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Le lettere di Messina Denaro, alias Alessio, a Bernardo Provenzano
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Bernardo Provenzano, detto Binnu u’ Tratturi (Bernardo il trattore, per la violenza con cui falciava le vite dei suoi nemici), Zu Binnu (Zio Binnu) e Il ragioniere[1] (Corleone, 31 gennaio1933 – Milano, 13 luglio2016[2][3]), membro di Cosa nostra e considerato il capo dell’organizzazione a partire dal 1995 fino al suo arresto, avvenuto nel 2006. Arrestato l’11 aprile 2006[4] in una masseria a Corleone, era ricercato da oltre quarant’anni, dal 10 settembre 1963[5]. In precedenza era già stato condannato in contumacia a tre ergastoli e aveva altri procedimenti penali in corso. Nato a Corleone da una famiglia di agricoltori, terzo di sette figli[6], venne ben presto mandato a lavorare nei campi come bracciante agricolo insieme con il padre Angelo, abbandonando presto la scuola (non finì la seconda elementare). Fu in questo periodo che cominciò una serie di attività illegali, specialmente abigeato e il furto di generi alimentari, e si legò al mafiosoLuciano Liggio, che lo affiliò alla cosca mafiosa locale. Nel 1954 venne chiamato per il servizio militare ma venne dichiarato “non idoneo” e quindi riformato[7]. Secondo le indagini dell’epoca dei Carabinieri di Corleone, in quel periodo cominciò a occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato nei terreni della società armentizia di contrada “Piano di Scala” a Corleone, insieme con Liggio e la sua banda[8]. Il 6 settembre 1958Provenzano partecipò a un conflitto a fuoco contro i mafiosi avversari Marco Marino, Giovanni Marino e Pietro Maiuri, in cui rimase ferito alla testa e arrestato dai Carabinieri, che lo denunciarono anche per furto di bestiame e formaggio, macellazione clandestina e associazione per delinquere[7][8].
Il 10 settembre 1963 i Carabinieri di Corleone lo denunciarono per l’omicidio del mafioso Francesco Paolo Streva (ex sodale di Michele Navarra) ma anche per associazione per delinquere e porto abusivo di armi[7]: Provenzano si rese allora irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza[9]. Nel 1969 venne assolto in contumacia per insufficienza di provenel processo svoltosi a Bari per gli omicidi avvenuti a Corleone a partire dal 1958[8]. Secondo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, Provenzano partecipò alla cosiddetta «strage di viale Lazio» (10 dicembre 1969), che doveva punire il boss Michele Cavataio: durante il conflitto a fuoco, Provenzano rimase ferito alla mano ma riuscì lo stesso a sparare con la sua Beretta MAB 38; Cavataio rimase a terra ferito e Provenzano lo stordì con il calcio della Beretta, finendolo a colpi di pistola[10][11][12]. Sempre secondo Calderone, Provenzano «era soprannominato “u’ viddanu” e anche “u’ tratturi”. È stato soprannominato “u’ tratturi” da mio fratello con riferimento alle sue capacità omicide e con particolare riferimento alla strage di viale Lazio, nel senso che egli tratturava tutto e da dove passava lui “non cresceva più l’erba”»[13]. Secondo i collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, nel 1974 Riina e Provenzano divennero i reggenti della famiglia di Corleone dopo l’arresto di Liggio, ricevendo anche l’incarico di reggere il relativo “mandamento“[13][14]. Nel marzo 1978Giuseppe Di Cristina, capo della Famiglia di Riesi, si mise in contatto con i Carabinieri e dichiarò che «Riina Salvatore e Provenzano Bernardo, soprannominati per la loro ferocia “le belve”, sono gli elementi più pericolosi di cui dispone Luciano Liggio. Essi, responsabili ciascuno di non meno di quaranta omicidi, sono stati gli assassini del vice pretore onorario di Prizzi» ed erano anche responsabili «su commissione dello stesso Liggio, dell’assassinio del tenente colonnello Giuseppe Russo»[13]; in particolare, Di Cristina dichiarò che Provenzano «era stato notato in Bagheria a bordo di un’autovettura Mercedes color bianco chiaro alla cui guida si trovava il figlio minore di Brusca Bernardo da San Giuseppe Jato»[13]. Secondo le indagini dell’epoca dei Carabinieri di Partinico, Provenzano trascorreva la sua latitanza prevalentemente nella zona di Bagheria ed effettuava ingenti investimenti in società immobiliari, attraverso prestanome, per riciclare il denaro sporco; sempre secondo le indagini, le società immobiliari restarono in intensi rapporti economici con la ICRE, una fabbrica di metalli di proprietà di Leonardo Greco (indicato dal collaboratore di giustizia Totuccio Contorno come il capo della Famiglia di Bagheria)[13].
Nel 1981 Provenzano e Riina scatenarono la cosiddetta seconda guerra di mafia, con cui eliminarono i boss rivali e insediarono una nuova “Commissione“, composta soltanto da capimandamento a loro fedeli[13][15]; durante le riunioni della “Commissione”, Provenzano partecipò alle decisioni e all’organizzazione di numerosi omicidi come esponente influente del mandamento di Corleone[15][16] e protesse più volte con l’intimidazione la carriera politica di Vito Ciancimino, principale referente politico dei Corleonesi[17][18]: infatti negli anni successivi il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè dichiarerà che Riina e Provenzano «non si alzavano da una riunione se non quando erano d’accordo»[15].
Nel 1993, dopo l’arresto di Riina, Provenzano fu il paciere tra la fazione favorevole alla continuazione degli attentati dinamitardi contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano) e l’altra contraria (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Matteo Motisi, Benedetto Spera, Antonino Giuffrè, Pietro Aglieri)[19]: secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, Provenzano riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in “continente”, mentre l’altro collaboratore Salvatore Cancemi dichiarò che, durante un incontro, lo stesso Provenzano gli disse che “tutto andava avanti” riguardo alla realizzazione degli attentati dinamitardi a Roma, Firenze e Milano, che provocarono numerose vittime e danni al patrimonio artistico italiano[19][20]. Dopo l’arresto di Leoluca Bagarella, Provenzano propose a Giovanni Brusca di prendere il comando sui corleonesi, in cambio egli ricevette l’investitura a capo dei capi In modo da poter avviare la cosiddetta “strategia della sommersione” perché mirava a rendere Cosa Nostra invisibile dopo gli attentati del 1992-93, limitando al massimo gli omicidi e le azioni eclatanti per non destare troppo l’attenzione delle autorità al fine di tornare a sviluppare gli affari leciti e illeciti: tale strategia venne decisa nel corso di alcuni incontri a cui parteciparono lo stesso Provenzano insieme con i boss Benedetto Spera, Nino Giuffrè, Tommaso Cannella e il geometra Pino Lipari, il quale non era ritualmente “punciutu” ma poteva partecipare agli incontri perché era il prestanome più fidato di Provenzano.[15]
Il 22 luglio 1993Salvatore Cancemi, reggente del “mandamento” di Porta Nuova, si consegnò spontaneamente ai Carabinieri e decise di collaborare con la giustizia, dichiarando che la mattina successiva avrebbe dovuto incontrarsi con il latitante Pietro Aglieri (capo del “mandamento” di Santa Maria di Gesù), per poi raggiungere Provenzano in una località segreta, offrendosi di aiutarli a organizzare una trappola; l’informazione però venne considerata non veritiera dai Carabinieri, i quali erano convinti che Provenzano fosse morto poiché dopo un decennio la moglie e i figli erano tornati a vivere e a lavorare a Corleone, decidendo quindi di non sfruttare l’occasione[13].
Bernardo Provenzano al momento dell’arresto nel 2006Le indagini che portarono all’arresto di Provenzano si incentrarono sull’intercettazione dei “pizzini”, i biglietti con cui comunicava con la compagna e i figli, il nipote Carmelo Gariffo e con il resto del clan. Dopo l’intercettazione di questi pizzini e alcuni pacchi contenenti la spesa e la biancheria, movimentati da alcuni staffettisti di fiducia del boss[21], i poliziotti della Squadra mobile di Palermo guidati da Giuseppe Gualtieri e gli agenti della Sco riuscirono a identificare il luogo in cui si rifugiava[5][22]. Individuato il casolare, gli agenti monitorarono il luogo per dieci giorni attraverso microspie e intercettazioni ambientali, per avere la certezza che all’interno vi fosse proprio Provenzano. L’11 aprile 2006 le forze dell’ordine decisero di eseguire il blitz e l’arresto, a cui Provenzano reagì senza opporre resistenza, limitandosi a chiedere che gli venisse fornito l’occorrente per le iniezioni che doveva effettuare in seguito all’operazione alla prostata[23]. Il boss confermò la propria identità complimentandosi e stringendo la mano agli uomini della scorta e venne scortato alla questura di Palermo. Il questore di Palermosuccessivamente confermò che per giungere alla cattura le autorità non si erano avvalse né di pentiti né di confidenti[5]. Il casolare (il proprietario del quale venne arrestato) in cui viveva il boss era arredato in maniera spartana, con il letto, un cucinino, il frigo e un bagno, oltre che una stufa e la macchina da scrivere con cui il boss compilava i pizzini[23]. Dopo il blitz, venne portato alla questura di Palermo e poi al supercarcere di Terni, sottoposto al regime carcerario dell’art. 41 bis. Dopo un anno di carcere a Terni, a seguito di alcuni malumori degli agenti di Polizia Penitenziaria che si occupavano della sua detenzione, venne trasferito al carcere di Novara[24]. Dal carcere di Novara tentò più volte di comunicare in codice con l’esterno[25][26]. Il ministero della Giustizia decise allora di aggravare la durezza della condizione detentiva, applicandogli, in aggiunta al regime di 41 bis, il regime di “sorveglianza speciale” (14-bis) dell’ordinamento penitenziario, con ulteriori restrizioni, come l’isolamento in una cella in cui erano vietate televisione e radio portatile[25].
Il 19 marzo 2011venne confermata la notizia che Bernardo Provenzano era affetto da un cancro alla vescica. Lo stesso giorno venne annunciato il suo trasferimento dal carcere di Novara a quello di Parma, dove il 9 maggio 2012 l’ex boss tentò il suicidio infilando la testa in una busta di plastica, con l’obiettivo di soffocarsi. Il tentativo venne sventato da un agente di polizia penitenziaria.[27]
Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all’indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, chiese il rinvio a giudizio di Provenzano e altri 11 indagati accusati di concorso esterno in associazione di tipo mafioso e “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”. Gli altri imputati erano i politici Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri, gli ufficiali Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Salvatore Riina, Leoluca Bagarellae Antonino Cinà, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (anche “calunnia”) e l’ex ministro Nicola Mancino (“falsa testimonianza”).[28]
Il 23 maggio 2013 la trasmissione televisiva Servizio pubblico mandò in onda un video che ritrae Provenzano nel carcere di Parma durante un colloquio con la compagna e il figlio minore, il 15 dicembre 2012. Nel video l’ex boss appare fisicamente irriconoscibile, affaticato e mentalmente confuso, tanto da non riuscire a tenere in mano correttamente la cornetta del citofono per parlare con il figlio e nemmeno a spiegargli con chiarezza l’origine di un’evidente contusione al capo: prima dichiara di essere stato vittima di percosse, poi di essere caduto accidentalmente[29]. Il 26 luglio dell’anno seguente la procura di Palermo diede il via libera alla revoca del regime di 41-bis a cui Provenzano era sottoposto, imputandola a condizioni mediche.[30]
A causa dell’aggravarsi delle stesse, il 9 aprile 2014 venne ricoverato all’Ospedale San Paolo di Milano, proveniente dal centro clinico degli istituti penitenziari di Parma. Nell’estate 2015 la Cassazione riconfermò il regime di 41 bis presso la camera di massima sicurezza dell’ospedale milanese, respingendo l’istanza dei legali di Provenzano di spostarlo nel reparto riservato ai detenuti ordinari, in regime di detenzione domiciliare. Motivazione di questa decisione fu la tutela del diritto alla salute del detenuto, ritenendo la Corte Suprema che l’esposizione alla promiscuità dell’altro reparto (peraltro non attrezzato ad assicuragli un’assistenza sanitaria efficace come quella di cui godeva nella camera di massima sicurezza) l’avrebbe messo a “rischio sopravvivenza”.[31]
Morì all’ospedale San Paolo di Milano il 13 luglio 2016, all’età di 83 anni.[32][33][34] Il questore di Palermo dispose che “per ragioni di ordine pubblico” venissero vietati i funerali (esequie in chiesa e corteo funebre) e qualsiasi altra cerimonia in forma pubblica, concedendo ai familiari di accompagnare la salma al cimitero di Corleone soltanto in forma privata.[35] Compagna e figli optarono per farlo cremare a Milano, per poi traslare personalmente l’urna cineraria al cimitero di Corleone, dove il 18 luglio venne tumulato nella tomba di famiglia.[36]
Il 26 ottobre 2018 la Corte europea per i diritti dell’uomo ha condannato la Repubblica Italiana per aver rinnovato il 41 bis a Bernardo Provenzano in punto di morte, violando, secondo i giudici, il diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. [37]
- Nel 1995, nel processo per l’omicidio del tenente colonnello Giuseppe Russo, Provenzano venne condannato in contumaciaall’ergastolo insieme con Salvatore Riina, Michele Greco e Leoluca Bagarella;
- lo stesso anno, nel processo per gli omicidi dei commissari Beppe Montanae Antonino Cassarà, venne pure condannato in contumacia all’ergastolo insieme con Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Salvatore Riina.
- Seguì il processo per gli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio La Torree Michele Reina, nel quale gli viene inflitto un ulteriore ergastolo in contumacia insieme con Michele Greco, Bernardo Brusca, Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci[38].
- Sempre nel 1995, nel processo per l’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, del capo della mobile Boris Giuliano, e del professor Paolo Giaccone, Provenzano venne condannato all’ergastolo in contumaciainsieme con Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Nenè Geraci e Francesco Spadaro[39].
- Nel 1997, nel processo per la strage di Capaciin cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e la scorta, Provenzano venne condannato all’ergastolo in contumacia insieme con i boss Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Nenè Geraci, Benedetto Spera, Nitto Santapaola, Salvatore Montalto, Giuseppe Graviano e Matteo Motisi[40].
- Lo stesso anno, nel processo per l’omicidio del giudice Cesare Terranova, Provenzano ricevette un altro ergastolo in contumaciainsieme con Michele Greco, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Nenè Geraci, Francesco Madonia e Salvatore Riina[41].
- Nel 1999Provenzano venne condannato all’ergastolo in contumacia nel processo contro i responsabili della strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque dei suoi uomini di scorta; insieme con lui vennero condannati alla stessa pena i boss Giuseppe “Piddu” Madonia, Nitto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Nino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe Montalto, Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Salvatore Biondo, Cristoforo Cannella, Domenico Ganci e Stefano Ganci[42].
- Nel 2000subì un’ulteriore condanna in contumacia all’ergastolo insieme con Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarellae salvatore Riina per gli attentati dinamitardi del 1993 a Firenze, Milano e Roma[43].
- Nel 2002la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò Provenzano in contumacia all’ergastolo per l’omicidio del giudice Rocco Chinnici insieme con i boss Salvatore Riina, Raffaele Ganci, Antonino Madonia, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Salvatore e Giuseppe Montalto, Stefano Ganci e Vincenzo Galatolo[44].
- Nel 2009ricevette un altro ergastolo insieme con Salvatore Riina per la strage di viale Lazio[45].
Il 31 ottobre 1995 il boss Luigi Ilardo (reggente mafioso della provincia di Caltanissetta) divenne confidente del colonnello Michele Riccio del ROS e gli rivelò che avrebbe incontrato Provenzano in un casolare nei pressi di Mezzojuso; Riccio allertò il colonnello Mario Mori ma non gli furono forniti uomini e mezzi adeguati per intervenire, cosicché non riuscì a localizzare con esattezza il casolare indicato da Ilardo. Successivamente, il 10 maggio 1996, poco dopo aver cominciato la sua collaborazione con la giustizia, Ilardo venne ucciso[46]. Riccio accusò Mori e i suoi superiori di aver trattato la faccenda con superficialità, dando inizio a varie inchieste giudiziarie che ancora non hanno chiarito la vicenda[46].
Nel novembre 1998gli agenti del ROS dei Carabinieri condussero l’indagine denominata “Grande Oriente”, che era partita dalle confidenze rese da Ilardo e portò all’arresto di 47 persone, accusate di attività illecite e di aver favorito la latitanza di Provenzano; tra gli arrestati figurarono anche Simone Castello e l’imprenditore bagherese Vincenzo Giammanco, accusato di essere prestanome di Provenzano nella gestione dell’impresa edile “Italcostruzioni SpA”[47][48][49].
Nel novembre 2003 venne arrestato l’imprenditore Michele Aiello, accusato di essere il prestanome di fiducia di Provenzano[50]: infatti, secondo il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, Provenzano aveva investito denaro sporco nella clinica Villa Santa Teresa, centro oncologico all’avanguardia a Bagheria di proprietà di Aiello[51][52][53]. Per queste ragioni, nel 2011 Aiello verrà condannato in via definitiva a quindici anni e mezzo di carcere per associazione di tipo mafioso, corruzione e accesso abusivo alla rete informatica della Procura[54][55].
Nel gennaio 2005 la DDA di Palermo coordinò l’indagine “Grande mandamento”, condotta dagli agenti del Servizio Centrale Operativo e del ROS dei Carabinieri, che portò all’arresto di 46 persone nella provincia di Palermo, accusate di aver favorito la latitanza di Provenzano e di aver gestito il recapito dei pizzini destinati al latitante[56]; l’indagine rivelò anche che nel 2003 alcuni mafiosi di Villabate avevano aiutato Provenzano a farsi ricoverare in una clinica di Marsigliaper un’operazione chirurgica alla prostata, fornendogli documenti falsi per il viaggio e il ricovero[57]. Uno degli arrestati, Mario Cusimano (ex imprenditore di Villabate), cominciò a collaborare con la giustizia e rivelò agli inquirenti che la carta d’identità usata da Provenzano per andare a Marsiglia era stata timbrata da Francesco Campanella, ex presidente del consiglio comunale di Villabate[58]: nel settembre 2005 anche Campanella cominciò a collaborare con la giustizia e confermò di essere stato lui a timbrare il documento[59][60].
Nel 2006 si verificò un tentativo di depistaggio: il 31 marzo 2006 (11 giorni prima dell’arresto) il legale del boss latitante annunciò la morte del suo assistito[61], subito smentita dalla DIA di Palermo[9].
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- ^Rimane in carcere Michele AielloGazzetta del Sud.it
- ^Blitz contro il clan Provenzano “Il boss ha notizie sulle indagini” – la Repubblica.it
- ^Provenzano, il boss operato in Francia – la Repubblica.it
- ^‘Io, fedelissimo di Provenzano vi racconto i segreti del boss’ – la Repubblica.it
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- ^Chiusa inchiesta su Angelo Provenzano, figlio di Provenzano
- ^Il figlio di Provenzano diventa dottore
MANCATA CATTURA DI PROVENZANO A MEZZOJUSO, COSA SUCCESSE IL 31 OTTOBRE 1995 Ricostruiamo prologo, svolgimento e risoluzione di quel 31 ottobre 1995, il giorno in cui, secondo quanto indicato da Luigi Ilardo al colonnello Riccio, di cui era confidente, avrebbe dovuto incontrare il boss latitante Bernardo Provenzano.
Tutto inizia, come descritto dallo stesso colonnello Riccio nell’informativa “Grande Oriente” quando «la sera del 29 Ottobre 1995, lo scrivente veniva contattato telefonicamente dalla fonte che gli faceva comprendere di avere incontrato il FERRO Salvatore, il quale gli aveva dato appuntamento per le prime ore del Martedì 31.10.1995 al bivio di Mezzojuso, unitamente ed al VACCARO Lorenzo. Consigliava, pertanto, di raggiungerlo al più presto in quanto l’incontro poteva avere importanti sviluppi anche in direzione di PROVENZANO. Lo scrivente, rappresentata superiormente l’esigenza, si recava in Sicilia e la sera del 30 ottobre aveva modo di incontrare il confidente. La fonte gli confermava quanto già detto, ritenendo che l’appuntamento era propedeutico ad incontrare il PROVENZANO». La circostanza è confermata dal generale Mori, nelle dichiarazioni spontanee rese dal Generale Mori il 7 giugno 2013, nel corso del procedimento che vedeva imputato, oltre allo stesso Generale Mori anche il Colonnello Mario Obinu, il quale afferma che «il 30 ottobre 1995, Riccio si presentò al ROS comunicandomi che la sera prima la sua fonte, denominata “Oriente”, da lui gestita a lungo e positivamente durante il periodo di permanenza alla DIA, lo aveva informato di essere stato contattato da Ferro Salvatore e Vaccaro Lorenzo, noti esponenti mafiosi, rispettivamente dell’agrigentino e del nisseno, che l’avevano convocata per un appuntamento, fissato per le prime ore dell’indomani 31.10.1995, presso il bivio di Mezzojuso, sulla strada di scorrimento veloce Palermo – Agrigento». Quali azioni furono le azioni intraprese per quel 31 ottobre 1995 si evince sia dalle dichiarazioni di Mori «nel corso di una riunione estemporaneamente indetta, alla luce delle indicazioni disponibili, malgrado la sostanziale incertezza su partecipanti, terreno e modalità dell’incontro – fattori questi determinanti ai fini dell’efficace adozione di una qualsivoglia scelta operativa – preliminarmente mi orientai sull’ipotesi di approntare un dispositivo che potesse eventualmente procedere al pedinamento dell’Ilardo e dei suoi accompagnatori, dal luogo dell’appuntamento sino al successivo intervento, qualora in una delle fasi del servizio si fosse riscontrata la presenza del Provenzano. Riccio, però, si mostrò decisamente contrario a tale soluzione, chiedendo un tipo di servizio mirato all’esclusiva documentazione dell’incontro al bivio di Mezzojuso, mediante l’osservazione a distanza dell’evento e la sua ripresa fotografica. Ciò anche in relazione all’indeterminatezza dei dati disponibili, con particolare riferimento alla località teatro dell’ipotizzato incontro ed alle modalità con cui il contatto si sarebbe potuto sviluppare. Tale soluzione, sollecitata a detta di Riccio anche dall’Ilardo, sarebbe servita a non fare sorgere sospetti sulla fonte, permettendogli, in prospettiva, di acquisire la piena fiducia degli interlocutori» ma e anche nell’informativa “Grande Oriente” a firma del colonnello Riccio in cui si legge che «dati i tempi ristretti di preavviso e non essendo pronto il materiale tecnico idoneo a garantire la cattura del latitante, in considerazione anche che l’incontro sarebbe avvenuto in territorio sconosciuto, in quanto in quel periodo il Provenzano si era allontanato da Bagheria, si decideva solo di pedinare il confidente. Servizio che veniva sospeso, allorquando, ci si accorgeva che i mafiosi, che proteggevano il latitante, stavano attuando manovre tese a verificare la presenza di eventuali servizi di pedinamento». Illuminante, per capire cosa sia successo esattamente quel 31 ottobre 1995 è la “Relazione di servizio del 31.10.1995” del ROS redatta dal colonnello Riccio in cui si legge che «lo scrivente Ten. Colonnello RICCIO Michele, nelle prime ore della mattina del 31 ottobre 1995, si recava, con personale della Sezione Anticrimine di Caltanissetta, messogli alle sue dipendenze, presso il bivio di Mezzojuso, sito sullo scorrimento veloce Palermo – Agrigento. Lo scopo del servizio era quello di verificare se effettivamente si realizzasse quanto segnalato il giorno prima dalla “fonte”. Il confidente aveva riferito che si sarebbe dovuto incontrare FERRO Salvatore e VACCARO Lorenzo, per effettuare, probabilmente, un appuntamento con PROVENZANO Bernardo». Per il servizio per il 31 ottobre 1995 veniva quindi predisposta «una aliquota di osservazione fissa, composto da due militari, dotati di attrezzatura fotografica» oltre a «un dispositivo dinamico, posto più lontano, pronto ad intervenire se si realizzavano le condizioni necessarie per effettuare un pedinamento senza che ne venisse pregiudicato l’esito e di conseguenza pregiudicata la tutela della “fonte” la cui identità era nota solo allo scrivente».
Lo svolgimento del servizio, sempre sulla base di quanto scritto dal colonnello Riccio nella succitata Relazione di Servizio fu il seguente:
«Il servizio aveva inizio alle ore 5,00 del 31 ottobre 1995 ed aveva il seguente esito:
– alle h. 7.55 giungevano sul luogo di interesse (bivio di Mezzojuso) due autovetture, una Fiat Uno tg. CL 17671O ed un fuoristrada Suzuki tg. SR 335003.
Dalle macchine scendevano due persone, in particolare dal fuoristrada scendeva una persona anziana mentre dalla Fiat Uno una persona giovane, le quali assumevano posizione di attesa su una stradina sopra lo scorrimento, di fronte al bivio di interesse. Le due autovetture, condotte da altre persone, si allontanavano m direzione di Agrigento;
– alle h. 8.05 giungeva un’autovettura Ford Escort, vecchio tipo, tg. PA, di color scuro, della quale non si riusciva a rilevare compiutamente il numero di targa. L’autovettura, proveniente da altra stradina di campagna, raggiungeva le due persone in attesa e, prelevatele, si immetteva sullo scorrimento veloce in direzione di Agrigento;
– non veniva eseguito il pedinamento poiché si riteneva che vi fossero in atto tecniche di contro pedinamento, di fatti nella zona d’interesse erano presenti più macchine tra le quali una Lancia Prisma, tg. EN, di colore verde scuro, la cui targa non veniva rilevata, che, proveniente dallo scorrimento veloce direzione Agrigento, si fermava in mezzo al bivio;
– alle h. 8.20 ritornava la Ford Escort che si fermava vicino al conducente della Lancia Prisma e dopo qualche minuto entrambi riprendevano lo scorrimento veloce in direzione Agrigento;
– alle h. 8.30 venivano notate parcheggiate in un area di servizio ESSO, prossima al bivio di Mezzojuso, in direzione Agrigento, la Fiat Uno ed il Fuoristrada Suzuki in attesa;
– alle h. 1000 veniva terminato il servizio».
Il Riccio, quindi, non accompagnò l’Ilardo al supposto incontro con Provenzano, così come l’Ilardo non aveva registratori o microspie nascoste nei suoi abiti, ma coordinò le operazioni di pedinamento dopo di ché attese, verosimilmente, in altro luogo il suo confidente tant’è che nell’informativa “Grande Oriente” si legge che «lo scrivente, alle ore 23,00 del 31 ottobre 1995, incontrava la fonte che riferiva di avere incontrato il latitante Bernardo PROVENZANO, in una casa con ovile posta lungo una trazzera che partiva sulla destra lungo il segmento stradale che collega i comuni di Mezzojuso e Vicari appartenente allo scorrimento veloce che porta da Palermo ad Agrigento».
L’incontro, sulla base delle dichiarazioni rese dall’Ilardo al Riccio e contenute nell’informativa “Grande Oriente”, era durato complessivamente otto ore, e si era articolato in due fasi, «una prima, in cui si erano affrontati problemi di carattere generale dell’organizzazione alla quale avevano partecipato sia la fonte, che il VACCARO Domenico ed il FERRO Salvatore» e «una seconda, nella quale singolarmente i tre avevano affrontate situazioni di carattere riservato e personale con il PROVENZANO».
Proprio sulla base di quanto scritto nell’informativa e nella relazione di servizio indicata dal Riccio, entrambe da lui redatte appare evidente che l’incontro tra l’Ilardo e il Provenzano avvenuto il 31 ottobre 1995 non è stato un incontro monitorato direttamente né dal colonnello Riccio tantomeno da altre forze di polizia se non in un fase preliminare che terminò poche ore e risulta altrettanto evidente che non era finalizzata ad un’operazione di repressione con conseguente arresto del boss latitante anche perché, lo scrive lo stesso Riccio, si trattava di «probabile incontro». GLI STATI GENERALI ROBERTO GRECO 7 Novembre 2021
Attilio Manca suicidato per salvare Bernardo Provenzano «ATTILIO E’ STATO UCCISO». Parla la signora Angela Manca: «Attilio era un urologo eccellente definito da colleghi e superiori un luminare nel suo campo. Fu scelto per effettuare l’intervento alla prostata e curare il boss di mafia, poi catturato nel 2006 nella sua Corleone. Attilio è stato ammazzato per aver operato Provenzano allora latitante». Ci sono avvenimenti e circostanze che condizionano per sempre l’esistenza di alcune persone. Nel caso della famiglia Manca il loro vivere è stato segnato da ciò che non è avvenuto, cioè la cattura del boss di mafia Bernardo Provenzano che per lunghi anni è stato latitante Inchieste e testimonianze stanno svelando verità spaventose riguardo la mancata cattura di uno dei più sanguinosi boss di mafia, come Bernardo Provenzano il cui nome torna predominante nella vicenda di Attilio Manca. Abbiamo parlato con Angela Manca, madre del medico trovato morto a Viterbo nel 2004. Una morte archiviata dalla Procura di Viterbo come suicido. L’autopsia effettuata sul cadavere di Attilio parla di overdose e certifica la presenza di eroina ed alcool nel corpo del medico siciliano. Ma chi vuole negare la verità? «Il depistaggio è iniziato da subito, già da quella autopsia effettuata velocemente e senza tenere conto di molti fattori: lividi diffusi, ecchimosi, sangue e quei fori di siringa sul braccio sinistro, mentre Attilio era notoriamente un mancino. Mio figlio era un medico molto apprezzato, non avrebbe mai fatto uso di droghe. Passano gli anni ma nessuno vuole scoprire la verità nonostante contraddizioni e depistaggi che sono sotto gli occhi di tutti.»
Depistaggi, insabbiamenti, ricostruzioni falsate e, soprattutto, le dichiarazioni di vari pentiti di mafia portano ad un’altra verità almeno per voi della famiglia, per gli avvocati, per chi conosceva Attilio e per chi presta un po’ di attenzione a questa assurda e dolorosa vicenda. «Certo. Attilio è stato ucciso, era un urologo eccellente definito da colleghi e superiori un luminare nel suo campo e fu scelto per effettuare l’intervento alla prostata e curare il boss di mafia Bernardo Provenzano, poi catturato nel 2006 nella sua Corleone, dopo anni di latitanza. Attilio è stato ammazzato per aver operato Provenzano allora latitante». In questi anni non avete mai smesso di cercare la verità sulla morte di Attilio e, affiancati dagli avvocati Fabio Repici e Antonio Ingroia, chiedete da tempo la riesumazione del cadavere, finora sempre negata. «È un morto che potrebbe “raccontare” tanto: Attilio ritrovato riverso sul letto, semi nudo e con il viso sfregiato. Eppure la riesumazione viene ripetutamente negata» Le Istituzioni vi sono state accanto per arrivare a scoprire ciò che realmente è successo ad Attilio? «No, non siamo mai stati ascoltati da nessuno. Siamo stati ricevuti solo dal ministro della Giustizia Bonafede che ci ha dimostrato la sua vicinanza umana e promesso un comunicato sulla vicenda di mio figlio, ma per ora non abbiamo letto nulla». Parlare con la signora Angela è importante anche per conoscere particolari e circostanze che sono in netta contraddizione con la ricostruzione fatta al momento del ritrovamento del cadavere di Attilio. Cosa c’era di strano nella camera di Attilio? «Un corpo martoriato, il setto nasale rotto (per la caduta sul letto, si è detto), seminudo, con evidenti ecchimosi. Fra le tante cose occorre dire che Attilio era solito togliere il portafogli e le chiavi appena rientrava in casa per riporli in un cassetto. Non lasciava nulla nelle tasche dei pantaloni che sfilava e lasciava in maniera disordinata da qualche parte nella stanza. Quando lo hanno ritrovato indossava soltanto una maglia arrotolata sulla schiena, mentre i pantaloni con le chiavi e il portafogli ancora nelle tasche, sono stati trovati ripiegati e riposti ordinatamente sopra una sedia. Nnessuno indumento intimo, invece, è stato mai ritrovato nella camera. Poi quei fori di siringa sul braccio sinistro, mentre Attilio era notoriamente mancino e quella siringa senza impronte digitali. Tanti elementi che non sono stati considerati». Ci racconta dettagli non trascurabili Angela Manca. Anche se la ricostruzione ufficiale, sino ad oggi, ha archiviato la storia del medico siciliano come un tossicodipendente. Nulla di più lontano dalla realtà. Un incontro, quello di Attilio Manca, con la mafia violenta e sanguinaria di Bernardo Provenzano, che si sarebbe potuto evitare se non ci fosse stata quella parte di Stato deviato che ha portato ad una Trattativa (infinita) con i vertici dell’organizzazione mafiosa e che, ancora oggi, dopo decenni, non permette di far luce sulle stragi e sui troppi morti che gravano pesantemente sulla coscienza di tutti noi. La parte malata delle istituzioni ha proibito, ad alcuni dei suoi uomini, di catturare Riina prima e Provenzano poi, e Matteo Messina Denaro ancora oggi, lasciandoli vivere tranquillamente nei propri paesi di origine. In quelle terre dove scorre il sangue dei morti ammazzati, nella assoluta certezza di restare intoccabili, come testimoniano molte persone. Una rete di protezione fatta di boss e picciotti, di uomini in divisa e politici corrotti che ha garantito latitanze eccellenti e coperture anche oltre frontiera come nel caso di Attilio, massacrato per aver riconosciuto a Marsiglia il paziente scomodo. Si arriverà alla verità secondo lei? «Stanno trascorrendo troppi anni – dice la signora Angela con la voce rotta dal dolore -. Temo di non vivere abbastanza per vedere finalmente riaffermata la verità per mio figlio e nessuno della politica si sta muovendo in tal senso. Riesumare il cadavere di Attilio potrebbe finalmente chiarire molte cose». Oltre a rendere giustizia alla famiglia di Attilio Manca, la verità – sino ad ora negata – potrebbe dare fiducia a chi, ogni giorno, si adopera nella ricerca della verità e nel combattere non solo la mafia con la lupara ma, soprattutto, per debellare quel malaffare che si mostra con la faccia pulita di funzionari e appartenenti alle istituzioni che, invece, con il proprio operato tradiscono il ruolo ricoperto, la Costituzione, ed un Paese intero. Alessandra Ruffini 6.8. 020 WordNews
La Asl pagò Provenzano Adesso c’ è la conferma ufficiale e viene dal ministro della Sanità Girolamo Sirchia: il capo dei capi di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, che nell’ ottobre del 2003 si era sottoposto ad intervento chirurgico in Francia sotto falso nome, si è fatto anche rimborsare dal ministero della Sanità le spese mediche per un ammontare di 1.958,45 euro. La conferma del rimborso, che Sirchia ha dato rispondendo alla Camera ad una interrogazione parlamentare di Giampiero Cannella (An), suona anche come una sonora correzione alle smentite che ieri erano arrivate dall’ assessorato alla sanità della regione Sicilia. Ricostruendo l’ incredibile vicenda dei due «viaggi della speranza» compiuti da Provenzano nel luglio e nell’ ottobre del 2003 (la seconda per essere trasferito in un ospedale il cui nome rimane segreto), e rivelata da “Repubblica” nei giorni scorsi, il ministro della Sanità ha dichiarato che la casa di cura francese, la clinica «La Ciotat» di Marsiglia, emise una fattura il 16 febbraio del 2004 per un importo di 1.958,45 euro per prestazioni erogate dal 7 al 10 luglio 2003. La fattura era intestata al signor Gaspare Troia, 72 anni, il nome utilizzato da Bernardo Provenzano. Il rimborso – aggiunge Sirchia – fu richiesto utilizzando un regolare modello (E111) che autorizza l’ assistenza all’ estero. La richiesta fu poi inviata dal ministero alla Asl6 di Palermo per l’ iter di liquidazione. Ma non ebbe risposta e dunque la richiesta fu soddisfatta. «D’ altra parte – precisa puntigliosamente il ministro – spettava alla Asl fare i controlli». Al caso gli investigatori sono giunti esaminando una cartella clinica sequestrata nell’ inchiesta che ha portato in carcere cinquanta tra fiancheggiatori, vivandieri, postini o autisti del boss: era intestata a Gaspare Troia, 72 anni, che con un rapido accertamento si è scoperto non essere mai stato malato di prostata né sottoposto a interventi. è dunque emerso – come ha rivelato “Repubblica” – che Bernardo Provenzano era partito da Palermo accompagnato da uno degli arrestati, Salvatore Troia figlio di Gaspare. Il viaggio, compiuto in automobile, è durato quasi tre giorni. Che Provenzano poi si sia fatto pagare le spese mediche si è saputo soltanto qualche giorno fa quando gli investigatori hanno fatto sequestrare negli archivi dell’ Asl di Palermo tutte le pratiche relative a rimborsi spese sostenute dal paziente «Gaspare Troia». Ieri l’ assessore regionale alla sanità Giovanni Pistorio aveva sostenuto che la Regione siciliana non aveva pagato ed oggi ha risposto a Sirchia: «Evidentemente non c’ è stata una richiesta preventiva, che necessitava del nostro nullaosta, ma un intervento d’ urgenza in Francia. Se il pagamento a Troia è stato fatto dal ministero – ha continuato Pistorio – questo è legato al rapporto con la Asl di Palermo e non con l’ assessorato alla Sanità». Ma di «scenari ancora più foschi» che si aprono dalle risposte di Sirchia, parla Giuseppe Lumia, capogruppo ds alla Commissione antimafia: «Questa vicenda non può chiudersi con analisi burocratiche ma deve svelare tutto il marcio che esiste nelle zone grigie di collusione». E ad «inquietanti interrogativi» fa riferimento anche un altro componente della commissione, Carlo Vizzini LA REPUBBLICA 3 Marzo 2005
LA MAFIA RACCONTATA DAL FIGLIO DI PROVENZANO La crisi economica e la mancanza di posti di lavoro costringono molte persone ad una disoccupazione forzata o a fare le valigie e lasciare il Bel Paese in cerca di un’occupazione. C’è però chi un lavoro è riuscito a trovarlo comunque, come Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, che da diverso tempo sta ricevendo comitive di turisti americani a cui illustra le vicende chiave di Cosa Nostra.
L’idea è venuta a un tour operator di Boston (Massachusetts) che ha deciso di inserire nei propri pacchetti vacanza anche un incontro col figlio di Zu’ Binnu. I turisti, dopo essere giunti a Palermo per visitare le bellezze della città come la Cattedrale, il teatro Massimo e il palazzo dei Normanni, vengono accompagnati a conoscere Angelo Provenzano, che illustra loro la sua vita, gli anni di latitanza col padre, il rientro a Corleone e il rapporto con una figura che gli ha condizionato passato e presente e che – nel bene e nel male – ha influenza anche nel suo futuro.
Gli incontri col figlio di Binnu ‘U Tratturi sono cominciati lo scorso settembre e – stando alle fonti – hanno riscosso fin da subito un notevole successo. I turisti, dopo una breve introduzione, si ritrovano faccia a faccia con Angelo Provenzano, che spiega loro alcuni passaggi salienti di Cosa Nostra e risponde alle domande che di volta in volta le comitive gli sottopongono.
“Per me si tratta di un’attività lavorativa importante in un settore, quello turistico, in cui ho sempre creduto”. E ancora: “Confrontarmi con una cultura diversa dalla nostra e scevra da pregiudizi mi pare un’avventura molto stimolante”. Queste le parole del primogenito di Provenzano, che aggiunge: “Vorrei una vita normale ma mi rendo conto che non c’è speranza”. Certamente non è impresa facile scrollarsi di dosso i pregiudizi che si possono avere, considerando il lungo periodo di latitanza (fino al 1992) e la serie di indagini – concluse con un sostanziale nulla di fatto – che dal 2000 al 2009 lo hanno riguardato. Nonostante questo, però, i turisti d’oltreoceano apprezzano la possibilità di incontrarlo e ascoltare la sua testimonianza.
Non mancano le voci di dissenso, come quella di Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, l’attentato che nel maggio ’93 costò la vita a 5 persone, tra cui una neonata: “Speriamo che i turisti abbiano anche la possibilità di essere indirizzati in via dei Georgofili, a Firenze, vicinissima alla Galleria degli Uffizi: siamo disponibilissimi a raccontare loro la vera storia delle famiglie di Cosa Nostra”.
Più diretto è il senatore del Pd Beppe Lumia, che commenta: “Questa notizia ha dell’incredibile. È solo apparentemente innocua. Oltre a raccontarsi ai turisti, il figlio di Provenzano potrebbe trovare un po’ di tempo per dire ai magistrati dove si trovano le ricchezze accumulate dal padre”. Fonte: duerighe.com, 29 marzo 2015
Attilio Manca suicidato per salvare Bernardo Provenzano «ATTILIO E’ STATO UCCISO». Parla la signora Angela Manca: «Attilio era un urologo eccellente definito da colleghi e superiori un luminare nel suo campo. Fu scelto per effettuare l’intervento alla prostata e curare il boss di mafia, poi catturato nel 2006 nella sua Corleone. Attilio è stato ammazzato per aver operato Provenzano allora latitante». Ci sono avvenimenti e circostanze che condizionano per sempre l’esistenza di alcune persone. Nel caso della famiglia Manca il loro vivere è stato segnato da ciò che non è avvenuto, cioè la cattura del boss di mafia Bernardo Provenzano che per lunghi anni è stato latitante Inchieste e testimonianze stanno svelando verità spaventose riguardo la mancata cattura di uno dei più sanguinosi boss di mafia, come Bernardo Provenzano il cui nome torna predominante nella vicenda di Attilio Manca. Abbiamo parlato con Angela Manca, madre del medico trovato morto a Viterbo nel 2004. Una morte archiviata dalla Procura di Viterbo come suicido. L’autopsia effettuata sul cadavere di Attilio parla di overdose e certifica la presenza di eroina ed alcool nel corpo del medico siciliano. Ma chi vuole negare la verità? «Il depistaggio è iniziato da subito, già da quella autopsia effettuata velocemente e senza tenere conto di molti fattori: lividi diffusi, ecchimosi, sangue e quei fori di siringa sul braccio sinistro, mentre Attilio era notoriamente un mancino. Mio figlio era un medico molto apprezzato, non avrebbe mai fatto uso di droghe. Passano gli anni ma nessuno vuole scoprire la verità nonostante contraddizioni e depistaggi che sono sotto gli occhi di tutti.»
Depistaggi, insabbiamenti, ricostruzioni falsate e, soprattutto, le dichiarazioni di vari pentiti di mafia portano ad un’altra verità almeno per voi della famiglia, per gli avvocati, per chi conosceva Attilio e per chi presta un po’ di attenzione a questa assurda e dolorosa vicenda. «Certo. Attilio è stato ucciso, era un urologo eccellente definito da colleghi e superiori un luminare nel suo campo e fu scelto per effettuare l’intervento alla prostata e curare il boss di mafia Bernardo Provenzano, poi catturato nel 2006 nella sua Corleone, dopo anni di latitanza. Attilio è stato ammazzato per aver operato Provenzano allora latitante». In questi anni non avete mai smesso di cercare la verità sulla morte di Attilio e, affiancati dagli avvocati Fabio Repici e Antonio Ingroia, chiedete da tempo la riesumazione del cadavere, finora sempre negata. «È un morto che potrebbe “raccontare” tanto: Attilio ritrovato riverso sul letto, semi nudo e con il viso sfregiato. Eppure la riesumazione viene ripetutamente negata» Le Istituzioni vi sono state accanto per arrivare a scoprire ciò che realmente è successo ad Attilio? «No, non siamo mai stati ascoltati da nessuno. Siamo stati ricevuti solo dal ministro della Giustizia Bonafede che ci ha dimostrato la sua vicinanza umana e promesso un comunicato sulla vicenda di mio figlio, ma per ora non abbiamo letto nulla». Parlare con la signora Angela è importante anche per conoscere particolari e circostanze che sono in netta contraddizione con la ricostruzione fatta al momento del ritrovamento del cadavere di Attilio. Cosa c’era di strano nella camera di Attilio? «Un corpo martoriato, il setto nasale rotto (per la caduta sul letto, si è detto), seminudo, con evidenti ecchimosi. Fra le tante cose occorre dire che Attilio era solito togliere il portafogli e le chiavi appena rientrava in casa per riporli in un cassetto. Non lasciava nulla nelle tasche dei pantaloni che sfilava e lasciava in maniera disordinata da qualche parte nella stanza. Quando lo hanno ritrovato indossava soltanto una maglia arrotolata sulla schiena, mentre i pantaloni con le chiavi e il portafogli ancora nelle tasche, sono stati trovati ripiegati e riposti ordinatamente sopra una sedia. Nnessuno indumento intimo, invece, è stato mai ritrovato nella camera. Poi quei fori di siringa sul braccio sinistro, mentre Attilio era notoriamente mancino e quella siringa senza impronte digitali. Tanti elementi che non sono stati considerati». Ci racconta dettagli non trascurabili Angela Manca. Anche se la ricostruzione ufficiale, sino ad oggi, ha archiviato la storia del medico siciliano come un tossicodipendente. Nulla di più lontano dalla realtà. Un incontro, quello di Attilio Manca, con la mafia violenta e sanguinaria di Bernardo Provenzano, che si sarebbe potuto evitare se non ci fosse stata quella parte di Stato deviato che ha portato ad una Trattativa (infinita) con i vertici dell’organizzazione mafiosa e che, ancora oggi, dopo decenni, non permette di far luce sulle stragi e sui troppi morti che gravano pesantemente sulla coscienza di tutti noi. La parte malata delle istituzioni ha proibito, ad alcuni dei suoi uomini, di catturare Riina prima e Provenzano poi, e Matteo Messina Denaro ancora oggi, lasciandoli vivere tranquillamente nei propri paesi di origine. In quelle terre dove scorre il sangue dei morti ammazzati, nella assoluta certezza di restare intoccabili, come testimoniano molte persone. Una rete di protezione fatta di boss e picciotti, di uomini in divisa e politici corrotti che ha garantito latitanze eccellenti e coperture anche oltre frontiera come nel caso di Attilio, massacrato per aver riconosciuto a Marsiglia il paziente scomodo. Si arriverà alla verità secondo lei? «Stanno trascorrendo troppi anni – dice la signora Angela con la voce rotta dal dolore -. Temo di non vivere abbastanza per vedere finalmente riaffermata la verità per mio figlio e nessuno della politica si sta muovendo in tal senso. Riesumare il cadavere di Attilio potrebbe finalmente chiarire molte cose». Oltre a rendere giustizia alla famiglia di Attilio Manca, la verità – sino ad ora negata – potrebbe dare fiducia a chi, ogni giorno, si adopera nella ricerca della verità e nel combattere non solo la mafia con la lupara ma, soprattutto, per debellare quel malaffare che si mostra con la faccia pulita di funzionari e appartenenti alle istituzioni che, invece, con il proprio operato tradiscono il ruolo ricoperto, la Costituzione, ed un Paese intero. Alessandra Ruffini 6.8. 020 WordNews
La Asl pagò Provenzano Adesso c’ è la conferma ufficiale e viene dal ministro della Sanità Girolamo Sirchia: il capo dei capi di Cosa nostra, Bernardo Provenzano, che nell’ ottobre del 2003 si era sottoposto ad intervento chirurgico in Francia sotto falso nome, si è fatto anche rimborsare dal ministero della Sanità le spese mediche per un ammontare di 1.958,45 euro. La conferma del rimborso, che Sirchia ha dato rispondendo alla Camera ad una interrogazione parlamentare di Giampiero Cannella (An), suona anche come una sonora correzione alle smentite che ieri erano arrivate dall’ assessorato alla sanità della regione Sicilia. Ricostruendo l’ incredibile vicenda dei due «viaggi della speranza» compiuti da Provenzano nel luglio e nell’ ottobre del 2003 (la seconda per essere trasferito in un ospedale il cui nome rimane segreto), e rivelata da “Repubblica” nei giorni scorsi, il ministro della Sanità ha dichiarato che la casa di cura francese, la clinica «La Ciotat» di Marsiglia, emise una fattura il 16 febbraio del 2004 per un importo di 1.958,45 euro per prestazioni erogate dal 7 al 10 luglio 2003. La fattura era intestata al signor Gaspare Troia, 72 anni, il nome utilizzato da Bernardo Provenzano. Il rimborso – aggiunge Sirchia – fu richiesto utilizzando un regolare modello (E111) che autorizza l’ assistenza all’ estero. La richiesta fu poi inviata dal ministero alla Asl6 di Palermo per l’ iter di liquidazione. Ma non ebbe risposta e dunque la richiesta fu soddisfatta. «D’ altra parte – precisa puntigliosamente il ministro – spettava alla Asl fare i controlli». Al caso gli investigatori sono giunti esaminando una cartella clinica sequestrata nell’ inchiesta che ha portato in carcere cinquanta tra fiancheggiatori, vivandieri, postini o autisti del boss: era intestata a Gaspare Troia, 72 anni, che con un rapido accertamento si è scoperto non essere mai stato malato di prostata né sottoposto a interventi. è dunque emerso – come ha rivelato “Repubblica” – che Bernardo Provenzano era partito da Palermo accompagnato da uno degli arrestati, Salvatore Troia figlio di Gaspare. Il viaggio, compiuto in automobile, è durato quasi tre giorni. Che Provenzano poi si sia fatto pagare le spese mediche si è saputo soltanto qualche giorno fa quando gli investigatori hanno fatto sequestrare negli archivi dell’ Asl di Palermo tutte le pratiche relative a rimborsi spese sostenute dal paziente «Gaspare Troia». Ieri l’ assessore regionale alla sanità Giovanni Pistorio aveva sostenuto che la Regione siciliana non aveva pagato ed oggi ha risposto a Sirchia: «Evidentemente non c’ è stata una richiesta preventiva, che necessitava del nostro nullaosta, ma un intervento d’ urgenza in Francia. Se il pagamento a Troia è stato fatto dal ministero – ha continuato Pistorio – questo è legato al rapporto con la Asl di Palermo e non con l’ assessorato alla Sanità». Ma di «scenari ancora più foschi» che si aprono dalle risposte di Sirchia, parla Giuseppe Lumia, capogruppo ds alla Commissione antimafia: «Questa vicenda non può chiudersi con analisi burocratiche ma deve svelare tutto il marcio che esiste nelle zone grigie di collusione». E ad «inquietanti interrogativi» fa riferimento anche un altro componente della commissione, Carlo Vizzini LA REPUBBLICA 3 Marzo 2005
LA MAFIA RACCONTATA DAL FIGLIO DI PROVENZANO La crisi economica e la mancanza di posti di lavoro costringono molte persone ad una disoccupazione forzata o a fare le valigie e lasciare il Bel Paese in cerca di un’occupazione. C’è però chi un lavoro è riuscito a trovarlo comunque, come Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, che da diverso tempo sta ricevendo comitive di turisti americani a cui illustra le vicende chiave di Cosa Nostra.
L’idea è venuta a un tour operator di Boston (Massachusetts) che ha deciso di inserire nei propri pacchetti vacanza anche un incontro col figlio di Zu’ Binnu. I turisti, dopo essere giunti a Palermo per visitare le bellezze della città come la Cattedrale, il teatro Massimo e il palazzo dei Normanni, vengono accompagnati a conoscere Angelo Provenzano, che illustra loro la sua vita, gli anni di latitanza col padre, il rientro a Corleone e il rapporto con una figura che gli ha condizionato passato e presente e che – nel bene e nel male – ha influenza anche nel suo futuro.
Gli incontri col figlio di Binnu ‘U Tratturi sono cominciati lo scorso settembre e – stando alle fonti – hanno riscosso fin da subito un notevole successo. I turisti, dopo una breve introduzione, si ritrovano faccia a faccia con Angelo Provenzano, che spiega loro alcuni passaggi salienti di Cosa Nostra e risponde alle domande che di volta in volta le comitive gli sottopongono.
“Per me si tratta di un’attività lavorativa importante in un settore, quello turistico, in cui ho sempre creduto”. E ancora: “Confrontarmi con una cultura diversa dalla nostra e scevra da pregiudizi mi pare un’avventura molto stimolante”. Queste le parole del primogenito di Provenzano, che aggiunge: “Vorrei una vita normale ma mi rendo conto che non c’è speranza”. Certamente non è impresa facile scrollarsi di dosso i pregiudizi che si possono avere, considerando il lungo periodo di latitanza (fino al 1992) e la serie di indagini – concluse con un sostanziale nulla di fatto – che dal 2000 al 2009 lo hanno riguardato. Nonostante questo, però, i turisti d’oltreoceano apprezzano la possibilità di incontrarlo e ascoltare la sua testimonianza.
Non mancano le voci di dissenso, come quella di Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, l’attentato che nel maggio ’93 costò la vita a 5 persone, tra cui una neonata: “Speriamo che i turisti abbiano anche la possibilità di essere indirizzati in via dei Georgofili, a Firenze, vicinissima alla Galleria degli Uffizi: siamo disponibilissimi a raccontare loro la vera storia delle famiglie di Cosa Nostra”.
Più diretto è il senatore del Pd Beppe Lumia, che commenta: “Questa notizia ha dell’incredibile. È solo apparentemente innocua. Oltre a raccontarsi ai turisti, il figlio di Provenzano potrebbe trovare un po’ di tempo per dire ai magistrati dove si trovano le ricchezze accumulate dal padre”. Fonte: duerighe.com, 29 marzo 2015