Giovanni Paparcuri e il Bunkerino
ME NE VADO…
Fare memoria a parole.
RASSEGNA STAMPA
La polemica sul “bunkerino”, replicano Anm e Progetto Legalità: “Aperti al confronto, Paparcuri ritorni”
Dopo la decisione di lasciare il museo della sua storica guida, le due associazioni che gestiscono il museo rispondono alle dichiarazioni postate su Facebook: “Queste polemiche non rendono onore alla memoria dei nostri martiri, il contributo di Giovanni Paparcuri è fondamentale e speriamo possa tornare sui suoi passi”
Dopo la decisione di Giovanni Paparcuri di lasciare il “bunkerino”del palazzo di giustizia, di cui è stato l’anima e la guida sin dalla sua inauguarazione, la giunta esecutiva di Palermo dell’Anm e la Fondazione Progetto Legalità, che gestiscono il museo, hanno deciso di replicare alle dichiarazioni (molto dure) pubblicate da Paparcuri su Facebook. Al di là delle polemiche, il succo è che si spera di potere ricucire la frattura e che Paparcuri ci ripensi.
“Il Museo Falcone-Borsellino racchiude la memoria dei nostri martiri e per questo la sua gestione deve essere rivolta ad assicurare la più efficace e completa conoscenza e diffusione della storia che racchiude. Il rispetto dei suoi valori comporta quindi l’impegno di tutte le persone ed istituzioni interessate a portare il proprio contribuito a tale scopo, in un comune spirito di serietà e collaborazione, e quindi ad evitare di farne oggetto di inopportune polemiche, che – prima di ogni altra considerazione – certamente non rendono onore a tutti quelli che, con sacrificio infinito, hanno operato in quelle stanze. Tra costoro vi è indiscutibilmente Giovanni Paparcuri, che – come è noto – ha fortemente voluto mantenere viva la memoria di quella stagione, prodigandosi nella raccolta del materiale e nell’allestimento della sede in cui è sorto il museo, e quindi dedicandosi ad esserne guida appassionata e a dare testimonianza, con insostituibile forza emotiva, di ciò che avveniva in quei locali”.
“Di questo siamo stati sempre consapevoli e grati. E – si sottolinea – non c’è stato un momento in cui è stato posta in discussione la sua figura ed il suo ruolo all’interno del museo. Abbiamo però registrato negli ultimi mesi il suo progressivo e volontario distacco dal museo, che abbiamo ritenuto temporaneo, così come lo riteniamo ancora adesso, dato che non ce ne sono mai state esplicitamente – e nelle opportune sedi – manifestate le ragioni. In tutto questo tempo, comunque, la continuità delle visite è stata sempre assicurata, e sempre lo sarà, perché ciò è reso necessario dalla importanza del luogo e dalla esigenza di far fronte al numero elevato di richieste, che non hanno mai smesso di arrivare da ogni parte. La notizia della sua decisione di lasciare il museo, appresa dalla stampa e dai social, quindi ci stupisce e addolora fortemente, anche per le modalità con cui ne siamo venuti a conoscenza. Non riusciamo invero a comprenderne le ragioni, perché quelle riportate dalla stampa risalgono prevalentemente a problemi antichi, in gran parte superati anche grazie al nostro intervento, e comunque di rilevanza modesta e agevolmente risolvibile con un adeguato confronto al quale nessuno di noi si è mai sottratto”. PALERMO TODAY
“Museo Falcone-Borsellino”, il comunicato di ANM e Fondazione progetto Legalità
Nella giornata di ieri Giovanni Paparcuri, custode della memoria e anima del “Museo Falcone-Borsellino” il c.d. bunkerino, spazio nel quale, all’interno del palazzo di Giustizia palermitano hanno svolto il loro lavoro il dottor Falcone e il dottor Borsellino durante il loro lungo impegno per la preparazione del Maxiprocesso, ha dichiarato sul suo profilo Facebook la sua intenzione di cessare il suo impegno a seguito di amarezze, incomprensioni e mancanza di dialogo.
L’ANM Palermo e la “Fondazione Progetto Legalità per Paolo Borsellino e tutte le vittime di mafia”, che gestiscono lo spazio hanno emesso oggi un comunicato stampa che riportiamo integralmente:
Il Museo Falcone-Borsellino racchiude la memoria dei nostri martiri e per questo la sua gestione deve essere rivolta ad assicurare la più efficace e completa conoscenza e diffusione della storia che racchiude.
Il rispetto dei suoi valori comporta quindi l’impegno di tutte le persone ed istituzioni interessate a portare il proprio contribuito a tale scopo, in un comune spirito di serietà e collaborazione, e quindi ad evitare di farne oggetto di inopportune polemiche, che – prima di ogni altra considerazione – certamente non rendono onore a tutti quelli che, con sacrificio infinito, hanno operato in quelle stanze.
Tra costoro vi è indiscutibilmente Giovanni Paparcuri, che – come è noto – ha fortemente voluto mantenere viva la memoria di quella stagione, prodigandosi nella raccolta del materiale e nell’allestimento della sede in cui è sorto il Museo, e quindi dedicandosi ad esserne guida appassionata e a dare testimonianza, con insostituibile forza emotiva, di ciò che avveniva in quei locali.
Di questo siamo stati sempre consapevoli e grati. E non c’è stato un momento in cui è stato posta in discussione la sua figura ed il suo ruolo all’interno del Museo!
Abbiamo però registrato negli ultimi mesi il suo progressivo e volontario distacco dal Museo, che abbiamo ritenuto temporaneo, così come lo riteniamo ancora adesso, dato che non ce ne sono mai state esplicitamente – e nelle opportune sedi – manifestate le ragioni.
In tutto questo tempo, comunque, la continuità delle visite è stata sempre assicurata, e sempre lo sarà, perché ciò è reso necessario dalla importanza del luogo e dalla esigenza di far fronte al numero elevato di richieste, che non hanno mai smesso di arrivare da ogni parte.
Le notizia della sua decisione di lasciare il Museo, appresa dalla stampa e dai “social”, quindi ci stupisce e addolora fortemente, anche per le modalità con cui ne siamo venuti a conoscenza.
Non riusciamo invero a comprenderne le ragioni, perché quelle riportate dalla stampa risalgono prevalentemente a problemi antichi, in gran parte superati anche grazie al nostro intervento, e comunque di rilevanza modesta e agevolmente risolvibile con un adeguato confronto al quale nessuno di noi si è mai sottratto.
Continuiamo allora ad essere convinti che la presenza e la testimonianza di Giovanni Paparcuri siano componente fondamentale del Museo e che di conseguenza egli possa ritornare quanto prima ad attraversarne la porta – che non è mai stata chiusa– e a riprendere il cammino insieme, nella considerazione che contrapposizioni banali e prese di posizione rigide e ingiustificate non rappresentano certo un omaggio alla memoria dei nostri eroi.
LA GIUNTA ESECUTIVA DI PALERMO DELLA ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI
LA FONDAZIONE PROGETTO LEGALITA’ PER PAOLO BORSELLINO E TUTTE LE VITTIME DELLA MAFIA
Così è morta per sempre l’Antimafia
21.8.2022 – Giovanni Paparcuri lascia il bunkerino. C’è bisogno che dica chi è? No, lo conoscono migliaia di persone in tutta Italia, quelle che in questi anni sono andate a visitare l’unico “museo” che, a detta di tutti, ricorda senza retorica il sacrificio di Falcone e Borsellino, quelle che lo hanno sentito parlare, sempre semplice e diretto, sincero, se stesso fino in fondo.
22.8.2022-Non è che si abbandona oppure mai si abbandona la Sicilia, è che la Sicilia ti perseguita comunque. In tutti quei modi sofisticati e strani che somigliano alla carta moschicida, e noi ad insetti che ci caschiamo dentro.
27 agosto 2022. La mafia uccide, il silenzio pure. Invece l’Antimafia ti spegne lentamente.
Il premio letterario Racalmare Leonardo Sciascia della città di Grotte (Agrigento), 27 agosto 2022.
SANDRA FIGLIUOLO cronista giudiziaria Palermo Today
Paparcuri lascia il ‘bunkerino’ di Falcone, “Basta, è il Palazzo dei veleni”
Paparcuri lascia il ‘bunkerino’ di Falcone, “Basta, è il Palazzo dei veleni”
Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici, lascia, tra le polemiche, il ‘bunkerino’, il museo realizzato sei anni fa dall’Anm di Palermo nell’ufficio del Tribunale in cui lavorarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Uno dei pochi veri luoghi di memoria, proprio grazie all’impegno di Paparcuri, chiamato da tutti ‘Papa’. Ma adesso, a sorpresa, Giovanni Paparcuri, a cui fu affidato fin dall’inizio il ‘bunkerino’ ha annunciato il suo addio e parla di “Palazzo dei veleni”. Il museo si trova al piano ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo dove i due magistrati lavorarono negli anni Ottanta. E’ stato inaugurato il 24 maggio del 2016 e ad oggi è stato visitato da oltre 30 mila persone, venute da ogni angolo del mondo. Qui si trovano le scrivanie dei due magistrati, i loro oggetti personali, copie di atti. E, soprattutto, qui venne scritto il Maxiprocesso. L’addio è stato annunciato con un post su Facebook: “Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più. Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza. Scrivo perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco”. “Sono stanco di chiedere continuamente scusa, sono stanco di leggere certe cose, stanco della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, stanco dei sospetti, stanco delle lamentele, stanco di raccontare, stanco di tutto, comunque è da parecchio che ci penso”, scrive Paparcuri. “In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni, ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare – prosegue Giovanni Paparcuri – E mai ho detto non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione. Il mio sogno era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni…”. Dopo l’a strage Chinnici, in cui Paparcuri venne gravemente ferito, Giovanni Falcone lo chiamò per informatizzare le carte del maxi processo nel suo bunkerino. Falcone e Borsellino sapevano della sua passione per l’informatica e gli chiesero di aiutarli. Così Paparcuri prese in mano il lavoro già avviato da una ditta esterna e iniziò a creare la banca dati, internalizzando il sistema”.
ADNKRONOS Elvira Terranova
‘Aspetto dal 24 maggio una convocazione mai arrivata’
Qualche tempo fa, Paparcuri rispose così a chi gli chiedeva se il ‘bunkerino’ fosse la sua seconda casa, dal momento che vi trascorreva giornate intere: “La mia seconda casa? Direi anche la prima casa. Qui ho passato tanti momenti intensi al fianco di Falcone e Borsellino durante il lavoro con il pool antimafia e, oggi, continuo il lavoro con i ragazzi delle scuole. A loro vanno insegnati i veri valori della legalità, cioè essere persone oneste nella vita e rispettare sempre le regole”.
Poi, rispondendo alle decine e decine si messaggi ricevuti, con le richieste di restare, Paparcuri replica: “Vi ringrazio per la vostra solidarietà e mi scuso se non rispondo ai messaggi e alle telefonate, ma sono di pessimo umore, comunque, ripeto fino alla noia, che non è da oggi che esistono svariati problemi, ma per amore di quei giudici sono tornato sempre sui miei passi, per ultimo l’ho fatto presente il 24 maggio (per una vicenda che racconterò in seguito), ed è da quel giorno che aspetto quanto meno una convocazione, per un chiarimento e per definire una volta per tutte i ruoli, ma anche per sentirmi dire “Giovanni hai rotto il cazzo, invece nulla’. Ho aspettato inutilmente, solo silenzio, e il silenzio dice più di mille parole”.
A prendere posizione è lo scrittore e giornalista Piero Melati, autore del recente libro: ‘Paolo Borsellino, per amore della verità’. “Così è morta per sempre l’Antimafia. Giovanni Paparcuri lascia il bunkerino. C’è bisogno che dica chi è? No, lo conoscono migliaia di persone in tutta Italia, quelle che in questi anni sono andate a visitare l’unico “museo” che, a detta di tutti, ricorda senza retorica il sacrificio di Falcone e Borsellino, quelle che lo hanno sentito parlare, sempre semplice e diretto, sincero, se stesso fino in fondo”, scrive Melati.
(di Elvira Terranova)
Paparcuri lascia il bunkerino: “Sono stanco…”, ed è polemica
Giovanni Paparcuri lascia, sbattendo la porta. Lui, sopravvissuto alla strage in cui morirono Rocco Chinnici e altri giusti, lui, collaboratore storico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non sarà più al ‘bunkerino’, il museo della memoria del Palazzo di giustizia, lì dove è stato ricostruito l’ambiente di lavoro in cui i giudici operarono. Era stato proprio Paparcuri uno degli artefici della ricomposizione del luogo ed era lui a fare da cicerone ai tanti che, visitando quelle stanze, vengono tutti presi da una forte emozione.
La rottura è affidata a un post su Facebook in risposta a chi gli domanda qualcosa sulla sua presenza: “Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più. Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza. Scrivo perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco, sono stanco di chiedere continuamente scusa, sono stanco di leggere certe cose, stanco della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, stanco dei sospetti, stanco delle lamentele, stanco di raccontare, stanco di tutto, comunque è da parecchio che ci penso”.
E’ un lunghissimo post che chiunque può consultare nel profilo facebook di ‘Papa’, come lo chiamavano Falcone e Borsellino e che racconta un momento di sconforto che, peraltro, non è l’unico. Qualche tempo fa c’era stato un problema per i ventilatori e l’impianto dell’aria condizionata, poi ricomposto. Ma, stavolta, sembra proprio un addio.
Che fa rumore, soprattutto sui social. Il giornalista Piero Melati,autore del recente e appassionato libro: “Paolo Borsellino, per amore della verità” e occhio puntato, da sempre, con attenzione sulle cose siciliane, scrive a sua volta su Facebook: “Così è morta per sempre l’Antimafia. Giovanni Paparcuri lascia il bunkerino. C’è bisogno che dica chi è? No, lo conoscono migliaia di persone in tutta Italia, quelle che in questi anni sono andate a visitare l’unico “museo” che, a detta di tutti, ricorda senza retorica il sacrificio di Falcone e Borsellino, quelle che lo hanno sentito parlare, sempre semplice e diretto, sincero, se stesso fino in fondo”.
Mafia: Paparcuri lascia il ‘bunkerino’ di Falcone al tribunale. “Basta, è il palazzo dei veleni”
Collocato al piano ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo, l’ufficio in cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino lavorarono negli anni Ottanta, nel 2016 è stato trasformato in un museo e ad oggi è stato visitato da oltre 30 mila persone, venute da ogni angolo del mondo. Qui si trovano le scrivanie dei due magistrati, i loro oggetti personali, copie di atti. E, soprattutto, qui venne scritto il Maxiprocesso.
“In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni – scrive Paparcuri – ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare – prosegue Giovanni Paparcuri – E mai ho detto non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione. Il mio sogno era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni…”.
Antimafia, Paparcuri lascia il “bunkerino” al Tribunale di Palermo: “Palazzo dei veleni”
L’addio è stato annunciato attraverso un post su Facebook nel quale Paparcuri spiega le motivazioni della sua decisione
Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage di via Pipitone a Palermo, nella quale perse la vita il magistrato Rocco Chinnici, lascia il “bunkerino”, il museo realizzato sei anni fa dall’Anm di Palermo nell’ufficio del Tribunale dove lavorarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
L’addio è stato annunciato attraverso un post su Facebook nel quale Paparcuri spiega le motivazioni della sua decisione.
“Ecco perché non vado più al bunkerino”
“Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più. Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza”.
“Scrivo – prosegue Paparcuri – perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco”.
“Sono stanco di chiedere scusa e dei sospetti”
“Sono stanco di chiedere continuamente scusa, sono stanco di leggere certe cose, stanco della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, stanco dei sospetti, stanco delle lamentele, stanco di raccontare, stanco di tutto, comunque è da parecchio che ci penso”.
“In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni, ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare. E mai ho detto non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione”.
“Rimarrà il palazzo dei veleni”
“Il mio sogno – continua Paparcuri – era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni“.
QUOTIDIANO DI SICILIA
Giovanni Paparcuri lascia il ‘bunkerino’ di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: “E’ il palazzo dei veleni” L’annuncio arriva con un post in cui Paparcuri si dichiara “stanco”.
Lascerà direzione del ‘bunkerino’, Giovanni Paparcuri, sopravvissuto della strage Chinnici. L’annuncio delle dimissioni dal museo, realizzato sei anni fa dall’Anm di Palermo nell’ufficio del Tribunale in cui lavorarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, arriva tra le polemiche per mezzo di un post.
Si tratta di uno dei pochi veri luoghi di memoria, proprio grazie all’impegno di Paparcuri, chiamato da tutti ‘Papa’. Ma adesso, a sorpresa, Giovanni Paparcuri, a cui fu affidato fin dall’inizio il ‘bunkerino’ ha annunciato il suo addio e parla di “Palazzo dei veleni”.
Il museo si trova al piano ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo dove i due magistrati lavorarono negli anni Ottanta. È stato inaugurato il 24 maggio del 2016 e ad oggi è stato visitato da oltre 30 mila persone, venute da ogni angolo del mondo. Qui si trovano le scrivanie dei due magistrati, i loro oggetti personali, copie di atti. E, soprattutto, qui venne scritto il Maxiprocesso.
L’addio è stato annunciato con un post su Facebook: “Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più. Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza. Scrivo perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco”. GLOBALIST
Veleni al “bunkerino” del palazzo di giustizia, Giovanni Paparcuri: “Vado via, sono inviso a troppi”
Bufera sui social per la decisione del sopravvissuto alla strage di via Pipitone Federico che lavorò con Falcone e Borsellino, anima del museo: “Sono stanco e disgustato, è stato un susseguirsi di ostacoli, invidie e ipocrisia”. Il giornalista Piero Melati rinuncia a ritirare un premio letterario per solidarietà. Anm e Progetto Legalità: “Ci ripensi”
E’ amareggiato, più precisamente – perché Giovanni Paparcuri non è uno che gira intorno alle cose e che le sfuma per renderle più gradevoli – disgustato. “Sono stanco, adesso davvero non ce la faccio più e non voglio più sentire parlare di nulla”. E’ così che commenta la sua decisione – resa pubblica ieri attraverso una serie di post su Facebook – di lasciare il bunkerino, ovvero il museo realizzato nelle stanze dove lavorò con i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Museo di cui è l’anima, tanto che molte persone gli hanno scritto, deluse per la sua assenza.
Una scelta, quella di Paparcuri (sopravvissuto alla strage in cui morì il padre del pool antimafia, il giudice Rocco Chinnici) che ha suscitato tanto frastuono sui social, indignazione e delusione e centinaia di richieste di ripensarci. La reazione più incisiva (e quasi immediata) è stata quella del giornalista Piero Melati che “in segno di solidarietà con Giovanni” ha deciso di non ritirare il riconoscimento nell’ambito del premio Racalmare, fondato da Leonardo Sciascia, al suo ultimo libro, “Paolo Borsellino, per amore della verità”. E Melati (che ha un approccio molto particolare al tema della memoria e chi ha letto i suoi “Vivi da morire” o “La notte della civetta” lo sa bene) non ha esitato a scrivere “così è morta definitivamente l’Antimafia”. Una presa di posizione molto netta, dunque, con la quale il giornalista non esita a puntare il dito contro quel fare memoria che è solo “immagine”, facciata, sul quale “costruire carriere e successo” e che ha ammorbato la possibilità di fare memoria “vera” negli ultimi decenni.
“Dissapori e ostilità, lascio il bunkerino”
Alla base della scelta di Paparcuri ci sono una serie di dissapori e un clima di ostilità che ha avvertito negli ultimi anni al palazzo di giustizia, questioni legate proprio alla gestione e ai ruoli all’interno del museo. I suoi post sono al vetriolo e anche se non fa nomi, lascia trapelare tanta amarezza e rabbia. Di fronte a “tanta ipocrisia”, “falsa solidarietà”, “invidie”, “sospetti” e “lamentele”.
Anm e Progetto Legalità: “Ci ripensi, disposti a parlare e chiarire”
Messaggi duri, per nulla velati (in perfetto stile Paparcuri) che sono stati letti anche dall’Anm e dalla Fondazione Progetto Legalità, che gestisono il museo, e da parte delle quali – al di là delle polemiche e dei toni – c’è la massima apertura per chiarire ed evitare che Paparcuri lasci il bunkerino. Una serie di incomprensioni che si sono sommate nel tempo e che evidentemente Paparcuri non riesce più a reggere, ma che – seduti ad un tavolo – potrebbero anche ricomporsi. “Sappiamo perfettamente – dicono – chi è Giovanni Paparcuri e abbiamo sempre riconosciuto il suo apporto fondamentale, il suo valore e il bagaglio di memoria che porta al museo. E’ una sua scelta quella di lasciare, ma noi non vogliamo questo, vogliamo che resti e continui il percorso avviato anni fa”.
“Sono inviso a tanti, per questo vado via”
Nel suo primo post, ieri, Paparcuri ha ricordato la festa della guardia di finanza del 2017, alla quale era stato invitato e dove però “un magistrato vedendomi mi ha rovinato la giornata dicendomi: ‘Ma lei che ci fa qui’, come se fossi un imbucato. Già – scrive su Facebook – non facevo e non faccio parte degli eletti, lì ho capito che ero inviso a tanti e che non avrei avuto vita facile. E così è stato, ma mi sono stancato, per questo lascio”.
“Sono stanco di ipocrisia, invidie e lamentele”
In quello successivo entra maggiormente nel merito e spiega le ragioni per le quali ha deciso di non andare più al bunkerino: “Grazie dei messaggi ma voi non dovete venire per me, ma per loro (si riferisce ai giudici Falcone e Borsellino, ndr). Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, me devo farlo perché sono stanco, stanco di chiedere continuamente scusa, di leggere certe cose, della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, dei sospetti, delle lamentele”. E ancora: “Scrivo perché mi sarei aspettato un incontro de visu con i vertici per una chiarimento definitivo e risolutorio, invece silenzio assoluto, salvo rare telefonate di soli rimproveri”.
“Tante delusioni, ma scelgo da uomo libero”
E continua: “L’ultima è stata veramente pesante, sono stato accusato di essere egocentrico, perché ho detto metaforicamente ‘da padrone di casa sono diventato nemmeno un inquilino, nessuno’. Ma era in senso figurativo, per spiegare il mio malessere interiore. La risposta è stata: ‘Tu sei padrone di niente, sei solo egocentrico’. E’ vero, sono padrone di niente, ma della mia dignità sono più che padrone”. Poi aggiunge: “Scrivo per la delusione di due magistrati che ritenevo amici, invece anche da loro silenzio assoluto ed è quello più assordante, ma il sistema è questo, cane non mangia cane. Riconosco anche di aver fatto degli errori ma sempre in buonafede. Non so se c’è un cielo né se ci sono degli angeli che ci guidano, ma noi siamo umani, viviamo in questa terra e contano solo i fatti reali, belli o brutti che siano. E quando vedi che ti hanno ‘rubato’ anche i tuoi ricordi e che ci sono cento cani attorno ad un osso, è meglio lasciare. La vita è fatta di scelte, anche dolorose, e quando arriva l’ora non puoi tirarti indietro ed io scelgo da uomo libero consapevole di avere fatto il mio dovere fino in fondo. Chiudo esortandovi a venire, gli uomini passano, ma la vita continua”.
“La misura è ormai colma, è stato un susseguirsi di ostacoli”
“In un altro post Paparcuri spiega poi una serie di difficoltà che in questi anni avrebbe incontrato: “La misura ormai è colma a me bastava essere lasciato tranquillo e l’ho fatto in primis per i giudici Falcone e Borsellino e per le tante persone che sono venute in visita. Invece è stato un susseguirsi di ostacoli, dall’impedirmi di andare un bagno chiudendomi i varchi, dal mettermi una persona accanto che doveva soltanto aiutarmi nel gestire le prenotazioni, invece è diventato anche un censore e controllore dei miei ricordi e invadente nei miei rapporti con le persone”.
“Questo palazzo è rimasto il palazzo dei veleni”
Il messaggio più amaro e doloroso è quello pubblicato all’alba di oggi, con una foto del palazzo di giustizia: “In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni, ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare. Il mio sogno era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni”.
Melati: “Così è morta definitivamente l’Antimafia”
Melati, di fronte alle parole di Paparcuri, non ha usato neppure lui metafore e giri di parole: “Per me – ha scritto su Facebook – così è morta definitivamente l’Antimafia, non me ne parlate più, tenetevela per voi e le vostre fandonie. La presenza di Giovanni in quel velenoso panorama costituiva una delle ultimissime ragioni per sopportare quella baracca maleodorante, che insulta ogni giorno la memoria dei caduti e delle vittime. Il 27 sarei dovuto andare a Grotte, al premio Racalmare fondato da Leonardo Sciascia, a ritirare un riconoscimento che la giuria ha generosamente riconosciuto al mio libro ‘Paolo Borsellino per amore della verità’, il cui capitolo ‘Senza tante cerimonie’ era dedicato proprio al museo del bunkerino e a Giovanni Paparcuri, in rappresentanza di quei collaboratori veri e diretti del pool di giudici antimafia di Palermo che mai vengono invitati alle cerimonie ufficiali. Ebbene scriverò alla cortese giuria ringraziandola, ma aggiungerò che non mi sento di ritirare il premio per solidarietà con Giovanni Paparcuri”.
“Ora vedrete – aggiunge – che qualcuno correrà ai ripari, per evitare il danno d’immagine. E qualcun altro farà invece il duro, perché la baracca ha bisogno di espellere definitivamente i Paparcuri per poter funzionare come funziona, ovvero per pura immagine. Per quanto mi riguarda il danno è fatto. Se non dobbiamo arrenderci, come ci invita Giovanni, per la memoria oppure per la legalità o per quello che volete, dovremo trovare un altro luogo, altri ambiti, altri contesti, che non siano mai più la cosiddetta ‘Antimafia’, almeno per quanto mi riguarda. Ce ne ricorderemo di questo Trentennale. Sono stati toccati i punti più alti di un ridicolo e mefistofelico disegno che va avanti da decenni: fare carriere e avere potere e successo calcando un teatrino di guitti e falsari che prevede di pasteggiare sulla memoria dei caduti”. PALERMO TODAY
Giovanni Paparcuri lascia il bunkerino di Falcone al Tribunale di Palermo: “Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni”
“In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni”, scrive Giovanni Paparcuri in un post su Facebook con il quale annuncia il suo addio al bunkerino: “Ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare. E mai ho detto non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione. Il mio sogno – prosegue – era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni…”.
Paparcuri non è solo il fondamentale collaboratore dei due giudici e colui il quale “inventò” l’informatizzazione del maxiprocesso (all’epoca rivoluzionaria) che ha permesso a Falcone e Borsellino di poter accedere all’incredibile mole di documenti grazie a un pc. E’ anche la memoria storia di quegli anni. Giovanni Paparcuri è anche una delle voci protagoniste del podcast Mattanza di Giuseppe Pipitone. E’ lui a raccontare aneddoti e vicende degli anni più difficili per Palermo e la Sicilia: dalle lacrime di Giovanni Falcone al ritrovamento, proprio nel bunkerino, di un appunto del magistrato con il nome di Berlusconi.
“Scrivo perché ho il dovere morale di spiegare alle tante persone che in questi giorni sono venute al bunkerino e deluse non mi hanno trovato, il motivo per il quale non ci vado più. Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza. Scrivo perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco”, aggiunge Paparcuri nel suo post su Facebook. “Sono stanco di chiedere continuamente scusa, sono stanco di leggere certe cose, stanco della tanta ipocrisia e della falsa solidarietà, stanco di difendermi, stanco delle invidie, stanco dei sospetti, stanco delle lamentele, stanco di raccontare, stanco di tutto, comunque è da parecchio che ci penso”, scrive Paparcuri. Sul perché della sua scelta, rispondendo ai commenti sottolinea che “non è da oggi che esistono svariati problemi, ma per amore di quei giudici sono tornato sempre sui miei passi, per ultimo l’ho fatto presente il 24 maggio (per una vicenda che racconterò in seguito), ed è da quel giorno che aspetto quanto meno una convocazione, per un chiarimento e per definire una volta per tutte i ruoli, ma anche per sentirmi dire ‘Giovanni hai rotto il cazzo, invece nulla’. Ho aspettato inutilmente, solo silenzio, e il silenzio dice più di mille parole”.
“Mi dispiace moltissimo che Giovanni Paparcuri abbia deciso di lasciare il bunkerino. Spero che ci ripensi e che non si tratti di una decisione definitiva”, ha commentato all’Adnkronos il presidente del Tribunale di Palermo Antonio Balsamo. “Vorrei invitarlo con tutto il cuore a riprendere la sua attività – dice ancora Balsamo- anche perché Paparcuri e l’allora Presidente della Corte d’appello Gioacchino Natoli hanno avuto una idea veramente straordinaria. Di tramandare alle giovani generazioni una parte importante del patrimonio ideale di questa città che è un fondamento della nostra identità collettiva“. di F. Q.| 22 Agosto 2022
Lascia l’ideatore e curatore del “bunkerino” di Falcone-Borsellino
Paparcuri, sopravvissuto all’attentato in cui morì Rocco Chinnici denuncia: “Era e resterà il palazzo dei veleni”
Paparcuri nel bunkerino della memoria: “Quei veleni contro Falcone”
Unico sopravvissuto della strage Chinnici e poi reclutato da Giovanni e da Paolo Borsellino, è custode di appunti, fotografie e di una montagna fascicoli che testimoniano l’opera dei magistrati
Il ‘pizzino’ di Paolo Borsellino è scanzonato, ma perentorio: “Se la papera vuoi trovare 5000 lire devi portare”. E la risposta dell’amico estorto, Giovanni Falcone, è degna della sua fama: “Paolo non rompere e rimetti la papera al suo posto”. E’ uno degli aneddoti – tra tanti – che Giovanni Paparcuri, l’uomo che visse due volte, sciorina ai visitatori che ogni giorno visitano il “bunkerino”, gli uffici blindati al primo ammezzato del Palazzo di giustizia di Palermo in cui i due giudici uccisi da cosa nostra 30 anni fa, scrissero di proprio pugno i 41 volumi della richiesta di rinvio a giudizio che sfociò nel maxi processo.
Si arriva davanti alla porta blindata del bunkerino, dove all’epoca stavano gli agenti delle scorte, con aria curiosa, qualcuno sorride, altri hanno voglia di entrare subito. Ma Paparcuri-Caronte prima li indottrina: “Prima stavano al piano terra, senza vetri blindati. Quando aumentò la tensione si trovò questa soluzione per garantire la sua sicurezza”. Si entra sorridenti, dicevamo, ma si esce con le lacrime agli occhi. Perchè Giovanni Paparcuri – unico sopravvissuto della strage Chinnici, di cui era l’autista e poi reclutato da Falcone e Borsellino per la sua passione per l’informatica – nel suo ruolo di guida, ti fa ripiombare, alla fine degli anni Ottanta: “Migliaia di morti in 3 anni, c’era la guerra di mafia tra i corleonesi e i perdenti, sono morti magistrati, poliziotti, carabinieri, imprenditori”. Debora, da Rimini, è la terza volta che viene a Palermo e per la terza volta al bunkerino.
Ma non trattiene le lacrime quando sente Paparcuri che legge il biglietto d’amore che Falcone scrisse alla sua amata moglie Francesca: “Giovanni, amore mio…”. Un biglietto trovato per caso in un libro e che ora è all’interno della tomba del giudice a San Domenico. “Io mi ripresi dopo un anno e mezzo – racconta ai visitatori provenienti anche da Genova, Firenze, Prato, Vicenza – e lo Stato voleva riformarmi. Mi rifiutai e poi ricevetti dai giudici, che conoscevano la mia passione per l’informatica, di allestire questo ufficio in chiave più moderna”. Si deve a questo ufficio – a queste persone, da Falcone e Borsellino allo stesso Paparcuri – la nascita della prima banca dati informatizzata. Certo, si sta parlando del 1985: “Usavamo i microfilm, non c’erano gli scanner, i nastri erano avvolti nelle bobine – racconta – e il computer è grande quanto una lavatrice”. Paparcuri rivela – mentre mostra i verbali di Tommaso Buscetta, il primo pentito di mafia fondamentale nel maxi processo – che “una settimana prima dell’attentato dell’Addaura, sventai un tentativo, credo fosse il primo, di violazione della nostra rete informatica. Proprio mentre qui c’era, nella stanza con Falcone, la magistrata svizzera Carla Del Ponte, giunta a Palermo in segreto per svolgere alcuni interrogatori”. Paparcuri ricorda, non senza amarezza, i veleni, i depistaggi e l’ex capo della Mobile e questore di Palermo, Arnaldo La Barbera che “venne in questo ufficio a cercare talpe incolpando anche dei commessi che ascoltavano la musica col mangianastri e sostenendo che in realtà intercettavano tutto l’ufficio. La Barbera – chiosa mentre i visitatori sono attratti dall’impermeabile anti proiettile che non serviva a nulla – quello del depistaggio di via D’Amelio e del falso pentito Scarantino…”. Sono tre stanzette che compongono il bunkerino, sono piene zeppe di appunti, libri, riconoscimenti, fotografie, una montagna di fascicoli, tutto originale. Ed è tutto com’era. Come se i giudici possano arrivare da un momento all’altro dicendo: “Papa vieni subito dobbiamo lavorare”. La visita dura 70 minuti. “Ora non mi fate parlare più, sono stanco. Facciamoci un selfie”. E sui volti dei visitatori torna di nuovo il sorriso.
Mafia, Paparcuri lascia il bunkerino: “Palazzo dei veleni”
Lascia il curatore museo Falcone-Borsellino, ‘palazzo veleni’
In questo luogo ci ho vissuto per 42 anni, ho conosciuto straordinarie persone, ho rischiato di morire, ho ripreso mettendo da parte le tante delusioni che ho dovuto ingoiare. E mai ho detto non mi sembra l’ora che me ne vado in pensione. Il mio sogno era che da morto o poco prima di morire mi avrebbero portato lì per un ultimo saluto. Ma alla luce delle ultime vicende devo confessare che adesso lo odio e non ne voglio più sentire parlare. Era e rimarrà per sempre il palazzo dei veleni”. E’ lo sfogo di Giovanni Paparcuri guida e curatore di quello che è chiamato il bunkerino realizzato dalla giunta distrettuale dell’associazione nazionale magistrati di Palermo dedicato alla memoria di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino.
“L’opera si propone l’obiettivo di realizzare un luogo di memoria permanente indirizzato non solo agli addetti ai lavori, ma all’intera collettività ed in particolare alle giovani generazioni”, è l’obiettivo del museo aperto al pubblico il 24 maggio del 2016.
“Determinante per la sua realizzazione è stato il contributo di Giovanni Paparcuri, straordinario collaboratore dei due magistrati ed “inventore” della informatizzazione, all’epoca rivoluzionaria, del maxiprocesso, scampato miracolosamente all’attentato del 29 luglio 1983 in via Pipitone Federico a Palermo, nel quale persero la vita il Consigliere Istruttore Rocco Chinnici, il Maresciallo Trapassi e l’appuntato Bartolotta dei Carabinieri, nonché il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi”, sotttolinea l’anm.
E’ amareggiato quello che è considerato una sorta di memoria storica di quegli anni terribili: “Scrivo perché non posso lasciare agli altri di giustificare la mia assenza. Scrivo perché i messaggi che mi arrivano sono dello stesso tenore come quello che condivido. Signori grazie dei messaggi, ma voi non dovete venire per me, ma per loro. Io non ci sarò più, ma ci tengo a precisare che non è una resa, mi costa parecchio abbandonare, ma ribadisco che non è una resa, ma devo farlo, perché sono stanco”. RAGUSA NEWS
A 30 anni dalla strage di Capaci: la fatica di fare memoria pubblica – Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
«Alla notizia della strage scappai in Questura. La sera del 23 maggio 1992, tornando a casa, trovai una fila di persone davanti al portone che mi sorprese. I palermitani si erano assuefatti alla violenza mafiosa. Quel giorno s’indignarono e qualcosa iniziò a cambiare. I funerali di mio marito, Antonio Montinaro, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo e Vito Schifani scossero la coscienza della città, della Sicilia e dell’Italia, segnando una reazione civile». Tina Montinaro, la moglie del caposcorta del giudice Falcone, parla nella sua abitazione a Palermo, mentre versa il caffè. Ha trascorso gli ultimi trent’anni a lenire il dolore, danzando sul confine che delimita la memoria personale, quella pubblica e la Storia. «Nel 1992 Antonio aveva trent’anni e non era un eroe», dice. «Proveniva dalla Questura di Bergamo e chiese l’aggregazione per il Maxiprocesso a Cosa nostra. Ammirava Falcone e aveva giurato alla Repubblica italiana. Scelse consapevolmente l’impegno della protezione del magistrato più esposto nella lotta alla mafia e lo mantenne dopo il preavviso di morte del fallito attentato all’Addaura. Non cambiò idea neanche quando lo Stato tolse l’indennità di rischio». Fino al 1997 Tina ha coltivato in forma strettamente privata la rielaborazione di una ferita intima e tuttora aperta della storia repubblicana. Quando ricorda il marito, non dimentica mai chi condivise la stessa sorte, come fosse un’orazione collettiva. I magistrati e gli agenti caduti erano uomini concreti e fallibili. La beatificazione è una maledizione, perché rende queste figure estranee a noi. Sapevano commisurare la paura con il coraggio. Presero atto della situazione in cui si trovavano fino all’ultimo e seppero agire come le circostanze richiedevano. Per questo non ne deve essere perduta la memoria. «Trentenne con due figli piccoli mi sono ritrovata dentro a una vicenda molto più grande di me», riflette Tina. «Sono cresciuta in fretta. A trent’anni di distanza dalla stagione del terrore stragista manca ancora una piena verità. Ti rendi conto che esistono dinamiche difficili anche solo da immaginare. Dopo gli anni del silenzio, ho dovuto mettermi in gioco in prima persona, perché lo Stato non ha saputo coniugare la giustizia con la memoria». Dove sono finiti i resti della macchina divelta nell’attentato? Il viaggio in Italia di Tina Montinaro è cominciato, ponendo questa domanda che l’ha spinta fino all’autoparco della Polizia di Stato a Messina: «Nelle lamiere della vettura, la Quarto Savona 15, sono rimaste tre vite, tre passioni e tre famiglie. Non mi hanno potuto mostrare il poco che restava del corpo di Antonio. Guardando l’auto, nessuno può essere indifferente». Senza questa iniziativa personale e la successiva collaborazione dei vertici della Polizia, un simbolo fondamentale per comprendere la portata e il significato della strage di Capaci verserebbe in stato di abbandono. Solo cinque anni fa la teca con il groviglio di rottami della Quarto Savona 15 ha trovato una collocazione a Palermo. Non scordiamo che la prima statua in memoria di Falcone è stata eretta in America a Quantico nell’accademia dell’Fbi, nel 1994. In Italia per avere una lapide commemorativa al Ministero di giustizia si è aspettato fino al 2002.
«Oggi, dopo mille stragi, dopo Falcone e Borsellino, ogni spazio parrebbe chiudersi, non dico all’idillio, ma alla fiducia più esangue. E tuttavia… finché in una biblioteca mani febbrili sfoglieranno un libro per impararvi a credere in una Sicilia, in un’Italia, in un mondo più umani, varrà la pena di combattere ancora, di sperare ancora. Rinunziando una volta per tutte a issare sul punto più alto della barricata uno straccio di bandiera bianca», scrisse Gesualdo Bufalinonella nota Poscritto 1992 contenuta nell’antologia Cento Sicilie. Scavando nelle storie e memorie dei sopravvissuti alla Tombstone italiana, che spesso hanno pianto in solitudine i “propri” morti per la nazione, si trovano le tracce della resistenza descritta da Bufalino. Una resistenza fondata sulla ricerca e conoscenza dei fatti.
Cosa nostra, distribuendola dappertutto, ha reso la morte il suo volto pubblico. Doveva ostentare il potere di mostrarla. Dopo la scomparsa di De Mauro, dal 1979 in poi gli omicidi eccellenti (Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa e quanti altri) hanno lasciato una traccia in ogni strada. Cosa nostra si era impossessata della morte e della possibilità di darla.
«Quale impasto sociale e umano ha potuto tollerare che tre Kalashnikov sparassero a Cassarà sulle scale di casa, mentre la moglie con la bambina piccola urlava, bussava alle porte per salvarsi e nessuno le aprì – osserva l’ex giornalista de L’Oraescrittore Piero Melati. Quella dell’autobomba di Chinnici che città è? Leggevamo nei giornali “Palermo come Beirut” sul terrazzino della casa di famiglia, mangiando il gelo di mellone. Poi ti abitui a tutto, le dittature sono così. La fine è solo l’annientamento, perché arriviamo a tollerare tutto. Vedo una relazione con la parola totalitarismo e persino con il regime concentrazionario».
Prima dell’attentato più eclatante su una curva dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi corre verso Palermo, con la potentissima deflagrazione di oltre cinquecento chili di tritolo che creò un cratere, l’omicidio (29 luglio 1991) di Libero Grassi, imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo e aveva denunciato pubblicamente, animò una rivolta. Apparvero i lenzuoli bianchi sui balconi e scritte contro i boss. La città cominciò a ribellarsi, ad aprire una strada per il futuro, e l’Italia a percepire quanto la questione fosse parte della biografia nazionale, non una storia solamente siciliana.
Il 30 gennaio 1992 alla conclusione del Maxiprocesso, istruito dai giudici del Pool antimafia di Palermo, con la condanna all’ergastolo in Cassazione della cupola di Cosa nostra, fu confermata l’esistenza di un’organizzazione criminosa caratterizzata da una struttura verticistica e dall’aggregazione di diversi nuclei operativi uniti dalla ricerca di profitti illeciti con metodi di sopraffazione e intimidazione.
Questo è stato uno spartiacque decisivo sul fronte dell’opinione pubblica, giudiziario e in parte di quello politico. Non si poteva più negare la sua esistenza ed erano state gettate le fondamenta del movimento che possiamo chiamare antimafia, affermatosi nella prima metà degli anni Novanta. Nacquero e si svilupparono realtà come Libera. La questione mafie entrò finalmente nell’agenda nazionale.
All’inizio del decennio degli anni Ottanta ancora si metteva in discussione l’esistenza stessa della mafia, spesso definita come una semplice associazione per delinquere, quando Chinnici oltre ad aver definito l’essenza del potere di Cosa nostra, ne aveva delineato l’unitarietà e l’interdipendenza fra le famiglie mafiose. Il fenomeno necessitava di una lettura non più frammentaria.
Scrisse Falcone un anno prima della sentenza definitiva della Cassazione: «È risultato di grande rilievo che sia stata autorevolmente confermata dai giudici di secondo grado, l’esistenza e l’unicità di un’organizzazione criminale che, per numero dei suoi membri e per pericolosità, non ha uguali nel mondo occidentale. La precisazione è d’obbligo: finalmente si è giunti a una incontestabile identificazione della natura e delle dimensioni del “nemico” da combattere».
Dopo l’addio del consigliere istruttore Antonino Caponnetto, tornato in Sicilia per proseguire il lavoro intrapreso da Rocco Chinnici, a Palermo il decennio di lotte che aveva prodotto il Maxiprocesso entrò in una fase di reflusso o “normalizzazione.” Il 19 gennaio 1988 il Consiglio Superiore della Magistratura per la carica di guida dell’Ufficio Istruzione, al posto di Caponnetto, indicò per questione d’anzianità Antonino Meli, scartando la candidatura autorevole di Falcone non raramente accusato di protagonismo giudiziario.
L’apice della stagione dei veleni fu l’attentato mancato all’Addaura: 58 candelotti di esplosivo rinvenuti il 21 giugno 1989 nel tratto di scogliera tra la casa, presa in affitto da Falcone, e il mare. Il giudice, che aveva come ospite la collega Carla Del Ponte, qualificò come raffinatissime le menti che lo avevano progettato e fu l’anticipazione della strage di Capaci.
Dopo la conferma in sede giudiziaria della validità dell’impianto accusatorio del Maxiprocesso con il progressivo smantellamento del pool, l’azione repressiva del fenomeno mafioso perse di slancio e d’efficacia. Alla sentenza del Maxiprocesso del 16 dicembre 1987, che inflisse 2665 anni di carcere ai mafiosi, Falcone segnalava invece la necessità di un ulteriore salto di qualità nella strutturazione del lavoro antimafia. Un’urgenza che lo portò da Palermo a Roma, dove ricoprì la carica di Direttore generale degli affari penali del Ministero di giustizia, subendo violente accuse dalla stessa magistratura come se avesse ceduto alle lusinghe della politica.
«Molti lo ricordano ancora oggi per il rigore delle sue indagini. Riconoscendogli, anche a livello internazionale, la grande professionalità e il merito di avere scoperto cosa significasse Cosa nostra. Pochi ricordano i momenti più tragici della sua vita e gli attacchi subiti anche da chi riteneva amico e il grande isolamento in cui fu costretto, rendendo ancora più pericolosa la sua vita», ha sottolineato la sorella Maria, che attraverso la Fondazione Falcone ha realizzato numerose iniziative, innanzitutto con i giovani, per trasmettere il senso di questo sacrificio.
A Palermo è nato un luogo prezioso per ricostruire la memoria di queste esistenze con i documenti e gli atti che determinarono quella stagione. Varcando le soglie del Palazzo di giustizia, si scopre la cura con la quale Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto all’attentato del 29 luglio 1983 per uccidere Chinnici e successivamente collaboratore tecnico informatico del pool antimafia, tutela il Museo Falcone – Borsellino.
Durante la visita si entra nelle stanze del bunker dei giudici arredate con le carte delle indagini, processi e loro oggetti personali. I luoghi sono fatti anche della materia di chi li animati, delle cose che sono accadute e la loro presenza si avverte forte. Come Tina Montinaro, Paparcuri evoca la fatica del fare memoria pubblica:
«Questi uffici erano diventati una discarica di carte, nonostante si conoscesse il loro valore storico. Nel dicembre del 2015, l’allora presidente della Corte di appello e il presidente della giunta distrettuale della ANM mi proposero di far rinascere questo spazio con la documentazione conservata nel periodo di lavoro condiviso con i giudici».
Nella stanza di Falcone è appesa una lettera dolorosa, nella quale il giudice spiegava così le ragioni della rinuncia a un impegno di carattere accademico (anno 1988/’89) e formazione per gli studenti: «(…) L’enfatizzazione fin da adesso di questa iniziativa, però, rischia di snaturare gli scopi di questo corso che dovrebbe costituire, non già passerella per chicchessia, ma mezzo di approfondimento serio di una materia la cui importanza è superfluo sottolineare. E già dai primi articoli di stampa riaffiora, anche stavolta in maniera distorta e strumentale, la solita polemica sui professionisti dell’antimafia e sui riconoscimenti di cui costoro godrebbero».
Falcone concluse il messaggio, asserendo che sarebbe stato meglio mettersi da parte, con la speranza che servisse a qualcosa, per non distogliere l’attenzione dai problemi reali con le solite polemiche su mafia e antimafia.Questo era il clima che lo accompagnò verso la fine della strage di Capaci. L’articolo che Leonardo Sciascia scrisse sui professionisti dell’antimafia era profetico in alcuni sensi, ma come ricordò Borsellino quel giorno Falcone iniziò a morire.
«Quello dell’antimafia è uno scenario affollato – afferma lo storico Salvatore Lupo –, che potrebbe giustificare qualche contro-polemica “alla Sciascia”, nel complesso, penso che l’antimafia rappresenti una grande risorsa civile e istituzionale del paese, il lascito positivo di un drammatico passato». La fine dello stragismo non equivale alla fine della mafia, bensì l’ha ricondotta a una dimensione carsica simile alla sua lunga storia che pone sfide nuove anche all’antimafia. Che cosa è diventato e quali sono le prospettive del movimento sociale e culturale nato dalla reazione al terrorismo di stampo mafioso? «Questa domanda mi suscita un senso di disorientamento – testimonia Tina Montinaro – seppure dopo le stragi sia stato realizzato un cambiamento reale. Il vestito della legalità, indossato da molte figure che sono state erroneamente elette a simboli antimafia, ha aperto le porte anche ai disonesti e ha fatto perdere lungo la strada la partecipazione di molte persone che avevano interessi sinceri. L’antimafia deve recuperare credibilità ed energia, perché quando la mafia non spara sembra che non esista, mentre permea sempre a maggiori profondità i gangli vitali della società».
I veleni al “bunkerino”, pioggia di appelli ma Giovanni Paparcuri è irremovibile: “Non tornerò”
Non sembra avere alcuna intenzione di tornare sui propri passi, Giovanni Paparcuri, nonostante gli appelli e le centinaia di richieste da parte di tantissimi cittadini. Aveva preannunciato domenica scorsa con un post su Facebook che avrebbe lasciato il “bunkerino”, ovvero il museo dedicato ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con i quali – dopo essere sopravvissuto alla strage in cui morì un altro giudice, padre del pool antimafia, Rocco Chinnici – lavorò per diversi anni all’interno del palazzo di giustizia. “La mia decisione è irrevocabile”, dice lapidario.
Tante le prese di posizione soprattutto sui social, formulate da chi teme che senza Paparcuri come guida quel museo – unico vero luogo di memoria a Palermo e che senza il suo contributo fondamentale forse non sarebbe mai nato – possa spegnersi e perdere la sua funzione essenziale. L’ex ispettore della Dia, Pippo Giordano, che lavorò durante gli anni più bui di Palermo accanto a Falcone, Borsellino, ma anche con Ninni Cassarà e Beppe Montana, ha deciso di inviare attraverso PalermoToday un accorato appello a Paparcuri perché torni al suo posto, nella sua “casa naturale”, cioè il “bunkerino”. Amareggiato per la scelta di Paparcuri anche il presidente dell’Ordine degli avvocati, Antonella Armetta, che ha espresso la propria solidarietà sempre attraverso Facebook. Solidarietà anche dal fotografo Tony Gentile, autore, tra l’altro, del celebre scatto dei due giudici diventato un simbolo della lotta alla mafia
L’Anm e la Fondazione Progetto Leglità, che gestiscono il museo, avevano inviato un comunicato per replicare alle dichiarazioni di Paparcuri, chiedendo anche loro – al di là delle polemiche, dei toni e dei modi – di ripensarci. Dai post di Paparcuri erano emersi problemi legati proprio alla gestione del “bunkerino” e tutta una serie di screzi e forse anche di equivoci che, alla lunga, lo hanno portato ad avvertire un clima di ostilità nei suoi confronti. E, purtroppo, a qualche giorno dall’annuncio, sembra che non ci sia alcuno spiraglio per fargli cambiare idea, per farlo tornare al museo.
L’appello dell’ex ispettore della Dia: “Giovanni, ripensaci”
“Mi sono rammaricato per quello che ho letto sul ‘bunkerino’ del tribunale di Palermo. Mi spiace tantissimo per Giovanni Paparcuri – dice in una nota Pippo Giordano – e spero che si ravveda, tornando ad essere la pietra miliare del museo. Gli studenti e gli adulti hanno bisogno di te, Giovanni (consentimi questa espressione affettuosa). Tu puoi raccontare la storia vissuta e non appresa de relato. Tu puoi magnificare la grandezza e lo spessore dei due Gentiluomini Siciliani, hai vissuto per anni accanto a loro. E proprio per i dottori Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Rocco Chinnici e tutti i magistrati assassinati da Cosa nostra, ripensaci. Ritorna al ‘bunkerino’ è casa tua”.
“L’antimafia, quella vera, non è affatto morta”
Giordano però fa riferimento anche alla presa di posizione del giornalista Piero Melati che immediatamente si era schierato con Paparcuri, decidendo in segno di solidarietà di non ritirare un riconoscimento nell’ambito del premio Racalmare per il suo ultimo libro, “Paolo Borsellino per amore della verità”, rimarcando come a suo avviso con questa triste vicenda sia “morta definitivamente l’antimafia”. L’ex ispettore della Dia su questo punto non ci sta: “Non sono d’accordo col giornalista Melati – scrive infatti – quando afferma che ‘così è morta definitivamente l’antimafia’. No, l’antimafia quella vera e non di facciata, è viva e vegeta. Lo dimostra il grande impegno civile dei tanti volontari che, con abnegazione e sacrificio, portano la legalità nelle scuole e nella società. Per non parlare di chi è deputato a combattere la mafia e lo fa in silenzio, senza scrusciue batteria. Come facevano, appunto, Falcone e Borsellino, lontano dai riflettori. Ed è per questo che ti rinnovo l’invito, Giovanni, torna nella tua ‘casa naturale’. Dai voce a Falcone, Borsellino e ai tanti martiri della violenza mafiosa”.
Il presidente dell’Ordine degli avvocati: “Massima solidarietà a Paparcuri”
Amaro e solidale anche il commento di Armetta: “Non credo sia abbastanza esprimere la mia solidarietà a Giovanni Paparcuri, che ha mostrato un amore ed una dedizione senza pari ad una causa, quella della conservazione di un luogo di memoria vero della nostra terra, che viene sbandierato solo in occasione delle celebrazioni per la ricorrenza delle stragi. La verità è, purtroppo, triste. L’antimafia – scrive il presidente dell’Ordine degli avvocati – è un valore di facciata, da agitare quando conviene e quasi sempre per finalità politiche o per progressioni di carriera. Dell’antimafia reale, quotidiana e portata avanti con l’esempio non può importare nulla, perché non serve a chi – nel nome dei caduti – ha costruito una carriera. Buona fortuna, dottor Paparcuri. Noi non dimentichiamo ciò che ha fatto e la disponibilità con cui ha concesso a tutti di fruirne”.
Il fotografo Tony Gentile: “Sono con te, non mollare”
Anche il fotografo Tony Gentile ha espresso la sua solidarietà a Paparcuri attraverso un post su Facebook, in cui ha ricordato come lo conobbe e quanto si emozionò visitando il museo e ascoltando la sua testimonianza appassionata: “La decisione di Giovanni ha scatenato un altro terremoto all’interno del famoso Palazzo dei veleni (in effetti ci sarà una ragione per cui è stato definito così) – scrive Gentile – ma al di là dei torti e delle ragioni io sto con Giovanni e a lui, per quello che vale, manifesto tutta la mia solidarietà. Non mollare Giovanni, compi la tua scelta libera e tieni la schiena dritta come hai fatto fino ad ora, questa è l’unica antimafia che mi piace”.
PALERMO TODAY 25.8.2022 Sandra Figliuolo
Piero Melati rinuncia al premio Racalmare. “Solidarierà con Paparcuri”
L’addio polemico di Giovanni Paparcuri, custode della memoria di Falcone e Borsellino, al “bunkerino” del palazzo di giustizia causa uno strascico anche in campo culturale: Piero Melati, giornalista, autore del libro “Paolo Borsellino. Per amore della verità” ha anninciato di rinunciare al premio racalmare che gli era stato attribuito. La cerimonia del premio si svolgerà sabato a Grotte e, per la sezione narrativa vedrà in lizza Ugo Cornia, Andrea Vitali e Antonio Manzini.
Con una lettera alla giuria, Melati, che al caso Paparcuri, autista giudiziario di Rocco Chinnici, sopravvissuto alla strage di via Pipitone dell’83, ha spiegato la rinuncia al premio. “Nei giorni scorsi Paparcuri è stato costretto a dimettersi dall’incarico, pronunciando amarissime parole. Ne è nato un caso che ha rimesso al centro del dibattito la questione della memoria, chi ne sono i suoi veri testimoni, che senso abbia oggi una Antimafia che, a trent’anni dalle stragi siciliane, somiglia sempre di più ad una passerella della vanità e a una scorciatoia per le carriere, come ebbe a scrivere Sciascia nel suo famoso e profetico articolo sul “Corriere della Sera” del 10 maggio del 1987. Nel libro avevo già cercato di raccontare come il malessere di Paparcuri venisse da lontano. Lui stesso sopravvissuto a un attentato, amico e collaboratore di due “eroi” riconosciuti in tutto il mondo, non ha mai trovato il posto che gli spetta nelle ricorrenti cerimonie ufficiali. La stessa gestione del piccolo museo lo ha visto spesso sopperire a carenze varie di tasca propria, in un percorso costellato da invidie e diffidenze. Fino alla decisione finale di mettersi da parte”.
Conclude Melati: “Caro presidente e cari membri della giuria, oggi non ritiro il premio per solidarietà piena e convinta a Giovanni Paparcuri, uno dei protagonisti principali del libro che qui avete insignito. Si tratta di un piccolo gesto, ma che faccio lucidamente, dopo tormentata riflessione e pur se gravato dal peso di farvi una scortesia. Ma lo sento come un obbligo e un dovere”.La cerimonia di premiazione sarà condotta da Elvira Terranova.
14.9.2022 Il museo Falcone e Borsellino perde il suo inventore che lascia chiudendo anche la pagina Facebook
Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici e stretto collaboratore di Giovanni Falcone che lo chiamava “Papa“, ha abbandonato quella che era la sua “creatura“: un museo (che non è solo un museo) nei locali dove i due giudici hanno vissuto uno accanto all’altro per dieci anni
- In polemica con l’Associazione nazionale magistrati e con la Fondazione che gestisce la struttura, l’esperto informatico dell’ufficio istruzione il 5 settembre scorso ha chiuso anche la pagina facebook dedicata al “Museo Falcone-Borsellino”
- Un luogo che è la riproduzione fedele degli uffici del primo pool antimafia, con gli oggetti originali appartenuti ai due giudici e i documenti della loro lunga attività istruttoria. Le macchine per scrivere che usavano, gli impermeabili protetti da una corazza di metallo, gli appunti, le ordinanze sentenze.
- La risposta dell’Associazione magistrati: “Il Museo non chiude“. Tentativi per un chiarimento e nuove incomprensioni con l’antimafia ufficiale.
Le stanze sono sempre aperte ma lui non c’è più. Se n’è andato, piangendo, il 24 maggio. Proprio il giorno dopo il trentesimo anniversario della strage di Capaci. Per un po’ è stato zitto, poi ha cominciato a spiegare sul suo profilo Facebook perché non poteva stare più lì, in quello che a Palermo tutti conoscono come “il bunkerino”, gli uffici dove hanno vissuto uno accanto all’altro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Locali blindati in un ammezzato buio del palazzo di Giustizia, il luogo dove è nato il maxi processo a Cosa nostra e tanto altro ancora.
Un museo che non è un museo
Le stanze sono sempre aperte ma Giovanni Paparcuri, “papa” lo chiamava Falcone, ha abbandonato quella che era la sua “creatura”, un museo che non è solo un museo, è la riproduzione fedele degli uffici del primo pool antimafia con gli oggetti originali appartenuti ai due giudici e i documenti della loro lunga attività istruttoria. Le macchine per scrivere che usavano, gli impermeabili protetti da una corazza di metallo, gli appunti, le ordinanze sentenze, i soprammobili e soprattutto il respiro di quella Palermo anni Ottanta tramandata dalla memoria di chi con i due giudici ha diviso la sua esistenza nella stagione siciliana più cupa.
Alle 23 e 39 dello scorso cinque settembre Giovanni Paparcuri ha comunicato con un post di avere chiuso la pagina “Museo Falcone-Borsellino”, annunciando spiegazioni in merito per i giorni successivi. Che sono puntualmente arrivate. Messaggi diretti e altri più obliqui, comunque tutti poco lusinghieri per un’antimafia ufficiale che – a suo dire – l’ha lentamente e inesorabilmente emarginato.
La polemica con i magistrati
Nella sostanza “papa”, che “il bunkerino” l’ha fatto nascere, dopo sei anni e poco più di 30mila visitatori provenienti da ogni angolo d’Italia, lamenta di sentirsi lì dentro quasi un ospite. A volte anche mal sopportato, bersaglio di dicerie, vittima di un ingranaggio burocratico che mortifica il suo lavoro di testimone oculare in quella stagione. Ce l’ha con l’Associazione nazionale magistrati di Palermo, che è la “padrona” di casa con la presidenza della corte di appello. E ce l’ha pure con la fondazione Progetto Legalità che gestisce di fatto – e su delega dell’Anm – il museo. Abbiamo fatto domande a Paparcuri e naturalmente anche ai responsabili dell’associazione magistrati e della fondazione per ascoltare ogni versione sulla vicenda, ma c’è qualcosa che va oltre le presunte ragioni e i presunti torti delle parti, qualcosa che ha a che fare con Palermo e i suoi simboli. Soprattutto in un’estate come questa dove, proprio a Palermo, avvenimenti politici e sociali hanno travolto e stravolto quell’altra città che faceva resistenza contro un ritorno del passato
La convinzione che ci siamo fatti: probabilmente è stato sottovalutato il significato più profondo di “papa” fra quelle stanze, perché perdere lui è come perdere frammenti di memoria, “il bunkerino” non è certo una sua proprietà privata ma “il bunkerino” senza Giovanni Paparcuri diventerà inevitabilmente qualcosa di diverso, di scolorito, dove le “ricostruzioni” prenderanno il sopravvento sulle emozioni, dove si disperderà un sapere che non si può trovare in un documento ma solo in un cuore.
È tutto scritto nella storia di Giovanni. Nel 1983 è l’autista di Falcone ma il 29 luglio il giudice è in Thailandia per una rogatoria e lui, quella mattina, guida l’auto del consigliere Rocco Chinnici. C’è l’attentato, Chinnici muore, muoiono due carabinieri e anche il portiere dello stabile dove abita il consigliere. Giovanni si salva, è un miracolo.
La fiducia di Falcone
Quando torna in tribunale non può più fare l’autista, per il ministero non è più “idoneo”. Così inizia la sua seconda vita. S’inventa un nuovo lavoro, nei corridoi del palazzo di Giustizia sono ammassati scatoloni con i primi computer. Nessuno li sa usare. È Paparcuri che scopre il suo talento informatico e contagia subito con la sua passione Giovanni Falcone. È lui che archivia tutte le delicate informazioni del maxi processo, ogni segreto passa davanti ai suoi occhi. Falcone si fida ciecamente. Di lui, delle altre tre segretarie che sono nel “bunkerino”, del maresciallo della guardia di finanza Angelo Crispino che sta dietro una sgangherata porta di legno. Ci sono i giudici, ma in silenzio ci sono anche loro, la squadra del pool.
Poi arriva il 1992. A Capaci salta in aria Giovanni Falcone, saltano in aria tre poliziotti, se ne va anche Francesca Morvillo. Si salva ancora solo l’autista Giuseppe Costanza. Giovanni e Giuseppe hanno lo stesso destino. Anche Giuseppe non può più guidare le auto per le ferite riportate. Per un quarto di secolo sono state due ombre, mai invitati alle celebrazioni, mai ricordati. La solitudine dei sopravvissuti. I due, Giovanni e Giuseppe, ogni tanto si ritrovano a parlare della sorte avuta e del numero nove che li ha segnati. Nove gli anni d’età che separano uno dall’altro, nove gli anni che dividono l’attentato di Chinnici da quello di Capaci, nove gli anni di differenza d’età anche delle rispettive mogli, nate comunque nello stesso mese e nello stesso giorno.
Nel 2016 Paparcuri decide di far rivivere il “bunkerino”. Compra a sue spese le macchine per scrivere dei due giudici, raccoglie i biglietti e le carte che Giovanni Falcone gli aveva consegnato, nei sotterranei del tribunale va alla ricerca delle scrivanie e degli armadi che in quei primi anni Ottanta arredavano le stanze dei magistrati del pool.
I racconti sui giudici
Così un ammezzato buio e dimenticato torna com’era. È Giovanni Paparcuri il custode e la guida. Un successo clamoroso. Scolaresche, famiglie, poliziotti, magistrati, giornalisti, folle di semplici curiosi. E “papa” ad aprire e chiudere il museo che non è un museo, a descrivere le lunghe giornate di Falcone e Borsellino fra un interrogatorio e l’altro, a ricordare le loro abitudini, le loro speranze e le loro paure. Tutto in maniera molto informale.
Troppo, per qualcuno che – pare – non abbia gradito la spontaneità di Giovanni in più occasioni. Come quando rende pubblico un messaggio d’amore di Francesca Morvillo a suo marito Falcone. Scoppia un putiferio.
Lo ricorda nei suoi post su Facebook di questi giorni: «È da meschini scrivere cose fantasiose su questo biglietto, e andare in giro a fare i poeti e/o a ergersi quali conoscitori di una storia mai vissuta. Dovete scrivere invece quanto è stata scellerata la scelta di separarli, dovete scrivere chi porta ogni venerdì dei fiori freschi alla signora esiliata al cimitero dei Rotoli. Ma voi ci siete mai stati?». Il riferimento è a Maria Falcone e alla scelta di trasferire le spoglie del fratello nella basilica di san Domenico, il pantheon di Palermo. La moglie Francesca l’hanno lasciata sola in una tomba lontana.
Le incomprensioni e gli sfoghi
Genuinità e ufficialità, qualche incomprensione quotidiana, un protocollo delle visite che Giovanni non ha mai accettato volentieri. Uno degli ultimi sfoghi di “papa”: «Mettere in giro la voce che io rivendicavo la proprietà del bunkerino, oltre ad essere odioso è infantile. Altresì è come sminuire il motivo per il quale me ne sono andato, il motivo lo sapete benissimo qual è, ma non avete mai avuto il coraggio di dirmelo in faccia, ma mandavate a farlo il controllore che mi avete messo alle costole, dicendomi semplicemente che di cose personali non ne dovevo parlare. Però una cosa voglio dirvela, io ho sempre parlato a titolo personale, se vi sentivate a disagio o temevate che a qualcuno dava fastidio potevate dirmelo». E ancora: «Vi risulta che quando cominciavo a parlare con i visitatori ho sempre detto grazie all’Anm? E guai se qualche volta non pronunciavo queste parole magiche. È vero che il controllore stava davanti fino a quanto non pronunciavo le paroline e poi andava via?».
L’associazione magistrati e la fondazione sono rimasti spiazzati. In una nota prima hanno ringraziato Paparcuri, poi «registrato negli ultimi mesi il suo progressivo e volontario distacco dal museo», poi ancora invitato a evitare «inopportune polemiche». Ci dice oggi Clelia Maltese, la presidente dell’Anm distrettuale: «Nessuno ha mai messo in dubbio in Giovanni Paparcuri la forza del testimone ma a noi interessa che il museo continui la sua attività. Lui è un valore aggiunto ma il museo non verrà certo chiuso». L’appello del presidente della fondazione, Leonardo Agueci, che fino a qualche anno fa è stato procuratore aggiunto a Palermo: «Qualunque siano i problemi noi vogliamo superarli, abbiamo il dovere di conservare la memoria che è superiore a qualsiasi altra cosa». Vedremo cosa succederà nei prossimi giorni. Si parla di un incontro di chiarimento, però si parla anche di avvocati e cause legali. Brutti tempi per Palermo.
Il dolore di Paparcuri: caro Giovanni, torna al bunkerino
Caro Giovanni (Paparcuri), è ancora una bella serata d’estate a Palermo, adesso. Guardiamo il cielo con speranza. Speriamo che le guerre finiscano, che le pandemie si spengano e anche che le bollette tornino a livelli non sovrumani. Alcuni dei sogni che facciamo qui, dalle parti di Mondello, appartengono all’umanità.
Ricordo nitidamente un giorno indimenticabile in cui ti incontrai, quando entrai al bunkerino per la prima volta, cioè al museo della memoria del Palazzo di giustizia di Palermo, dove sono stati ricreati gli ambienti di lavoro del dottore Falcone e del dottore Borsellino.
Un passo indietro, intanto. Un amarcord. Un nastro riavvolto. Avevo vent’anni o poco più, in quel ‘92 ed ero un ragazzo confuso, come i ventenni, che non sanno bene cosa fare. Decisi di mettere in mezzo il servizio militare tra me e il mio futuro e tornai in licenza per i funerali di Paolo Borsellino. C’era una fiumana di gente che convergeva, silenziosa, verso il punto estremo del dolore. C’era la rabbia. E c’erano le urla.
Poi – lo raccontavo – arrivai al bunkerino, molti anni dopo, con il futuro che era ormai il presente della mia professione. Mi sentivo un po’ in colpa. In tanta personale confusione, allora, in quel ‘92, mi ero perso un passaggio importante che avevo attraversato con una non piena consapevolezza emotiva e intellettuale. Mi ero perso i dottori Falcone e Borsellino.
Ma, quel giorno, con te, li ritrovai. Respirai l’odore del tabacco. Accarezzai le papere in miniatura collezionate dal dottore Falcone (che il dottore Borsellino gli sottraeva, per scherzo, con una finta messinscena estorsiva). Passai la mano sul dorso delle borse blindate che non avevano mai utilizzato. E mi resi conto che erano lì. Non in carne ossa. C’erano in una consistenza più grande. Erano lì, i due giudici e amici. E io fui colto da un soprassalto intenso di commozione, perché li sentivo davvero. Corsi ad abbracciarti.
La mia non è una narrazione isolata. Succede a tantissimi – li ho visti – che varcano la soglia in punta di piedi, con il cuore gonfio e si mettono a piangere per una mescolanza di emozioni che potremmo, sommariamente, descrivere così: ciò che si trova è insperato e, al tempo stesso, troppo immenso per lasciare indifferenti.
Moltissimi vengono lì per loro e vengono lì per te. Non perché tu sia un cimelio. Perché sei uno che ha vissuto esperienze tragiche e ne ha tratto forza e speranza. Sei un eroe sopravvissuto, sì. Forse è anche una condanna. Però, se uno sopravvive come te, caro Giovanni, nella pienezza di una esistenza coraggiosa, offre il riscatto a tutti. Libera tutti.
Sappiamo che non sei più al bunkerino. Che quel ‘vengono’ si è trasformato in un malaugurato ‘venivano per te’. Sappiamo che ci sono state delle incomprensioni, che sei irremovibile nei tuoi dolenti post su Facebook. Che hai detto: no, non tornerò. Una legittima scelta che è fonte di generale dolore.
Caro Giovanni, non sono qui per darti consigli. Come potrei? La mia guerra più acerrima l’ho combattuta da militare, sparando a bersagli di legno. Una guerra innocua, dove non moriva nessuno. Tu sei stato in trincea. Eri con il dottore Rocco Chinnici e sei stato ferito. Successivamente, furono i dottori Falcone e Borsellino a mettersi accanto il tuo talento e il tuo impegno. Conosciamo l’epilogo di quell’estate del ‘92.
E che consigli potremmo darti? Cosa potremmo dirti o suggerirti? Niente, è ovvio. Oppure solo una sommessa e affettuosa richiesta: torna al bunkerino, torna al tuo posto. Non significherebbe abdicare, ma ascoltare quello che ogni palermitano ti sta chiedendo, magari senza chiederlo esplicitamente. Tra brave persone ogni ostacolo può essere appianato. E tu devi stare lì, nella trincea della memoria, con il tuo bellissimo cuore ferito. Adesso, mentre scrivo, è una splendida serata, a Palermo. Il sangue non sporca più i giorni come succedeva in un’epoca atroce. La luna somiglia ai cari volti che ritroveremo. Questa guerra l’hai vinta tu, l’avete vinta voi. Per tutti noi. Questa pace ha ancora bisogno di te. (Roberto Puglisi)
Il museo Falcone e Borsellino perde il suo inventore che lascia chiudendo anche la pagina Facebook
Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici e stretto collaboratore di Giovanni Falcone che lo chiamava “Papa“, ha abbandonato quella che era la sua “creatura“: un museo (che non è solo un museo) nei locali dove i due giudici hanno vissuto uno accanto all’altro per dieci anni
- In polemica con l’Associazione nazionale magistrati e con la Fondazione che gestisce la struttura, l’esperto informatico dell’ufficio istruzione il 5 settembre scorso ha chiuso anche la pagina facebook dedicata al “Museo Falcone-Borsellino”
- Un luogo che è la riproduzione fedele degli uffici del primo pool antimafia, con gli oggetti originali appartenuti ai due giudici e i documenti della loro lunga attività istruttoria. Le macchine per scrivere che usavano, gli impermeabili protetti da una corazza di metallo, gli appunti, le ordinanze sentenze.
- La risposta dell’Associazione magistrati: “Il Museo non chiude“. Tentativi per un chiarimento e nuove incomprensioni con l’antimafia ufficiale.
Le stanze sono sempre aperte ma lui non c’è più. Se n’è andato, piangendo, il 24 maggio. Proprio il giorno dopo il trentesimo anniversario della strage di Capaci. Per un po’ è stato zitto, poi ha cominciato a spiegare sul suo profilo Facebook perché non poteva stare più lì, in quello che a Palermo tutti conoscono come “il bunkerino”, gli uffici dove hanno vissuto uno accanto all’altro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Locali blindati in un ammezzato buio del palazzo di Giustizia, il luogo dove è nato il maxi processo a Cosa nostra e tanto altro ancora.
Un museo che non è un museo
Le stanze sono sempre aperte ma Giovanni Paparcuri, “papa” lo chiamava Falcone, ha abbandonato quella che era la sua “creatura”, un museo che non è solo un museo, è la riproduzione fedele degli uffici del primo pool antimafia con gli oggetti originali appartenuti ai due giudici e i documenti della loro lunga attività istruttoria. Le macchine per scrivere che usavano, gli impermeabili protetti da una corazza di metallo, gli appunti, le ordinanze sentenze, i soprammobili e soprattutto il respiro di quella Palermo anni Ottanta tramandata dalla memoria di chi con i due giudici ha diviso la sua esistenza nella stagione siciliana più cupa.
Alle 23 e 39 dello scorso cinque settembre Giovanni Paparcuri ha comunicato con un post di avere chiuso la pagina “Museo Falcone-Borsellino”, annunciando spiegazioni in merito per i giorni successivi. Che sono puntualmente arrivate. Messaggi diretti e altri più obliqui, comunque tutti poco lusinghieri per un’antimafia ufficiale che – a suo dire – l’ha lentamente e inesorabilmente emarginato.
La polemica con i magistrati
Nella sostanza “papa”, che “il bunkerino” l’ha fatto nascere, dopo sei anni e poco più di 30mila visitatori provenienti da ogni angolo d’Italia, lamenta di sentirsi lì dentro quasi un ospite. A volte anche mal sopportato, bersaglio di dicerie, vittima di un ingranaggio burocratico che mortifica il suo lavoro di testimone oculare in quella stagione. Ce l’ha con l’Associazione nazionale magistrati di Palermo, che è la “padrona” di casa con la presidenza della corte di appello. E ce l’ha pure con la fondazione Progetto Legalità che gestisce di fatto – e su delega dell’Anm – il museo. Abbiamo fatto domande a Paparcuri e naturalmente anche ai responsabili dell’associazione magistrati e della fondazione per ascoltare ogni versione sulla vicenda, ma c’è qualcosa che va oltre le presunte ragioni e i presunti torti delle parti, qualcosa che ha a che fare con Palermo e i suoi simboli. Soprattutto in un’estate come questa dove, proprio a Palermo, avvenimenti politici e sociali hanno travolto e stravolto quell’altra città che faceva resistenza contro un ritorno del passato
La convinzione che ci siamo fatti: probabilmente è stato sottovalutato il significato più profondo di “papa” fra quelle stanze, perché perdere lui è come perdere frammenti di memoria, “il bunkerino” non è certo una sua proprietà privata ma “il bunkerino” senza Giovanni Paparcuri diventerà inevitabilmente qualcosa di diverso, di scolorito, dove le “ricostruzioni” prenderanno il sopravvento sulle emozioni, dove si disperderà un sapere che non si può trovare in un documento ma solo in un cuore.
È tutto scritto nella storia di Giovanni. Nel 1983 è l’autista di Falcone ma il 29 luglio il giudice è in Thailandia per una rogatoria e lui, quella mattina, guida l’auto del consigliere Rocco Chinnici. C’è l’attentato, Chinnici muore, muoiono due carabinieri e anche il portiere dello stabile dove abita il consigliere. Giovanni si salva, è un miracolo.
La fiducia di Falcone
Quando torna in tribunale non può più fare l’autista, per il ministero non è più “idoneo”. Così inizia la sua seconda vita. S’inventa un nuovo lavoro, nei corridoi del palazzo di Giustizia sono ammassati scatoloni con i primi computer. Nessuno li sa usare. È Paparcuri che scopre il suo talento informatico e contagia subito con la sua passione Giovanni Falcone. È lui che archivia tutte le delicate informazioni del maxi processo, ogni segreto passa davanti ai suoi occhi. Falcone si fida ciecamente. Di lui, delle altre tre segretarie che sono nel “bunkerino”, del maresciallo della guardia di finanza Angelo Crispino che sta dietro una sgangherata porta di legno. Ci sono i giudici, ma in silenzio ci sono anche loro, la squadra del pool.
Poi arriva il 1992. A Capaci salta in aria Giovanni Falcone, saltano in aria tre poliziotti, se ne va anche Francesca Morvillo. Si salva ancora solo l’autista Giuseppe Costanza. Giovanni e Giuseppe hanno lo stesso destino. Anche Giuseppe non può più guidare le auto per le ferite riportate. Per un quarto di secolo sono state due ombre, mai invitati alle celebrazioni, mai ricordati. La solitudine dei sopravvissuti. I due, Giovanni e Giuseppe, ogni tanto si ritrovano a parlare della sorte avuta e del numero nove che li ha segnati. Nove gli anni d’età che separano uno dall’altro, nove gli anni che dividono l’attentato di Chinnici da quello di Capaci, nove gli anni di differenza d’età anche delle rispettive mogli, nate comunque nello stesso mese e nello stesso giorno.
Nel 2016 Paparcuri decide di far rivivere il “bunkerino”. Compra a sue spese le macchine per scrivere dei due giudici, raccoglie i biglietti e le carte che Giovanni Falcone gli aveva consegnato, nei sotterranei del tribunale va alla ricerca delle scrivanie e degli armadi che in quei primi anni Ottanta arredavano le stanze dei magistrati del pool.
I racconti sui giudici
Così un ammezzato buio e dimenticato torna com’era. È Giovanni Paparcuri il custode e la guida. Un successo clamoroso. Scolaresche, famiglie, poliziotti, magistrati, giornalisti, folle di semplici curiosi. E “papa” ad aprire e chiudere il museo che non è un museo, a descrivere le lunghe giornate di Falcone e Borsellino fra un interrogatorio e l’altro, a ricordare le loro abitudini, le loro speranze e le loro paure. Tutto in maniera molto informale.
Troppo, per qualcuno che – pare – non abbia gradito la spontaneità di Giovanni in più occasioni. Come quando rende pubblico un messaggio d’amore di Francesca Morvillo a suo marito Falcone. Scoppia un putiferio.
Lo ricorda nei suoi post su Facebook di questi giorni: «È da meschini scrivere cose fantasiose su questo biglietto, e andare in giro a fare i poeti e/o a ergersi quali conoscitori di una storia mai vissuta. Dovete scrivere invece quanto è stata scellerata la scelta di separarli, dovete scrivere chi porta ogni venerdì dei fiori freschi alla signora esiliata al cimitero dei Rotoli. Ma voi ci siete mai stati?». Il riferimento è a Maria Falcone e alla scelta di trasferire le spoglie del fratello nella basilica di san Domenico, il pantheon di Palermo. La moglie Francesca l’hanno lasciata sola in una tomba lontana.
Le incomprensioni e gli sfoghi
Genuinità e ufficialità, qualche incomprensione quotidiana, un protocollo delle visite che Giovanni non ha mai accettato volentieri. Uno degli ultimi sfoghi di “papa”: «Mettere in giro la voce che io rivendicavo la proprietà del bunkerino, oltre ad essere odioso è infantile. Altresì è come sminuire il motivo per il quale me ne sono andato, il motivo lo sapete benissimo qual è, ma non avete mai avuto il coraggio di dirmelo in faccia, ma mandavate a farlo il controllore che mi avete messo alle costole, dicendomi semplicemente che di cose personali non ne dovevo parlare. Però una cosa voglio dirvela, io ho sempre parlato a titolo personale, se vi sentivate a disagio o temevate che a qualcuno dava fastidio potevate dirmelo». E ancora: «Vi risulta che quando cominciavo a parlare con i visitatori ho sempre detto grazie all’Anm? E guai se qualche volta non pronunciavo queste parole magiche. È vero che il controllore stava davanti fino a quanto non pronunciavo le paroline e poi andava via?».
L’associazione magistrati e la fondazione sono rimasti spiazzati. In una nota prima hanno ringraziato Paparcuri, poi «registrato negli ultimi mesi il suo progressivo e volontario distacco dal museo», poi ancora invitato a evitare «inopportune polemiche». Ci dice oggi Clelia Maltese, la presidente dell’Anm distrettuale: «Nessuno ha mai messo in dubbio in Giovanni Paparcuri la forza del testimone ma a noi interessa che il museo continui la sua attività. Lui è un valore aggiunto ma il museo non verrà certo chiuso». L’appello del presidente della fondazione, Leonardo Agueci, che fino a qualche anno fa è stato procuratore aggiunto a Palermo: «Qualunque siano i problemi noi vogliamo superarli, abbiamo il dovere di conservare la memoria che è superiore a qualsiasi altra cosa». Vedremo cosa succederà nei prossimi giorni. Si parla di un incontro di chiarimento, però si parla anche di avvocati e cause legali. Brutti tempi per Palermo.