paparcuri ci sono una serie di dissapori e un clima di ostilità che ha avvertito negli ultimi anni al palazzo di giustizia, questioni legate proprio alla gestione e ai ruoli all’interno del museo. I suoi post sono al vetriolo e anche se non fa nomi, lascia trapelare tanta amarezza e rabbia. Di fronte a “tanta ipocrisia”, “falsa solidarietà”, “invidie”, “sospetti” e “lamentele”.

Anm e Progetto Legalità: “Ci ripensi, disposti a parlare e chiarire”

Messaggi duri, per nulla velati (in perfetto stile Paparcuri) che sono stati letti anche dall’Anm e dalla Fondazione Progetto Legalità, che gestisono il museo, e da parte delle quali – al di là delle polemiche e dei toni – c’è la massima apertura per chiarire ed evitare che Paparcuri lasci il bunkerino. Una serie di incomprensioni che si sono sommate nel tempo e che evidentemente Paparcuri non riesce più a reggere, ma che – seduti ad un tavolo – potrebbero anche ricomporsi. “Sappiamo perfettamente – dicono – chi è Giovanni Paparcuri e abbiamo sempre riconosciuto il suo apporto fondamentale, il suo valore e il bagaglio di memoria che porta al museo. E’ una sua scelta quella di lasciare, ma noi non vogliamo questo, vogliamo che resti e continui il percorso avviato anni fa”.

“Sono inviso a tanti, per questo vado via”

Nel suo primo post, ieri, Paparcuri ha ricordato la festa della guardia di finanza del 2017, alla quale era stato invitato e dove però “un magistrato vedendomi mi ha rovinato la giornata dicendomi: ‘Ma lei che ci fa qui’, come se fossi un imbucato. Già – scrive su Facebook – non facevo e non faccio parte degli eletti, lì ho capito che ero inviso a tanti e che non avrei avuto vita facile. E così è stato, ma mi sono stancato, per questo lascio”.

“Sono stanco di ipocrisia, invidie e lamentele”

In quello successivo entra maggiormente nel merito e spiega le ragioni per le quali ha deciso di non andare più al bunkerino: “Grazie dei messaggi ma voi non dovete venire per me, ma per loro (si riferisce ai giudici Falcone e Borsellino, ndr). Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, me devo farlo perché sono stanco, stanco di chiedere continuamente scusa, di leggere certe cose, della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, dei sospetti, delle lamentele”. E ancora: “Scrivo perché mi sarei aspettato un incontro de visu con i vertici per una chiarimento definitivo e risolutorio, invece silenzio assoluto, salvo rare telefonate di soli rimproveri”.

“Tante delusioni, ma scelgo da uomo libero”

E continua: “L’ultima è stata veramente pesante, sono stato accusato di essere egocentrico, perché ho detto metaforicamente ‘da padrone di casa sono diventato nemmeno un inquilino, nessuno’. Ma era in senso figurativo, per spiegare il mio malessere interiore. La risposta è stata: ‘Tu sei padrone di niente, sei solo egocentrico’. E’ vero, sono padrone di niente, ma della mia dignità sono più che padrone”. Poi aggiunge: “Scrivo per la delusione di due magistrati che ritenevo amici, invece anche da loro silenzio assoluto ed è quello più assordante, ma il sistema è questo, cane non mangia cane. Riconosco anche di aver fatto degli errori ma sempre in buonafede. Non so se c’è un cielo né se ci sono degli angeli che ci guidano, ma noi siamo umani, viviamo in questa terra e contano solo i fatti reali, belli o brutti che siano. E quando vedi che ti hanno ‘rubato’ anche i tuoi ricordi e che ci sono cento cani attorno ad un osso, è meglio lasciare. La vita è fatta di scelte, anche dolorose, e quando arriva l’ora non puoi tirarti indietro ed io scelgo da uomo libero consapevole di avere fatto il mio dovere fino in fondo. Chiudo esortandovi a venire, gli uomini passano, ma la vita continua”.

“La misura è ormai colma, è stato un susseguirsi di ostacoli”

“In un altro post  Paparcuri spiega poi una serie di difficoltà che in questi anni avrebbe incontrato: “La misura ormai è colma a me bastava essere lasciato tranquillo e l’ho fatto in primis per i giudici Falcone e Borsellino e per le tante persone che sono venute in visita. Invece è stato un susseguirsi di ostacoli, dall’impedirmi di andare un bagno chiudendomi i varchi, dal mettermi una persona accanto che doveva soltanto aiutarmi nel gestire le prenotazioni, invece è diventato anche un censore e controllore dei miei ricordi e invadente nei miei rapporti con le persone”.

“Questo palazzo è rimasto il palazzo dei veleni”

Il messaggio più amaro e doloroso è quello pubblicato all’alba di oggi, con una foto del palazzo di giustizia: “In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni, ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare. Il mio sogno era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni”.

Melati: “Così è morta definitivamente l’Antimafia”

Melati, di fronte alle parole di Paparcuri, non ha usato neppure lui metafore e giri di parole: “Per me – ha scritto su Facebook – così è morta definitivamente l’Antimafia, non me ne parlate più, tenetevela per voi e le vostre fandonie. La presenza di Giovanni in quel velenoso panorama costituiva una delle ultimissime ragioni per sopportare quella baracca maleodorante, che insulta ogni giorno la memoria dei caduti e delle vittime. Il 27 sarei dovuto andare a Grotte, al premio Racalmare fondato da Leonardo Sciascia, a ritirare un riconoscimento che la giuria ha generosamente riconosciuto al mio libro ‘Paolo Borsellino per amore della verità’, il cui capitolo ‘Senza tante cerimonie’ era dedicato proprio al museo del bunkerino e a Giovanni Paparcuri, in rappresentanza di quei collaboratori veri e diretti del pool di giudici antimafia di Palermo che mai vengono invitati alle cerimonie ufficiali. Ebbene scriverò alla cortese giuria ringraziandola, ma aggiungerò che non mi sento di ritirare il premio per solidarietà con Giovanni Paparcuri”.

“Un teatrino ridicolo per costruire carriere e pasteggiare sulla memoria dei caduti”

“Ora vedrete – aggiunge – che qualcuno correrà ai ripari, per evitare il danno d’immagine. E qualcun altro farà invece il duro, perché la baracca ha bisogno di espellere definitivamente i Paparcuri per poter funzionare come funziona, ovvero per pura immagine. Per quanto mi riguarda il danno è fatto. Se non dobbiamo arrenderci, come ci invita Giovanni, per la memoria oppure per la legalità o per quello che volete, dovremo trovare un altro luogo, altri ambiti, altri contesti, che non siano mai più la cosiddetta ‘Antimafia’, almeno per quanto mi riguarda. Ce ne ricorderemo di questo Trentennale. Sono stati toccati i punti più alti di un ridicolo e mefistofelico disegno che va avanti da decenni: fare carriere e avere potere e successo calcando un teatrino di guitti e falsari che prevede di pasteggiare sulla memoria dei caduti”. PALERMO TODAY


Giovanni Paparcuri lascia il bunkerino di Falcone al Tribunale di Palermo: “Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni”

“In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni”, scrive Giovanni Paparcuri in un post su Facebook con il quale annuncia il suo addio al bunkerino: “Ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare. E mai ho detto non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione. Il mio sogno – prosegue – era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni…”.

Paparcuri non è solo il fondamentale collaboratore dei due giudici e colui il quale “inventò” l’informatizzazione del maxiprocesso (all’epoca rivoluzionaria) che ha permesso a Falcone e Borsellino di poter accedere all’incredibile mole di documenti grazie a un pc. E’ anche la memoria storia di quegli anni. Giovanni Paparcuri è anche una delle voci protagoniste del podcast Mattanza di Giuseppe Pipitone. E’ lui a raccontare aneddoti e vicende degli anni più difficili per Palermo e la Sicilia: dalle lacrime di Giovanni Falcone al ritrovamento, proprio nel bunkerino, di un appunto del magistrato con il nome di Berlusconi.

“Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più. Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza. Scrivo perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco”, aggiunge Paparcuri nel suo post su Facebook. “Sono stanco di chiedere continuamente scusa, sono stanco di leggere certe cose, stanco della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, stanco dei sospetti, stanco delle lamentele, stanco di raccontare, stanco di tutto, comunque è da parecchio che ci penso”, scrive Paparcuri. Sul perché della sua scelta, rispondendo ai commenti sottolinea che “non è da oggi che esistono svariati problemi, ma per amore di quei giudici sono tornato sempre sui miei passi, per ultimo l’ho fatto presente il 24 maggio (per una vicenda che racconterò in seguito), ed è da quel giorno che aspetto quanto meno una convocazione, per un chiarimento e per definire una volta per tutte i ruoli, ma anche per sentirmi dire ‘Giovanni hai rotto il cazzo, invece nulla’. Ho aspettato inutilmente, solo silenzio, e il silenzio dice più di mille parole”.

“Mi dispiace moltissimo che Giovanni Paparcuri abbia deciso di lasciare il bunkerino. Spero che ci ripensi e che non si tratti di una decisione definitiva”, ha commentato all’Adnkronos il presidente del Tribunale di Palermo Antonio Balsamo. “Vorrei invitarlo con tutto il cuore a riprendere la sua attività – dice ancora Balsamo- anche perché Paparcuri e l’allora Presidente della Corte d’appello Gioacchino Natoli hanno avuto una idea veramente straordinaria. Di tramandare alle giovani generazioni una parte importante del patrimonio ideale di questa città che è un fondamento della nostra identità collettiva“. | 22 Agosto 2022

 


22 AGO 2022. RAI NEWS 

Paparcuri lascia la guida del museo “Bunkerino di Falcone e Borsellino”

La Fondazione progetto legalità e l’Anm, che gestiscono lo spazio della memoria, hanno assicurato che sarà sempre possibile prenotare le visite all’interno del Palazzo di giustizia di Palermo
di Carla Falzone
 

 

Lascia l’ideatore e curatore del “bunkerino” di Falcone-Borsellino

Paparcuri, sopravvissuto all’attentato in cui morì Rocco Chinnici denuncia: “Era e resterà il palazzo dei veleni”

di Giovanni Franco ANSA
 

Paparcuri nel bunkerino della memoria: “Quei veleni contro Falcone”

Unico sopravvissuto della strage Chinnici e poi reclutato da Giovanni e da Paolo Borsellino, è custode di appunti, fotografie e di una montagna fascicoli che testimoniano l’opera dei magistrati

Il ‘pizzino’ di Paolo Borsellino è scanzonato, ma perentorio: “Se la papera vuoi trovare 5000 lire devi portare”. E la risposta dell’amico estorto, Giovanni Falcone, è degna della sua fama: “Paolo non rompere e rimetti la papera al suo posto”. E’ uno degli aneddoti – tra tanti – che Giovanni Paparcuri, l’uomo che visse due volte, sciorina ai visitatori che ogni giorno visitano il “bunkerino”, gli uffici blindati al primo ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo in cui i due giudici uccisi da cosa nostra 30 anni fa, scrissero di proprio pugno i 41 volumi della richiesta di rinvio a giudizio che sfociò nel maxi processo.

Si arriva davanti alla porta blindata del bunkerino, dove all’epoca stavano gli agenti delle scorte, con aria curiosa, qualcuno sorride, altri hanno voglia di entrare subito. Ma Paparcuri-Caronte prima li indottrina: “Prima stavano al piano terra, senza vetri blindati. Quando aumentò la tensione si trovò questa soluzione per garantire la sua sicurezza”. Si entra sorridenti, dicevamo, ma si esce con le lacrime agli occhi. Perchè Giovanni Paparcuri – unico sopravvissuto della strage Chinnici, di cui era l’autista e poi reclutato da Falcone e Borsellino per la sua passione per l’informatica – nel suo ruolo di guida, ti fa ripiombare, alla fine degli anni Ottanta: “Migliaia di morti in 3 anni, c’era la guerra di mafia tra i corleonesi e i perdenti, sono morti magistrati, poliziotti, carabinieri, imprenditori”. Debora, da Rimini, è la terza volta che viene a Palermo e per la terza volta al bunkerino.

Ma non trattiene le lacrime quando sente Paparcuri che legge il biglietto d’amore che Falcone scrisse alla sua amata moglie Francesca: “Giovanni, amore mio…”. Un biglietto trovato per caso in un libro e che ora è all’interno della tomba del giudice a San Domenico. “Io mi ripresi dopo un anno e mezzo – racconta ai visitatori provenienti anche da Genova, Firenze, Prato, Vicenza – e lo Stato voleva riformarmi. Mi rifiutai e poi ricevetti dai giudici, che conoscevano la mia passione per l’informatica, di allestire questo ufficio in chiave più moderna”. Si deve a questo ufficio – a queste persone, da Falcone e Borsellino allo stesso Paparcuri – la nascita della prima banca dati informatizzata. Certo, si sta parlando del 1985: “Usavamo i microfilm, non c’erano gli scanner, i nastri erano avvolti nelle bobine – racconta – e il computer è grande quanto una lavatrice”.  Paparcuri rivela – mentre mostra i verbali di Tommaso Buscetta, il primo pentito di mafia fondamentale nel maxi processo – che “una settimana prima dell’attentato dell’Addaura, sventai un tentativo, credo fosse il primo, di violazione della nostra rete informatica. Proprio mentre qui c’era, nella stanza con Falcone, la magistrata svizzera Carla Del Ponte, giunta a Palermo in segreto per svolgere alcuni interrogatori”. Paparcuri ricorda, non senza amarezza, i veleni, i depistaggi e l’ex capo della Mobile e questore di Palermo, Arnaldo La Barbera che “venne in questo ufficio a cercare talpe incolpando anche dei commessi che ascoltavano la musica col mangianastri e sostenendo che in realtà intercettavano tutto l’ufficio. La Barbera – chiosa mentre i visitatori sono attratti dall’impermeabile anti proiettile che non serviva a nulla – quello del depistaggio di via D’Amelio e del falso pentito Scarantino…”. Sono tre stanzette che compongono il bunkerino, sono piene zeppe di appunti, libri, riconoscimenti, fotografie, una montagna di fascicoli, tutto originale. Ed è tutto com’era. Come se i giudici possano arrivare da un momento all’altro dicendo: “Papa vieni subito dobbiamo lavorare”. La visita dura 70 minuti. “Ora non mi fate parlare più, sono stanco. Facciamoci un selfie”. E sui volti dei visitatori torna di nuovo il sorriso.

 

 

Mafia, Paparcuri lascia il bunkerino: “Palazzo dei veleni”

“In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni, ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare. E mai ho detto ‘non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione’. Il mio sogno era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato li’ per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio piu’ sentire parlare. Era e rimarra’ per sempre il palazzo dei veleni”. Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici e collaboratore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, custode del ‘bunkerino’ al Palazzo di giustizia di Palermo con la sua eredita’ morale, di memoria e documenti, se ne va. Lancia queste parole amare insieme a una foto dell’edificio del tribunale avvolto dalla notte e annuncia che si tira indietro. Parla di porte chiuse, veleni e gelosie, addensatesi su quelle stanze, una delle quali contiene, addossata alla parete poco prima di entrare nel ‘bunkerino’, meta di studenti, turisti, cittadini, la copia intera degli atti processuali del Maxiprocesso.  “Non e’ da oggi – spiega Paparcuri – che esistono svariati problemi, ma per amore di quei giudici sono tornato sempre sui miei passi”. L’incarico di custode di questa preziosa memoria, ricorda Paparcuri, lo ha ricevuto il 16 dicembre del 2015. Ma ora afferma: “Io non ci saro’ piu’, ma ci tengo a precisare che non e’ una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non e’ una resa, ma devo farlo, perche’ sono stanco, sono stanco di chiedere continuamente scusa, sono stanco di leggere certe cose, stanco della tanta ipocrisia e della falsa solidarieta’, stanco di difendermi, stanco delle invidie, stanco dei sospetti, stanco delle lamentele, stanco di raccontare, stanco di tutto, comunque e’ da parecchio che ci penso”. Scrive, incalza, perche’ si sarebbe aspettato “un incontro de visu con i vertici per un chiarimento definitivo e risolutorio, invece silenzio assoluto, salvo rare telefonate di soli rimproveri”. E accusa: “E’ stato tutto un susseguirsi di ostacoli”. “Mi hanno anche messo una persona a fianco – prosegue Paparcuri – che doveva soltanto aiutarmi nel gestire le prenotazioni, invece e’ diventato anche un censore e controllore dei miei ricordi e invadente nei miei rapporti con le persone. Che tra l’altro, non e’ nemmeno un collega, ne’ dell’ambiente e tanto altro ancora… Intanto rinfresco la memoria, che non guasta, con alcune foto scattate nel 2009 pochi giorni prima che andassi in pensione: dimostrano, qualora ce ne fosse bisogno, che appunti, libri, apparecchiature e altro ancora, che ho riportato al museo Falcone Borsellino, li ho sempre custoditi io. Altri ancora sono esclusivamente miei, cioe’ regali del dottor Falcone, altri oggetti e documenti solo io sapevo dove erano custoditi. Sempre per cronaca: subito dopo il suo insediamento, il dottor Natoli quale presidente della Corte d’Appello, mi ha testualmente detto: “Giovanni sei l’unico a fare rinascere quei luoghi”. Il 16 dicembre del 2015 il dottor Matteo Frasca quale presidente distrettuale dell’Associazione nazionale magistrati mi ha ufficialmente dato l’incarico”. Infine, si rivolge a quanti hanno espresso sconcerto per questa scelta: “La vita e’ fatta di scelte, anche dolorose, e quando arriva l’ora non puoi tirarti indietro, ed io scelgo da uomo libero consapevole di avere fatto il mio dovere fino in fondo. Chiudo esortandovi a venire, gli uomini passano, ma la vita continua”. GRANDANGOLO 22.8.2022
 
 

Lascia il curatore museo Falcone-Borsellino, ‘palazzo veleni’

In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni, ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare. E mai ho detto non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione. Il mio sogno era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni”. E’ lo sfogo di Giovanni Paparcuri guida e curatore di quello che è chiamato il bunkerino realizzato dalla giunta distrettuale dell’associazione nazionale magistrati di Palermo dedicato alla memoria di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
    “L’opera si propone l’obiettivo di realizzare un luogo di memoria permanente indirizzato non solo agli addetti ai lavori, ma all’intera collettività ed in particolare alle giovani generazioni”, è l’obiettivo del museo aperto al pubblico il 24 maggio del 2016.
    “Determinante per la sua realizzazione è stato il contributo di Giovanni Paparcuri, straordinario collaboratore dei due magistrati ed “inventore” della informatizzazione, all’epoca rivoluzionaria, del maxiprocesso, scampato miracolosamente all’attentato del 29 luglio 1983 in via Pipitone Federico a Palermo, nel quale persero la vita il Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, il Maresciallo Trapassi e l’appuntato Bartolotta dei Carabinieri, nonché il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi”, sotttolinea l’anm.
    E’ amareggiato quello che è considerato una sorta di memoria storica di quegli anni terribili: “Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza. Scrivo perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco”. RAGUSA NEWS


A 30 anni dalla strage di Capaci: la fatica di fare memoria pubblica – Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

«Alla notizia della strage scappai in Questura. La sera del 23 maggio 1992, tornando a casa, trovai una fila di persone davanti al portone che mi sorprese. I palermitani si erano assuefatti alla violenza mafiosa. Quel giorno s’indignarono e qualcosa iniziò a cambiare. I funerali di mio marito, Antonio Montinaro, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo e Vito Schifani scossero la coscienza della città, della Sicilia e dell’Italia, segnando una reazione civile». Tina Montinaro, la moglie del caposcorta del giudice Falcone, parla nella sua abitazione a Palermo, mentre versa il caffè. Ha trascorso gli ultimi trent’anni a lenire il dolore, danzando sul confine che delimita la memoria personale, quella pubblica e la Storia. «Nel 1992 Antonio aveva trent’anni e non era un eroe», dice. «Proveniva dalla Questura di Bergamo e chiese l’aggregazione per il Maxiprocesso a Cosa nostra. Ammirava Falcone e aveva giurato alla Repubblica italiana. Scelse consapevolmente l’impegno della protezione del magistrato più esposto nella lotta alla mafia e lo mantenne dopo il preavviso di morte del fallito attentato all’Addaura. Non cambiò idea neanche quando lo Stato tolse l’indennità di rischio». Fino al 1997 Tina ha coltivato in forma strettamente privata la rielaborazione di una ferita intima e tuttora aperta della storia repubblicana. Quando ricorda il marito, non dimentica mai chi condivise la stessa sorte, come fosse un’orazione collettiva. I magistrati e gli agenti caduti erano uomini concreti e fallibili. La beatificazione è una maledizione, perché rende queste figure estranee a noi. Sapevano commisurare la paura con il coraggio. Presero atto della situazione in cui si trovavano fino all’ultimo e seppero agire come le circostanze richiedevano. Per questo non ne deve essere perduta la memoria. «Trentenne con due figli piccoli mi sono ritrovata dentro a una vicenda molto più grande di me», riflette Tina. «Sono cresciuta in fretta. A trent’anni di distanza dalla stagione del terrore stragista manca ancora una piena verità. Ti rendi conto che esistono dinamiche difficili anche solo da immaginare. Dopo gli anni del silenzio, ho dovuto mettermi in gioco in prima persona, perché lo Stato non ha saputo coniugare la giustizia con la memoria». Dove sono finiti i resti della macchina divelta nell’attentato? Il viaggio in Italia di Tina Montinaro è cominciato, ponendo questa domanda che l’ha spinta fino all’autoparco della Polizia di Stato a Messina: «Nelle lamiere della vettura, la Quarto Savona 15, sono rimaste tre vite, tre passioni e tre famiglie. Non mi hanno potuto mostrare il poco che restava del corpo di Antonio. Guardando l’auto, nessuno può essere indifferente». Senza questa iniziativa personale e la successiva collaborazione dei vertici della Polizia, un simbolo fondamentale per comprendere la portata e il significato della strage di Capaci verserebbe in stato di abbandono. Solo cinque anni fa la teca con il groviglio di rottami della Quarto Savona 15 ha trovato una collocazione a Palermo. Non scordiamo che la prima statua in memoria di Falcone è stata eretta in America a Quantico nell’accademia dell’Fbi, nel 1994. In Italia per avere una lapide commemorativa al Ministero di giustizia si è aspettato fino al 2002.

«Oggi, dopo mille stragi, dopo Falcone e Borsellino, ogni spazio parrebbe chiudersi, non dico all’idillio, ma alla fiducia più esangue. E tuttavia… finché in una biblioteca mani febbrili sfoglieranno un libro per impararvi a credere in una Sicilia, in un’Italia, in un mondo più umani, varrà la pena di combattere ancora, di sperare ancora. Rinunziando una volta per tutte a issare sul punto più alto della barricata uno straccio di bandiera bianca», scrisse Gesualdo Bufalinonella nota Poscritto 1992 contenuta nell’antologia Cento Sicilie. Scavando nelle storie e memorie dei sopravvissuti alla Tombstone italiana, che spesso hanno pianto in solitudine i “propri” morti per la nazione, si trovano le tracce della resistenza descritta da Bufalino. Una resistenza fondata sulla ricerca e conoscenza dei fatti.

Cosa nostra, distribuendola dappertutto, ha reso la morte il suo volto pubblico. Doveva ostentare il potere di mostrarla. Dopo la scomparsa di De Mauro, dal 1979 in poi gli omicidi eccellenti (Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa e quanti altri) hanno lasciato una traccia in ogni strada. Cosa nostra si era impossessata della morte e della possibilità di darla.

«Quale impasto sociale e umano ha potuto tollerare che tre Kalashnikov sparassero a Cassarà sulle scale di casa, mentre la moglie con la bambina piccola urlava, bussava alle porte per salvarsi e nessuno le aprì – osserva l’ex giornalista de L’Oraescrittore Piero Melati. Quella dell’autobomba di Chinnici che città è? Leggevamo nei giornali “Palermo come Beirut” sul terrazzino della casa di famiglia, mangiando il gelo di mellone. Poi ti abitui a tutto, le dittature sono così. La fine è solo l’annientamento, perché arriviamo a tollerare tutto. Vedo una relazione con la parola totalitarismo e persino con il regime concentrazionario».

Prima dell’attentato più eclatante su una curva dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi corre verso Palermo, con la potentissima deflagrazione di oltre cinquecento chili di tritolo che creò un cratere, l’omicidio (29 luglio 1991) di Libero Grassi, imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo e aveva denunciato pubblicamente, animò una rivolta. Apparvero i lenzuoli bianchi sui balconi e scritte contro i boss. La città cominciò a ribellarsi, ad aprire una strada per il futuro, e l’Italia a percepire quanto la questione fosse parte della biografia nazionale, non una storia solamente siciliana.

Il 30 gennaio 1992 alla conclusione del Maxiprocesso, istruito dai giudici del Pool antimafia di Palermo, con la condanna all’ergastolo in Cassazione della cupola di Cosa nostra, fu confermata l’esistenza di un’organizzazione criminosa caratterizzata da una struttura verticistica e dall’aggregazione di diversi nuclei operativi uniti dalla ricerca di profitti illeciti con metodi di sopraffazione e intimidazione.

Questo è stato uno spartiacque decisivo sul fronte dell’opinione pubblica, giudiziario e in parte di quello politico. Non si poteva più negare la sua esistenza ed erano state gettate le fondamenta del movimento che possiamo chiamare antimafia, affermatosi nella prima metà degli anni Novanta. Nacquero e si svilupparono realtà come Libera. La questione mafie entrò finalmente nell’agenda nazionale.

All’inizio del decennio degli anni Ottanta ancora si metteva in discussione l’esistenza stessa della mafia, spesso definita come una semplice associazione per delinquere, quando Chinnici oltre ad aver definito l’essenza del potere di Cosa nostra, ne aveva delineato l’unitarietà e l’interdipendenza fra le famiglie mafiose. Il fenomeno necessitava di una lettura non più frammentaria.

Scrisse Falcone un anno prima della sentenza definitiva della Cassazione: «È risultato di grande rilievo che sia stata autorevolmente confermata dai giudici di secondo grado, l’esistenza e l’unicità di un’organizzazione criminale che, per numero dei suoi membri e per pericolosità, non ha uguali nel mondo occidentale. La precisazione è d’obbligo: finalmente si è giunti a una incontestabile identificazione della natura e delle dimensioni del “nemico” da combattere».

Dopo l’addio del consigliere istruttore Antonino Caponnetto, tornato in Sicilia per proseguire il lavoro intrapreso da Rocco Chinnici, a Palermo il decennio di lotte che aveva prodotto il Maxiprocesso entrò in una fase di reflusso o “normalizzazione.” Il 19 gennaio 1988 il Consiglio Superiore della Magistratura per la carica di guida dell’Ufficio Istruzione, al posto di Caponnetto, indicò per questione d’anzianità Antonino Meli, scartando la candidatura autorevole di Falcone non raramente accusato di protagonismo giudiziario.

L’apice della stagione dei veleni fu l’attentato mancato all’Addaura: 58 candelotti di esplosivo rinvenuti il 21 giugno 1989 nel tratto di scogliera tra la casa, presa in affitto da Falcone, e il mare. Il giudice, che aveva come ospite la collega Carla Del Ponte, qualificò come raffinatissime le menti che lo avevano progettato e fu l’anticipazione della strage di Capaci.

Dopo la conferma in sede giudiziaria della validità dell’impianto accusatorio del Maxiprocesso con il progressivo smantellamento del pool, l’azione repressiva del fenomeno mafioso perse di slancio e d’efficacia. Alla sentenza del Maxiprocesso del 16 dicembre 1987, che inflisse 2665 anni di carcere ai mafiosi, Falcone segnalava invece la necessità di un ulteriore salto di qualità nella strutturazione del lavoro antimafia. Un’urgenza che lo portò da Palermo a Roma, dove ricoprì la carica di Direttore generale degli affari penali del Ministero di giustizia, subendo violente accuse dalla stessa magistratura come se avesse ceduto alle lusinghe della politica.

«Molti lo ricordano ancora oggi per il rigore delle sue indagini. Riconoscendogli, anche a livello internazionale, la grande professionalità e il merito di avere scoperto cosa significasse Cosa nostra. Pochi ricordano i momenti più tragici della sua vita e gli attacchi subiti anche da chi riteneva amico e il grande isolamento in cui fu costretto, rendendo ancora più pericolosa la sua vita», ha sottolineato la sorella Maria, che attraverso la Fondazione Falcone ha realizzato numerose iniziative, innanzitutto con i giovani, per trasmettere il senso di questo sacrificio.

A Palermo è nato un luogo prezioso per ricostruire la memoria di queste esistenze con i documenti e gli atti che determinarono quella stagione. Varcando le soglie del Palazzo di giustizia, si scopre la cura con la quale Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto all’attentato del 29 luglio 1983 per uccidere Chinnici e successivamente collaboratore tecnico informatico del pool antimafia, tutela il Museo Falcone – Borsellino.

Durante la visita si entra nelle stanze del bunker dei giudici arredate con le carte delle indagini, processi e loro oggetti personali. I luoghi sono fatti anche della materia di chi li animati, delle cose che sono accadute e la loro presenza si avverte forte. Come Tina Montinaro, Paparcuri evoca la fatica del fare memoria pubblica:

«Questi uffici erano diventati una discarica di carte, nonostante si conoscesse il loro valore storico. Nel dicembre del 2015, l’allora presidente della Corte di appello e il presidente della giunta distrettuale della ANM mi proposero di far rinascere questo spazio con la documentazione conservata nel periodo di lavoro condiviso con i giudici».

Nella stanza di Falcone è appesa una lettera dolorosa, nella quale il giudice spiegava così le ragioni della rinuncia a un impegno di carattere accademico (anno 1988/’89) e formazione per gli studenti: «(…) L’enfatizzazione fin da adesso di questa iniziativa, però, rischia di snaturare gli scopi di questo corso che dovrebbe costituire, non già passerella per chicchessia, ma mezzo di approfondimento serio di una materia la cui importanza è superfluo sottolineare. E già dai primi articoli di stampa riaffiora, anche stavolta in maniera distorta e strumentale, la solita polemica sui professionisti dell’antimafia e sui riconoscimenti di cui costoro godrebbero».

Falcone concluse il messaggio, asserendo che sarebbe stato meglio mettersi da parte, con la speranza che servisse a qualcosa, per non distogliere l’attenzione dai problemi reali con le solite polemiche su mafia e antimafia.Questo era il clima che lo accompagnò verso la fine della strage di Capaci. L’articolo che Leonardo Sciascia scrisse sui professionisti dell’antimafia era profetico in alcuni sensi, ma come ricordò Borsellino quel giorno Falcone iniziò a morire.

«Quello dell’antimafia è uno scenario affollato – afferma lo storico Salvatore Lupo –, che potrebbe giustificare qualche contro-polemica “alla Sciascia”, nel complesso, penso che l’antimafia rappresenti una grande risorsa civile e istituzionale del paese, il lascito positivo di un drammatico passato». La fine dello stragismo non equivale alla fine della mafia, bensì l’ha ricondotta a una dimensione carsica simile alla sua lunga storia che pone sfide nuove anche all’antimafia. Che cosa è diventato e quali sono le prospettive del movimento sociale e culturale nato dalla reazione al terrorismo di stampo mafioso? «Questa domanda mi suscita un senso di disorientamento – testimonia Tina Montinaro – seppure dopo le stragi sia stato realizzato un cambiamento reale. Il vestito della legalità, indossato da molte figure che sono state erroneamente elette a simboli antimafia, ha aperto le porte anche ai disonesti e ha fatto perdere lungo la strada la partecipazione di molte persone che avevano interessi sinceri. L’antimafia deve recuperare credibilità ed energia, perché quando la mafia non spara sembra che non esista, mentre permea sempre a maggiori profondità i gangli vitali della società».


I veleni al “bunkerino”, pioggia di appelli ma Giovanni Paparcuri è irremovibile: “Non tornerò”

Non sembra avere alcuna intenzione di tornare sui propri passi, Giovanni Paparcuri, nonostante gli appelli e le centinaia di richieste da parte di tantissimi cittadini. Aveva preannunciato domenica scorsa con un post su Facebook che avrebbe lasciato il “bunkerino”, ovvero il museo dedicato ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con i quali – dopo essere sopravvissuto alla strage in cui morì un altro giudice, padre del pool antimafia, Rocco Chinnici – lavorò per diversi anni all’interno del palazzo di giustizia. “La mia decisione è irrevocabile”, dice lapidario.

Tante le prese di posizione soprattutto sui social, formulate da chi teme che senza Paparcuri come guida quel museo – unico vero luogo di memoria a Palermo e che senza il suo contributo fondamentale forse non sarebbe mai nato – possa spegnersi e perdere la sua funzione essenziale. L’ex ispettore della Dia, Pippo Giordano, che lavorò durante gli anni più bui di Palermo accanto a Falcone, Borsellino, ma anche con Ninni Cassarà e Beppe Montana, ha deciso di inviare attraverso PalermoToday un accorato appello a Paparcuri perché torni al suo posto, nella sua “casa naturale”, cioè il “bunkerino”. Amareggiato per la scelta di Paparcuri anche il presidente dell’Ordine degli avvocati, Antonella Armetta, che ha espresso la propria solidarietà sempre attraverso Facebook. Solidarietà anche dal fotografo Tony Gentile, autore, tra l’altro, del celebre scatto dei due giudici diventato un simbolo della lotta alla mafia

L’Anm e la Fondazione Progetto Leglità, che gestiscono il museo, avevano inviato un comunicato per replicare alle dichiarazioni di Paparcuri, chiedendo anche loro – al di là delle polemiche, dei toni e dei modi – di ripensarci. Dai post di Paparcuri erano emersi problemi legati proprio alla gestione del “bunkerino” e tutta una serie di screzi e forse anche di equivoci che, alla lunga, lo hanno portato ad avvertire un clima di ostilità nei suoi confronti. E, purtroppo, a qualche giorno dall’annuncio, sembra che non ci sia alcuno spiraglio per fargli cambiare idea, per farlo tornare al museo.

L’appello dell’ex ispettore della Dia: “Giovanni, ripensaci”

“Mi sono rammaricato per quello che ho letto sul ‘bunkerino’ del tribunale di Palermo. Mi spiace tantissimo per Giovanni Paparcuri – dice in una nota Pippo Giordano – e spero che si ravveda, tornando ad essere la pietra miliare del museo. Gli studenti e gli adulti hanno bisogno di te, Giovanni (consentimi questa espressione affettuosa). Tu puoi raccontare la storia vissuta e non appresa de relato. Tu puoi magnificare la grandezza e lo spessore dei due Gentiluomini Siciliani, hai vissuto per anni accanto a loro. E proprio per i dottori Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Rocco Chinnici e tutti i magistrati assassinati da Cosa nostra, ripensaci. Ritorna al ‘bunkerino’ è casa tua”.

“L’antimafia, quella vera, non è affatto morta”

Giordano però fa riferimento anche alla presa di posizione del giornalista Piero Melati che immediatamente si era schierato con Paparcuri, decidendo in segno di solidarietà di non ritirare un riconoscimento nell’ambito del premio Racalmare per il suo ultimo libro, “Paolo Borsellino per amore della verità”, rimarcando come a suo avviso con questa triste vicenda sia “morta definitivamente l’antimafia”. L’ex ispettore della Dia su questo punto non ci sta: “Non sono d’accordo col giornalista Melati – scrive infatti – quando afferma che ‘così è morta definitivamente l’antimafia’. No, l’antimafia quella vera e non di facciata, è viva e vegeta. Lo dimostra il grande impegno civile dei tanti volontari che, con abnegazione e sacrificio, portano la legalità nelle scuole e nella società. Per non parlare di chi è deputato a combattere la mafia e lo fa in silenzio, senza scrusciue batteria. Come facevano, appunto, Falcone e Borsellino, lontano dai riflettori. Ed è per questo che ti rinnovo l’invito, Giovanni, torna nella tua ‘casa naturale’. Dai voce a Falcone, Borsellino e ai tanti martiri della violenza mafiosa”.

Il presidente dell’Ordine degli avvocati: “Massima solidarietà a Paparcuri”

Amaro e solidale anche il commento di Armetta: “Non credo sia abbastanza esprimere la mia solidarietà a Giovanni Paparcuri, che ha mostrato un amore ed una dedizione senza pari ad una causa, quella della conservazione di un luogo di memoria vero della nostra terra, che viene sbandierato solo in occasione delle celebrazioni per la ricorrenza delle stragi. La verità è, purtroppo, triste. L’antimafia – scrive il presidente dell’Ordine degli avvocati – è un valore di facciata, da agitare quando conviene e quasi sempre per finalità politiche o per progressioni di carriera. Dell’antimafia reale, quotidiana e portata avanti con l’esempio non può importare nulla, perché non serve a chi – nel nome dei caduti – ha costruito una carriera. Buona fortuna, dottor Paparcuri. Noi non dimentichiamo ciò che ha fatto e la disponibilità con cui ha concesso a tutti di fruirne”.

Il fotografo Tony Gentile: “Sono con te, non mollare”

Anche il fotografo Tony Gentile ha espresso la sua solidarietà a Paparcuri attraverso un post su Facebook, in cui ha ricordato come lo conobbe e quanto si emozionò visitando il museo e ascoltando la sua testimonianza appassionata: “La decisione di Giovanni ha scatenato un altro terremoto all’interno del famoso Palazzo dei veleni (in effetti ci sarà una ragione per cui è stato definito così) – scrive Gentile – ma al di là dei torti e delle ragioni io sto con Giovanni e a lui, per quello che vale, manifesto tutta la mia solidarietà. Non mollare Giovanni, compi la tua scelta libera e tieni la schiena dritta come hai fatto fino ad ora, questa è l’unica antimafia che mi piace”.

PALERMO TODAY 25.8.2022  Sandra Figliuolo


 

Piero Melati rinuncia al premio Racalmare. “Solidarierà con Paparcuri”

L’addio polemico di Giovanni Paparcuri, custode della memoria di Falcone e Borsellino, al “bunkerino” del palazzo di giustizia causa uno strascico anche in campo culturale: Piero Melati, giornalista, autore del libro “Paolo Borsellino. Per amore della verità” ha anninciato di rinunciare al premio racalmare che gli era stato attribuito. La cerimonia del premio si svolgerà sabato a Grotte e, per la sezione narrativa vedrà in lizza Ugo Cornia, Andrea Vitali e Antonio Manzini.

Con una lettera alla giuria, Melati, che al caso Paparcuri, autista giudiziario di Rocco Chinnici, sopravvissuto alla strage di via Pipitone dell’83, ha spiegato la rinuncia al premio. “Nei giorni scorsi Paparcuri è stato costretto a dimettersi dall’incarico, pronunciando amarissime parole. Ne è nato un caso che ha rimesso al centro del dibattito la questione della memoria, chi ne sono i suoi veri testimoni, che senso abbia oggi una Antimafia che, a trent’anni dalle stragi siciliane, somiglia sempre di più ad una passerella della vanità e a una scorciatoia per le carriere, come ebbe a scrivere Sciascia nel suo famoso e profetico articolo sul “Corriere della Sera” del 10 maggio del 1987. Nel libro avevo già cercato di raccontare come il malessere di Paparcuri venisse da lontano. Lui stesso sopravvissuto a un attentato, amico e collaboratore di due “eroi” riconosciuti in tutto il mondo, non ha mai trovato il posto che gli spetta nelle ricorrenti cerimonie ufficiali. La stessa gestione del piccolo museo lo ha visto spesso sopperire a carenze varie di tasca propria, in un percorso costellato da invidie e diffidenze. Fino alla decisione finale di mettersi da parte”.

Conclude Melati: “Caro presidente e cari membri della giuria, oggi non ritiro il premio per solidarietà piena e convinta a Giovanni Paparcuri, uno dei protagonisti principali del libro che qui avete insignito. Si tratta di un piccolo gesto, ma che faccio lucidamente, dopo tormentata riflessione e pur se gravato dal peso di farvi una scortesia. Ma lo sento come un obbligo e un dovere”.La cerimonia di premiazione sarà condotta da Elvira Terranova.  


14.9.2022 Il museo Falcone e Borsellino perde il suo inventore che lascia chiudendo anche la pagina Facebook

LA MEMORIA CHE SI PERDE

Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici e stretto collaboratore di Giovanni Falcone che lo chiamava “Papa“, ha abbandonato quella che era la sua “creatura“: un museo (che non è solo un museo) nei locali dove i due giudici hanno vissuto uno accanto all’altro per dieci anni

  • In polemica con l’Associazione nazionale magistrati e con la Fondazione che gestisce la struttura, l’esperto informatico dell’ufficio istruzione il 5 settembre scorso ha chiuso anche la pagina facebook dedicata al “Museo Falcone-Borsellino”
  • Un luogo che è la riproduzione fedele degli uffici del primo pool antimafia, con gli oggetti originali appartenuti ai due giudici e i documenti della loro lunga attività istruttoria. Le macchine per scrivere che usavano, gli impermeabili protetti da una corazza di metallo, gli appunti, le ordinanze sentenze.
  • La risposta dell’Associazione magistrati: “Il Museo non chiude“. Tentativi per un chiarimento e nuove incomprensioni con l’antimafia ufficiale.

Le stanze sono sempre aperte ma lui non c’è più. Se n’è andato, piangendo, il 24 maggio. Proprio il giorno dopo il trentesimo anniversario della strage di Capaci. Per un po’ è stato zitto, poi ha cominciato a spiegare sul suo profilo Facebook perché non poteva stare più lì, in quello che a Palermo tutti conoscono come “il bunkerino”, gli uffici dove hanno vissuto uno accanto all’altro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Locali blindati in un ammezzato buio del palazzo di Giustizia, il luogo dove è nato il maxi processo a Cosa nostra e tanto altro ancora.

Un museo che non è un museo

Le stanze sono sempre aperte ma Giovanni Paparcuri, “papa” lo chiamava Falcone, ha abbandonato quella che era la sua “creatura”, un museo che non è solo un museo, è la riproduzione fedele degli uffici del primo pool antimafia con gli oggetti originali appartenuti ai due giudici e i documenti della loro lunga attività istruttoria. Le macchine per scrivere che usavano, gli impermeabili protetti da una corazza di metallo, gli appunti, le ordinanze sentenze, i soprammobili e soprattutto il respiro di quella Palermo anni Ottanta tramandata dalla memoria di chi con i due giudici ha diviso la sua esistenza nella stagione siciliana più cupa.

Alle 23 e 39 dello scorso cinque settembre Giovanni Paparcuri ha comunicato con un post di avere chiuso la pagina “Museo Falcone-Borsellino”, annunciando spiegazioni in merito per i giorni successivi. Che sono puntualmente arrivate. Messaggi diretti e altri più obliqui, comunque tutti poco lusinghieri per un’antimafia ufficiale che – a suo dire – l’ha lentamente e inesorabilmente emarginato.

La polemica con i magistrati

Nella sostanza “papa”, che “il bunkerino” l’ha fatto nascere, dopo sei anni e poco più di 30mila visitatori provenienti da ogni angolo d’Italia, lamenta di sentirsi lì dentro quasi un ospite. A volte anche mal sopportato, bersaglio di dicerie, vittima di un ingranaggio burocratico che mortifica il suo lavoro di testimone oculare in quella stagione. Ce l’ha con l’Associazione nazionale magistrati di Palermo, che è la “padrona” di casa con la presidenza della corte di appello. E ce l’ha pure con la fondazione Progetto Legalità che gestisce di fatto – e su delega dell’Anm – il museo. Abbiamo fatto domande a Paparcuri e naturalmente anche ai responsabili dell’associazione magistrati e della fondazione per ascoltare ogni versione sulla vicenda, ma c’è qualcosa che va oltre le presunte ragioni e i presunti torti delle parti, qualcosa che ha a che fare con Palermo e i suoi simboli. Soprattutto in un’estate come questa dove, proprio a Palermo, avvenimenti politici e sociali hanno travolto e stravolto quell’altra città che faceva resistenza contro un ritorno del passato

La convinzione che ci siamo fatti: probabilmente è stato sottovalutato il significato più profondo di “papa” fra quelle stanze, perché perdere lui è come perdere frammenti di memoria, “il bunkerino” non è certo una sua proprietà privata ma “il bunkerino” senza Giovanni Paparcuri diventerà inevitabilmente qualcosa di diverso, di scolorito, dove le “ricostruzioni” prenderanno il sopravvento sulle emozioni, dove si disperderà un sapere che non si può trovare in un documento ma solo in un cuore.

È tutto scritto nella storia di Giovanni. Nel 1983 è l’autista di Falcone ma il 29 luglio il giudice è in Thailandia per una rogatoria e lui, quella mattina, guida l’auto del consigliere Rocco Chinnici. C’è l’attentato, Chinnici muore, muoiono due carabinieri e anche il portiere dello stabile dove abita il consigliere. Giovanni si salva, è un miracolo.

La fiducia di Falcone

Quando torna in tribunale non può più fare l’autista, per il ministero non è più “idoneo”. Così inizia la sua seconda vita. S’inventa un nuovo lavoro, nei corridoi del palazzo di Giustizia sono ammassati scatoloni con i primi computer. Nessuno li sa usare. È Paparcuri che scopre il suo talento informatico e contagia subito con la sua passione Giovanni Falcone. È lui che archivia tutte le delicate informazioni del maxi processo, ogni segreto passa davanti ai suoi occhi. Falcone si fida ciecamente. Di lui, delle altre tre segretarie che sono nel “bunkerino”, del maresciallo della guardia di finanza Angelo Crispino che sta dietro una sgangherata porta di legno. Ci sono i giudici, ma in silenzio ci sono anche loro, la squadra del pool.

Poi arriva il 1992. A Capaci salta in aria Giovanni Falcone, saltano in aria tre poliziotti, se ne va anche Francesca Morvillo. Si salva ancora solo l’autista Giuseppe Costanza. Giovanni e Giuseppe hanno lo stesso destino. Anche Giuseppe non può più guidare le auto per le ferite riportate. Per un quarto di secolo sono state due ombre, mai invitati alle celebrazioni, mai ricordati. La solitudine dei sopravvissuti. I due, Giovanni e Giuseppe, ogni tanto si ritrovano a parlare della sorte avuta e del numero nove che li ha segnati. Nove gli anni d’età che separano uno dall’altro, nove gli anni che dividono l’attentato di Chinnici da quello di Capaci, nove gli anni di differenza d’età anche delle rispettive mogli, nate comunque nello stesso mese e nello stesso giorno.

Nel 2016 Paparcuri decide di far rivivere il “bunkerino”. Compra a sue spese le macchine per scrivere dei due giudici, raccoglie i biglietti e le carte che Giovanni Falcone gli aveva consegnato, nei sotterranei del tribunale va alla ricerca delle scrivanie e degli armadi che in quei primi anni Ottanta arredavano le stanze dei magistrati del pool.

I racconti sui giudici

Così un ammezzato buio e dimenticato torna com’era. È Giovanni Paparcuri il custode e la guida. Un successo clamoroso. Scolaresche, famiglie, poliziotti, magistrati, giornalisti, folle di semplici curiosi. E “papa” ad aprire e chiudere il museo che non è un museo, a descrivere le lunghe giornate di Falcone e Borsellino fra un interrogatorio e l’altro, a ricordare le loro abitudini, le loro speranze e le loro paure. Tutto in maniera molto informale.

Troppo, per qualcuno che – pare – non abbia gradito la spontaneità di Giovanni in più occasioni. Come quando rende pubblico un messaggio d’amore di Francesca Morvillo a suo marito Falcone. Scoppia un putiferio.

Lo ricorda nei suoi post su Facebook di questi giorni: «È da meschini scrivere cose fantasiose su questo biglietto, e andare in giro a fare i poeti e/o a ergersi quali conoscitori di una storia mai vissuta. Dovete scrivere invece quanto è stata scellerata la scelta di separarli, dovete scrivere chi porta ogni venerdì dei fiori freschi alla signora esiliata al cimitero dei Rotoli. Ma voi ci siete mai stati?». Il riferimento è a Maria Falcone e alla scelta di trasferire le spoglie del fratello nella basilica di san Domenico, il pantheon di Palermo. La moglie Francesca l’hanno lasciata sola in una tomba lontana.

Le incomprensioni e gli sfoghi

Genuinità e ufficialità, qualche incomprensione quotidiana, un protocollo delle visite che Giovanni non ha mai accettato volentieri. Uno degli ultimi sfoghi di “papa”: «Mettere in giro la voce che io rivendicavo la proprietà del bunkerino, oltre ad essere odioso è infantile. Altresì è come sminuire il motivo per il quale me ne sono andato, il motivo lo sapete benissimo qual è, ma non avete mai avuto il coraggio di dirmelo in faccia, ma mandavate a farlo il controllore che mi avete messo alle costole, dicendomi semplicemente che di cose personali non ne dovevo parlare. Però una cosa voglio dirvela, io ho sempre parlato a titolo personale, se vi sentivate a disagio o temevate che a qualcuno dava fastidio potevate dirmelo». E ancora: «Vi risulta che quando cominciavo a parlare con i visitatori ho sempre detto grazie all’Anm? E guai se qualche volta non pronunciavo queste parole magiche. È vero che il controllore stava davanti fino a quanto non pronunciavo le paroline e poi andava via?».

L’associazione magistrati e la fondazione sono rimasti spiazzati. In una nota prima hanno ringraziato Paparcuri, poi «registrato negli ultimi mesi il suo progressivo e volontario distacco dal museo», poi ancora invitato a evitare «inopportune polemiche». Ci dice oggi Clelia Maltese, la presidente dell’Anm distrettuale: «Nessuno ha mai messo in dubbio in Giovanni Paparcuri la forza del testimone ma a noi interessa che il museo continui la sua attività. Lui è un valore aggiunto ma il museo non verrà certo chiuso». L’appello del presidente della fondazione, Leonardo Agueci, che fino a qualche anno fa è stato procuratore aggiunto a Palermo: «Qualunque siano i problemi noi vogliamo superarli, abbiamo il dovere di conservare la memoria che è superiore a qualsiasi altra cosa». Vedremo cosa succederà nei prossimi giorni. Si parla di un incontro di chiarimento, però si parla anche di avvocati e cause legali. Brutti tempi per Palermo.


Il dolore di Paparcuri: caro Giovanni, torna al bunkerino

 

Caro Giovanni (Paparcuri), è ancora una bella serata d’estate a Palermo, adesso. Guardiamo il cielo con speranza. Speriamo che le guerre finiscano, che le pandemie si spengano e anche che le bollette tornino a livelli non sovrumani. Alcuni dei sogni che facciamo qui, dalle parti di Mondello, appartengono all’umanità.

Ricordo nitidamente un giorno indimenticabile in cui ti incontrai, quando entrai al bunkerino per la prima volta, cioè al museo della memoria del Palazzo di giustizia di Palermo, dove sono stati ricreati gli ambienti di lavoro del dottore Falcone e del dottore Borsellino.

Un passo indietro, intanto. Un amarcord. Un nastro riavvolto. Avevo vent’anni o poco più, in quel ‘92 ed ero un ragazzo confuso, come i ventenni, che non sanno bene cosa fare. Decisi di mettere in mezzo il servizio militare tra me e il mio futuro e tornai in licenza per i funerali di Paolo Borsellino. C’era una fiumana di gente che convergeva, silenziosa, verso il punto estremo del dolore. C’era la rabbia. E c’erano le urla.

Poi – lo raccontavo – arrivai al bunkerino, molti anni dopo, con il futuro che era ormai il presente della mia professione. Mi sentivo un po’ in colpa. In tanta personale confusione, allora, in quel ‘92, mi ero perso un passaggio importante che avevo attraversato con una non piena consapevolezza emotiva e intellettuale. Mi ero perso i dottori Falcone e Borsellino.

Ma, quel giorno, con te, li ritrovai. Respirai l’odore del tabacco. Accarezzai le papere in miniatura collezionate dal dottore Falcone (che il dottore Borsellino gli sottraeva, per scherzo, con una finta messinscena estorsiva). Passai la mano sul dorso delle borse blindate che non avevano mai utilizzato. E mi resi conto che erano lì. Non in carne ossa. C’erano in una consistenza più grande. Erano lì, i due giudici e amici. E io fui colto da un soprassalto intenso di commozione, perché li sentivo davvero. Corsi ad abbracciarti.

La mia non è una narrazione isolata. Succede a tantissimi – li ho visti – che varcano la soglia in punta di piedi, con il cuore gonfio e si mettono a piangere per una mescolanza di emozioni che potremmo, sommariamente, descrivere così: ciò che si trova è insperato e, al tempo stesso, troppo immenso per lasciare indifferenti.

Moltissimi vengono lì per loro e vengono lì per te. Non perché tu sia un cimelio. Perché sei uno che ha vissuto esperienze tragiche e ne ha tratto forza e speranza. Sei un eroe sopravvissuto, sì. Forse è anche una condanna. Però, se uno sopravvive come te, caro Giovanni, nella pienezza di una esistenza coraggiosa, offre il riscatto a tutti. Libera tutti.

Sappiamo che non sei più al bunkerino. Che quel ‘vengono’ si è trasformato in un malaugurato ‘venivano per te’. Sappiamo che ci sono state delle incomprensioni, che sei irremovibile nei tuoi dolenti post su Facebook. Che hai detto: no, non tornerò. Una legittima scelta che è fonte di generale dolore.

Caro Giovanni, non sono qui per darti consigli. Come potrei? La mia guerra più acerrima l’ho combattuta da militare, sparando a bersagli di legno. Una guerra innocua, dove non moriva nessuno. Tu sei stato in trincea. Eri con il dottore Rocco Chinnici e sei stato ferito. Successivamente, furono i dottori Falcone e Borsellino a mettersi accanto il tuo talento e il tuo impegno. Conosciamo l’epilogo di quell’estate del ‘92.

E che consigli potremmo darti? Cosa potremmo dirti o suggerirti? Niente, è ovvio. Oppure solo una sommessa e affettuosa richiesta: torna al bunkerino, torna al tuo posto. Non significherebbe abdicare, ma ascoltare quello che ogni palermitano ti sta chiedendo, magari senza chiederlo esplicitamente. Tra brave persone ogni ostacolo può essere appianato. E tu devi stare lì, nella trincea della memoria, con il tuo bellissimo cuore ferito. Adesso, mentre scrivo, è una splendida serata, a Palermo. Il sangue non sporca più i giorni come succedeva in un’epoca atroce. La luna somiglia ai cari volti che ritroveremo. Questa guerra l’hai vinta tu, l’avete vinta voi. Per tutti noi. Questa pace ha ancora bisogno di te. (Roberto Puglisi)

 


Il museo Falcone e Borsellino perde il suo inventore che lascia chiudendo anche la pagina Facebook

Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici e stretto collaboratore di Giovanni Falcone che lo chiamava “Papa“, ha abbandonato quella che era la sua “creatura“: un museo (che non è solo un museo) nei locali dove i due giudici hanno vissuto uno accanto all’altro per dieci anni

  • In polemica con l’Associazione nazionale magistrati e con la Fondazione che gestisce la struttura, l’esperto informatico dell’ufficio istruzione il 5 settembre scorso ha chiuso anche la pagina facebook dedicata al “Museo Falcone-Borsellino”
  • Un luogo che è la riproduzione fedele degli uffici del primo pool antimafia, con gli oggetti originali appartenuti ai due giudici e i documenti della loro lunga attività istruttoria. Le macchine per scrivere che usavano, gli impermeabili protetti da una corazza di metallo, gli appunti, le ordinanze sentenze.
  • La risposta dell’Associazione magistrati: “Il Museo non chiude“. Tentativi per un chiarimento e nuove incomprensioni con l’antimafia ufficiale.

Le stanze sono sempre aperte ma lui non c’è più. Se n’è andato, piangendo, il 24 maggio. Proprio il giorno dopo il trentesimo anniversario della strage di Capaci. Per un po’ è stato zitto, poi ha cominciato a spiegare sul suo profilo Facebook perché non poteva stare più lì, in quello che a Palermo tutti conoscono come “il bunkerino”, gli uffici dove hanno vissuto uno accanto all’altro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Locali blindati in un ammezzato buio del palazzo di Giustizia, il luogo dove è nato il maxi processo a Cosa nostra e tanto altro ancora.

Un museo che non è un museo

Le stanze sono sempre aperte ma Giovanni Paparcuri, “papa” lo chiamava Falcone, ha abbandonato quella che era la sua “creatura”, un museo che non è solo un museo, è la riproduzione fedele degli uffici del primo pool antimafia con gli oggetti originali appartenuti ai due giudici e i documenti della loro lunga attività istruttoria. Le macchine per scrivere che usavano, gli impermeabili protetti da una corazza di metallo, gli appunti, le ordinanze sentenze, i soprammobili e soprattutto il respiro di quella Palermo anni Ottanta tramandata dalla memoria di chi con i due giudici ha diviso la sua esistenza nella stagione siciliana più cupa.

Alle 23 e 39 dello scorso cinque settembre Giovanni Paparcuri ha comunicato con un post di avere chiuso la pagina “Museo Falcone-Borsellino”, annunciando spiegazioni in merito per i giorni successivi. Che sono puntualmente arrivate. Messaggi diretti e altri più obliqui, comunque tutti poco lusinghieri per un’antimafia ufficiale che – a suo dire – l’ha lentamente e inesorabilmente emarginato.

La polemica con i magistrati

Nella sostanza “papa”, che “il bunkerino” l’ha fatto nascere, dopo sei anni e poco più di 30mila visitatori provenienti da ogni angolo d’Italia, lamenta di sentirsi lì dentro quasi un ospite. A volte anche mal sopportato, bersaglio di dicerie, vittima di un ingranaggio burocratico che mortifica il suo lavoro di testimone oculare in quella stagione. Ce l’ha con l’Associazione nazionale magistrati di Palermo, che è la “padrona” di casa con la presidenza della corte di appello. E ce l’ha pure con la fondazione Progetto Legalità che gestisce di fatto – e su delega dell’Anm – il museo. Abbiamo fatto domande a Paparcuri e naturalmente anche ai responsabili dell’associazione magistrati e della fondazione per ascoltare ogni versione sulla vicenda, ma c’è qualcosa che va oltre le presunte ragioni e i presunti torti delle parti, qualcosa che ha a che fare con Palermo e i suoi simboli. Soprattutto in un’estate come questa dove, proprio a Palermo, avvenimenti politici e sociali hanno travolto e stravolto quell’altra città che faceva resistenza contro un ritorno del passato

La convinzione che ci siamo fatti: probabilmente è stato sottovalutato il significato più profondo di “papa” fra quelle stanze, perché perdere lui è come perdere frammenti di memoria, “il bunkerino” non è certo una sua proprietà privata ma “il bunkerino” senza Giovanni Paparcuri diventerà inevitabilmente qualcosa di diverso, di scolorito, dove le “ricostruzioni” prenderanno il sopravvento sulle emozioni, dove si disperderà un sapere che non si può trovare in un documento ma solo in un cuore.

È tutto scritto nella storia di Giovanni. Nel 1983 è l’autista di Falcone ma il 29 luglio il giudice è in Thailandia per una rogatoria e lui, quella mattina, guida l’auto del consigliere Rocco Chinnici. C’è l’attentato, Chinnici muore, muoiono due carabinieri e anche il portiere dello stabile dove abita il consigliere. Giovanni si salva, è un miracolo.

La fiducia di Falcone

Quando torna in tribunale non può più fare l’autista, per il ministero non è più “idoneo”. Così inizia la sua seconda vita. S’inventa un nuovo lavoro, nei corridoi del palazzo di Giustizia sono ammassati scatoloni con i primi computer. Nessuno li sa usare. È Paparcuri che scopre il suo talento informatico e contagia subito con la sua passione Giovanni Falcone. È lui che archivia tutte le delicate informazioni del maxi processo, ogni segreto passa davanti ai suoi occhi. Falcone si fida ciecamente. Di lui, delle altre tre segretarie che sono nel “bunkerino”, del maresciallo della guardia di finanza Angelo Crispino che sta dietro una sgangherata porta di legno. Ci sono i giudici, ma in silenzio ci sono anche loro, la squadra del pool.

Poi arriva il 1992. A Capaci salta in aria Giovanni Falcone, saltano in aria tre poliziotti, se ne va anche Francesca Morvillo. Si salva ancora solo l’autista Giuseppe Costanza. Giovanni e Giuseppe hanno lo stesso destino. Anche Giuseppe non può più guidare le auto per le ferite riportate. Per un quarto di secolo sono state due ombre, mai invitati alle celebrazioni, mai ricordati. La solitudine dei sopravvissuti. I due, Giovanni e Giuseppe, ogni tanto si ritrovano a parlare della sorte avuta e del numero nove che li ha segnati. Nove gli anni d’età che separano uno dall’altro, nove gli anni che dividono l’attentato di Chinnici da quello di Capaci, nove gli anni di differenza d’età anche delle rispettive mogli, nate comunque nello stesso mese e nello stesso giorno.

Nel 2016 Paparcuri decide di far rivivere il “bunkerino”. Compra a sue spese le macchine per scrivere dei due giudici, raccoglie i biglietti e le carte che Giovanni Falcone gli aveva consegnato, nei sotterranei del tribunale va alla ricerca delle scrivanie e degli armadi che in quei primi anni Ottanta arredavano le stanze dei magistrati del pool.

I racconti sui giudici

Così un ammezzato buio e dimenticato torna com’era. È Giovanni Paparcuri il custode e la guida. Un successo clamoroso. Scolaresche, famiglie, poliziotti, magistrati, giornalisti, folle di semplici curiosi. E “papa” ad aprire e chiudere il museo che non è un museo, a descrivere le lunghe giornate di Falcone e Borsellino fra un interrogatorio e l’altro, a ricordare le loro abitudini, le loro speranze e le loro paure. Tutto in maniera molto informale.

Troppo, per qualcuno che – pare – non abbia gradito la spontaneità di Giovanni in più occasioni. Come quando rende pubblico un messaggio d’amore di Francesca Morvillo a suo marito Falcone. Scoppia un putiferio.

Lo ricorda nei suoi post su Facebook di questi giorni: «È da meschini scrivere cose fantasiose su questo biglietto, e andare in giro a fare i poeti e/o a ergersi quali conoscitori di una storia mai vissuta. Dovete scrivere invece quanto è stata scellerata la scelta di separarli, dovete scrivere chi porta ogni venerdì dei fiori freschi alla signora esiliata al cimitero dei Rotoli. Ma voi ci siete mai stati?». Il riferimento è a Maria Falcone e alla scelta di trasferire le spoglie del fratello nella basilica di san Domenico, il pantheon di Palermo. La moglie Francesca l’hanno lasciata sola in una tomba lontana.

Le incomprensioni e gli sfoghi

Genuinità e ufficialità, qualche incomprensione quotidiana, un protocollo delle visite che Giovanni non ha mai accettato volentieri. Uno degli ultimi sfoghi di “papa”: «Mettere in giro la voce che io rivendicavo la proprietà del bunkerino, oltre ad essere odioso è infantile. Altresì è come sminuire il motivo per il quale me ne sono andato, il motivo lo sapete benissimo qual è, ma non avete mai avuto il coraggio di dirmelo in faccia, ma mandavate a farlo il controllore che mi avete messo alle costole, dicendomi semplicemente che di cose personali non ne dovevo parlare. Però una cosa voglio dirvela, io ho sempre parlato a titolo personale, se vi sentivate a disagio o temevate che a qualcuno dava fastidio potevate dirmelo». E ancora: «Vi risulta che quando cominciavo a parlare con i visitatori ho sempre detto grazie all’Anm? E guai se qualche volta non pronunciavo queste parole magiche. È vero che il controllore stava davanti fino a quanto non pronunciavo le paroline e poi andava via?».

L’associazione magistrati e la fondazione sono rimasti spiazzati. In una nota prima hanno ringraziato Paparcuri, poi «registrato negli ultimi mesi il suo progressivo e volontario distacco dal museo», poi ancora invitato a evitare «inopportune polemiche». Ci dice oggi Clelia Maltese, la presidente dell’Anm distrettuale: «Nessuno ha mai messo in dubbio in Giovanni Paparcuri la forza del testimone ma a noi interessa che il museo continui la sua attività. Lui è un valore aggiunto ma il museo non verrà certo chiuso». L’appello del presidente della fondazione, Leonardo Agueci, che fino a qualche anno fa è stato procuratore aggiunto a Palermo: «Qualunque siano i problemi noi vogliamo superarli, abbiamo il dovere di conservare la memoria che è superiore a qualsiasi altra cosa». Vedremo cosa succederà nei prossimi giorni. Si parla di un incontro di chiarimento, però si parla anche di avvocati e cause legali. Brutti tempi per Palermo.