Condannati all’ergastolo a causa di un falso pentito e del più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana

 

 

Gaetano Murana: “I miei 18 anni in carcere da innocente accusato dal falso pentito Scarantino”


Condannato ingiustamente per la strage di via D’Amelio, maxirisarcimento per il carrozziere Orofino


 

ACCOLTA LA REVISIONE DELLA CONDANNA PER LA STRAGE DI BORSELLINO


La Corte di Appello di Catania Assolve Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura.
Quest’ultimo era stato condannato solo per il furto della 126 che venne imbottita di tritolo e non per il reato di strage. Orofino, invece, era stato ritenuto responsabile di appropriazione indebita, favoreggiamento e simulazione di reato.
Con la strage di via d’Amelio loro non c’entravano nulla. E adesso c’è anche una sentenza a sostenerlo. A quasi venticinque anni esatti dal botto che fece strage del giudice Paolo Borsellino la corte d’appello di Catania ha assolto tutti i 9 imputati nel processo di revisione alle condanne emesse a Caltanissetta. Alcune delle sentenze decise dai giudici nisseni erano all’ergastolo.
Il processo di revisione è stato chiesto, inizialmente, dalla procura generale di Caltanissetta ed è stato celebrato a Catania, come prevede la legge. A consentire il nuovo giudizio sono state le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ha riscritto tutta la fase esecutiva della strage sbugiardando il falso pentito Vincenzo Scarantino. Assolti dunque, Gaetano Murana, difeso dall’avvocato Rosalba Di Gregorio, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, assistito da Giuseppe Scozzola, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura. Quest’ultimo era stato condannato solo per il furto della 126 che venne imbottita di tritolo e non per il reato di strage. Orofino, invece, era stato ritenuto responsabile di appropriazione indebita, favoreggiamento e simulazione di reato. Le pg di Catania avevano chiesto per tutti la revisione tranne che per Salvatore Tomasello, sostenendo che a suo carico non ci fossero elementi per una valutazione nuova. La corte d’appello, invece, ha assolto anche lui, che però nel frattempo è morto. Resta per chi ne rispondeva, tranne per Tomasello, la condanna per mafia già abbondantemente scontata da tutti tranne che da Scotto. Sarà ora la corte d’appello di Caltanissetta a dover rideterminare la pena, passaggio fondamentale per quantificare i risarcimenti dei danni che chi è stato condannato ingiustamente chiederà. Da risarcire, infatti, saranno solo i danni derivanti dalla ingiusta condanna per strage, visto che quella di mafia è definitiva. I risarcimenti potranno essere richiesti quando la sentenza di oggi diventerà definitiva. Alle battute finali del processo di revisione le due procuratrici generali avevano preso la parola per chiedere scusa alle persone condannate ingiustamente a nome delle Istituzioni. “Quali rappresentanti dello Stato, ci sentiamo in dovere di chiedere scusa, nonostante non siano nostre le responsabilità, per le condanne ingiuste inflitte nell’ambito del processo per la strage di Via D’Amelio“. Un’ammissione di responsabilità, seppure non personale, decisamente inattesa. Il 20 aprile scorso, invece, si è concluso il quarto grado del processo Borsellino, nato sempre dalle dichiarazioni di Spatuzza. Condannati all’ergastolo sono stati i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, dieci anni sono stati inflitti ai falsi pentiti Francesco Andriotta e Calogero Pulci. Prescritto, invece, Vincenzo Scarantino. I giudici, infatti, hanno riconosciuto al picciotto della Guadagna la circostanza attenuante di essere stato indotto a fare le false accuse. Resta da capire chi sia stato ad indurlo. 14 Luglio 2017 News


 

Strage di via D’Amelio. Sei ergastolani fuori dal carcere

 

La corte d’Appello di Catania ha deciso di sospendere l’esecuzione della pena per otto persone, tutte condannate all’ergastolo, per la strage in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. L’attentato avvenne a Palermo, in via D’Amelio, nel luglio del 1992. In carcere si trovavano 11 persone: tra queste, sei sono state scarcerate. Il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato aveva presentato richiesta di revisione dei processi Borsellino e Borsellino bis, dopo le rilevazioni dei pentiti Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina, le cui dichiarazioni scagionano di fatto buona parte degli imputati della cosca di Santa maria di Gesù (indicati invece da Vincenzo Scarantino come gli esecutori materiali dell’attentato di via D’Amelio).
Sei degli otto condannati hanno quindi lasciato il carcere: si tratta di Salvatore Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino e Gaetano Murana. Più complicata la posizione di Vincenzo Scarantino: inizialmente secondo i calcoli della Procura, l’imputato (che oltre a 18 anni per via D’Amelio, aveva due condanne a 9 anni per droga e a 8 per calunnia) aveva già espiato quelle pene e dunque era in cella solo per l’eccidio di via D’Amelio. Ma i conti fatti erano sbagliati: c’è stato un errore nel computo dei cosiddetti giorni premiali, corretta dal giudice dell’esecuzione che, in questo caso, è la procura generale di Roma.
Secondo il nuovo calcolo Scarantino uscirà dal carcere di Torino nel 2014. La notizia della sua imminente liberazione aveva suscitato molte preoccupazioni negli inquirenti, che avevano ipotizzato anche di organizzargli un servizio di protezione: il rientro a Palermo del falso pentito, colpevole di avere fatto condannare persone innocenti, poteva esporlo alla vendetta delle famiglie di chi è stato in carcere ingiustamente per oltre 15 anni.
La decisione della Corte d’appello di Catania è immediatamente esecutiva, quindi dopo la notifica agli istituti di pena i sei sono stati scarcerati. Scotto invece non tornerà libero perché, oltre all’ergastolo per la strage, la cui esecuzione è stata sospesa dai giudici, deve scontare due condanne definitive: una a 16 anni e 4 mesi per traffico di droga e una a 4 anni e 6 mesi per tentato omicidio.
In realtà, la richiesta di revisione dei processi è stata ritenuta inammissibile dalla corte d’Appello “per motivi tecnici e allo stato degli atti”, ma nonostante questo ha disposto la sospensione della pena e l’immediata scarcerazione, se non detenuti per altra causa, degli otto imputati. Il processo Borsellino era iniziato il 4 ottobre 1994 e aveva portato in carcere (con condanna all’egastolo) Orofino, Scotto e Profeta, mentre il Borsellino bis era stato avviato nel 1996. 28/10/11 FQ


In particolare,  le calunnie attribuito allo Scarantino si sostanziano nell’avere accusato:

 

  • Profeta Salvatore, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe e Murana Gaetano di essere stati presenti alla riunione organizzativa della strage tenutasi presso la villa di Calascibetta Giuseppe, nel corso della quale i predetti sarebbero erano rimasti fuori dal salone in compagnia del medesimo Scarantino;
  • Profeta Salvatore, di avere incaricato lo Scarantino, al termine della predetta riunione, di reperire un’autovettura di piccola cilindrata ed una sostanza contenuta in bombole comunemente utilizzata per tagliare i binari dei treni;
  • Gambino Natale, di avere avvisato lo Scarantino – il venerdì precedente alla strage – di rendersi disponibile per il trasporto della macchina all’officina di Orofino Giuseppe;
  • Vernengo Cosimo e Murana Gaetano, di aver trasportato, unitamente allo Scarantino, la Fiat 126 nel garage di Orofino Giuseppe il venerdì prima della strage;
  • Scotto Gaetano, di aver reso possibile, attraverso l’opera del fratello Pietro, l’intercettazione del telefono in uso alla madre del dott. Borsellino al fine di avere contezza degli spostamenti del magistrato alla via Mariano D’Amelio, in particolare riferendo di un incontro avvenuto, il sabato mattina precedente la strage, presso il bar Badalamenti nel quartiere della Guadagna, ove lo Scotto era giunto a bordo di una autovettura guidata dal fratello Pietro (che era rimasto in auto ad attenderlo) e dove aveva avuto un colloquio, alla presenza dello Scarantino, con Gambino Natale e Vernengo Cosimo nel quale aveva esplicitamente fatto riferimento all’avvenuta intercettazione dell’utenza telefonica attestata in via D’Amelio, e specificando altresì di averlo visto – la settimana precedente – a colloquio con le stesse persone e nello stesso bar, ove era giunto pur sempre a bordo di una vettura in compagnia del fratello Pietro;
  • Gambino Natale di avere avvisato lo Scarantino il pomeriggio del sabato antecedente alla strage di portarsi presso l’officina di Orofino Giuseppe;
  • Gambino Natale e Murana Gaetano di essere stati impegnati, unitamente allo Scarantino, nell’attività di pattugliamento nei pressi della predetta officina durante il caricamento dell’autobomba;
  • Profeta Salvatore, Vernengo Cosimo, Urso Giuseppe, nella sua qualità di elettricista, e La Mattina Giuseppe, di essere stati presenti, il pomeriggio del sabato antecedente alla strage, al caricamento dell’autobomba all’interno dell’officina di Orofino Giuseppe, dove il Vernengo, unico tra i presenti, avrebbe fatto ingresso a bordo di un’autovettura Suzuki Vitara di colore bianco;
  • La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano e Gambino Natale di aver infine partecipato, ciascuno a bordo della propria autovettura, la domenica del 19 luglio 1992 al trasferimento dell’autobomba dall’officina di Orofino Giuseppe a piazza Leoni.

Che cosa disse Spatuzza nel 1998 sulla strage di via D’Amelio

 

I passaggi del colloquio investigativo che smentiva con dieci anni di anticipo il depistaggio sui falsi colpevoli e la confessione di Scarantino

 

La cosa più importante e fino ad allora sconosciuta – ma lo sarebbe rimasta per dieci anni – che Gaspare Spatuzza disse ai magistrati Vigna e Grasso nel 1998 (in un “colloquio investigativo”di due ore che riempì 80 pagine di molti argomenti e risposte) riguardava la strage di via D’Amelio in cui venne ucciso Paolo Borsellino. Era importante perché Spatuzza smentiva e demoliva – allora senza fornire ancora riscontri alla sua versione, come invece avrebbe fatto nel 2008 iniziando a “collaborare con la giustizia” – la versione che le inchieste e i processi stavano avallando in quel periodo, che avrebbe portato alla condanna di una decina di persone sulla base di confessioni false ed estorte a Vincenzo Scarantino, che si era autoaccusato falsamente della strage in conseguenza di “pressioni e abusi” da parte di chi lo interrogò. In particolare Spatuzza negò che fossero coinvolti nell’attentato lo stesso Scarantino e Giuseppe Orofino, accusato di avere collaborato alla preparazione dell’autobomba – una 126 rubata, secondo le sentenze – nel suo garage. Questi sono i passaggi in cui ne parla:


SPATUZZA G.: OROFINO, non esiste questo.
Proc. GRASSO: OROFINO è quello che ne abbiamo parlato?
SPATUZZA G.: no, non esiste questo.
Proc. GRASSO: in che senso non esiste?
SPATUZZA G.: non esiste. Perché chi l’ha rubata, l’ha messa dentro e l’hanno preparata. Per logica stessa SCIORTINO custodiva la macchina dentro il garage; prendeva targhe da lì una macchina che ci ha in custodia lui e la mette nella macchina per andare a fare l’attentato. Poi vanno a rubare un’altra macchina.
Proc. GRASSO: uhm, e la macchina che avevano quella di OROFINO, come si spiega? Le targhe sono di OROFINO, OROFINO non sa nulla di questa storia, gli prendono le targhe, mettono in questa macchina, e poi si può andare a prepararla come autobomba, no?
SPATUZZA G.: si
Proc. GRASSO: che era di sabato o venerdì? Non si sa? E quello dell’autorimessa, non si doveva vedere, l’officina era lì? era presente? lo sapeva?
SPATUZZA G.: lui è estraneo a tutto. Aveva subito un furto.
Proc. GRASSO: lei allora dice che OROFINO non sa?
SPATUZZA G.: non esiste. Loro hanno questa situazione all’officina, e prendono per dire una macchina mia?
Dottore: e allora come è andata?
SPATUZZA G.: praticamente stu disgraziato di OROFINO fu coinvolto pirchi c’iru a rubari i targhi a notti stissu.
Proc. GRASSO: anche le targhe hanno rubato? Ma allora non si è fatta nell’officina di OROFINO la preparazione.
SPATUZZA G.: nru nru. (verosimilmente lo SPATUZZA annuisce come per dire di no).
Proc. GRASSO: e queste targhe di macchine a loro volta rubate? Oppure?
SPATUZZA G.: no, erano di macchine che OROFINO aveva nell’officina.
Proc. GRASSO: allora. OROFINO aveva le macchine, vanno a rubare nell’officina di OROFINO la targa che lui aveva dentro in riparazione. Dopo la usano per metterla nella macchina dell’autobomba, cosi è?
SPATUZZA G.: si.
Proc. GRASSO: che viene preparata in un altro luogo, e non nell’officina di OROFINO. E CIARAMITARO in questa cosa che cosa che c’entra? CIARAMITARO, mi scusi, SCARANTINO.
SPATUZZA G.: non esiste completamente.
Proc. GRASSO: non partecipa completamente?
SPATUZZA G.: non esiste.
Proc. GRASSO: e scusi, com’è che allora le cose che lui ha detto che sa?
SPATUZZA G.: lui era a Pianosa, ha ammazzato un cristiano che doveva ammazzare, e ci ficiru diri chiddu ca nu avia adiri. Toto LA BARBERA.
Proc. GRASSO: e quell’altro che era con lui, ANDREOTTI?
SPATUZZA G.: ma, di . . . . . vieninu chisti? Si sono rifatti di nuovo pentiti?
Proc. GRASSO: no, dice che poi eh, non.
SPATUZZA G.: tutti questi cinque nella stessa cordata, evidentemente.

Durante un’udienza nel processo “Borsellino quater” l’11 giugno 2013, Gaspare Spatuzza – divenuto dal 2008 “collaboratore di giustizia” – ricorderà di avere parlato di questo con i magistrati (lui dirà nel 1997): «Purtroppo si sono chiusi dei processi di cui io all’inizio potevo dare un contributo fondamentale (…) Mi volevano portare dalla parte dello Stato ma allora non ero ancora preparato: però ho inteso dare un indizio seppur lieve che per quanto riguardava la strage di via D’Amelio stavano facendo un grossissimo, grossissimo errore. Ho cercato già nel ’97 di mettere in guardia l’istituzione, a dire “siate cauti per la questione di via D’Amelio perché la storia non è così. Però non ho sentito più nessuno (….) Purtroppo hanno seguito un altro… e oggi ci troviamo qui a rifare tutto daccapo”». POST 13.7.2017

 


27 gennaio 1996,
Dal  minuto 6 e 15 secondi della lettura della sentenza  viene inquadrato un uomo che si dispera e che sbatte la testa contro le pareti della gabbia. Si tratta di Giuseppe Orofino, é  incensurato. ed è accusato di aver custodito nella sua autofficina la Fiat 126 utilizzata per l’attentato  in autobomba.

 
“VIA D’ AMELIO, 3 ERGASTOLI
L’urlo disperato di un uomo appena condannato all’ergastolo ha segnato la fine di un processo, il primo dei processi per le infami stragi siciliane del 1992. E’ stato un grido che ha gelato il sangue, soprattutto il sangue dei suoi due complici che l’hanno visto crollare, sbattere la testa contro il vetro blindato, svenire tra le braccia dei carabinieri. “Disgraziati, mi avete rubato la vita”, ha urlato ai giudici il carrozziere Vincenzo (sic!) Orofino, il “basista” della strage di via D’Amelio, quello che custodì nella sua officina l’autobomba che in una domenica di luglio uccise il procuratore Paolo Borsellino e cinque poliziotti della sua scorta. Ergastolo per il “basista”. Ergastolo per Pietro Scotto, il mafioso che intercettò le telefonate del procuratore. Ergastolo per Salvatore Profeta, il boss della Guadagna che commissionò il furto di un’utilitaria poi imbottita con quasi un quintale di tritolo. Tre ergastoli e, un attimo dopo la sentenza, nell’aula di Corte di Assise c’ è l’inferno. Il carrozziere viene trascinato per i piedi in una stanza dove accorre un medico, i familiari degli imputati cominciano a inveire contro “il pentito fasullo” e i magistrati, la sorella del “basista” morde la mano di un maresciallo dei carabinieri, i parenti delle vittime piangono in silenzio.
Dentro la gabbia, il boss della Guadagna Salvatore Profeta sembra in trance, poi sussurra con un soffio di voce mentre i carabinieri lo portano via: “Oggi, i giudici hanno fatto la strage degli innocenti”. Il primo processo agli esecutori materiali del massacro di via D’Amelio si è concluso nella tarda mattinata di ieri a Caltanissetta, dopo 27 mesi, 116 udienze e una camera di consiglio lunga 65 ore. E si è concluso con una sentenza annunciata per quei tre ergastoli e con un piccolo colpo di scena per la condanna inflitta a Vincenzo Scarantino, il pentito di questo processo, il mafioso che per conto dei boss ordinò a due balordi di rubare una Fiat 126. I pubblici ministeri Anna Palma e Carmelo Petralia avevano chiesto per Scarantino 17 anni di reclusione, la Corte di Assise presieduta da Renato Di Natale l’ha condannato a 18 anni, uno in più. Il pentito, che da tempo vive naturalmente in un luogo segreto, è stato “scarcerato” con un’ ordinanza della Corte….”  Così riferisce  La Repubblica del 28 gennaio. Il giorno dopo
 

Borsellino bis, sette ergastoli.  Credibile il pentito Scarantino

 

Condanna all’ ergastolo per sette boss della “Cupola” di Cosa Nostra, pene varianti tra dieci ed otto anni per altri dieci “picciotti” ed uno assolto. è la sentenza emessa ieri dopo 12 giorni di camera di consiglio, dalla corte d’ assise di Caltanissetta che ha giudicato i 18 imputati nel processo bis per la strage del 19 luglio del ‘ 92 nella quale furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. Una sentenza che fa a pugni con quella emessa nelle settimane scorse dalla Corte d’ assise d’ appello, nei confronti di quattro imputati del primo processo. Una sentenza contraddittoria perché quella di ieri che ha condannato all’ ergastolo Totò Riina, Giusappe Graviano, Pietro Aglieri ed altri boss, ha anche inflitto la massima pena a Gaetano Scotto (latitante) fratello di Pietro che è stato assolto nel primo processo dov’ era accusato di avere intercettato il telefono della madre del magistrato ucciso. E ad ordinarglielo sarebbe stato il fratello Gaetano Scotto. I fratelli Scotto erano stati chiamati in causa dal “pentito” Vincenzo Scarantino ritenuto poco attendibile nel primo processo e credibile in quello che si è concluso ieri. E appena letta la sentenza i pm lasciano l’ aula bunker per trasferirsi in fretta e furia in Tribunale dove era previsto l’ interrogatorio del pentito Angelo Siino nel terzo processo per la strage Borsellino. Un interrogatorio brevissimo perché, subito dopo i preliminari, Siino (uno dei protaganisti del “caso” che ha investito il procuratore aggiunto di Palermo Guido Lo Forte ed il capitano dei carabinieri, Giuseppe De Donno), si è sentito male e l’ udienza è stata rinviata al 27 febbraio. Siino era stato chiamato a deporre perché sulla strage Borsellino ha già reso lunghissime dichiarazioni, alcune già note, altre no. Dichiarazioni che sono state già acquisite agli atti del processo-ter nelle quali Siino chiama pesantemente in causa l’ ex ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, l’ ex procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, ex deputati nazionali, imprenditori siciliani e del nord Italia ed alcuni boss mafiosi. Siino ha ribadito gli interessi che Riina, Provenzano ed altri due boss, Antonino Buscemi e Vito Lipari, avevano nella Calcestruzzi spa di Raul Gardini (suicidatosi) ed ha aggiunto che la morte di Borsellino sarebbe stata “accelerata” anche per paura che il magistrato potesse scoprire questi incredibili intrecci. Il pentito ha sostenuto che l’ ex procuratore Giammanco avrebbe favorito Buscemi e Lipari su sollecitazione dei leader dc siciliani, Salvo Lima e Mario D’ Acquisto. Ma le accuse più pesanti le ha rivolte a Claudio Martelli nei confronti del quale i boss di Cosa Nostra avevano un “pesante risentimento” perché prima avrebbe chiesto voti alla mafia e poi avrebbe assunto un atteggiamento persecutorio nei confronti di Cosa Nostra. E per questo suo “voltafaccia” Siino ha rivelato che mentre era detenuto era stato sollecitato dai boss a pentirsi e a rivelare i rapporti di Claudio Martelli con Cosa Nostra. Ha anche aggiunto che nel 1989 Martelli avrebbe tentato di contattare il boss Piddu Madonia per fare cessare una sanguinosa faida a Gela che aveva provocato decine di morti.   FRANCESCO VIVIANO 


 

 

 

Dopo diciassette anni di falsità, Gaspare Spatuzza smaschera il pupo

 

Il collaboratore di giustizia che consente di smontare le falsità di Scarantino e l’impostura di un depistaggio durato diciassette anni, che aiuta ad individuare nel garage in cui viene preparata l’autobomba la presenza di un soggetto estraneo a Cosa nostra, che offre indicazioni certe e riscontri puntuali sulla strage di via D’Amelio, fatica ad ottenere ascolto.
Gaspare Spatuzza è uno dei personaggi chiave di questa storia. “Reggente” della famiglia Graviano dopo il loro arresto, catturato a Palermo il primo luglio 1997, reo confesso subito dell’omicidio di don Pino Puglisi e del rapimento del piccolo Di Matteo, nel 2008 si autoaccusa anche del furto della Fiat 126 usata per la strage di via D’Amelio. Ed è stata quest’ultima rivelazione a far crollare il “teorema Scarantino” che reggeva da 17 anni.
Sempre in quel periodo si è scoperto, per caso, che Spatuzza aveva già reso – dieci anni prima – amplissima testimonianza davanti ai giudici Vigna e Grasso (all’epoca, capo e vice della procura nazionale antimafia) che lo avevano interrogato nel 1998 nel carcere di Tolmezzo. Alla fine di quel lungo colloquio investigativo, Spatuzza però si era rifiutato di firmare il verbale, rendendolo inutilizzabile e, di fatto, permettendo al “teorema Scarantino” e alla detenzione al 41 bis di molti innocenti di durare un altro decennio (ne abbiamo riferito ampiamente nella precedente relazione di questa Commissione).

UNA DIFFICILE COLLABORAZIONE

Anche la “certificazione” dell’attendibilità di Spatuzza come collaboratore di giustizia, e il suo inserimento nel programma speciale di protezione, non hanno avuto un percorso facile: ed è ciò che ha voluto approfondire in questa indagine a Commissione Antimafia. Questa è la testimonianza offerta dall’avvocato Valeria Maffei, legale di Gaspare Spatuzza.

  • FAVA, presidente della Commissione. A proposito del colloquio investigativo che Spatuzza ebbe nel carcere dell’Aquila, con Vigna e Grasso, rispettivamente Procuratore Capo e Vice Procuratore della DNA… ebbe modo di capire, di approfondire la ragione per cui il suo assistito decise di non firmare quella deposizione, di rinviare di dieci anni abbondanti l’inizio della sua collaborazione sulla strage di via D’Amelio?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Lui mi ha sempre detto che la decisione della moglie di non seguirlo sotto protezione in quel momento fu assolutamente dirimente, lui non avrebbe mai iniziato una collaborazione all’epoca senza la moglie. Successivamente, dieci anni dopo, avendo fatto anche un percorso religioso, ha deciso di farlo indipendentemente dalla decisione della moglie… Non credo che sia stato dovuto ad altre circostanze.
  • FAVA, presidente della Commissione. La collaborazione inizia nel 2008 e il 15 giugno del 2010, la Commissione centrale del Viminale che si occupava della definizione e dell’applicazione delle misure speciali di protezione, presieduta all’epoca dall’onorevole Mantovano, decide di revocare il programma di protezione nei confronti di Spatuzza.
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Più che altro di non dargli un programma definitivo. Spatuzza aveva un programma provvisorio. Quando la Commissione si riunisce per valutare se dargli il programma definitivo, decide di non continuare il programma e quindi lui non ha più il programma di protezione, gli revocano quelli che sarebbero stati eventualmente i benefici, qualunque cosa. In sostanza decisero di non dargli un programma di protezione.
  • FAVA, presidente della Commissione. Il rilievo che fu mosso dalla Commissione fu che il riferimento a Berlusconi non sarebbe avvenuto all’interno dei 180 giorni, per questa ragione avrebbero revocato il programma.
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Però, Presidente, noi ci stupimmo, perché a fronte di moltissimi interrogatori che aveva sostenuto Spatuzza, che aveva parlato del più e del meno, aveva parlato di qualunque argomento, aveva ribaltato tutto quello a cui si era arrivato nell’arco di tantissimi processi …
  • FAVA, presidente della Commissione. Stiamo parlando di via D’Amelio…
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Sì, certo ovviamente, mi riferisco a via D’Amelio, mi riferisco a quello a cui si era arrivati, che non era la verità, e quello che Spatuzza cambiava, insomma riportava la verità. Noi la inquadrammo come una punizione… Non c’era un vero e proprio programma di protezione, solo era stato concesso il programma provvisorio dopo un anno e tre mesi che Spatuzza stava parlando… e questo programma provvisorio gli viene tolto. Quello che noi pensiamo in quel momento che è una punizione.
  • FAVA, presidente della Commissione. La sua sicurezza era garantita?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Lui era super protetto, questo sì, il problema fu che lui non ebbe modo di contrattare la famiglia, di dare una sicurezza alla propria famiglia… non aveva un euro, nessun contributo, Presidente, per un anno e tre mesi non ha percepito alcun contributo.
  • FAVA, presidente della Commissione. Cosa disse poi il TAR quando raccolse il vostro ricorso e annullò la decisione della Commissione?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Più o meno quello che le sto dicendo. Che a fronte di una frase che lui non aveva detto… semplicemente per un timore del momento, perché in quel momento, il Presidente del Consiglio era la persona che lui nominava…
  • FAVA, presidente della Commissione. Facciamo un passo indietro. Il 22 aprile del 2009 viene convocata una riunione dalla Direzione Nazionale Antimafia fra i rappresentanti di diverse procure. Spatuzza sta collaborando già da tempo, giusto?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Sì.
  • FAVA, presidente della Commissione. La sua collaborazione inizia subito ricostruendo un’ipotesi investigativa completamente diversa su via D’Amelio, giusto?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Esatto.
  • FAVA, presidente della Commissione. Lei ebbe modo poi di apprendere di questa riunione?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Noi sappiamo dopo di questa riunione, non veniamo invitati… Sappiamo che Palermo non era d’accordo sul programma. E che Caltanissetta non era d’accordo sul programma.
  • FAVA, presidente della Commissione. Palermo e Caltanissetta non erano d’accordo.
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. È così. Io vado a Palermo, parlo anche con il procuratore Messineo il quale mi fa capire che loro non sono contenti, non sono soddisfatti di questa collaborazione che tutto sommato lui a Palermo ha offerto poco o niente. Stessa impressione parlando con Caltanissetta… Spatuzza percepisce durante gli interrogatori una mancanza di fiducia, percepiamo che c’è qualcuno che ci rema contro…
  • FAVA, presidente della Commissione. E questo è il clima che lei trova sia a Palermo che a Caltanissetta?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Sì. E che non troviamo invece a Firenze. Assolutamente.
  • FAVA, presidente della Commissione. Quand’è che c’è un cambio di clima a Caltanissetta su Spatuzza? Quand’è che cominciano a credergli?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Quando ritrovano i reperti della macchina.
  • FAVA, presidente della Commissione. Senta, sull’arresto di Spatuzza c’è un particolare che ci è stato riferito anche dal dottor Grasso, quando l’abbiamo ascoltato nel 2018. Grasso dice che Spatuzza gli spiegò, durante quel colloquio investigativo, fatto pochi mesi dopo l’arresto, «…io non avevo intenzione né manifestavo alcuna volontà di resistere all’arresto, eppure sono stato preso a “pistolettate”». Spatuzza le ha mai parlato dell’episodio del suo arresto?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Sì, nel senso che lui non oppose resistenza. E che fu un arresto molto violento, questo me lo ha detto.
  • SCHILLACI, componente della Commissione. Spatuzza le parlò mai di figure estranee a Cosa nostra nel garage di via Villasevaglios?
  • MAFFEI, legale del sig. Gaspare Spatuzza. Nel garage, sì, lui vede una figura che non gli torna, che non collega a personaggi che conosceva. Lui l’ha sempre definita un’ombra, una persona non appartenente alla cerchia.

SPATUZZA CONTRO SCARANTINO

La testimonianza dell’avvocato Maffei è preziosa nel restituirci la narrazione di un percorso insolitamente travagliato: perché Spatuzza non viene creduto. Non subito, almeno. Il collaboratore di giustizia che consente di smontare le falsità di Scarantino e l’impostura di un depistaggio durato diciassette anni, che aiuta ad individuare nel garage in cui viene preparata l’autobomba la presenza di un soggetto estraneo a Cosa nostra, che offre indicazioni certe e riscontri puntuali sulla strage di via D’Amelio, fatica ad ottenere ascolto. Al punto che la Commissione ministeriale gli nega in prima battuta il programma speciale di protezione, che gli verrà – nei fatti – garantito comunque dall’amministrazione penitenziaria, come ricorda in Commissione il dottor Sebastiano Ardita, oggi consigliere togato del Csm, all’epoca dei fatti Direttore dell’Ufficio detenuti del Dap.

  • ARDITA, Consigliere del CSM. Credo Spatuzza non dava adito a possibile, come dire, fraintendimento circa la sua propensione a una sincera e spontanea collaborazione con la giustizia. Lui disse sostanzialmente “avevo cominciato a dire delle cose che riguardavano la mia sfera di competenza, la mia dimensione di responsabilità e quella del mio gruppo prima di crescere di livello volevo avere la certezza di essere creduto”, che non è una risposta malvagia per uno che collabora con la giustizia.
  • FAVA, presidente della Commissione. Ci furono ripercussioni istituzionali con il Viminale dopo la vostra decisione dal Dap di non trasferirlo nel circuito carcerario normale?
  • ARDITA, magistrato. Guardi, non ce ne furono perché loro, secondo me, capirono perfettamente che non c’era dubbio sul fatto che noi dovessimo tenere quella linea. Nel senso che la competenza a mantenere le misure interne è proprio una competenza del Dipartimento penitenziario… Io ho agito come dovevo agire, ho assicurato gli organi giudiziari che avrei mantenuto le misure di prevenzioni integrali, intatte, dopodiché se avessero avuto qualcosa da ridire l’avrebbero detto al mio Ministro e il Ministro mi avrebbe dovuto, come dire, ascoltare su questo tema, come è avvenuto tantissime altre volte e devo dire quasi mai, ricordo, che di fronte ad una posizione tecnica sono stato smentito.

Ma l’incidente di percorso con la Commissione del Viminale (che è del 2010) ha un pregresso significativo.

Siamo nella primavera del 2009, Spatuzza collabora già da un anno. A partire dal 26 giugno 2008, la sua versione sui fatti di via D’Amelio, che smonta radicalmente il teorema Scarantino, è già stata offerta ai magistrati di Firenze, Caltanissetta e Palermo. Scarantino ha cominciato a riscrivere la storia della strage di via D’Amelio quando (quasi un anno dopo, il 22 aprile 2009) la DNA riunisce i magistrati di cinque procure (Firenze, Palermo, Caltanissetta, Reggio Calabria e Milano) per una prima valutazione su quella collaborazione e, soprattutto, per esprimere un parere sull’inserimento definitivo di Spatuzza nel programma di protezione. Il tenore di quella discussione è riportato nella richiesta di archiviazione della procura di Messina – poi accolta dal GIP – per i magistrati Anna Maria Palma e Carmelo Petralia. Leggiamo:
La circostanza che la Procura di Palermo avesse inizialmente assunto un atteggiamento cauto circa la rilevanza e l’attendibilità del contributo dichiarativo di Spatuzza ha trovato conferma nel contenuto di un verbale di riunione di coordinamento “delle indagini sulle stragi siciliane del 1992”, svoltasi presso la DNA il 22.04.2009. Il motivo di quella riunione (…) era rappresentato dalla necessità di valutare l’opportunità di richiedere un programma speciale di protezione a favore dello stesso Spatuzza e dei suoi familiari. In quel verbale sono riportati due interventi del dottor Di Matteo.
Nel primo si legge: “Il dottor Di Matteo ha pure rilevato che non sempre Spatuzza, a suo giudizio, ha affermato il vero; ha aggiunto che la collaborazione di Spatuzza, a suo giudizio, non è di particolare rilevanza (…)”.
Nel suo secondo intervento, sempre alla riunione del 22.04.2009, si legge: «Il dott. Di Matteo ha manifestato la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione sia perché essa attribuirebbe alle dichiarazioni di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno, sia perché le dichiarazioni di Spatuzza potrebbero mettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, ormai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato, di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori della giustizia».

Rileggere questi verbali oggi, con la consapevolezza di quale castello di menzogne si fosse costruito muovendo dalle dichiarazioni di Scarantino, è allarmante. Si ritiene di non dover concedere il programma di protezione a Spatuzza perché la sua collaborazione «non è di particolare rilevanza» e soprattutto perché «potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti». Che è esattamente ciò che era accaduto. E che proprio Spatuzza stava aiutando a svelare.
Non solo diciassette anni spesi ad inseguire e legittimare processualmente le fantasie d’un collaboratore di giustizia indottrinato, scegliendo di non fermarsi di fronte ad una incredibile progressione di contraddizioni (su cui abbiamo lungamente scritto nella precedente relazione); ma anche il tentativo di archiviare Spatuzza come un soggetto poco credibile, perfino dannoso nel momento in cui contribuisce a mettere in discussione verità ormai acclarate: il sospetto che quelle verità fossero una somma di mistificazioni continua ad essere un pensiero rimosso, fastidioso, dannoso. Che potrebbe gettare «discredito sulle istituzioni dello Stato».
A ventinove anni dalla morte di Paolo Borsellino, se discredito si è accumulato, è proprio per quel depistaggio che, ieri come oggi, puntava a fornire una lettura rapida e confortevole (solo mafia!) sulla morte di un magistrato e di cinque agenti di polizia. DOMANI 8.11.2021


Quando Spatuzza parlò di via D’Amelio, e non successe niente per dieci anni

Che cos’è questo documento
La mattina del 26 giugno 1998 il capo della Direzione Nazionale Antimafia e il suo vice – i magistrati Pier Luigi Vigna e Piero Grasso – andarono nel carcere dell’Aquila per avere un colloquio investigativo con un mafioso che vi era detenuto, Gaspare Spatuzza. Un colloquio investigativo è un formato di interrogatorio previsto dal codice che avviene tra investigatori e detenuti, per ottenere notizie ai fini di un’indagine ma il cui contenuto non può essere usato a processo: una sorta di raccolta informale di informazioni, su cui costruire successive indagini e verifiche, e che salvo eccezioni resterà riservato.
Il verbale di quel colloquio è una trascrizione linguisticamente molto maldestra e inaccurata che fu fatta undici anni dopo, con molti palesi errori, ma racconta molte cose che erano state tenute segrete – come da norma, come per altri colloqui del genere – per sedici anni, prima di comparire per un accidente imprevisto nelle carte pubbliche di un processo nel 2013, a cui fu accluso per errore. alla trascrizione: 

Ma come può capire chiunque legga la trascrizione e le sue incertezze e i suoi vuoti, sarebbe prezioso un ascolto più accurato dell’audio originale, che la Procura di Caltanissetta – che ne è in possesso – ritiene non divulgabile, con valutazione che suona piuttosto illogica, essendo invece pubblica la sua trascrizione. Ugualmente preziosi alla comprensione di cose tuttora ignote sarebbero i contenuti degli altri colloqui investigativi con Spatuzza di quel periodo.

Chi sono i personaggi

  • Gaspare Spatuzza è un mafioso palermitano, associato alla famiglia Graviano, che era stato arrestato nel luglio 1997 dopo un conflitto a fuoco. È uno degli assassini di don Puglisi, un parroco ucciso nel 1993 per il suo impegno contro la mafia, ha partecipato al rapimento di Santino Di Matteo – il figlio tredicenne di un collaboratore giustizia che fu ucciso dopo due anni di sequestro – ed è stato condannato in primo grado all’ergastolo a Firenze per la strage di via dei Georgofili, uno degli attentati del “periodo delle bombe mafiose” tra il 1992 e il 1993, che è il tema principale del colloquio con i due magistrati. Fu in contatto fin da dopo l’arresto con gli inquirenti, e nel colloquio viene “sondato” sulla possibilità che diventi un “collaborante”. Dal verbale del colloquio si capisce che ce ne sia stato almeno un altro precedente, e che Spatuzza stia trattando con risposte molto parziali e laconiche l’eventualità di diventare un collaboratore di giustizia – succederà ufficialmente solo nel 2008, dieci anni dopo – e valutando il proprio potere contrattuale.
  • Pier Luigi Vigna, noto magistrato che condusse molte inchieste importanti, fu il Procuratore nazionale antimafia dal 1997. Fiorentino, affida la gran parte dell’interrogatorio al suo vice, anche perché siciliano e maggiore conoscitore della lingua e della cultura mafiosa. Il loro interesse principale nel colloquio è ottenere eventuali conferme all’ipotesi di un rapporto tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri con i boss mafiosi Graviano, rapporto più volte indagato negli scorsi decenni e mai confermato (Dell’Utri è stato invece condannato nel 2014 a sette anni di carcere per avere costruito un rapporto di protezione ed estorsione da parte di alcuni boss mafiosi nei confronti di Berlusconi negli anni Settanta e Ottanta). Il procuratore Vigna andò in pensione nel 2005 e morì nel 2012.
  • Piero Grasso, che allora aveva 53 anni, era il vice Procuratore nazionale antimafia. Prima era stato giudice a latere in un famoso “maxiprocesso” alla mafia alla fine degli anni Ottanta, in conseguenza del quale era stato preparato un attentato mafioso contro di lui, poi non eseguito. Nel 1999 sarà nominato Procuratore capo a Palermo e nel 2005 Procuratore nazionale antimafia, succedendo a Vigna (oggi quel ruolo è del magistrato Franco Roberti). Nel 2013 è stato eletto senatore per il Partito Democratico ed è diventato presidente del Senato.
  • “I Graviano”, sono le persone di cui si parla più spesso nel colloquio. Sono Giuseppe e Filippo Graviano, boss del quartiere Brancaccio di Palermo, che erano stati arrestati nel gennaio 1994 a Milano e che sono considerati gli ideatori della campagna di stragi di Cosa Nostra tra il 1992 e 1993 su cui Grasso e Vigna stanno indagando. I due fratelli sono figli di Michele Graviano, che secondo alcuni pentiti investì nelle aziende di Silvio Berlusconi i soldi della mafia: e la conservazione di rapporti con Berlusconi da parte dei figli Graviano, e addirittura il coinvolgimento di Berlusconi nelle loro attività criminali, sono spesso evocati da Vigna e Grasso in diverse domande fatte a Spatuzza.

La storia del documento
Il colloquio del giugno 1998 tra Vigna, Grasso e Spatuzza fu registrato. Pietro Grasso ha riferito al Post, tramite il suo portavoce, che sicuramente le informazioni rilevanti furono inviate da Vigna alle procure competenti: quindi evidentemente anche a Caltanissetta, dove erano in corso inchieste e processi sulla strage di via D’Amelio, su cui Spatuzza dice cose importantissime. Da lì in poi però non risulta in undici anni nessun atto compiuto dalla procura di Caltanissetta per dare seguito o riscontro a quello che Spatuzza disse, e che avrebbe sovvertito i risultati dei processi allora in corso e le condanne a molti anni di carcere di diversi imputati estranei alla strage. A quanto disse poi, Spatuzza non venne mai interrogato fino a dopo il 2008, quando decise ufficialmente di “collaborare con la giustizia” e le sentenze precedenti vennero smentite e ribaltate. Di questo colloquio del 1998 e del suo contenuto si è saputo solamente nel 2013, quando la trascrizione dell’audio – compiuta nel 2009 dalla procura di Caltanissetta, per le indagini seguenti al “pentimento” di Spatuzza – venne inserita “per un disguido” tra le carte del pubblico ministero nel processo “Borsellino quater” e l’avvocato di uno degli imputati la citò in aula e contribuì a renderla pubblica. Il procuratore di Caltanissetta Lari disse allora di avere ricevuto verbale e trascrizione da Grasso – divenuto intanto Procuratore nazionale antimafia – a dicembre 2008. Fu di conseguenza messa agli atti del processo e da allora è un documento pubblico, mentre non lo è ancora la registrazione originale del colloquio. La trascrizione del colloquio è molto trascurata, frammentata, incompleta: ma è stata mantenuta in originale salvo la correzione di pochi palesi refusi.  IL POST 13 luglio 2017

 

 

1998 – Secondo il PM ANTONINO DI MATTEO la ritrattazione di SCARANTINO era “sicuramente falsa”


15 dicembre 1998 – CALTANISETTA – Processo bis per la strage di Via D’Amelio (omicidio del giudice Paolo Borsellino)

 

Passaggi chiave tratti dalla requisitoria del pm ANTONINO DI MATTEOsulla sua (non creduta)  ritrattazione del falso pentito VINCENZO  SCARANTINO.


La ritrattazione dello Scarantino viene per converso confermata nel merito dal pentito Gaspare Spatuzza, 
tanto da condizionare gli esiti del Borsellino Quater,produrre l’annullamento delle condanne all’ergastolo erogate e provocare l’avvio del c.d.  “Processo depistaggio” la cui requisitoria del PM è in corso in questi giorni a Caltanisetta.

AUDIZIONE pm Di Matteo in Commissione Antimafia 13.9.2017


AUDIZIONE AL CSM 17.9.2018  Di Matteo: 

  • “Tutti abbiamo bisogno di un contributo di chiarezza rispetto alla ostinata reiterazione di falsità e ingiuste generalizzazioni che da tempo vengono diffuse e rilanciate con grande clamore mediatico…”  
  • “Siamo ad un passo dalla verità anche sotto il profilo del movente e della presenza di madanti esterni a Cosa nostrae ci siamo arrivati grazie e soprattutto al lavoro fatto a Caltanisetta nel Borsellino Ter e a Palermo nel processo Trattativa Stato-mafia”
  • Siamo ad un passo della verità anche grazie a me e ad altri magistrati“
  • “Il depistaggio non inizia con la collaborazione di Scarantino ma inizia con le prove oggi ritenute false che portano ad incriminare Scarantino
  • “I fatti vengono mistificati quotidianamente da parte di qualcuno“
  • “Non ho mai saputo nulla dei colloqui investigativi con Scarantino”
  • “Scarantino aveva detto anche cose vere. Probabilmente gli sono state suggerite da qualcuno“

Nell’audizione davanti al CSM il magistrato ha inoltre riferito sulle “anomalie” denunciate da  Fiammetta Borsellino

 

 

dalle CRONACHE di allora


Mafia, condannati ex ergastolani accusati da Scarantino della strage di via D’Amelio

 

Furono condannati ingiustamente all’ergastolo per la strage di via D’Amelio, ma dopo essere tornati in libertà Giuseppe Urso, detto Franco, e Cosimo Vernengo, avevano ripreso la guida di cosa nostra nel mandamento palermitano di Santa Maria di Gesù.
Questa sera le condanne: 15 anni per Urso, 14 per Vernengo. Con loro sono stati riconosciuti colpevoli anche altri tre imputati e tre sono stati assolti.Giuseppe Tinnirello ha avuto 5 anni, Giuseppe Confalone 2 anni e 8 mesi, Giovanni Acquaviva un anno (rispondeva di favoreggiamento).
Scagionati Antonino Capizzi, che rispondeva di trasferimento fraudolento di valori come Giuseppe Ribaudo, e Gaetano Dell’Oglio, imputato di favoreggiamento. La terza sezione del Tribunale di Palermo, presieduta da Fabrizio La Cascia, ha accolto in gran parte le richieste dei pm della Direzione distrettuale antimafia, Dario Scaletta e Felice De Benedittis.
Tornati in libertà dopo l’inizio della revisione del loro processo, in cui erano stati condannati alla massima pena sulla base delle accuse del falso pentito Vincenzo Scarantino, Vernengo e Urso erano tornati a essere «promotori» delle attività mafiose. L’inchiesta Falco fu condotta dal Ros e dai carabinieri del Comando provinciale di Palermo. Il clan era capeggiato dal boss Salvatore Profeta, scomparso nel 2016, anche lui coinvolto nel processo per la strage Borsellino da Scarantino, che peraltro era suo cognato.
Anche lui, tornato in libertà, dopo essere stato scagionato nel processo di revisione, aveva ripreso le leve del comando ed era finito nell’indagine. Non solo per mafia: era stato coinvolto infatti come mandante dell’omicidio di Mirko Sciacchitano (ottobre 2015), morendo prima del processo. 20.12.2019 GAZZETTA DEL SUD


Mafia, arresti a Palermo: c’è anche uomo scagionato per strage di Via D’Amelio

 

C’e’ anche uno dei sette ergastolani condannati e poi scagionati dal processo per la strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino tra i sei fermati dai carabinieri nell’ambito dell’inchiesta, coordinata dalla Dda di PALERMO, che ha fatto luce su un omicidio dell’ottobre scorso. Si tratta di Natale Gambino finito in cella […]
C’e’ anche uno dei sette ergastolani condannati e poi scagionati dal processo per la strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino tra i sei fermati dai carabinieri nell’ambito dell’inchiesta, coordinata dalla Dda di PALERMO, che ha fatto luce su un omicidio dell’ottobre scors. 
Si tratta di Natale Gambino finito in cella insieme a Giuseppe Greco, gia’ arrestato e condannato per associazione mafiosa. I due, intercettati, parlano esplicitamente del rinnovo dei vertici dell’associazione mafiosa. 2016


GAETANO SCOTTO: il boss misterioso dell’Arenella.
Gaetano Scotto è considerato uno dei boss più misteriosi delle zone di Arenella-Aquasanta. Fu arrestato per la prima volta nel 2001, in Liguria, dopo che le forze dell’ordine erano sulle sue tracce da nove anni. Scotto è stato indagato nell’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio, ma fu assolto. Fin da subito, fu individuato tra i principali uomini che intrattenevano rapporti segreti tra la mafia e i servizi segreti deviati. In una recente operazione, condotta dalla Dia di Palermo, e denominata White Shark, Scotto è stato nuovamente arrestato, ed è emerso che dal 2016, poco dopo uscito di prigione, aveva ripreso il comando del clan mafioso. Dalle indagini è risultato che il boss percepiva il reddito di cittadinanza e che per evitare di cadere sotto ai riflettori, aveva rinunciato ad accupare cariche importanti all’interno dell’organizzazione mafiosa. Nel quartiere, appena Gaetano é stato scarcerato, diversi cittadini si sono rivolti a lui per risolvere determinati “problemi”, a tal proposito riferí alla fidanzata che la gente fosse contenta di lui. Subito dopo la sua scarcerazione, gli è stata dedicata una processione, nel corso della festa di Sant’Antonio, infatti, Scotto affermò che per far passare il Santo aspettavano solo lui.  Il Quarto Stato 7.7.2021

Mafia, preso (con altri sette) il boss dei misteri Gaetano Scotto 

 

La Direzione investigativa antimafia (Dia) di Palermo ha eseguito un provvedimento restrittivo emesso nei confronti di otto presunti affiliati alla famiglia mafiosa dell’Arenella, una delle più rappresentative del mandamento di Palermo-Resuttana. Sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa ed altri reati. Il Gip di Palermo ha accolto la conforme richiesta avanzata dalla Procura distrettuale di Palermo (Procuratore […]

La Direzione investigativa antimafia (Dia) di Palermo ha eseguito un provvedimento restrittivo emesso nei confronti di otto presunti affiliati alla famiglia mafiosa dell’Arenella, una delle più rappresentative del mandamento di Palermo-Resuttana. Sono accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa ed altri reati. Il Gip di Palermo ha accolto la conforme richiesta avanzata dalla Procura distrettuale di Palermo (Procuratore aggiunto Salvatore De Luca e Sostituti Amelia Luise e Laura Siani) disponendo ha l’arresto in carcere per Gaetano Scotto, 68 anni; Francesco Paolo Scotto, 73 anni; Pietro Scotto; Antonino Scotto, 41 anni; Vito Barbera,48 anni; Giuseppe Costa, 48 anni; Paolo Galioto, 29 anni. I reati contestati, sono tra gli altri, associazione mafiosa, estorsione aggravata, favoreggiamento. Arresti domiciliari, invece, per Antonino Rossi, 37 anni. A quest’ultimo viene contestata l’intestazione fittizia aggravata in concorso con Gaetano Scotto del locale ‘White club’ un pub alla moda all’interno del rimessaggio “Marina Arenella” di Palermo., per cui è stato disposto il sequestro preventivo. Nel corso dell’operazione White Shark a Palermo, sono stati arrestati anche i tre fratelli Gaetano, Pietro e Francesco Paolo Scotto. Gaetano Scotto e’ una delle dieci persone accusate ingiustamente della strage di via D’Amelio e adesso parte civile nel processo sul depistaggio che è in corso a Caltanissetta. Anche, Pietro, tecnico di una società di telefonia, e’ stato coinvolto nell’inchiesta sull’uccisione di Paolo Borsellino. Era stato accusato di aver captato la chiamata con cui il magistrato comunicava alla madre che stava per andare a farle visita nella sua abitazione di via D’Amelio. Pietro Scotto, condannato in primo grado, era stato poi assolto in appello. Gaetano Scotto e’ indagato anche per l’omicidio dell’agente di polizia Nino Agostino e della moglie Ida insieme al boss Nino Madonia. Nei giorni scorsi il procuratore generale Roberto Scarpinato, ha inviato un avviso di chiusura indagine, che prelude a una richiesta di rinvio a giudizio. Agostino e la moglie furono assassinati davanti alla loro casa di villeggiatura a Villagrazia di Carini la sera del 5 agosto 1989. In questi 31 anni l’inchiesta si e’ dovuta confrontare con molte ombre e con tentativi di depistaggio contro i quali si e’ battuto il padre di Nino, Vincenzo Agostino. Scotto ha sempre negato di appartenere alla mafia e di essere coinvolto nell’omicidio di Villagrazia di Carini.

 

 

 

a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF