Scarpuzzedda – Racconti di mafia 18ª puntata

 


Giuseppe Greco detto Scarpuzzedda o semplicemente “Pino” (Ciaculli4 gennaio 1952 – Palermosettembre 1985), esponente di  Cosa NostraGiuseppe Greco  si racconta che a scuola eccelleva in latino e in greco. Era un parente di Salvatore “Cicchiteddu” Greco. Anche suo padre Nicola fu un mafioso della cosca di Ciaculli, che veniva soprannominato “Scarpa“: di conseguenza, Giuseppe prese il soprannome di “Scarpuzzedda” e, ancora giovanissimo, venne affiliato anche lui alla Famiglia di Ciaculli. In pochi anni Greco divenne uno dei killer più spietati di tutto il mandamento di CiaculliCroceverde GiardinaBrancaccio, che era guidato dal boss Michele Greco: per queste ragioni nel 1977 lo stesso Michele Greco lo scelse per fare parte del commando di killer che compì l’uccisione del tenente colonnello Giuseppe Russo. Nel 1978 Giuseppe Greco venne nominato anche capomandamento di Ciaculli su proposta di Totò Riina, a cui era strettamente legato. Greco faceva parte di una “squadra della morte” che operò durante la seconda guerra di mafia, composta tra gli altri da Antonino MadoniaCalogero GanciFilippo Marchese, Antonino Marchese, Pino Marchese, Gaetano Carollo, Giuseppe LuccheseGiuseppe Giacomo Gambino e Mario Prestifilippo che era anche suo nipote. A Greco sono attribuiti 58 omicidi, tra i quali quelli del magistrato Rocco Chinnici, del generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, dell’onorevole Pio La Torre, del vicebrigadiere Antonino Burrafato, l’agente di polizia Calogero Zucchetto, oltre quelli dei boss mafiosi Stefano BontadeSalvatore InzerilloAlfio Ferlito e Rosario Riccobono. Secondo i pentiti Vincenzo Sinagra e Stefano Calzetta, durante la seconda guerra di mafia Greco aiutò Filippo Marchese a compiere numerosi omicidi nella cosiddetta «camera della morte», un appartamento abbandonato nella zona di Corso dei Mille dove i nemici venivano strangolati, sciolti nell’acido e poi i loro resti gettati a mareNel settembre 1985 Totò Riina fece inghiottire Greco dalla “lupara bianca“, sia per ridurre la forza della cosca di Ciaculli, sia perché ormai Greco era ritenuto troppo ambizioso, vedendolo gli altri killer come un potenziale futuro capo. Secondo il pentito Francesco Marino Mannoia, Greco venne ucciso alla fine del 1985 a colpi di pistola da Giuseppe Lucchese Miccichè e da Vincenzo Puccio in una villa tra Bagheria e Ficarazzi dove Greco viveva in latitanza. I killer suonarono alla porta, Greco andò loro ad aprire e li fece entrare per un caffè (Greco e Lucchese erano molto amici), non appena voltò loro le spalle, i due lo uccisero. C’era anche una terza persona arrivata con i due, Agostino Marino Mannoia, fratello del famoso collaboratore Francesco Marino Mannoia.


LUCCHESE IN TESTA ALLA ”HIT PARADE” DEI KILLER Da Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie, Emanuela Setti Carraro ai commissari Montana e Cassara’. E poi ancora, l’eliminazione degli altri due superkiller Pino Grecoe Mario Prestifilippo, quella del capo dei ”perdenti”, Salvatore Inzerillo, e decine e decine di altri omicidi. A guidare il ”gruppo di fuoco” piu’ temuto di Cosa Nostra c’era sempre lui: Giuseppe Lucchese, detto ”lucchiseddu”, il killer piu’ fidato di Toto’ Riina. Il suo nome figura al primo posto nella tragica ”hit parade” dei killer di Cosa Nostra. 34 anni, di Palermo, nato e cresciuto in una strada dal nome significativo- via dei picciotti- Lucchese, arrestato due anni fa, e’ attualmente indicato dai pentiti come capo della famiglia di Ciaculli e componente della Commissione provinciale. Per questa sua carica, nonostante fosse gia’ detenuto, e’ accusato di essere uno dei mandanti dell’uccisione di Salvo Lima. Uno stile di vita completamente diverso da quello dei ”paesani” di Corleone o di San Giuseppe Jato, attaccati alla proprieta’ e alla terra, il ”cittadino” Lucchese amava girare per la penisola alloggiando nei migliori alberghi. Capace di spendere anche piu’ di un milione a notte, ma sempre pronto a correre a Palermo per eseguire le ”sentenze di morte” emanate dai capimandamento. I pentiti lo accusano di essere direttamente responsabile di oltre 50 omicidi. Piu’ o meno quanto quelli commessi dagli altri due ”superkiller” Pino Greco e Mario Prestifilippo, da lui stesso eliminati. Molto distanziati in questa macabra classifica, arrivano, sempre stando ai pentiti, altri ”boia” di Cosa Nostra. Da Nino Madonia, figlio di ”don Ciccio”, a Giuseppe Giacomo Gambino, ad Agostino Marino Mannoia, a Giovanbattista Pullara’, agli stessi pentiti Giovanni Drago e Pino Marchese. Segue, piu’ distanziato, Pietro Aglieri, detto ”u signurinu”, l’unico ancora latitante. 10 mar 1993 (Adnkronos) –


L’omicidio di Giuseppe Greco: perché Totò Riina eliminò il suo killer di fiducia? Il 6 Agosto 1985 venne ucciso a colpi di kalashnikov, assieme ad un uomo della sua scorta, Ninni Cassarà, vice capo della Squadra Mobile di Palermo, che aveva anche preso parte alla famosa operazione Pizza Connection all’interno di un’indagine sul traffico di droga condotta dall’FBI con cui collaborò la magistratura italiana. Fu l’ultimo omicidio materialmente portato a termine da Giuseppe Greco, detto “Scarpuzzedda”, al quale peraltro sono stati attribuiti anche quelli di Rocco Chinnici, di Carlo Alberto dalla Chiesa e di Pio La Torre, oltre che di Stefano Bontate, di Salvatore Inzerillo e di Rosario Riccobono durante la seconda guerra di mafia.
Proprio in virtù dell’infinita scia di omicidi che “Scarpuzzedda” aveva portato a compimento (circa sessanta), egli era diventato molto popolare dentro Cosa Nostra e, al termine della seconda guerra di mafia, si era conquistato uno scranno all’interno della Commissione. Una carriera in forte, fortissima ascesa: un’arma a doppio taglio in un ambiente così delicato come quello dell’associazione criminale Cosa Nostra, appena uscita dal conflitto interno più sanguinoso di sempre e, dunque, immersa in un contesto di pieno riassetto degli equilibri di potere. Tanto che 
Totò Riina, lo stesso capo dei capi che lo aveva ricompensato facendolo salire di grado, cominciò a temere che Giuseppe Greco potesse aumentare il proprio potere circondandosi di adepti a lui fedeli e, di conseguenza, decise che l’unico modo sicuro per evitare questa nefasta circostanza fosse quello di farlo dormire per sempre.
Giuseppe Lucchese, uno dei più grandi amici di Giuseppe Greco, venne inviato dal capo dei capi nel Settembre 1985 insieme a Vincenzo Puccio, appartenente alla cosca di Ciaculli, proprio come Greco, e ad Agostino Marino Mannoia, della cosca di Santa Maria del Gesù, nella casa in cui Greco stava trascorrendo la sua latitanza. Dopo aver aperto la porta di casa ai suoi ospiti, Greco si era girato per andare a preparare il caffè: in quel momento, Lucchese lo stese con un colpo di pistola alla nuca. Il corpo senza vita di Giuseppe Greco, annoverato tra le vittime della lupara bianca, sarebbe stato successivamente sciolto nell’acido.
“Scarpuzzedda”, che da spietato carnefice di Cosa Nostra divenne vittima degli stessi killer che lo avevano coadiuvato in decine di omicidi, aveva soltanto 33 anni.
16.3.2020 ANTIMAFIA DUEMILA di Stefano Baudino


“IO, KILLER INVISIBILE DI COSA NOSTRA   Sergio Flamia, l’esecutore della famiglia di Bagheria diventato collaboratore di giustizia, ha confessato 40 omicidi. E di essere stato a lungo un confidente dei servizi segreti  Un pistolero venuto dal nulla. Per quasi trent’anni è stato l’angelo vendicatore di Cosa nostra, un killer invisibile a cui affidare le missioni che devono restare nascoste anche all’interno dell’organizzazione criminale. Sergio Flamia era l’esecutore della famiglia di Bagheria, una delle più importanti nel gotha della mafia palermitana: quando ha deciso di collaborare con la giustizia, ha spiazzato gli investigatori rivelando di avere ammazzato una quarantina di volte. Fino ad allora, era rimasto un fantasma con il revolver. Dal 1993 è stato arrestato tre volte, con imputazioni per droga o per ruoli minori nei traffici delle cosche, ma ha sempre riottenuto la libertà. Nessuno ha mai sospettato il suo record personale, che lo porta ai vertici delle classifiche dei sicari siciliani. Solo da pochi mesi ha deciso di parlare, svelando la sua incredibile carriera di morte: si è autoaccusato di una lunga serie di omicidi, permettendo di riaprire le indagini su delitti rimasti irrisolti per decenni. Un uomo di piombo, freddo e controllato, abituato a muoversi nell’ombra: ha dichiarato anche di essere stato a lungo confidente dei servizi segreti, fornendo notizie a un agente dell’intelligence.
BAGHERIA CONNECTIO Flamia, ha 51 anni, è nato e cresciuto a Bagheria. Davanti ai pm palermitani Leonardo Agueci e Francesca Mazzocco ha descritto la sua ascesa criminale nella città delle ville, un giardino verde di residenze nobiliari poi travolto dal cemento dei costruttori mafiosi. Una storia che comincia con i primi delitti nel 1984, gli anni della mattanza che segnò il trionfo corleonese, fino a diventare il braccio destro del padrino e il custode della cassa della famiglia. Per un periodo è stato anche il custode della latitanza di Bernardo Provenzano, l’ultimo grande capo di Cosa nostra. Un’epopea su cui adesso gli investigatori stanno cercando riscontri, perché le parole del pistolero possono riscrivere molti episodi e aprono uno squarcio sul presente della mafia, che cerca di rifondarsi tornando ai valori delle origini.
TORNANO I PUNCIUTI Ho deciso di collaborare perché voglio cambiare vita e garantire a me e ai miei familiari un futuro tranquillo e libero dal crimine. La mia decisione è maturata perché sono stanco di andare dietro a queste storie di mafia, a queste malefatte, ho deciso di cambiare vita e di vivere più tranquillo e sereno con la mia famiglia. Per famiglia intendo mia moglie e i miei figli», la collaborazione di Flamia con i pubblici ministeri si apre il 30 ottobre scorso con queste parole. È un discorso che parte da lontano, da quel codice d’onore che sostiene di avere appreso durante l’infanzia, ma che si è dissolto da tempo. Ora tutto è «decaduto» e il «valore criminale è caduto troppo in basso»: i mafiosi hanno perso autorevolezza, non sono più uomini di rispetto. Una crisi di credibilità per l’intera organizzazione, a cui due anni fa si è cominciato a rispondere tornando alle vecchie maniere, quelle nate prima che il potere assoluto dei corleonesi stravolgesse i capisaldi dell’onorata società. A farsene carico sono stati i veterani, boss tornati in paese dopo anni e anni di prigione, che hanno cominciato a reclutare persone di spessore criminale. E le hanno affiliate seguendo il più antico dei riti: la “punciuta” del dito della mano e le gocce di sangue fatte cadere su un’immaginetta sacra, bruciata mentre l’uomo d’onore la stringe recitando il giuramento. Una messinscena per cercare di ridare un senso ai canoni di Cosa nostra. Sergio Flamia dichiara di avere avuto la sua cerimonia di iniziazione soltanto nel gennaio 2012, nel retro di un panificio-pizzeria di Villabate, alla presenza dei capi della zona: fino ad allora, si era sempre mosso nell’ombra. Quando è arrivata l’affiliazione, il sicario aveva smesso di credere nella Cosa nostra ma non poteva tirarsi indietro: sarebbe stata una condanna a morte sicura.
VIVI E FAI MORIRE La stessa freddezza con cui premeva il grilletto sembra specchiarsi anche nelle sue rivelazioni. Racconta le esecuzioni nei particolari, con quei dettagli fondamentali per concepire il piano di un delitto e che restano impressi solo nella mente del killer. Non c’è commozione, né rimorso verso le vittime: uccidere e morire sono parte della vita del mafioso. «Quando si è inseriti in un contesto mafioso o vicino ad una famiglia mafiosa bisogna avere fatto omicidi, partecipato a fatti gravi». E Flamia aveva la pistola facile. I carabinieri se ne sono resi conto grazie alle microspie piazzate nel negozio di frutta e verdura che gestiva prima dell’arresto. Il killer litiga con il cognato, in presenza di testimoni, poi alza la voce: «Ti taglio la gola, devi andare via da questo posto!». Ma il familiare non si muove, e quindi Flamia afferra la pistola che ha sotto il banco degli ortaggi e grida: «Ti sparo come un cornuto se non te ne vai». Pochi secondi dopo la microspia dei carabinieri registra l’esplosione di una pallottola, destinata però solo a fare paura. Subito il sicario intima: «Ora vedi di levarti davanti ai miei occhi. E non tornare più». Poi si rivolge a un uomo che ha assistitito alla scena: «Prendi il proiettile e buttalo nel water».


LA FINE DI SCARPUZZEDDA Quasi a segnare un passaggio di testimone tra pistoleri, Flamia potrebbe fare luce sulla fine del killer più spietato dei corleonesi, Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”, l’autore di centinaia di omicidi fra cui quello di Carlo Alberto Dalla Chiesa e Pio La Torre. Scarpuzzedda è scomparso nel 1984, inghiottito dalla lupara bianca: secondo il nuovo collaboratore, l’eliminazione è stata gestita dal boss Giuseppe Scaduto. «È stato strangolato dentro la loro proprietà a Bagheria». All’epoca la città si stava trasformando dal giardino della nobiltà palermitana alla spiaggia dei nuovi ricchi spuntati dal nulla, quelli che avevano fatto i soldi grazie a Cosa nostra. Su una scogliera a picco sul mare, c’è l’entrata della villa di “Scarpuzzedda”: trentasei stanze disposte in appartamenti distinti, digradanti verso il mare. I latitanti di alto rango si portavano le famiglie, occupavano piani diversi, a ciascuno il suo spazio: dalle terrazze piastrellate di bianco guardavano il promontorio di Mongerbino e bevevano champagne con il padrone di casa. Il killer dopo aver ucciso Pio La Torre e poi Dalla Chiesa disse ad un mafioso, che poi divenne pentito: «Stu omicidio Dalla Chiesa non ci voleva… Ci vorranno minimo dieci anni per riprendere bene la barca». E indicò chiaramente che dietro l’esecuzione c’era Provenzano: «Comunque qua io ho avuto uno scherzetto in questo omicidio, e stu scherzetto me lo fece u ragioniere (Provenzano ndr)». Greco aveva ricevuto garanzie per l’operazione, promesse che poi non erano state mantenute. Fino all’ultimo appuntamento a Bagheria, non lontano dalla sua sfarzosa dimora.
MANCATO BLITZ  Ci sono alcuni capitoli della saga di Flamia che vanno valutati con grande attenzione. Ad esempio quando parla degli incontri che Provenzano faceva nelle campagne di Misilmeri nel 1995. Ad uno di questi appuntamenti con i mafiosi è legata l’inchiesta della procura di Palermo sul mancato blitz da parte dei Ros dei carabinieri che avrebbe potuto portare, secondo le rivelazioni del confidente Luigi Ilardo, all’arresto di Provenzano. Per questa vicenda sono finiti sotto processo il generale Mario Mori, all’epoca vice comandante del Ros, e un suo ufficiale, Mario Obinu, entrambi poi assolti dai giudici del tribunale. Flamia ha raccontato ai pm quello che ha vissuto personalmente in quel periodo e ciò che gli è stato riferito da altri mafiosi. La sua versione potrebbe non coincidere con alcuni aspetti riferiti da Ilardo, ucciso a Catania alla vigilia della sua collaborazione ufficiale con la giustizia, e riportati in un rapporto giudiziario dell’allora colonnello Michele Riccio.
ETÀ DELL’ORO Erano anni formidabili quelli di Provenzano a Bagheria, con fiumi di “piccioli” che sembravano infiniti: «L’ho visto tante volte con borse piene di soldi. Glieli portavano ogni settimana i rappresentanti delle varie famiglie». «Tanti quattrini li ho pure visti in mano a Giuseppe “Piddu” Madonia, anche lui latitante a Bagheria, insieme a Provenzano, ma per noi non c’era nulla». Oggi anche Cosa nostra è in piena recessione e fatica a garantire lo stipendio mensile alle famiglie dei detenuti: ci sono boss che hanno smesso di pagare gli avvocati agli affiliati. «Si sono dimenticati anche di aiutare in carcere uno che aveva favorito la latitanza di Provenzano», spiega Flamia. «L’unica volta che io ho avuto soldi sono stati 2500 euro, e poi non ho più visto nulla. Eppure i soldi i capimafia continuano ad incassarli da estorsioni e dagli imprenditori, ma dicono che non c’è più denaro nelle casse della famiglia».
ASSE CANADESE La cosca di Bagheria negli affari aveva un asse diretto con il Canada, attraverso contatti col clan Rizzuto, poi interrotti per la guerra interna scoppiata a Toronto. Flamia ha descritto i traffici di stupefacenti e psicofarmaci, fornendo nuovo impulso alle inchieste dei carabinieri. E proprio in tale contesto si inserisce il duplice omicidio dello spagnolo Juan Ramon Fernadez e del portoghese Fernando Pimentel. I cadaveri carbonizzati dei due sono stati rinvenuti nel maggio dello scorso anno nelle campagne di Casteldaccia a pochi chilometri da Bagheria, su indicazione di un mafioso, Giuseppe Carbone che ha iniziato a collaborare, autoaccusandosi anche lui di questo duplice delitto.
COME VOTANO GLI AMICI  Oltre alle armi, Flamia avrebbe maneggiato anche la politica locale, dando sostegno «in più occasioni» ai candidati per le elezioni comunali e regionali. Fa riferimento a tale Vitrano, che avrebbe pagato per raccogliere voti a Bagheria. Il meccanismo era quello classico: l’interessamento avveniva «tramite amicizie». «Ci chiedevano di dare una mano ad un politico e la famiglia mafiosa scendeva in campagna elettorale. Dietro compenso economico, parlavo con gli amici, spargevo la voce per far votare il “nostro” candidato e in alcuni casi facevamo consegnare anche sacchi di spesa. Il controllo del voto era semplice, perché a Bagheria il nostro candidato non era conosciuto da nessuno e non aveva nessun voto e quindi tutti i voti che arrivavano a Bagheria erano grazie a noi». E in passato sono stati eletti politici che erano appoggiati dalle famiglie mafiose? «Sì, quasi sempre».
CONFISCA, NON SFRATTO  Il capomafia di Bagheria, Gino Di Salvo, abitava in una residenza costruita nell’area attorno alla settecentesca Villa Valguarnera. Nel 2009 i giudici ne hanno ordinato la confisca definitiva ma fino a pochi mesi fa il boss ha continuato a vivere lì con la sua famiglia, finché i carabinieri non l’hanno arrestato di nuovo. Le ville di questa zona sono state tirate su ignorando il divieto assoluto di edificabilità. Di Salvo non solo ha fatto costruire la sua abitazione all’interno del parco monumentale borbonico, ma qui nella prima metà degli anni Novanta ha portato Provenzano e un altro grande ricercato, Giuseppe “Piddu” Madonia. Dalle vacanze dei grandi baroni palermitani alle latitanze dei padrini della cupola: lo rivelano i collaboratori di giustizia e adesso lo conferma il neo pentito Sergio Flamia. Il boss Di Salvo è finito in carcere diverse volte. I giudici del tribunale di Palermo, riconoscendo il suo ruolo dentro Cosa nostra, hanno ordinato la confisca dei beni, fra cui proprio la villetta di via Sofocle al numero 11, a poche centinaia di metri dal complesso monumentale. Nonostante la villa del boss fosse passata, almeno sulla carta, nelle mani dell’Agenzia dei beni confiscati, Di Salvo ha continuato ad abitarla insieme alla sua famiglia. E nessuno sembra essere riuscito a farlo sgomberare.
SICARIO NEL MIRINO  Molto più incisiva la capacità di Cosa nostra nell’eseguire le sentenze. «Poco tempo fa avevo capito che volevano uccidermi», racconta Flamia. «Avevo compreso che c’era qualcosa che non andava e si preparava un progetto di morte per me. In tutto questo ho visto il disinteressamento nei miei confronti di Gino Di Salvo. Il suo atteggiamento mi ha sorpreso perché se sei a capo di una famiglia mafiosa e il tuo collaboratore più stretto ha queste paure e te ne freghi allora sono due le cose: la prima che non sai controllare bene ciò che accade attorno a te; la seconda è che non vedi l’ora che ti tolgono davanti questo collaboratore. E questo era il caso mio». Ma non è facile prendere di mira un sicario: «Sapere che si stanno muovendo per uccidermi non mi ha messo paura, anche perché ho iniziato a prendere le contromisure e liberarmi dei nemici».
24 aprile 2014 L’ESPRESSO DI LIRIO ABBATE

 

 a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco