‘NDRANGHETA in LOMBARDIA

 

 

 

 

 

AUDIO INTERVENTI  ALESSANDRA DOLCI – COORDINATRICE DDA MILANO




Lombardia, ‘ndrangheta principale ‘cliente’ di imprenditori e politici 

L’INTERVISTA A MARCO FRACETI/Prima parte. Colonizzazione mafiosa: “Il trenta per cento degli imprenditori lombardi ha avuto rapporti con le organizzazioni criminali”. La ‘ndrangheta? “Non sarebbe una potenza economica se non ci fossero corruzione e rapporto incestuoso con l’economia”.

La Lombardia è ufficialmente zona rossa. Ormai è chiaro che l’emergenza Coronavirus continuerà a far parlare di sé ancora per molto. Ma, proprio perché se ne parla, abbiamo ritenuto opportuno offrire un punto di vista davvero inedito su questi fatti: quello, cioè, di Marco Fraceti, giornalista milanese tra i maggiori esperti della criminalità organizzata in Brianza, autore di svariate inchieste sul tema, che anche alla sanità lombarda ha dedicato negli anni numerosi interventi e ricerche, pure nei tempi più recenti di pandemia. Abbiamo rivolto a lui alcune domande sulle dimensioni che la ‘ndrangheta ha ormai raggiunto in Lombardia, e sui rapporti che essa ha intrattenuto e intrattiene col mondo delle imprese, della politica e – da ultimo – con la gestione dell’emergenza sanitaria a livello regionale (ma non solo).

Alla luce di due dei suoi libri in cui si occupa dell’argomento, ovvero Briangheta, La ‘ndrangheta in Brianza a ‘cento passi’ dal Lambro (del 2010) e Scacco alla ‘ndrangheta. I veri padroni del Nord (edito nel 2014), volevo chiederle cosa pensa in generale del fenomeno ‘ndrangheta in Lombardia e Brianza: se da un lato, infatti, potremmo riferire a questa organizzazione le cose che Falcone diceva trent’anni fa di Cosa Nostra sul fatto che essa è ormai parte integrante dell’economia e della società, dall’altro è anche vero che la ‘ndrangheta dimostra di avere un grado di pervasività ancora superiore. Qual è il segreto di questa maggior forza e pervasività della ‘ndrangheta?

«Innanzitutto, mi interessava chiarire i diversi momenti dei due libri: Briangheta è un libro che è stato scritto quando la mafia in Lombardia e in Brianza [secondo la voce del potere ufficiale, ndr] non esisteva. Per cui, sulla scorta dell’inchiesta Infinito, è stato aperto il vaso di Pandora della presenza dell’organizzazione della ‘ndrangheta in Lombardia. Scacco alla ‘ndrangheta – dato che poi ci sono state altre inchieste – è il ‘dopo’. E cioè la presenza dell’organizzazione criminale sul territorio lombardo. Quindi, oggi non siamo più in una situazione di ‘infiltrazione’, ma di ‘colonizzazione’ in Lombardia e in Piemonte [e in Emilia-Romagna, ndr], anche se recentemente è stato pure sciolto il Consiglio regionale della Val d’Aosta per infiltrazione mafiosa di tipo ‘ndranghetista. La colonizzazione prevede che una parte dell’economia legale sia occupata da associazioni, imprese, finanziarie e soggetti economici che fanno riferimento all’organizzazione criminale direttamente.»

Infatti, a riprova di questa colonizzazione, abbiamo in Lombardia una grande quantità di beni e aziende confiscate alla mafia… «Sì, siamo la quinta regione per beni confiscati, ma siamo la terza per beni legati alle imprese.»

Quindi, al giorno d’oggi, potremmo dire che il rapporto tra mafie e mondo imprenditoriale si sia trasformato: mi riferisco alle analisi che fanno magistrati come il consigliere del Csm Nino Di Matteo o il capo della Dda di Milano Alessandra Dolci, secondo cui non sono più i mafiosi o gli ‘ndranghetisti rivolgersi o chiedere il pizzo agli imprenditori, ma adesso sono gli imprenditori che chiedono consulenze alle mafie. È d’accordo su questo fatto?

«Sì, sono molto d’accordo. Io aggiungerei una questione: e cioè che un conto sono gli imprenditori, un conto la politica. Vedi l’inchiesta Tenacia, che ha coinvolto un imprenditore di Lecco, ma anche il caso Peppino Mandalari… abbiamo tante situazioni dove gli imprenditori entrano in rapporti con le mafie. Nel 2008 la Confcommercio Lombardia fa un’indagine tra i suoi associati in tutte le province della regione Lombardia per chiedere loro che tipo di rapporto hanno con l’organizzazione criminale. Fanno una serie di domande: tra queste, se avessero mai avuto rapporti con l’organizzazione criminale, anche solo per motivi economici. Il 30% degli imprenditori della Lombardia ha dichiarato di avere relazioni con organizzazioni criminali. E in Brianza arriviamo quasi al 45%. Quindi, prima la dott.ssa Boccassini e poi la dott.ssa Dolci hanno ragione quando dicono che il problema è l’area grigia di imprenditori che hanno chiesto soldi (e non c’è valido motivo che tenga) alle organizzazioni criminali e che, se poi non riescono a restituirli, sono costretti a ‘cedere’ loro l’impresa. Quindi, le imprese apparentemente “pulite” entrano a far parte del mondo degli appalti. Expo 2015 è stata l’esplosione di questa situazione: 127 imprese legate alle organizzazioni criminali sono state allontanate dai cantieri. Che sia il cantiere di Rho, che sia quello della Metro 4, della Pedemontana, TEEM [tangenziale est esterna di Milano, ndr], BreBeMi [Autostrada A58]: tutto il movimento terra in Lombardia è nelle mani dell’organizzazione criminale. E l’organizzazione criminale lavora per questi appalti.»

E per quanto riguarda la politica? «Per quanto riguarda la politica, noi abbiamo nel recente passato un’inchiesta, che ha prodotto un processo, che ha prodotto delle condanne, in cui un politico lombardo che si chiama Domenico Zambetti [assessore regionale della giunta Formigoni, ndr], ex Dc poi passato a Forza Italia, è andato lui a chiedere da mammasantissima i voti. Quindi, in Lombardia è stato anticipato un voto di scambio al contrario: il voto di scambio tradizionale era quello in cui il boss avvicinava il politico per chiedergli: “guarda che se vuoi… ti posso garantire tot voti” … In questo caso, invece, è stato Zambetti a incontrare dei boss della ‘ndrangheta in Lombardia, ha chiesto loro voti e li ha pagati per averli. E la controprova è l’inchiesta Mensa dei poveri, in cui Nino Caianiello [il munifico procacciatore di voti e favori per conto di Forza Italia nel varesotto, ndr] ha dichiarato a Report – lo abbiamo sentito tutti – che “anche questi signori votano”, quindi “quei voti vanno presi”. Questo signore ha sostenuto sindaci, assessori, esponenti della regione Lombardia, che stanno tuttora nella Giunta lombarda, che stanno nei Comuni, che hanno preso i voti della ‘ndrangheta. Anche Danilo Rivolta, ex sindaco di Lonate Pozzolo, dove noi già nel libro del 2010 denunciavamo l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta infiltrata dentro il Comune…»

I Farao-Marincola… «…i cosiddetti cirotani, quelli di Cirò Marina che controllano la zona di Busto, Varese, Lonate Pozzolo. Perché, dove ci sono aeroporti, frontiere, casinò, ci sono loro. Il primo Consiglio comunale sciolto per mafia, non è stato sciolto al Sud, è stato Bardonecchia. Poi abbiamo avuto altri Comuni nel Nord, e da ultimo il Consiglio regionale della Val d’Aosta. Generalmente al Sud controllano i porti: solo l’altro giorno a Gioia Tauro sono stati trovati più 1000 chili di cocaina. Al Nord vogliono curare gli aeroporti (quindi Malpensa, Lonate Pozzolo, etc.) e le frontiere (quindi Bardonecchia e la Val d’Aosta). Perché lavorano. La loro è un’organizzazione scientifica. Allora io vorrei dire una cosa…»

Certo. «Qui il problema è la corruzione. Se non ci fosse la corruzione, e quindi se non intervenisse la politica nel rapporto con l’organizzazione criminale, mafia, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita, mafia nigeriana, mafia dell’est sarebbero puramente dei fenomeni folcloristici, di malavita territoriale. Con la corruzione, e col rapporto incestuoso con l’economia, l’organizzazione criminale è diventata la potenza che è. Oggi, in Italia, i soggetti che hanno i soldi sono tre: la Cassa depositi e prestiti (che siamo noi), stipendi pensioni e salari (che è il risparmio delle famiglie) e le mafie. Sono gli unici tre soggetti che parlano di soldi che hanno. Tutti gli altri, ma anche finanziarie, ministeri etc., parlano di soldi che non sono loro. Quindi l’organizzazione criminale ha un potere determinante nei confronti dell’economia. D’altra parte, come si è avuto modo di vedere e verificare, la presenza dell’organizzazione criminale in questa situazione di pandemia ha portato a elementi di forte corruzione. Camici, appalti sbagliati, o fintamente sbagliati, sanità che invece di essere pubblica è privata… Chi è che sono i privati? I privati sono soggetti che prendono soldi pubblici grazie al fatto che sono accreditati. Questa è la loro modalità di gestire il potere. Fanno soldi a palate sulle nostre spalle.» Come dice il dott. Nicola Gratteri, ormai le mafie non contano i soldi, li pesano, in questo ordine di cose… WORDNEWS


Ndrangheta in Lombardia: una storia tutt’altro che segreta  Sequestrati beni per un milione di euro all’ex trafficante di droga Giuseppe Carvelli: solo l’ultima di una lunga serie di operazioni contro la ‘ndrangheta radicata da decenni nel territorio lombardo. I beni sequestrati consistono in una società immobiliare e un appartamento a Sesto San Giovanni, un altro appartamento a Forno Canavese, tre terreni agricoli a Concorezzo, una Porsche Macan e svariati conti correnti, per un valore di un milione di euro. Una dura stoccata non solo ad un patrimonio accumulato attraverso il compimento di attività illecite, ma ad un pezzo non irrilevante – per quanto a prima vista circoscritto – di economia para-legale. I beni sono soltanto un punto di partenza. Da essi – e dal loro valore – si potranno ripercorrere transazioni, movimenti di conto corrente ed altre forme di pagamenti ‘tracciati’ fino ad arrivare all’altro capo del filo. Magari anche al capo-crimine. È così che si conducono le indagini dai tempi di Giovanni Falcone, che delle informazioni bancarie fece uso per la prima volta – in modo rivoluzionario per l’epoca – nel 1979 per istruire il processo Spatola, affinandolo nel corso degli anni sino alle soglie del maxiprocesso. Un altro dato che non si può fare a meno di osservare è il seguente: quanto la ‘ndrangheta sia sempre più radicata all’interno del tessuto economico, sociale e politico delle regioni del Nord Italia, al punto di vivere sostanzialmente in simbiosi con esso. Di costituirne parte integrante. La cosiddetta “area grigia” di commistione tra la sfera legale e quella illegale, di cui parla la commissione parlamentare Antimafia nella relazione conclusiva del 2018, ne è la riprova. Ciò che diceva Falcone di Cosa Nostra nel 1991, lo si può predicare oggi della ‘ndrangheta in Lombardia. Con l’aggravante che per la seconda non è più così difficile interfacciarsi con un potere politico, imprenditoriale, istituzionale sempre più connivente. Anzi. La forza delle mafie di consiste oggi in “un metodo (mafioso) – si legge nella relazione della Dia sull’attività svolta e sui risultati conseguiti nel secondo semestre 2019 – che si avvale della complicità di figure inserite in ambiti economici ed amministrativi, in una complessa zona d’ombra in cui si configurano nuovi modelli associativi imperniati su una fitta convergenza di interessi”. Vero è che, dove non vi è complicità, la classe politica ha sempre peccato di sottovalutazione. Come quanti, ancora negli anni duemila, negavano recisamente la presenza delle ‘ndrine calabresi sul territorio lombardo. Ignorando che la ‘ndrangheta vi ha messo radici, in realtà, fin dalla metà degli anni ’50. Prima con lo sfruttamento di manodopera a basso costo, poi attraverso una progressiva interazione con il mondo della politica. Milano – scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso nel libro Storia segreta della ‘ndrangheta (Mondadori, 2018) – è già negli anni ’70 e ’80 “una delle capitali europee” del traffico di droga, dell’usura, delle estorsioni. Tra le famiglie più attive sul territorio, vi sono i Papalia, i Sergi, i Morabito, i Flachi, i Paviglianiti, i Trimboli. Ma soprattutto i Di Giovine-Serraino di Reggio Calabria, in grado di far arrivare dal Sudamerica nelle piazze di spaccio del capoluogo lombardo – così come di altre città sparse in tutta Italia – fino a sessanta chili di cocaina al mese, pronta per essere smerciata. Cominciano quindi le infiltrazioni nel mondo della politica, sempre nell’inveterata ottica dello “scambio di favori”. Lo spartiacque è segnato dall’omicidio di Roberto Cutolo, figlio di Raffaele, boss della Nuova Camorra Organizzata, consumato a Tradate nel 1990 ad opera dei Flachi-Trovato “per fare un favore ai Fabbrocino”. Da quel momento la ‘ndrangheta va sempre più consolidando i presupposti della sua egemonia. Acquisisce il controllo “di interi quartieri di periferia, come Ponte Lambro, Stadera, Bruzzano, Comasina, Piazza Prealpi, Quarto Oggiaro”, e “di intere zone dell’hinterland, come Cesano Boscone, Buccinasco, Corsico, Trezzano sul Naviglio”. Sono anni di fermento: dalla diffusione in diversi comuni fra la Brianza e il Lodigiano (Vimercate, Sant’Angelo Lodigiano, Lodi Vecchio, Salerano sul Lambro, Monza) ai “tentativi di infiltrazione – documentano Gratteri e Nicaso – in sezioni di partiti politici da parte di persone sospette di collegamento col mondo della criminalità” nelle amministrazioni locali di Desio e Vimercate. Dal riciclaggio dei fondi dei sequestri di persona in esercizi commerciali aperti in tutta la regione, all’attentato contro l’ufficio del segretario della Dc presso Desio. Ora di veder realizzate operazioni più sofisticate, il passo è breve. “Nel 1997 – proseguono Gratteri e Nicaso – il gruppo Morabito-Palamara-Bruzzaniti di Africo utilizza un commercialista di Milano, Enrico Cilio, cognato di Michele Sindona, per trasferire all’estero il patrimonio rappresentato da 26 societàche gestivano attività quali alberghi, ristoranti, bar e garage nel cuore di Milano, tutte addirittura nel perimetro del tribunale”.

Neanche la provincia di Como rimane esente dal contagio: la notte di San Vito del 1994 vengono sgominati diversi covi della ‘ndrina Mazzaferro.

Verso la fine degli anni ’90, nell’ambito di un’azione repressiva nei confronti dei clan Cosco-Garofalo, si svelano il disegno della ‘ndrangheta di Petilia Policastro di estendere anche nel milanese il controllo sul traffico di stupefacenti. Il che – insieme all’accurata opera di ricostruzione effettuata dagli inquirenti – non sarebbe stato possibile senza la testimonianza di Lea Garofalo, sorella di Floriano Garofalo, ucciso nel giugno 2005 dall’ex compagno Carlo Cosco e dal cognato Giuseppe Cosco. Ammessa nel 2002 allo speciale programma di protezione per i testimoni di giustizia, poco dopo esserne uscita verrà uccisa e brutalizzata dai Cosco per ritorsione nel 2009.  Altre operazioni susseguitesi in Lombardia tra il 2004 e il 2008 portano alla luce le attività estorsive nel Lodigiano, gli omicidi nel Legnanese e altri illeciti connessi al traffico internazionale di droga secondo lo schema triangolare Sudamerica-Africa-Europa. Un giro d’affari che allora faceva capo a Salvatore Morabito, e che a distanza di qualche anno sarebbe stato replicato (senza la tappa in Africa) dal clan Ruga-Metastasio-Loiero di Monasterace. Gli affiliati – come svelato dall’operazione ‘Mar Ionio’ del 2016 – importavano cocaina dal Brasile presso la base operativa di Sesto San Giovanni, dove la droga veniva tagliata per essere poi piazzata sul mercato tedesco e olandese. Il risultato: in entrambi i casi, sequestrati centinaia di chili di cocaina nel milanese, arrestate decine di persone, con il coinvolgimento anche di eminenti personalità del mondo politico, imprenditoriale, professionale. Ma solo grazie alle due operazioni fondamentali ‘Crimine’ e ‘Infinito’, condotte nel 2010 sotto il coordinamento delle Dda di Reggio Calabria e Milano, si è potuto ottenere conferma – in due sentenze passate in giudicato nei relativi processi tra 2014 e 2016 – dell’esistenza in Lombardia di una struttura unitaria della ‘ndrangheta: quella che vede un ‘crimine’ – detto appunto ‘Lombardia’ – articolato in numerose ‘locali’, ciascuna dotata di almeno 49 membri fra cui viene scelto ogni anno un ‘capo-crimine’, che è “il garante delle regole”, oltre che principale organizzatore delle attività criminose. 30 in totale risultano – stando alla relazione della Dia relativa al secondo semestre del 2018 – le ‘locali’ sparse in tutta la Lombardia. Ciò che le differenzia dalle ‘province’ di Cosa Nostra – spiegano Gratteri e Nicaso – è una “maggiore autonomia” rispetto al centro decisionale, che consente loro di adattare la propria struttura alla realtà che si trovano a fronteggiare.  “Le locali – scrivono Gratteri e Nicaso – sono perfettamente “in grado di infiltrarsi nelle Asl, di acquistare farmacie, di investire nel lucroso traffico di droga, di controllare le discariche abusive e di gestire videopoker e slot-machine”. Non è un caso che, per i fatti dell’Asl di Pavia, l’ex direttore sanitario Carlo Chiriaco abbia riportato nel 2016 alla condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, per il metodo ‘clientelare’ nel gestire i bisogni di amici e loro familiari, e fungere – si legge nella relazione della Dna del 2016 – “da ‘cerniera’ tra gli esponenti della ‘ndrangheta [soprattutto, nel pavese, i Mazzaferro e i Chindamo, nda] e il mondo politico”.

Se il processo ‘Infinito’ prosegue grazie al contributo delle deposizioni del pentito Antonino Belnome. Grazie a questi si è potuto ricondurre l’omicidio di Rocco Cristello, boss della locale di Seregno, avvenuto nel 2008 a Verano Brianza alla ‘ndrina Gallace-Novella. Un altro Rocco Cristello (cugino omonimo di quello ucciso), diventato capo della locale di Giussano, verrà arrestato nel 2012, insieme al capo-società Claudio Formica, Salvatore Corigliano, Michele Silvano Mazzeo, Antonio Staropoli, Fortunato Galati (tutti originari di Mileto), nell’ambito dell’operazione ‘Ulisse’. Diverse le condanne definitive scaturite dal processo nel 2017 davanti alla II sezione della Cassazione, presieduta da Piercamillo Davigo. Il reato: estorsione aggravata dal metodo mafioso a danno dei titolari di un concessionario auto a Giussano, ma originari di Francica, in provincia di Vibo Valentia. La ‘ndrangheta del vibonese è ormai penetrata con le sue locali anche in Brianza. Ad affermarlo è una sentenza definitiva della Cassazione.  In provincia di Lecco, intanto, l’operazione (e poi processo) ‘Insubria’ del novembre 2014 porta all’arresto di 40 persone ritenute vicine alle locali di Fino Mornasco, Cermenate, Calolziocorte, molte delle quali condannate in appello. In parallelo, scattano altre operazioni di contrasto al traffico illecito di rifiuti nel Bergamasco e nel Bresciano (zone soprannominate “la terra dei fuochi del Nord”). E ancora: traffico di stupefacenti e riciclaggio a Brescia tra le locali di Lumezzane e Oppido Mamertina (operazione e processo ‘Mamerte’2014); spaccio di droga in provincia di Lodi con le ‘ndrine Pesce e Bellocco; riciclaggio, estorsione e associazione mafiosa a Bergamo, con decine di arresti di persone vicine al clan De Stefano; ricettazione, riciclaggio e associazione a Milano nel settore edile, alimentare, tessile e turistico (operazioni ‘Provvidenza’ e ‘Provvidenza-bis’ contro il clan Piromalli di Gioia Tauro, tra 2017 e 2020); traffico internazionale di droga tra Colombia i Italia, precisamente nelle ‘raffinerie’ di Arluno, vicino a  Milano, ad opera di esponenti della cosca Gallace di Guardavalle (operazione ‘Area 51’2017). Le locali – scrivono ancora Gratteri e Nicaso – sono perfettamente “in grado di infiltrarsi nelle Asl, di acquistare farmacie, di investire nel lucroso traffico di droga, di controllare le discariche abusive e di gestire videopoker e slot-machine”. Non è un caso che, per i fatti dell’Asl di Pavia, l’ex direttore sanitario Carlo Chiriaco abbia riportato nel 2016 alla condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, per il metodo ‘clientelare’ nel gestire i bisogni di amici e loro familiari, e fungere – si legge nella relazione della Dna del 2016 – “da ‘cerniera’ tra gli esponenti della ‘ndrangheta [soprattutto, nel pavese, i Mazzaferro e i Chindamo, nda] e il mondo politico”. In particolare, mediante il controllo di un “pacchetto di voti calabrese”, che egli sapeva come e dove indirizzare per assicurare all’organizzazione mafiosa “l’ottenimento di commesse e appalti ma anche posti di lavoro per ‘amici’ e parenti”. L’orizzonte della lotta alla ‘ndrangheta in Lombardia (e nelle regioni del Nord) si esaurisce certo qui. Nel 2017 la Dia di Padova ha eseguito tre ordinanze di custodia cautelare emesse dal Gip di Venezia nei confronti di persone indagate per reati di emissione di false fatture con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa.  L’operazione, denominata ‘Valpolicella’, ha visto coinvolte le forze di Polizia di Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia in un’indagine condotta su 36 persone. Si sono ipotizzati reati di associazione di stampo mafioso, estorsione, rapina, usura e frode fiscale aggravata dall’aver favorito la mafia. Alcuni dei soggetti coinvolti sono risultati collegati alle famiglie Grande Aracri e Dragone di Cutro, radicate in soprattutto a Reggio Emilia, Piacenza, Brescello (comune sciolto per mafia nel 2016 in seguito all’operazione e al processo ‘Edilpiovra’), Salsomaggiore, Verona, ma anche Mantova e Cremona. In queste ultime, è nel processo Pesce che si è riconosciuta la presenza della ‘ndrina di Nicolino Grande Aracri, condannato in secondo grado a 20 anni nel marzo 2019. Il processo è nato da un filone a parte dell’operazione (e poi processo) ‘Aemilia’, nel quale Nicolino ‘Mano di gomma’ è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giuseppe Ruggiero nel 1992. È il secondo ergastolo per il boss di Cutro, dopo quello per l’omicidio del rivale Antonio Dragone inflittogli dalla Cassazione nel giugno 2019 nell’ambito del processo Kyterion. La storia è proseguita con altre operazioni e arresti contro esponenti o presunti tali delle locali della ‘Lombardia’: in relazione, ad esempio, al traffico e detenzione di sostanze stupefacenti gestito da Edoardo Novella – figlio di Carmelo, ucciso in un agguato da parte di esponenti della ‘ndrangheta più conservatrice nel luglio 2008, come chiarito nel processo ‘Infinito’ – in rapporto con altri 13 presunti affiliati (operazioni ‘Linfa’ e ‘Kerina 2’, 2018); o alla detenzione di armi e al traffico internazionale di droga tra esponenti della criminalità organizzata di Venezuela e Repubblica Dominicana (cocaina) ma anche di Marocco e Albania (hashish), ed esponenti del clan Mancuso e Mazzaferro (operazione ‘Ossessione’, 2019), con l’arresto di 25 persone. Per poi arrivare al dicembre 2019, e alla cosiddetta operazione ‘Rinascita-Scott’ che ha portato al maxi-arresto di 334 persone gravitanti attorno alla famiglia Mancuso. Un’inchiesta che ha avuto un notevolissimo impatto su tutte le frange dell’opinione pubblica (cui va a sommarsi l’effetto deterrente che, indubbiamente, ne sarà sortito nei confronti delle organizzazioni criminali), grazie soprattutto alla sua sponsorizzazione mediatica a livello nazionale. Ma che – non bisogna dimenticare – rappresenta solo l’ultimo pezzo di un puzzle composto in molti anni dalle tante operazioni di contrasto al fenomeno criminale della ‘ndrangheta. Anche e soprattutto in Lombardia, ad oggi quarta regione in Italia per numero di aziende e beni sequestrati alle mafie (subito dopo, nell’ordine, Sicilia, Campania e Calabria). Indice di una presenza particolarmente attiva delle mafie sul territorio, ma in certa misura anche di una repressione poliziesca e giudiziaria efficace (per quanto sempre implementabile). La prima battaglia, del resto, si combatte ancora una volta nei distretti. Numerose le operazioni condotte contro le locali dei Cristello-Stagno-Mazzaferro a Seregno e quelle degli Arena-Iamonte-Moscato a Monza e Desio. Colpite anche la locale di Limbiate con l’arresto di 24 persone presunte affiliate nel 2017, la locale di Giussano con il sequestro di immobili appartenenti a Orlando De Masi per un valore complessivo di 2 milioni di euro nel 2018 e la locale di Legnano-Lonate Pozzolo (operazione ‘Krimisa’, 2019) con 34 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di persone (tra cui anche politici) accusate a vario titolo di associazione di stampo mafioso, estorsione, porto abusivo d’armi, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Vero, in molti casi si è solo all’inizio, molte accuse non si sono ancora tradotte in una sentenza di condanna, e talvolta nemmeno in una richiesta di rinvio a giudizio. In compenso però sarà più improbabile, alla luce di tutto ciò, che qualcuno possa ancora mettere in dubbio o sottovalutare la forza e la pervasività della ‘ndrangheta in Lombardia.  WORDNEWS ottobre 2020


Corsico-Buccinasco, operazioni anti-‘ndrangheta contro i narcos che si rigenerano. Atteso il processo ‘Quadrato 2’, dopo le condanne per droga riportate l’anno scorso dai fratelli Barbaro: chiaro il nesso associativo tra gli esponenti arrestati lo scorso luglio. Ma ci sono anche gli elementi per riconoscere l’aggravante mafiosa. Si chiama ‘ndrangheta, ma più che un’organizzazione è un metodo. Una modalità di gestione capillare di reti di relazioni che, forte di un atavico imprinting familiare, viene applicata sistematicamente da chi ne è membro a porzioni rilevantissime di mercato illegale: in primis al traffico di stupefacenti. L’organizzazione smantellata lo scorso 6 luglio dai carabinieri della Compagnia di Corsico ne è l’esempio più eclatante: 17 ordinanze esecutive di misure cautelari emesse nei confronti di soggetti coinvolti in episodi di spaccio di droga fra i territori di Corsico (quartiere Lavagna), Buccinasco e Cesano Boscone (quartiere Tessera), a sud-ovest di Milano. Tra gli arrestati vi sono Saverio Barbaro (30 anni), originario della Locride, noto anche come ‘ngioiaMassimo Delmiglio (34 anni) di Sesto San GiovanniAngelo L’Arocca (37 anni) di MonzaFabio Di Fatta (44 anni) di Palermo e Luigi Virgara (45 anni) di Platì, quest’ultimo cugino di Domenico Agresta (32 anni), detto Micu Mcdonald, padrino dissociatosi dalla cosca di ‘ndrangheta di Volpiano dopo la condanna all’ergastolo riportata nel processo ‘Minotauro’ per un omicidio commesso a Borgiallo nel 2008, le cui fondamentali dichiarazioni hanno fornito agli inquirenti le basi per l’operazione ‘Cerbero’ del novembre 2019. Per gli uomini del clan Virgara era “l’uomo da giù”, cioè dall’Aspromonte. Si sarebbe trasferito a Milano per prendere in mano le redini dell’attività di spaccio, rimasta scoperta dopo l’arresto (insieme ad altri 11 soggetti) dei fratelli FrancescoAntonio e Salvatore Barbaro, tutti e tre di Locri, nell’ambito di un’inchiesta che il 23 ottobre 2018 aveva portato all’arresto dei principali narcotrafficanti imparentati da parte di madre e di nonna con la ‘ndrina Papalia, radicata a Buccinasco. ‘Quadrato’ il nome dell’operazione, come quello della vasca di cemento al Villaggio Giardino dove sono soliti giocare i bambini, resa fatalmente teatro di scambi di bustine e valigie anche alla luce del sole, ed anche a minorenni. I Barbaro vengono condannati con rito abbreviato il 7 giugno 2019 per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti: Francesco a 12 anni e 8 mesi, Antonio a otto anni (entrambi con l’aggravante del metodo mafioso), Salvatore a sei anni e 8 mesi. Nella loro attività si sarebbero serviti di un gruppo di spacciatori maghrebini a loro completa disposizione, mentre il ‘corriere’ Federico Pellegrini (condannato a 9 anni con rito abbreviato) avrebbe rifornito di cocaina i pusher delle principali piazze di spaccio controllate dalla cosca. Base operativa per lo stoccaggio era l’appartamento in zona Navigli di Francesco Truglia (condannato a 7 anni e 6 mesi di reclusione), per lo smercio il bar Night and Day di Corsico, di proprietà dei Trimboli. Come Natale Trimboli (condannato a 3 anni di reclusione e 14mila euro di multa), fratello del titolare di un bar prima appartenuto ai Papalia. D’altra parte, e per motivi diversi, anche nel ramo di questi ultimi si vantano cospicue condanne (con tanto di 41-bis): due all’ergastolo, nei confronti di Antonio e Domenico Papalia, rispettivamente capo-bastone della ‘ndrina di Platì e boss di spicco legato al clan De Stefano, e una durata 25 anni (fino all’ammissione a una casa lavoro e alla successiva revoca della sorveglianza speciale) a carico di Rocco Papalia, per il suo coinvolgimento – al pari di Antonio – nell’inchiesta ‘Duomo Connection’ di fine anni ’80 sui boss siciliani e  gli amministratori milanesi coinvolti in un fitto giro di droga, mazzette e concessioni edilizie. Altro importante legame quello fra la moglie di Francesco Papalia – ossia la nonna dei fratelli Barbaro – e il cognato Francesco Barbaro, detto Ciccio u castanu, padre di Rocco Barbaro, detto U sparitu, che – stando alle intercettazioni alla base dell’operazione ‘Platino’ – avrebbe svolto il ruolo di capo dei capi del crimine ‘Lombardia’ (dapprima ricoperto da Pasquale Zappia) nel periodo di reggenza e fino al suo arresto avvenuto nel maggio 2017. Nonostante la tabula rasa fatta dai militari di Corsico sotto la guida del capitano Pasquale Puca e del tenente Armando Laviola, i narcos del Villaggio Giardino si sono riorganizzati. Il metodo non è cambiato: utilizzo di nomi in codice e linguaggio cifrato, identificazione in base alla targa delle auto civili della polizia, ricorso a basi logistiche per lo stoccaggio e la vendita al dettaglio della droga. Questa volta, però, gli elementi di prova delle indagini sorte da una partita di 1,25 chili droga e sfociate nell’operazione ‘Quadrato 2’ sembrano suggerire ancora più risolutamente la pista dell’associazione mafiosa. A parlare in questo senso, le numerose intercettazioni, riprese, localizzazioni satellitari degli indagati. Come nel caso delle violenze che Saverio Barbaro minaccia di fare a chi non paga (“Lo scanno vivo”, “…con le ossa rotte te ne vai”, “Te lo dico una volta, due volte, tre, non te lo voglio più dire”), del modo con cui si rivolge a Francesco Marzano descrivendo i suoi affari come un “lavoro”, o della densità dei contatti che gli affiliati regolarmente intrattengono fra loro per decidere prezzo e quantità (e conseguente ripartizione degli utili) della vendita di cocaina. Ma il grado di pericolosità dell’associazione si coglie ancora meglio nell’insidiosa modalità di infiltrazione del platiota Luigi Virgara, il vero artefice della rigenerazione del clan, inizialmente come bidello supplente nel liceo Vico di Corsico, quindi (nel 2018) al primo posto nella graduatoria del personale ATA all’interno dell’Istituto omnicomprensivo di Corsico, per poi approdare al Don Pino Puglisi di Buccinasco. Gli stessi luoghi dove i narcos si ritrovano a discutere e a scambiarsi informazioni su come organizzare lo spaccio. Proprio Virgara, secondo quanto riferito agli inquirenti dal pentito Domenico Agresta (che di Virgara è il cugino), sarebbe stato un punto di riferimento nelle importazioni di quintali di cocaina dalla Colombia verso le piazze di spaccio di Milano e Volpiano. Di questi carichi, una parte poteva essere trattenuta a Platì “per tagliarla e rivenderla nei momenti difficili”. La cittadina della Locride con poco meno di 4mila anime rimane un punto nevralgico da cui passa tutto il commercio di cocaina destinato all’hinterland milanese. A gestirlo, sempre secondo il collaboratore Agresta, sarebbe stato il fratello di Virgara Michele Sergi, affiliato all’omonima ‘ndrina con la dote di vangelo. Questi “si occupava degli investimenti per l’acquisto di cocaina, poi le mandava al nord”, dove gli affari diventavano di competenza del fratello Luigi. A finire in carcere nell’ambito della stessa inchiesta “Quadrato 2” sono anche i gemelli milanesi Marcello e Roberto Perrone (34 anni), insieme ad altri cinque agli arresti domiciliari e altri due con obbligo di firma. Di Milano sono anche Giuseppe D’Amato (38 anni), cliente al servizio dei narcos del quale Barbaro si sarebbe lamentato alludendo alla scarsa qualità della sua ‘merce’ (“La ragazza è bella ma non balla, la macchina è esteticamente bella, ma le prestazioni sono scadenti”) e Francesco Marzano (34 anni), il cui appartamento in via Vespucci 23 sarebbe stato uno dei principali luoghi di incontro e di scambio. Tra questi anche la trattoria Da Franco di Rozzano, i parcheggi del Campo Comunale Cereda e il parco Pertini di Cesano. Barbaro, Marzano, Perrone: erano questi, insomma, i nomi che giravano negli ambienti della droga, che loro erano in grado di acquistare e rivendere agli spacciatori di Corsico. Da più parti non si è esitato a definire la zona tra i territori più difficili dove operare per far fronte alla malavita organizzata. Il vero campo di battaglia resta però il processo. È qui che potranno essere fatti valere elementi decisivi, non solo parentele pesanti, per consentire ai giudici di certificare la sussistenza dell’aggravante mafiosa. I presupposti, dal metodo dell’intimidazione al controllo del territorio, anche stavolta ci sono tutti Alessandro Girardin. Nov 4, 2020 WordNews 



‘Ndrangheta, il genero del boss Rocco Papalia e quei soldi del clan investiti nei locali  
Le inchieste descrivono il 40enne Giuseppe Pangallo come l’elemento più importante per gli investimenti economici della cosca Barbaro-Papalia. L’ultima indagine che lo ha lambito (non risulta indagato) arriva da Brescia: 21 gli arresti   Su di lui girano voci non proprio lusinghiere. E certamente non veritiere, perché l’immagine di Peppone Pangallo ricavata dai pettegolezzi è molto distante da quella che da anni emerge dalle carte giudiziarie seppure le indagini più importanti sulla ‘ndrangheta in Lombardia lo abbiano solo sfiorato. Più che un «perdigiorno», interessato più agli affari propri che a quelli «di famiglia», le inchieste descrivono il 40enne Giuseppe Pangallo come l’elemento più importante per gli investimenti economici della cosca Barbaro-Papalia. L’ultima indagine che lo ha lambito (Pangallo non risulta indagato) arriva da Brescia dove i carabinieri hanno arrestato 21 persone per mafia e riciclaggio. Al centro due figure: quella dell’imprenditore del mondo delle tv locali Francesco Mura, 41 anni, e appunto, il calabrese originario di Platì (Reggio Calabria) Giuseppe Pangallo. Secondo le accuse Mura avrebbe investito i soldi forniti da Peppone, oltre 300 mila euro, per acquistare bar nel centro commerciale «Cigno nero» di Rovato (Brescia) ma anche per impossessarsi del Flamingo di piazza XXV Aprile a Milano, locale poi chiuso dalla Prefettura con interdittiva antimafia nell’aprile 2019. Secondo gli investigatori i soldi messi a disposizione sarebbero in realtà i capitali della cosca mafiosa Barbaro (e Papalia) alla quale, secondo il gip Alessandra Sabatucci, «anche lui appartiene». L’arrestato Mura, intercettato, la definisce «la più grossa famiglia di ‘ndranghetisti che ci sia storicamente in Lombardia». E non esagera. Perché Pangallo (che non è indagato) è il marito di Rosanna Papalia, la figlia del boss di Buccinasco Rocco, scarcerato nel 2017 dopo 26 anni di carcere, e fratello dei capocosca Antonio e Domenico. Parlando della moglie Rosanna, a proposito di Rocco Papalia, Mura racconta: «Non è solo che ha ucciso uno, suo papà è pesante! Ai tempi faceva di tutto sequestri, racket, droga». Le parole di Mura possono derivare dalla lettura di decine di libri sulla ‘ndrangheta in Lombardia, ma per gli inquirenti la fonte è decisamente più diretta. Perché lui e Pangallo erano stati coinvolti in una precedente indagine per droga. Inchiesta nella quale le accuse erano poi finite annacquate durante i processi anche «per merito» del silenzio degli indagati e di Mura in particolare. Motivo per il quale i rapporti tra i due si sarebbero saldati moltissimo. Per gli investigatori il ruolo di Pangallo è quello di «infiltrare la cosca nel tessuto economico di plurime attività imprenditoriali radicate nel nord Italia, senza tuttavia figurare formalmente in alcuna compagine sociale». Nelle indagini di Brescia emerge come si sia trasferito in Francia, a Mentone. Qui chiede informazioni per iscrivere i figli all’International School of Monaco: una retta da «24 mila euro annui», cifra che per gli investigatori «all’evidenza inconciliabile con il reddito dichiarato». Nel 2017 Peppone viveva tra Menaggio (Como) e la Svizzera (dove la moglie aveva una gelateria) ma era stato dichiarato «sgradito» dalle autorità elvetiche. Negli ultimi mesi è stato arrestato per un cumulo pene ma più che in affari di sangue in passato era sempre stato coinvolto in indagini sui soldi. Non a caso nell’ambiente mafioso è conosciuto per le sue grandi entrature e amicizie nel mondo della vita notturna e dei locali. Motivo per il quale sarebbe sempre stato molto apprezzato dalla famiglia Papalia, nonostante le sue «esuberanze». Ormai celebre l’intercettazione del 2002 di un litigio tra lui e la moglie Rosanna che sbotta: «Stavo tanto bene con l’altro e mi hanno fatto sposare te». Per gli investigatori è la prova di un matrimonio combinato, per la famiglia la semplice sfuriata tra marito e moglie. Nell’inchiesta di Brescia i sodali dell’imprenditore Mura ospitano Pangallo allo Juventus Stadium in occasione di Juve-Roma del 22 dicembre 2018 e gli fanno trovare una bottiglia di champagne: «Ma che Laurent Perrier, porterò il Don Perignon, gliel’ho dato l’altra volta … ». Il Corriere della Sera, 3 Novembre 2020 di Cesare Giuzzi


NDRANGHETA IN LOMBARDIA, LA PROCURATRICE DELLA DDA: “INDAGINI E ARRESTI, MA È TUTTO COME 10 ANNI FA. PADRONI DEL TERRITORIO”  La numero uno della Dda milanese Alessandra Dolci dopo i 34 arresti tra le province di Milano e Varese: “Quadro sconfortante. Ci sono due note positive: anche noi non ci siamo mossi da qui e continuiamo a lavorare. Ma soprattutto la presenza di un imprenditore che ha deciso di non sottostare alle minacce degli ‘ndranghetisti che gli impedivano di investire nei parcheggi dell’area dell’aeroporto di Malpensa”. La nota negativa: “Negli ultimi dieci anni, nonostante le indagini e gli arresti, non è cambiato nulla. Le cosche sono ancora padrone del territorio”. E una “nota di speranza”, come la chiama il procuratore aggiunto della procura di Milano, Alessandra Dolci, numero uno della Dda: “Un imprenditore incredibilmente ha denunciato di essere stato vittima di pressione. A mia memoria è la prima volta”Di fronte alla ricostituzione della locale di ‘ndrangheta di Legnano-Lonate Pozzolo, tra le province di Milano e Varese, il magistrato a capo della Direzione distrettuale antimafia, lo dice senza giri di parole. Perché a dieci anni esatti dall’indagine Bad Boys e a nove dalla maxi-operazione Infinito, l’inchiesta dei carabinieri, coordinata dalla procura milanese, ha bloccato di nuovo grazie a 34 arresti il ‘solito’ schema delle ‘ndrine calabresi trapiantate in Lombardia. “Non è cambiato assolutamente niente: ci sono state scarcerazioni, hanno ripreso il controllo del territorio che non è mai sfuggito di fatto dalle mani della ‘ndrangheta” che esercita “la giurisdizione dell’antistato”, ha aggiunto Dolci. “Emerge un quadro sconfortante” e, nonostante gli arresti che ci sono stati negli anni scorsi, l’intervento “non si è mostrato efficace”. Ecco quindi di nuovo gli affari da una parte, le infiltrazioni nella politica dall’altra e il metodo mafioso come collante per influenzare investimenti privati e decisioni delle amministrazioni comunali: le ombre sull’elezione dell’ex sindaco azzurro di Lonate Pozzolo, Danilo Rivolta, il ‘pacchetto’ di 300 voti proposto di tornata elettorale in tornata elettorale, il coinvolgimento di un consigliere di maggioranza del comune di Freno, Enzo Misiani, coordinatore locale di Fratelli d’Italia, e la perquisizione al coordinatore regionale dei Cristiani Popolari, Peppino Favo.

Le intercettazioni: “Emanuele comanda Lonate e Cidonio comanda Ferno. I voti dei calabresi ce li hanno loro”

“Il 23 aprile 2009 c’è stata l’indagine ‘Bad Boys’, il 18 agosto 2010 è arrivata ‘Infinito’ e oggi siamo qui con ‘Krimisa’. Sono passati gli anni ma le cose sono rimaste identiche, abbiamo trovato anche gli stessi personaggi”, ha ricordato Dolci ricordando gli arresti di diverse persone condannate nei processi legati alle prime due operazioni che scoprirono le radici messe in Lombardia dalla ‘ndrangheta. “Ci sono due note positive: anche noi non ci siamo mossi da qui e continuiamo a lavorare – ha aggiunto Dolci – Ma soprattutto la presenza di un imprenditore che ha deciso di non sottostare alle minacce degli ‘ndranghetisti che gli impedivano di investire nei parcheggi dell’area dell’aeroporto di Malpensa”. Il riferimento è all’uomo che – dopo aver ricevuto chiamate e pressioni da un “consulente” al soldo dei presunti affiliati affinché rinunciasse alla costruzione di un nuovo parcheggio o decidesse di mettersi in società con loro – ha iniziato a registrare i colloqui con un’app installata sul suo smartphone e ha consegnato tutto ai carabinieri. Un inedito, come conferma il procuratore aggiunto di Milano, che definisce una “nota di speranza” il gesto coraggioso come: “A memoria mia è la prima volta”, ha sottolineato Dolci, che lo scorso febbraio a Cantù aveva criticato l’atteggiamento delle istituzioni locali di fronte al processo ai “rampolli di ‘ndrangheta”conclusosi poi ad aprile con condanne superiori ai cento anni. di F. Q. | 4 LUGLIO 2019


 


 

Ndrangheta, il genero del boss Rocco Papalia e quei soldi del clan investiti nei locali. Le inchieste descrivono il 40enne Giuseppe Pangallo come l’elemento più importante per gli investimenti economici della cosca Barbaro-Papalia. L’ultima indagine che lo ha lambito (non risulta indagato) arriva da Brescia: 21 gli arresti. di Cesare Giuzzi. Su di lui girano voci non proprio lusinghiere. E certamente non veritiere, perché l’immagine di Peppone Pangallo ricavata dai pettegolezzi è molto distante da quella che da anni emerge dalle carte giudiziarie seppure le indagini più importanti sulla ‘ndrangheta in Lombardia lo abbiano solo sfiorato. Più che un «perdigiorno», interessato più agli affari propri che a quelli «di famiglia», le inchieste descrivono il 40enne Giuseppe Pangallo come l’elemento più importante per gli investimenti economici della cosca Barbaro-Papalia. L’ultima indagine che lo ha lambito (Pangallo non risulta indagato) arriva da Brescia dove i carabinieri hanno arrestato 21 persone per mafia e riciclaggio. Al centro due figure: quella dell’imprenditore del mondo delle tv locali Francesco Mura, 41 anni, e appunto, il calabrese originario di Platì (Reggio Calabria) Giuseppe Pangallo. Secondo le accuse Mura avrebbe investito i soldi forniti da Peppone, oltre 300 mila euro, per acquistare bar nel centro commerciale «Cigno nero» di Rovato (Brescia) ma anche per impossessarsi del Flamingo di piazza XXV Aprile a Milano, locale poi chiuso dalla Prefettura con interdittiva antimafia nell’aprile 2019. Secondo gli investigatori i soldi messi a disposizione sarebbero in realtà i capitali della cosca mafiosa Barbaro (e Papalia) alla quale, secondo il gip Alessandra Sabatucci, «anche lui appartiene». L’arrestato Mura, intercettato, la definisce «la più grossa famiglia di ‘ndranghetisti che ci sia storicamente in Lombardia». E non esagera. Perché Pangallo (che non è indagato) è il marito di Rosanna Papalia, la figlia del boss di Buccinasco Rocco, scarcerato nel 2017 dopo 26 anni di carcere, e fratello dei capocosca Antonio e Domenico. Parlando della moglie Rosanna, a proposito di Rocco Papalia, Mura racconta: «Non è solo che ha ucciso uno, suo papà è pesante! Ai tempi faceva di tutto sequestri, racket, droga». Le parole di Mura possono derivare dalla lettura di decine di libri sulla ‘ndrangheta in Lombardia, ma per gli inquirenti la fonte è decisamente più diretta. Perché lui e Pangallo erano stati coinvolti in una precedente indagine per droga. Inchiesta nella quale le accuse erano poi finite annacquate durante i processi anche «per merito» del silenzio degli indagati e di Mura in particolare. Motivo per il quale i rapporti tra i due si sarebbero saldati moltissimo. Per gli investigatori il ruolo di Pangallo è quello di «infiltrare la cosca nel tessuto economico di plurime attività imprenditoriali radicate nel nord Italia, senza tuttavia figurare formalmente in alcuna compagine sociale». Nelle indagini di Brescia emerge come si sia trasferito in Francia, a Mentone. Qui chiede informazioni per iscrivere i figli all’International School of Monaco: una retta da «24 mila euro annui», cifra che per gli investigatori «all’evidenza inconciliabile con il reddito dichiarato». Nel 2017 Peppone viveva tra Menaggio (Como) e la Svizzera (dove la moglie aveva una gelateria) ma era stato dichiarato «sgradito» dalle autorità elvetiche. Negli ultimi mesi è stato arrestato per un cumulo pene ma più che in affari di sangue in passato era sempre stato coinvolto in indagini sui soldi. Non a caso nell’ambiente mafioso è conosciuto per le sue grandi entrature e amicizie nel mondo della vita notturna e dei locali. Motivo per il quale sarebbe sempre stato molto apprezzato dalla famiglia Papalia, nonostante le sue «esuberanze». Ormai celebre l’intercettazione del 2002 di un litigio tra lui e la moglie Rosanna che sbotta: «Stavo tanto bene con l’altro e mi hanno fatto sposare te». Per gli investigatori è la prova di un matrimonio combinato, per la famiglia la semplice sfuriata tra marito e moglie. Nell’inchiesta di Brescia i sodali dell’imprenditore Mura ospitano Pangallo allo Juventus Stadium in occasione di Juve-Roma del 22 dicembre 2018 e gli fanno trovare una bottiglia di champagne: «Ma che Laurent Perrier, porterò il Don Perignon, gliel’ho dato l’altra volta … ». Il Corriere della Sera, 3 Novembre 2020


 IN LOMBARDIA LA ’NDRANGHETA FA AFFARI ANCHE DAL CARCERE  Ieri, 27 ottobre, nelle province di Milano, Como, Monza–Brianza, Vibo Valentia e Reggio Calabria, su disposizione della Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, i carabinieri hanno eseguito, nei confronti di 13 persone sottoposte ad indagine, un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal giudice per le indagini preliminari Alfonsa Maria Ferraro. Gli arresti scaturiscono da un’indagine diretta da Ilda Boccassini e dai Sostituti Procuratori della Repubblica Francesca Celle e Paolo Storari. L’indagine “Quadrifoglio”, avviata nel 2012 e condotta dal Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri (R.O.S.), ha riguardato due articolazioni della ‘ndrangheta radicate in Lombardia, prevalentemente nella provincia di Como. I 13 arrestati sono accusati di associazione di tipo mafioso, detenzione e porto abusivo di armi, intestazione fittizia di beni, reimpiego di denaro di provenienza illecita, abuso d’ufficio, favoreggiamento, minacce e danneggiamento mediante incendio. Al centro delle indagini del Ros dei carabinieri due gruppi della ’ndrangheta radicati nel Comasco, con infiltrazioni nel tessuto economico lombardo. Accertati, secondo le indagini, gli interessi delle cosche in speculazioni immobiliari e in un subappalto per la Tangenziale Est di Milano.

Accertati, secondo le indagini, gli interessi delle cosche in speculazioni immobiliari e in un subappalto per la Tangenziale Est di Milano  L’ennesima storia di ’ndrangheta, politica e imprenditoria in Lombardia. «Nulla è cambiato in questi anni» ha dichiarato Ilda Boccassini nella conferenza stampa che si è tenuta in procura «basti pensare che uno degli arrestati in questa operazione è Salvatore Muscatello – anziano boss già arrestato negli anni ’90 nell’operazione “La notte dei Fiori di San Vito” e “Infinito” nel 2010 – considerato referente della ‘ndrangheta a Mariano Comense, dagli arresti domiciliari coordinava ancora le attività della cosca».

Tutti a casa Muscatello, l’anziano boss ai domiciliari  Lo stesso Muscatello a casa propria è sempre ben disposto verso chi va a chiedere “aiuto”. È il caso per esempio di Nadia Scognamiglio (non indagata in questo procedimento), compagna di Fortunato Valle, condannato a 24 anni e organico della stessa famiglia, attiva nello scenario criminale della ‘ndrangheta lombarda  dagli anni ’80. Scognamiglio si reca da Muscatello in cerca di aiuti economici data la detenzione del compagno e lo stesso anziano boss non si tira indietro, spiegando poi al nipote che «è una persona che se la chiamo viene subito, ed io la ringrazio! Oh, il marito mi lavava pure i piedi».

Boccassini; «Nulla è cambiato in questi anni per la ‘ndrangheta in Lombardia»  Scognamiglio non è l’unica a recarsi da Muscatello, ma in poco meno di un anno di osservazioni da parte del Ros dei Carabinieri dalla casa dell’anziano boss passano parenti di altri affiliati alla ‘ndrangheta, persone che devono regolare prestiti usurai ed estorsioni, ma anche pregiudicati e politici, come nel caso di Emilio Pizzinga, consigliere comunale di Mariano Comense  dal 2004 con Forza Italia prima e col Pdl poi che in seguito al commissariamento del comune va a caccia di voti. Tra le visite a casa Muscatello anche quelle di Alberto Pititto, commerciante d’autore ad uso abitativo. Gli approfondimentiti predisposti dalla procura ed eseguiti dal Ros dei Carabinieri hanno appurato come Galati e i due imprenditori fossero stati mediati da un altro degli indagati: Luigi Calogero Addisi, già consigliere comunale di Rho (Mi), anch’egli originario del vibonese e coniugato con una delle figlie della sorella dello storico boss Pantalone Mancuso. Nell’aprile 2014 Addisi, con un passato di politico locale che ha attraversato tutto l’arco da destra a sinistra, allora in quota Pd, deve dimettersi perché il suo nome figura tra le carte dell’indagine “Metastasi” sulla cosca dei Coco Trovato operante nella zona di Lecco, e pure nell’inchiesta Grillo Parlante che porterà all’arresto dell’ex assessore alla Casa di Regione Lombardia, Domenico Zambetti.

Il nome di Addisi compariva già nelle indagini “Metastasi” e “Grillo Parlante”, che portò all’arresto dell’ex assessore alla Casa di Regione Lombardia, Domenico Zambetti L’ex amministratore, direttamente interessato all’esito della speculazione da 300mila euro, per avervi investito un’ingente somma di denaro – fanno sapere gli investigatori – aveva peraltro favorito l’approvazione di una variazione di destinazione d’uso del terreno, superando i preesistenti vincoli di edificabilità. C’è il voto in consiglio comunale per il Pgt (Piano di Generale del Territorio) di Rho, e Addisi prima del voto dichiara: «Con questo Pgt abbiamo cercato di ridisegnare la città, preservandola dalle brutture, dagli scempi maligni e dal consumo dissennato del territorio. Un risultato storico. Una medaglia per tutta l’amministrazione. Una nuova rivoluzione culturale insomma». Poi arriva l’inchiesta e il gip Alfonsa Maria Ferraro che scrive «Addisi mente in quanto è ben consapevole non solo di avere interesse nel Pgt, ma anche del fatto che un’area, interessata dal Pgt, è stata acquistata con il denaro della ‘ndrangheta».

Galati: come dal carcere si entra negli appalti (con tanto di certificazione antimafia)  Giuseppe Galati, classe 1971 è stato condannato a dieci anni per traffico di stupefacenti. Dal carcere riesce a gestire una società tramite il cognato, cui intesta le sue quote. Il passaggio delle quote sarà sufficiente per far ottenere il certificato antimafia alla sua Skavedil ed entrare in un appalto da 450mila euro per la Tangenziale Est di Milano, grande opera connessa a Expo 2015.

L’impresa di Galati è entrata in un appalto da 450mila euro per la Tangenziale Est di Milano  Il capo della direzione distrettuale antimafia di Milano Ilda Boccassini ha spiegato come una volta ottenuto il certificato antimafia l’impresa ha ottenuto da una azienda di Modena, su cui si stanno svolgendo ulteriori approfondimenti investigativi, due subappalti.  Da Boccassini poi è arrivata tra le righe anche una stoccata alla macchina dei controlli per il “semaforo verde” delle certificazioni antimafia, perché, dice ancora Boccassini «sarebbe bastato fare uno storico dell’assetto societario» e non solo una misura sulla struttura attuale «per accorgersi che qualcosa non andava. Luca Rinaldi 28.10.2014 L’INKIESTA


LA MAFIA IN LOMBARDIA  Era il 2010 quando l’allora Governatore della Lombardia dichiarava che “La Mafia in Lombardia non esiste!”. Oggi nessuno lo nega più. La relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 2018 descrive il fenomeno come: “Movimento profondo e uniforme che interessa la maggioranza delle provincie settentrionali, con una particolare intensità in Lombardia, e che è stato favorito fino a tempi recenti da diffusi atteggiamenti di sottovalutazione e rimozione“. Allo stesso modo, ma in maniera più analitica, il primo rapporto di “Monitoraggio della presenza mafiosa in Lombardia”, realizzato dall’Osservatorio sulla criminalità organizzata (Cross) dell’Università Statale di Milano, in 400 pagine mette a nudo il radicamento e l’evoluzione del “silenzioso assalto” delle mafie. La Lombardia è una regione di insediamento storico delle varie organizzazioni mafiose: sin dagli anni ’50 è stata meta e dimora di diversi affiliati di Cosa Nostra, della Camorra e della ‘Ndrangheta, tra cui molti boss di grande calibro come Luciano Liggio, Gaetano Badalamenti e Gerlando Alberti, per parlare dei siciliani, o di Franco Coco Trovato, tra i calabresi. La ‘Ndrangheta è certamente quella che, più di ogni altra, si radica in territori lontani dalla Calabria per spirito di conquista ed è per questo che ha letteralmente colonizzato l’intera regione. La scelta delle ‘ndrine cade normalmente sui piccoli centri dove è più facilmente replicabile il modello mafioso e dove, dunque, le ambizioni di controllo del territorio trovano riscontro fattivo; dove è più bassa l’attenzione delle forze dell’ordine e dell’opinione pubblica; dove vi è possibilità concreta di influenzare la vita pubblica del piccolo centro, eleggendo, ad esempio, un Consigliere Comunale con una manciata di preferenze; dove, nel medio periodo, attraverso il metodo mafioso, si riescono ad influenzare le dinamiche sociali e la cultura del territorio. In Lombardia per oltre mezzo secolo le organizzazioni mafiose si sono arricchite, sia organizzando traffici criminali (in principio furono i sequestri di persona, poi passarono principalmente al narcotraffico), sia investendo in attività economiche formalmente legali (bar, ristoranti, imprese, soprattutto nel campo dell’edilizia, negozi etc.), al fine di riciclare il denaro sporco. Le ragioni per le quali le organizzazioni mafiose si spostano dai territori meridionali di tradizionale insediamento sono sostanzialmente di quattro ordini:

1) Affari
2) Affari / Spirito di conquista (sistema misto)
3) Spirito di conquista
4) Fuga da lotte intestine o da azione repressiva dello Stato

Tutte le principali organizzazioni mafiose sono arrivate, in differenti momenti della loro storia, in Lombardia per una delle ragioni elencate sopra.
Geograficamente si può dividere la Regione fra Lombardia Orientale e Lombardia Occidentale: nella prima abbiamo una presenza della ‘ndrangheta più recente e con caratteristiche proprie, mentre nella seconda abbiamo la presenza tradizionale della ‘Ndrangheta con un panorama criminale vario tanto per attività quanto per provenienza.
In alcune aree gli insediamenti della criminalità organizzata sono maggiormente omogenei tra loro.
Il Nord-Ovest della regione (che comprende le provincie di Como, Lecco, Varese, Milano e Monza e Brianza) è caratterizzato da una presenza storica e consolidata, sopravvissuta alle inchieste degli anni ’90 che decimarono gli affiliati alle varie organizzazioni.
Il Sud della regione, invece, è interessato da una più recente presenza, che nel caso della provincia di Lodi sembrerebbe essere dovuto alla vicinanza con l’area milanese, pesantemente colpita dall’attività investigativa (gli affiliati si sposterebbero in questa zona, in quanto storicamente “più tranquilla” e considerata un’isola felice), mentre in quello di Mantova e Cremona le due province tendono ad essere una proiezione dei diversi gruppi criminali situati in Emilia-Romagna.
Un inesorabile “processo di colonizzazione” iniziato a metà del secolo.

Per un approfondimento, scarica qui la sintesi del Rapporto realizzato dall’Osservatorio sulla criminalità organizzata (Cross). ANTIMAFIA 365


Mafie, la relazione della Dia: «In Lombardia le nuove leve usano strategie militari» Seconda relazione semestrale della Dia (Direzione investigativa antimafia) al Parlamento a chiudere l’anno 2018: tempo di bilanci anche in Lombardia sul fronte criminalità organizzata. L’analisi svela i numeri: in calo lo scorso anno i soggetti segnalati per associazione di tipo mafioso (24 contro i 53 del 2017), in aumento invece le estorsioni, 1.075 contro le 1.024 dell’anno precedente.

Giuseppe Pignatone da tre anni è capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Collabora con le altre procure per smantellare la ‘ndrangheta in tutta Italia.  Ecco la sua lettera-appello al Corriere della Sera

Caro direttore,
da circa due anni, e soprattutto dopo l’attentato alla Procura generale di Reggio Calabria del 3 gennaio 2010, gli organi di informazione hanno cominciato a dedicare un’attenzione crescente alla ‘ndrangheta e a quello che essa rappresenta per la Calabria e per l’Italia. Comincia così a essere squarciato quel cono d’ombra che, salvo momentanee interruzioni (dopo l’omicidio Fortugno, dopo la strage di Duisburg), ha nascosto per decenni la criminalità organizzata calabrese a un’opinione pubblica preoccupata da altre emergenze: il terrorismo, Tangentopoli, Cosa nostra, i casalesi.
La fine di questo cono d’ombra è un punto di importanza essenziale. Solo così è possibile comprendere la potenza e la pericolosità della ‘ndrangheta reggina che non solo ha accumulato e continua ad accumulare immense ricchezze con il suo ruolo di interlocutore privilegiato dei narcotrafficanti sudamericani, ma è anche riuscita ad espandersi in molte parti del mondo a cominciare dalla Lombardia e da altre regioni del Nord Italia.
Non è un fenomeno nuovo e già in passato le indagini e i processi hanno documentato queste espansioni. Stiamo però assistendo a un’evoluzione decisiva.
Come ha documentato l’indagine «Il Crimine», frutto della collaborazione tra le procure di Milano e Reggio Calabria e che il 13 luglio scorso ha portato a 300 arresti in tutta Italia, la ‘ndrangheta è riuscita a realizzare una vera e propria «colonizzazione» in ampie zone della Lombardia, e non solo, riproducendo la sua peculiare struttura organizzativa con la creazione di decine di locali e con l’affiliazione di centinaia di persone, ma senza mai interrompere il legame essenziale con la terra d’origine a cui sono sempre rimesse le decisioni strategiche.
Le stesse indagini hanno fatto emergere pure che la ‘ndrangheta si è data una struttura unitaria e degli organismi di vertice, certamente diversi e strutturati secondo moduli più flessibili di quelli più noti di Cosa nostra siciliana, ma indispensabili per governare un’associazione criminale così estesa e con interessi in tante parti del mondo.
La scelta delle cosche calabresi di adottare una politica di basso profilo e la corrispondente scarsa attenzione dell’opinione pubblica hanno finora ostacolato la comprensione della sua reale natura di associazione mafiosa che, proprio perché tale, è capace di penetrare in strati sociali diversi, di acquisire alleanze e complicità, basate spesso sulla paura, ma a volte anche su calcoli di convenienza: pacchetti di voti per i politici, laute parcelle o buoni affari per professionisti e burocrati, capitali a buon mercato e ostacoli alla concorrenza per gli imprenditori e così via.
Per lo stesso motivo non si è colta la capacità della ‘ndrangheta di progettare a lungo termine anche nei settori più delicati: un boss di San Luca è stato intercettato mentre programmava di concentrare tutti i voti controllati dalle cosche su sei candidati di assoluta fiducia, strategicamente scelti sul territorio, da far eleggere al consiglio provinciale e da portare, dopo un’adeguata sperimentazione, prima al consiglio regionale e poi al parlamento nazionale, così da avere in quelle sedi uomini propri, superando la mediazione spesso troppo complessa o ritenuta poco affidabile dei partiti. Quel progetto è stato stroncato dagli arresti, ma credo meriti ancora una attenta riflessione. E lo stesso cono d’ombra informativo ha impedito fin qui di cogliere non solo la diffusione dell’omertà e del silenzio in tante province lombarde, come denunziato dalla procura della Repubblica di Milano, ma, ancora e di più, la presenza della ‘ndrangheta in tanti settori dell’economia dell’Italia centrale e settentrionale, luogo ideale per investire, senza destare troppo l’attenzione, le somme ingentissime di cui le cosche dispongono. Chiarissimo è stato in questo senso l’allarme del Governatore della Banca d’Italia. E bisogna evitare l’illusione che si possano accettare, specie in questi periodi di crisi, i capitali della ‘ndrangheta lasciando fuori dalla porta chi quei capitali offre: prima o poi costui presenterà il conto non solo con la sua forza economica, ma anche con la minaccia, implicita o esplicita, di ricorrere alla violenza. Ecco perché credo che le indagini condotte in questi anni in varie parti d’Italia siano preziose. Esse dimostrano la gravità e la pericolosità del fenomeno: per contrastarlo è necessaria l’attività di repressione da condurre, con tutte le risorse necessarie, secondo criteri di massimo rigore, ma nell’assoluto rispetto delle garanzie processuali e dei principi costituzionali; con la precisa consapevolezza che bisogna contrastare la ‘ndrangheta tanto in Calabria, dove ci sono il cuore e la testa dell’organizzazione, quanto nel Nord Italia dove ci sono le sue ramificazioni e la sua espansione economica. Ma la repressione non basta. È necessaria la reazione della società civile, con tutte le sue articolazioni, ognuna delle quali può svolgere un ruolo prezioso, innanzi tutto agendo secondo le regole e contrastando il silenzio e l’omertà: così si può sconfiggere questo cancro della società, come l’hanno definito i vescovi italiani, che mette a rischio l’economia e la democrazia del nostro Paese.  Giuseppe Pignatone (Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria) 24 marzo 2011


L’Ortomercato, il movimento terra e il riciclaggio di denaro sporco

Commissione parlamentare antimafia XV Legislatura

La mafia calabrese

L’intervento dell’Autorità giudiziaria ha anche portato alla luce l’infiltrazione diffusa e organica in un settore strategico dell’economia lombarda, e quello relativo all’insediamento o meglio reinsediamento della cosca Morabito-Bruzzaniti-Palamara all’interno dell’Ortomercato di Via Lombroso.

L’Ortomercato di Milano è il più grande d’Italia. Ogni notte vi fanno capo centinaia di camion che distribuiscono i prodotti in tutta la regione. Dei tremila lavoratori impiegati quasi la metà sono irregolari. Il giro di affari è di 3 milioni di euro al giorno con 150 tra imprese e cooperative interessate.

Già nel 1993 un’indagine della Dda di Milano aveva messo in luce un commercio di cocaina e di eroina tra Italia, Sud-America e Thailandia per trecento chilogrammi di sostanze al mese che viaggiavano appoggiandosi alla Sical Frut una società che operava presso l’Ortomercato di Milano e rispondeva allo stesso clan dei Morabito.

L’ordinanza di custodia cautelare emessa in data 26.4.2007 nei confronti di Salvatore Morabito, Antonino Palamara, Pasquale Modaffari e altre 21 persone ha messo in luce che la cosca Morabito-Bruzzaniti grazie all’arruolamento dell’imprenditore Antonio Paolo titolare del consorzio di cooperative Nuovo Co.Se.Li. era riuscita ad utilizzare le strutture dell’Ortomercato e i suoi uffici come punto di riferimento per gli incontri, e logistico per la gestione di grosse partite di sostanze stupefacenti.

Tra di esse i 250 chilogrammi di cocaina provenienti dal Sud America, giunta in Senegal a bordo di un camper e sequestrati in Spagna dopo aver viaggiato sotto la copertura di un’attività di rallye.

La cosa che più inquieta è che Morabito, appena terminato nel 2004 il periodo di soggiorno obbligato ad Africo, grazie all’arruolamento dell’operatore economico Antonio Paolo, aveva goduto per i suoi spostamenti all’interno dell’area commerciale addirittura di un pass rilasciato dalla So.Ge.Mi. e cioè la società che gestisce per conto del Comune di Milano l’intera area dell’Ortomercato.

Al punto che il Morabito entrava nell’Ortomercato con la Ferrari di sua proprietà. Tale mancanza di controlli appare peraltro diretta conseguenza del fatto che da tempo l’area, nonostante la gestione comunale, era divenuta “zona franca”, controllata da un caporalato aggressivo, padrone del lavoro nero e all’interno della quale il Presidio di Polizia risultava chiuso da anni, mentre i Vigili Urbani evitavano quasi sempre di intervenire.

La capacità di influenza di Morabito era giunta al punto che il suo “controllato”, Antonio Paolo, aveva acquistato le quote della società Spam srl che, per ragioni di certificazione antimafia Morabito e i suoi associati non avevano più potuto gestire formalmente, e tale società aveva chiesto e ottenuto dalla So.Ge.Mi., e quindi in pratica dal Comune, la concessione ad aprire nello stabile di Via Lombroso, ove peraltro ha sede la stessa So.Ge.Mi il night club “For the King”, inaugurato il 19.4.2007 alla presenza di noti boss della ‘ndrangheta come, tra gli altri, Antonino Palamara. Il sequestro preventivo delle quote sociali della Spam è stato adottato dal GIP di Milano e confermato dal Tribunale del Riesame il 5.6.2007.

I provvedimenti dell’autorità giudiziaria di Milano con i quali sono state sequestrate le quote sociali della Spam srl evidenziano un’altra ragione di interesse. Antonio Paolo, dopo aver rilevato la società nella quale Morabito era rimasto il socio occulto e il vero dominus, aveva ottenuto dalla Banca Unicredit ed esattamente dalla filiale della centrale via San Marco di Milano un anomalo finanziamento di 400mila euro che doveva servire a pagare le spese della ristrutturazione del night For the King, peraltro a posteriori, visto che la ristrutturazione era già avvenuta.

Ciò mette a nudo un sistema col quale non solo qualche Cassa Rurale di provincia ma anche istituti maggiori assicurano finanziamenti a noti esponenti mafiosi senza effettuare i controlli necessari e senza chiedersi chi siano i soggetti così indebitamente favoriti.

Un’altra conseguenza significativa dell’indagine relativa alle infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’Ortomercato è stato il sequestro propedeutico alla confisca di numerose quote societarie e beni immobili per un valore complessivo di quasi quattro milioni di euro effettuato nei confronti di due fiduciari del gruppo Morabito-Bruzzaniti e cioè Francesco Zappalà, un dentista che non aveva mai esercitato la sua professione medica, ma che disponeva a Milano di una villa lussuosa e del suo braccio destro Antonio Marchi.

L’evidente sproporzione tra i redditi dichiarati e gli investimenti societari e immobiliari effettuati certamente come prestanome della cosca di riferimento, ha consentito infatti il sequestro di quote sociali di varie società utilizzate per l’acquisto di immobili, di appartamenti e bar a Milano, uno dei quali in zona abbastanza centrale, di una villa con box a Cusago nell’hinterland milanese, di terreni nel torinese, di appartamenti a Massa Carrara e a Finale Ligure nonché di terreni a Bova Marina, nel reggino, zona di provenienza di quasi tutti i componenti del gruppo.

L’inchiesta Dirty Money

Lo scenario dell’indagine chiamata Dirty Money, resa possibile da una stretta collaborazione tra le autorità elvetiche e quelle italiane, vede, secondo la ricostruzione dell’accusa, la presenza della cosca Ferrazzo di Mesoraca (KR) ramificatasi in Lombardia tra Varese e Ponte Tresa e in Svizzera a Zurigo. Proprio qui vengono allestite due grosse “lavatrici”, e cioè due società finanziarie, la Wsf ag e la Pp finanz ag che dovevano occuparsi di raccogliere i capitali di investitori svizzeri e internazionali per intervenire sul mercato Forex ed operare transazioni su divise.

In realtà tali finanziarie erano divenute il luogo ove depositare e far transitare ingenti somme provenienti dalle attività illecite della cosca. A partire dall’inizio degli anni 2000, era iniziata la programmata spoliazione delle società stesse, con il dirottamento dei capitali, sia quelli di provenienza illecita sia quelli affidati dagli investitori a conti offshore e società nella disponibilità degli amministratori, tutti legati direttamente o indirettamente alla ’ndrangheta.

Prima che il caso esplodesse e che nel 2003 fosse dichiarato il fallimento di entrambe le società operanti in Svizzera, con la distrazione di decine di milioni di franchi, l’obiettivo dell’operazione era il reimpiego dei capitali puliti in investimenti immobiliari di prestigio in Sardegna e in Spagna, sempre controllati dalla cosca regista del progetto.

Tali investimenti, che avrebbero così consentito di far rientrare in Italia e di ripulire somme notevoli in attività formalmente lecite, sono stati interrotti solo dalle indagini.

L’indagine Dirty Money, caratterizzata da complessi accertamenti finanziari, costituisce un passo importante perché forse per la prima volta in Lombardia non ci si è trovati di fronte al caso tipico di riciclaggio reso possibile dall’intervento di un funzionario di banca compiacente o al riciclaggio consueto in esercizi di ristorazione.

È un fenomeno ben diverso e, per così dire, “strutturale”, costituito dalla scelta del gruppo criminale di allestire in proprio una grossa macchina societaria, funzionale ai suoi scopi e utilizzata non solo per inghiottire i depositi degli investitori, ma per ripulire ingenti masse di denaro provenienti dalle attività illecite condotte in Italia.

Le indagini attualmente più significative evidenziano preoccupanti segnali della persistente presenza di organizzazioni di tipo mafioso, che, soprattutto nell’area metropolitana di Milano e nelle province confinanti, si caratterizzano più per una capillare occupazione di interi settori della vita economica e politico-istituzionale, che per la tradizionale e brutale gestione militare del territorio in connessione con le attività tipiche delle associazioni mafiose: dal traffico di stupefacenti all’usura, allo sfruttamento della prostituzione e alle estorsioni in danno dei pubblici esercizi, ecc..

In sostanza, nelle zone a più alta densità criminale, Rozzano, Corsico, Buccinasco, Cesano Boscone, per citarne alcuni, le tradizionali famiglie malavitose di origine meridionale, sempre più saldamente radicate al territorio, hanno iniziato a gestire e a sfruttare le zone di influenza, stringendo, dal punto di vista istituzionale, alleanze con spregiudicati gruppi politico-affaristici e, dal punto di vista economico, inserendosi nel campo imprenditoriale con illimitate disponibilità economiche.

Altra indagine di rilievo nasce dagli accertamenti espletati dal Ros Carabinieri, in aggiunta a quelli già svolti dalla Dia in relazione ad un esposto anonimo, che segnalava inquietanti rapporti tra personaggi di un Comune dell’hinterland milanese e gruppi malavitosi organizzati di stampo mafioso localizzati nel medesimo comune e in quelli limitrofi.

Le più recenti acquisizioni investigative hanno anche confermato l’esistenza in un altro Comune dell’hinterland milanese di un gruppo politico-affaristico ed un continuo riferimento ai “calabresi”, anche in relazione alle recenti elezioni amministrative. Nell’ambito di un altro procedimento penale è emerso il coinvolgimento di elementi appartenenti alla Cosca di Isola Capo Rizzuto nell’acquisizione illecita degli appalti dell’alta velocità ferroviaria e del potenziamento dell’autostrada Milano-Torino in diverse tratte lombarde.

Avvalendosi delle potenzialità fornite dalla prima piazza economico finanziaria a livello nazionale, la ‘ndrangheta attua il riciclaggio e/o il reimpiego dei proventi derivanti dalla gestione, anche a livello internazionale, di attività illecite (traffico di sostanze stupefacenti, armi ed esplosivi, immigrazione clandestina, turbativa degli incanti, ecc.), inserendosi insidiosamente nel tessuto economico legale, grazie all’esercizio di imprese all’apparenza lecite (esercizi commerciali, ristoranti, imprese edili, di movimento terra, ecc).

La prevalenza criminale calabrese, peraltro, non è mai sfociata in assoluta egemonia, sicché altre organizzazioni italiane (Cosa nostra, Camorra e Sacra Corona Unita) e straniere (albanesi, cinesi, nord africane, ecc.) con essa convivono e si rafforzano, generando l’attuale situazione di massima eterogeneità.

Le attività della ‘Ndrangheta in Lombardia

In definitiva, quanto alle caratteristiche peculiari delle organizzazioni criminali monitorate, è stato possibile individuare due distinte realtà territoriali, le quali hanno, però, mostrato un’incidenza criminale omogenea: Milano e il suo hinterland, quale centro nevralgico della gestione di attività illecite aventi connessioni con vaste zone del territorio nazionale; area brianzola (Province di Milano, Como e Varese), dove il denaro proveniente dalle attività illecite viene reinvestito in considerazione della “felice” posizione geografica che la vede a ridosso del confine con la Svizzera e della ricchezza del tessuto economico che la caratterizza.

Nel corso degli ultimi anni, una ulteriore conferma della forte presenza della ‘ndrangheta si è rilevata nell’area dell’hinterland sud–ovest del capoluogo lombardo (in particolare nei comuni di Corsico, Cesano Boscone, Rozzano, Buccinasco, Trezzano sul Naviglio ed Assago) con particolare riferimento alle ‘ndrine provenienti dalla Locride, nonché dalla piana di Gioia Tauro.

Le principali ‘ndrine sono: “Morabito-Bruzzaniti-Palamara”, “Morabito-Mollica”, “Mancuso”, “Mammoliti”, “Mazzaferro”, “Piromalli”, “Iamonte”, “Libri”, “Condello”, “Ierinò”, “De Stefano”, “Ursini-Macrì”, “Papalia-Barbaro”, “Trovato”, “Paviglianiti”, “Latella”, “Imerti-Condello Fontana”, “Pesce”, “Bellocco”, “Arena-Colacchio”, “Versace”, “Fazzari” e “Sergi”.

Geograficamente il territorio lombardo può essere così suddiviso:

  • A Milano e hinterland opera attivamente la Cosca Morabito-Palamara-Bruzzaniti, che, tra l’altro, “utilizza” varie società aperte presso l’ortomercato, per fare arrivare nella metropoli ingenti “carichi di neve”, la cui domanda si è capillarmente diffusa tra i vari ceti sociali.
  • A Monza le “famiglie” Mancuso, Iamonte, Arena e Mazzaferro; • A Bergamo, Brescia e Pavia le “famiglie” Bellocco e Facchineri;
  • A Varese, Tradate e Venegono le “famiglie” Morabito e Falzea;
  • A Busto Arsizio e Gallarate la “famiglia” Sergi.

Le categorie economiche maggiormente a rischio di infiltrazione da parte della criminalità organizzata si possono indicare così:

  • – costruzioni edili attraverso piccole aziende a non elevato contenuto tecnologico, che si avvalgono della compiacenza di assessori ed amministratori locali amici e si infiltrano negli appalti pubblici;
  • – autorimesse e commercio di automobili;
  • – bar, panetterie, locali di ristorazione;
  • – sale videogiochi, sale scommesse e finanziarie;
  • – stoccaggio e smaltimento rifiuti;
  • – discoteche, sale bingo, locali da ballo, night clubs e simili (che implicano possibilità di conseguire ingenti incassi e di fare “girare” droga);
  • – società di trasporti;
  • – distributori stradali di carburante;
  • – servizi di facchinaggio e pulizia;
  • – servizi alberghieri;
  • – centri commerciali;
  • – società di servizi, in specifico, quelle di pulizia e facchinaggio.

I canali attraverso i quali viene “lavato” il denaro appaiono i più ingegnosi e diversificati. Recenti inchieste, ad esempio, raccontano che le cosche sono sempre più interessate ai cosiddetti Money transfert, gli sportelli da cui gli stranieri inviano denaro all’estero.

Sul territorio nazionale restano gli euro puliti dei lavoratori extracomunitari, fuori dai confini si volatilizzano i soldi sporchi. Altro canale utilizzato è quello dei supermercati e dei loro scontrini.

I registratori di cassa, emettono ricevute a raffica, anche con qualche cifra in più; così gli ‘ndranghetisti stanno aprendo catene di negozi e centri commerciali in società con cinesi. Altro settore su cui scommette la criminalità calabrese è quello dei giochi: nell’anno 2006, in Lombardia, i locali specializzati hanno fatturato 4,6 miliardi di euro, laddove le sale scommesse (54 in Lombardia, 41 in Milano e provincia) hanno registrato 1,5 miliardi di euro di puntate, il 55 per cento in più rispetto all’anno precedente.

Le cosche calabresi hanno fatto un definitivo salto di qualità, non limitandosi più a dare vita a delle s.r.l., ma anche a S.p.A., acquisendo, come nelle società quotate in borsa, i trucchi della scatole cinesi. La ‘ndrangheta è diventata, peraltro, una autentica banca parallela, “aiutando” imprenditori in difficoltà, offrendo fideiussioni bancarie e prestiti.

Negli istituti di credito i protetti dalle cosche ottengono “affidamenti mafiosi” per attività perennemente in perdita o mutui per immobili già di proprietà dell’organizzazione perché i direttori della filiale bene sanno che le garanzie sono altrove.

In cambio lo sportello “’ndranghetista” riceve capitali puliti o deleghe per conti correnti ed assegni da utilizzare nei circuiti ufficiali. Gli adepti, per i loro traffici, utilizzano internet con abilità singolare, ma, al contempo, doppi fondi e spalloni, criptano le loro comunicazioni con sistemi come Voip e Skype e poi parlano al telefono con l’antichissimo linguaggio dei pastori.

La ‘ndrangheta ha costruito una rete fatta di broker e commercialisti, avvocati e dirigenti di banca: una mafia “invisibile” più profusa alle transazioni online che ai picchetti armati ed alle estorsioni (in Lombardia, l’unica faida in corso insanguina la provincia di Varese, zona calda per la presenza dell’aeroporto di Malpensa) e le armi che continuano a pervenire dall’est europeo e dalla Svizzera vengono riposte negli arsenali.

In quanto “globale e locale” da semplice organizzazione si è tramutata in sistema.


 

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a cura di Claudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco