AUDIO Deposizioni CARMELO CANALE nei processi
- IL CASO CANALE
- CANALE NON TRADÍ BORSELLINO
- JANNUZZI RACCONTA LA VERA STORIA DI CARMELO CANALE, IL “FRATELLO” DI BORSELLINO, ACCUSATO PERCHE’ INDAGAVA SUI VERI MOTIVI DEL SUICIDIO DEL MARESCIALLO LOMBARDO…
TESTO
Assolto il Tenente Canale
Era l’ombra di Paolo Borsellino. Il maresciallo Carmelo Canale era il suo angelo custode, l’uomo più fidato del giudice ucciso a Palermo il 19 luglio 1992.
Quando Borsellino era capo della procura di Marsala, cioè fino ai suoi ultimi giorni di vita, il maresciallo Canale aveva il compito di svolgere le indagini più delicate, di tenere i contatti con i pentiti di mafia, di custodire i segreti del giudice. Ma pochi anni dopo la strage di via D’Amelio su Canale, nel frattempo promosso tenente e in servizio al Ros dei carabinieri, precipitò la mannaia dell’accusa più infamante, quella di essere stato un servitore infedele dello Stato, un uomo in divisa al servizio delle cosche. Adesso, i giudici di Palermo, dopo un processo durato cinque anni, hanno assolto Carmelo Canale dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa perché il fatto non sussiste. La pubblica accusa aveva chiesto una condanna a dieci anni di carcere: contro di lui c’erano le dichiarazioni di una trentina di testimoni, tra cui undici collaboratori di giustizia. Il tenente era accusato di avere preso soldi e accettato regali in cambio di notizie riservate passate agli uomini di Cosa Nostra palermitani e trapanesi.
Numerosi gli episodi contestati, anche quello di avere fatto da scorta ad alcuni camion carichi di acqua e zucchero che venivano usati per preparare vino adulterato. Canale, nonostante le accuse pesantissime, non fu arrestato, ma incriminato a piede libero. I giudici non hanno creduto a quelle accuse. Adesso, la sentenza di primo grado lo dichiara innocente.
26.10.2023 «L’Italia spieghi!»: la Cedu accoglie il ricorso dell’ex braccio destro di Paolo Borsellino
La Cedu, la Corte europea di Strasburgo, chiede conto e ragione allo Stato italiano in merito alla evidente violazione della presunzione di innocenza nei confronti dell’ex colonnello dei carabinieri Carmelo Canale, ex braccio destro di Paolo Borsellino. I giudici della Corte dei diritti umani hanno accolto il ricorso presentato nel 2019 dall’avvocato Stefano Giordano del Foro di Palermo. I fatti si riferiscono a un fascicolo d’indagine, aperto dall’allora procura di Palermo nel 2012, nei confronti di Canale per un presunto reato, sebbene ormai prescritto. Inevitabilmente chiede archiviazione. Tuttavia, l’ex carabiniere, professandosi innocente, si oppone alla richiesta di archiviazione producendo prove a confutazione della tesi. Il gip decide dapprima di svolgere ulteriori indagini, ma alla fine archivia. Nell’ordinanza, accogliendo le argomentazioni del Pm, si dava quasi per certo che il reato fosse stato commesso.
Questa vicenda sembra ricalcare un destino comune a coloro che erano vicini a Borsellino o che conducevano indagini per suo conto.
Dopo l’arresto di Totò Riina, gli ex membri dei Ros, dal capitano Ultimo a Mario Mori, subirono numerosi processi che si conclusero con la loro completa assoluzione. L’allora maresciallo Antonino Lombardo, in assoluto uno dei migliori dell’Arma e vicinissimo a Borsellino, fondamentale per la cattura del capo dei capi grazie alle sue fonti, si suicidò dopo che lo avevano infangato pubblicamente in una trasmissione televisiva di grande audience.
Stesso travaglio giudiziario ha dovuto subire Carmelo Canale, all’epoca maresciallo. Fu accusato prima di concorso esterno in associazione mafiosa. Poi, fra il primo e il secondo grado, di essere direttamente affiliato alla mafia, curandone gli interessi. Il 15 novembre 2004, otto anni dopo le prime accuse, Canale è stato assolto in primo grado, perché il fatto non sussiste. Tra le accuse, quelle di aver dato addirittura il dossier mafia-appalti ai mafiosi. Parliamo dell’informativa dei Ros voluta da Giovanni Falcone. Quella della quale si interesso lo stesso Borsellino. Con le sentenze sulle stragi oggi sappiamo che quella di Via D’Amelio ha a che fare con questo interessamento.
Questione che è riemersa fuori grazie alle audizioni in commissione Antimafia dell’avvocato Fabio Trizzino e di sua moglie Lucia Borsellino.
Il 17 luglio 2008, dodici anni dopo, Canale è assolto in secondo grado. La Corte fissa in novanta giorni (come prevede la legge) i termini per il deposito delle motivazioni, che, però, arrivano solo ad agosto 2009. La procura generale fece ricorso in Cassazione. Il 12 luglio del 2012 arriva il sigillo definitivo della sua innocenza.
Ma finisce qui? Nello stesso anno della sua assoluzione definitiva, la Procura della Repubblica apre un fascicolo contro di lui per il reato di falso ideologico in atto pubblico, in tesi commesso nell’ambito dell’attività di indagine condotta (quale componente del Ros di Palermo dei Carabinieri, all’epoca dei fatti diretto dal maggiore Antonio Subranni) in relazione alla morte del giornalista Giuseppe Impastato, deceduto il 9 maggio 1978 a seguito di un attentato dinamitardo poi risultato di matrice mafiosa.
Come ha ben descritto l’avvocato Stefano Giordano nel ricorso alla Cedu, in particolare, secondo la prospettazione accusatoria, Canale – nel redigere e sottoscrivere, unitamente ad altri due colleghi, il verbale di perquisizione e sequestro eseguiti il 9 maggio 1978 presso l’abitazione di Fara Bartalotta, zia dell’Impastato – avrebbe falsamente dato atto di avere rinvenuto unicamente sei missive e un manoscritto in cui l’Impastato preannunciava la sua volontà suicida; mentre avrebbe sottaciuto di avere informalmente asportato altra copiosa documentazione, non inserita nel fascicolo processuale (asporto che sarebbe emerso, viceversa, dalle dichiarazioni rese da Giovanni Impastato, fratello della vittima).
Nel novembre 2012, il Pm ha formulato una prima richiesta di archiviazione del procedimento, per essere il reato configurato a carico di Canale “estinto per intervenuta prescrizione”. In detta richiesta, peraltro, si sono formulati pesanti apprezzamenti circa la responsabilità dell’indagato. Lo stesso Canale si oppose alla prescrizione. Il Gip ha rigettato la richiesta di archiviazione e restituito gli atti al Pm, affinché procedesse a indagini suppletive. A marzo 2016 il Pm chiede di nuovo l’archiviazione.
Nel 2018 il Gip ne ha disposto l’archiviazione, ma esprimendo nell’ordinanza delle considerazioni e censure a carico di Canale che – come sottolinea l’avvocato Giordano – “tratteggiavano inequivocabilmente una sua responsabilità penale, sebbene non giudizialmente accertata”.
L’attenzione ora si è spostata sulla Cedu, dove Canale ha presentato un ricorso sostenendo che le azioni delle autorità italiane hanno violato i suoi diritti costituzionali e convenzionali. La Corte Europea ha accolto il ricorso e ha posto alcune domande al governo italiano. Queste domande rivelano profonde preoccupazioni riguardo al rispetto dei diritti umani nel sistema giudiziario italiano. In primo luogo, il caso solleva dubbi sulla trasparenza dei procedimenti giudiziari. Canale, attraverso l’avvocato Giordano, ha contestato se la descrizione dettagliata delle indagini fosse veramente necessaria per dichiarare estinto il reato per prescrizione. La mancanza di chiarezza in questo ambito può portare a interpretazioni ambigue e a decisioni giudiziarie discutibili, mettendo a rischio la fiducia nel sistema legale.
In secondo luogo, la Corte di Strasburgo ha sollevato la questione della rinuncia alla prescrizione. Il fatto che questa possibilità non sia stata considerata dai giudici nazionali solleva interrogativi sulla parità di trattamento tra l’indagato e l’imputato. Tale disparità rappresenta una violazione del principio fondamentale che ogni individuo ha il diritto di difendersi adeguatamente dalle accuse mosse nei suoi confronti.
Il terzo punto riguarda il diritto di difesa di Canale. Se non gli è stato concesso di difendersi pienamente e adeguatamente contro le accuse, la Cedu solleva un interrogativo significativo sulla correttezza e l’equità del procedimento giudiziario. La presunzione di innocenza, uno dei pilastri del sistema legale, sembra essere stata compromessa in questo caso.
Infine, la questione di un ricorso interno efficace è di vitale importanza. La Corte chiede allo Stato italiano se Canale non abbia avuto un mezzo adeguato per contestare la presunta violazione della presunzione di innocenza, sancita nelle motivazioni del decreto di archiviazione. Nel caso contrario, si profila una potenziale violazione dei suoi diritti umani.
Il caso di Canale alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rappresenta un banco di prova cruciale per il sistema giudiziario italiano. La decisione della Cedu non solo avrà un impatto significativo sulla vita di Canale, ma potrebbe anche gettare luce su presunte disfunzioni sistemiche, mettendo in discussione l’integrità del sistema giudiziario italiano. IL DUBBIO
26.10.2023 Ombre e sospetti: Canale denuncia lo Stato, interviene la Corte europea
Carmelo Canale “denuncia” lo Stato italiano e la Corte europea dei diritti dell’uomo chiede chiarimenti al governo. L’ex tenente dei carabinieri ha presentato un ricorso nel 2019, con l’assistenza dell’avvocato palermitano Stefano Giordano. Ritiene che siano stati violati alcuni principi dell’equo processo. In particolare, quello sulla presunzione di innocenza nell’ambito di una vicenda collegata all’omicidio di Peppino Impastato, militante di Democrazia proletaria assassinato a Cinisi il 9 maggio del 1978. Canale, uno dei più fidati collaboratori di Paolo Borsellino, fu anche processato e assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Cadde l’onta che avesse tradito il magistrato.
Sei anni sotto inchiesta
Dal 2012 al 2018 Canale è rimasto sotto inchiesta della Procura della Repubblica di Palermo per il reato di falso ideologico in atto pubblico. Secondo l’accusa, Canale (in servizio al Reparto operativo del Gruppo di Palermo, all’epoca dei fatti diretto dal maggiore Antonio Subranni) avrebbe commesso il falso redigendo e sottoscrivendo assieme ad altri due colleghi il verbale di perquisizione e sequestro eseguiti il giorno del delitto a casa di Fara Bartalotta, zia di Impastato.
Diede atto di avere rinvenuto sei lettere e un manoscritto in cui Impastato preannunciava la sua volontà suicida, mentre avrebbe nascosto di avere “informalmente asportato altra copiosa documentazione, non inserita nel fascicolo processuale”. Della circostanza aveva parlato il fratello della vittima, Giovanni. A tirare in ballo, dopo oltre 30 anni, il nome dell’ex capo del Ros Subranni nella vicenda Impastato era stato il pentito Francesco Di Carlo che raccontò ai magistrati che furono Nino e Ignazio Salvo, imprenditori mafiosi di Salemi a rivolgersi a Subranni per fare chiudere l’indagine sulla morte di Impastato, assassinato su ordine del capomafia Gaetano Badalamenti.
Archiviazione e prescrizione
Nel novembre 2012 il pubblico mistero formulò una prima richiesta di archiviazione del procedimento per prescrizione. Venivano però espressi “pesanti apprezzamenti circa la responsabilità dell’indagato”. Il giudice per le indagini preliminari rigettò la richiesta e ordinò nuove indagini tenendo conto del fatto che Canale avesse rinunciato alla prescrizione. Ha sempre proclamato la sua innocenza e voleva essere prosciolto nel merito affinché non restasse alcuna ombra.
Nel 2016 arrivò la seconda richiesta di archiviazione. Due anni dopo il Gip chiuse il caso per prescrizione, censurando il comportamento di Canale. Come dire: il carabiniere era colpevole, ma era passato troppo tempo per processarlo. Secondo l’avvocato Giordano, nel provvedimento veniva usate parole che “tratteggiavano inequivocabilmente una sua responsabilità penale, sebbene non giudizialmente accertata. Così da lasciar aleggiare, sulla persona di Carmelo Canale, l’ombra della colpevolezza e una reputazione irreparabilmente macchiata da meri sospetti“.
Il ricorso europeo
Il carabiniere si è rivolto alla Cedu, lamentando che il decreto di archiviazione e le due richieste che lo
hanno preceduto avessero sancito di fatto una presunzione di colpevolezza violando ogni regola e norma. Ed ancora che l’impossibilità di rinunciare alla prescrizione dell’indagato fosse discriminatoria visto che solo l’imputato ne ha facoltà.
Il ricorso di Carmelo Canale è stato comunicato dalla Corte europea al governo italiano, con la richiesta di fornire per iscritto le proprie osservazioni sulle questioni poste dalla Corte stessa. Ecco i punti da chiarire: se, nei provvedimenti giudiziari che hanno dichiarato la prescrizione del reato, la descrizione delle risultanze investigative fosse strettamente necessaria e fino a che punto, allo scopo di dichiarare estinto il reato per prescrizione; la circostanza che i giudici italiani non abbiano preso in considerazione la rinuncia alla prescrizione da parte di Canale; se il carabiniere abbia avuto la possibilità di esercitare il diritto di difesa rispetto alle accuse a suo carico e se abbia avuto a disposizione un ricorso interno effettivo per denunciare l’eventuale violazione della presunzione di innocenza nei suoi confronti.
Dopo che il governo risponderà la parola passerà all’avvocato Giordano (è lo stesso legale che ha ottenuto il risarcimento dei danni per l’ingiusta detenzione di Bruno Contrada). Infine la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo. “La nitidezza con cui la Corte ha individuato le specifiche questioni implicate dalle doglianze sollevate nel ricorso – commenta il legale – evidenzia criticità non solo relative al singolo caso concreto, ma altresì attinenti a generali disfunzioni del sistema; sulle quali l’eventuale, quanto auspicato accoglimento del ricorso avrebbe un impatto di grande rilevanza. Attendiamo con serenità. Continueremo le nostre battaglie per denunciare le violazioni pressoché sistematiche del diritto dei cittadini a un giusto processo”. Riccardo Lo Verso live sicilia
Carmelo Canale, tenente dei carabinieri, ombra del giudice Paolo Borsellino
ASSOLTO TENENTE CANALE DAL CONCORSO ESTERNO, ERA BRACCIO DESTRO DI BORSELLINO. ADESSO CHI PAGA?
Era stato accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. L’onta d’aver tradito Paolo Borsellino pesava come una montagna sul destino di Carmelo Canale, il tenente dei carabinieri che da eroe ed ombra del giudice s’era ritrovato incastrato nei panni di una talpa, di un ufficiale corrotto, capace di organizzare perfino un pranzo per realizzare una strage.
E far morire pure il cognato, quel maresciallo Antonino Lombardo suicida in caserma nel ’95. Questo il cuore di un estenuante processo cominciato 8 anni fa, quando la Procura di Palermo era diretta da Giancarlo Caselli, e finito ieri sera con una clamorosa assoluzione.Per chi conosce il codice penale: articolo 530, comma 2. E per chi ne sa poco: mancata formazione della prova. Ma i processi si commentano spesso come le partite di calcio e c’è chi sintetizza malamente per guastare la festa a Canale: insufficienza di prove. Seppure il dato concreto stia nelle cinque parole usate dal presidente del tribunale, Antonio Prestipino: «Perché il fatto non sussiste». Dell’assoluzione definitiva di Carmelo Canale, oggi capitano dei carabinieri e per anni, da maresciallo e da tenente, il principale e più fidato collaboratore di Paolo Borsellino.
Venerdì la quinta sezione della Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla Procura generale di Palermo contro Canale, già assolto in primo e in secondo grado, e ha posto la parola fine a un’indagine e a un processo infinitoi, durato 14 anni (Canale è indagato dal 1996 ed è stato rinviato a giudizio nel 1999). “Quando questo processo al tenente Canale sarà finito – si scriveva otto anni fa – non sapremo soltanto chi ha suicidato il maresciallo Lombardo. Sapremo pure ciò che tutti i processi celebrati finora per la strage di via D’Amelio non hanno saputo chiarire: chi e perché ha ammazzato Paolo Borsellino”. Carmelo Canale, infatti, è stato perseguitato per 14 anni non solo perché aveva denunciato per calunnia e per istigazione al suicidio i diffamatori di suo cognato, il maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, che si era sparato un colpo alla tempia con la pistola d’ordinanza il 4 marzo 1995 nel cortile della caserma, ma anche perché, 15 anni prima che lo confermasse il pentito di mafia Gaspare Spatuzza, aveva spiegato che le indagini e i processi per la strage di via D’Amelio erano stati un indescrivibile pasticcio e che i veri responsabili dell’assassinio di Paolo Borsellino e della scorta erano in libertà e in galera erano finiti gli innocenti.Il maresciallo Lombardo, che aveva comandato per vent’anni la stazione dei carabinieri di Terrasini, il feudo del boss Gaetano Badalamenti, era stato inviato in missione negli Stati Uniti ed aveva convinto Badalamenti, detenuto nelle carceri americane, a venire a deporre in Italia al processo contro Giulio Andreotti, dove avrebbe smentito, come aveva preannunciato, le accuse di Tommaso Buscetta. Autorizzato a tornare negli Usa per prelevare Badalamenti e portarlo a Palermo, Lombardo, proprio mentre stava per partire, era stato accusato dall’ex sindaco di Palermo e leader della “Rete” Leoluca Orlando, ospite della trasmissione di Michele Santoro, di intelligenza con la mafia. La Procura di Palermo, sollecitata dai vertici dell’Arma dei carabinieri, si era rifiutata di smentire le accuse di Orlando e aveva fatto trapelare la voce che si accingeva ad arrestare Lombardo, e questi si era sparato nel cortile della caserma, dopo avere scritto una lettera, in cui denunciava che i suoi guai erano stati provocati dai “viaggi americani”, e cioè dall’avere lui convinto Badalamenti a venire a deporre e a smentire Buscetta. Canale aveva subito parlato di “delitto di Stato” e, dopo aver denunciato per calunnia e istigazione al suicidio Orlando e Santoro, aveva rivelato il contenuto del rapporto fatto dopo il viaggio negli Usa al comando dell’Arma dei carabinieri da suo cognato Lombardo e dal suo superiore, il maggiore Mauro Obinu, in cui, dopo la conferma che Badalamenti era disposto a venire in Italia a smentire Buscetta, si denunciava che il sostituto procuratore di Palermo, che aveva accompagnato negli Usa i due carabinieri, aveva dimostrato “seria preoccupazione per la decisione di Badalamenti, pericoloso per l’impianto processuale” dell’accusa contro Andreotti poggiato sulle accuse di Buscetta, ed aveva esortato i carabinieri “a non insistere”. Canale sosteneva che qualcuno dalla Procura di Palermo aveva fatto conoscere a Orlando il rapporto segreto di Lombardo e del maggiore Obinu e che il cognato era stato appositamente diffamato e “istigato al suicidio” per impedirgli di andare a prendere Badalamenti e portarlo a deporre in Italia. Non solo. Deponendo dinanzi allo commissione parlamentare antimafia, allora presieduta da Ottaviano Del Turco, Canale aveva sostenuto che la vicenda Badalamenti-Lombardo-Orlando-Procura di Palermo era intrecciata con la strage di via D’Amelio e che Borsellino era stato ucciso perché, lontano dalla Procura, di cui diffidava, e chiuso nella caserma dei carabinieri, stava indagando sull’assassinio del suo amico Giovanni Falcone con l’ausilio del maggiore Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, autori dell’indagine “mafia e appalti”, una indagine vanificata per la fuga di notizie dalla Procura e ritenuta da Borsellino la vera causa della strage di Capaci. Canale non aveva finito di deporre dinanzi alla commissione parlamentare antimafia, tra le proteste dei membri comunisti della commissione, che abbandonarono la seduta, che spuntò il primo mafioso “pentito” ad accusarlo. Rapidamente i “pentiti” divennero cinque, poi sette, poi dodici, e accusarono Canale di aver fornito ripetutamente “informazioni” alla mafia in cambio di danaro, che gli era servito prima per curare una figlia malata e poi per costruirle la tomba al cimitero. A lei e a Borsellino è andato il pensiero di Canale, oramai definitivamente innocente, in un giorno che lui stesso ha definito di “malinconica felicità”. Il pubblico ministero Massimo Russo (che poi è entrato in politica e oggi è assessore alla Sanità nella giunta Lombardo) aveva chiesto per Canale “che è un Giano bifronte – aveva gridato nella requisitoria finale – che ha indossato per anni la divisa di servitore dello Stato, ma al tempo stesso violava il giuramento di fedeltà alle istituzioni perché faceva parte della mafia, una mafia che è diventata il mostro che è grazie a individui abietti come lui”, la condanna a dieci anni di galera. Canale è stato assolto in primo e secondo grado con formula piena, e i giudici d’appello hanno respinto il ricorso di Russo, rilevando nel pm “preconcetti e ansia colpevolista” e “atteggiamenti ingenerosi”.E tuttavia ci sono voluti 14 anni e Canale, nel frattempo, è andato in pensione senza poter recuperare la progressione in carriera, che per lui si è fermata al grado di capitano. Ora che è finita, i magistrati di Caltanissetta, competenti per i reati commessi dai magistrati a Palermo, dovrebbero riaprire i verbali segretati delle deposizioni rese all’epoca da Canale, che parlò per nove ore, e iscrivere nel registro degli indagati, sia il pm citato nel rapporto Lombardo-Obinu, che li voleva far “soprassedere” dal portare a Palermo Badalamenti, sia il pm, sempre della Procura di Palermo, che fece intendere che stavano per arrestare Lombardo e provocò il suo suicidio (e il suo nome è nel verbale della deposizione resa dall’allora colonnello Mario Nunzella, comandante dei Ros, dinanzi alla commissione parlamentare antimafia). Nel frattempo, la commissione parlamentare, oggi presieduta dal senatore Pisanu, anche se è molto occupata a cercare i responsabili della presunta “trattativa” tra lo Stato e la mafia, potrebbe riaprire il plico della deposizione resa a suo tempo da Canale e indagare seriamente sulle responsabilità degli errori madornali commessi nelle indagini e nei processi per la strage di via D’Amelio, chiedendone conto, come di dovere, a quella dozzina di pm che hanno indagato nei tre processi e a quella trentina di giudici del primo grado e dell’appello, responsabili delle aberranti sentenze che hanno condannato all’ergastolo gli innocenti e lasciato in libertà i colpevoli. Dal canto suo, il ministro della Giustizia farebbe bene a mandare gli ispettori alla Procura di Palermo per far cessare lo scandalo di questo accanimento giudiziario contro i carabinieri che, dopo il caso Canale, continua con le sedute spiritiche organizzate col figlio di Vito Ciancimino ai danni del generale Mori e, guarda caso, del colonnello Mauro Obinu.Adesso, chi paga? Non la giustizia, dove, anzi, chi sbaglia fa carriera. Non la politica, che tace vigliaccamente, popolata da quelli che tacciono per occultare le proprie colpe e da quelli che non parlano perché non sanno di che parlare. Dopo quattordici anni, dopo essere stato isolato e vilipeso, Carmelo Canale, carabiniere, l’uomo che Paolo Borsellino chiamava “fratello”, è stato assolto in via definitiva: non s’è venduto alla mafia. Ripetiamo la domanda: adesso, chi paga? Non fermatevi qui, però. Perché qualcuno deve pagare, e non per la tortura inflitta ad un servitore dello Stato, ma per il depistaggio ai danni dell’Italia. Canale, difatti, è stato assolto in primo grado, assolto in secondo e, giunti in cassazione, il procuratore generale ha chiesto di respingere il ricorso presentato dalla procura di Palermo. La Corte è andata oltre, considerandolo inammissibile. Somari, nel merito e nella procedura. Già, ma il pubblico ministero che sostenne l’accusa contro questo carabiniere oggi è assessore regionale. Amministra la cosa pubblica, veste i panni del moralizzatore, elargisce lezioni di correttezza. Mentre il politico che accusò Lombardo, esponendo la sua famiglia a un pericolo rispetto a quale quell’uomo preferì la morte propria, che accusò Giovanni Falcone di tenere nei cassetti le indagini, anch’egli complice di mafiosi e amici dei mafiosi, ancora calca la scena, esponente del partito giustizialista e manettaro, sempre pronto a dire che l’opera dei magistrati deve avere la precedenza. Ora la giustizia ha fatto il suo corso, Canale è definitivamente innocente, ma questa gente è passata a parlar d’altro, senza che nessuno li rimproveri, senza che si sbatta loro in faccia quel che hanno combinato. Un Paese, il nostro, senza anticorpi, senza memoria, quindi senza dignità.
TUTTI NOI URLIAMO LA RABBIA DI UN’ITALIA CHE VUOLE ESSERE DIVERSA!! Ma la vicenda collettiva è assai più vasta e ci riguarda tutti. Siamo ancora qui a discutere dell’ipotesi che ci sia stata una trattativa fra lo Stato e la mafia, pendiamo dalla bocca di disonorati e figli di disonorati, che rateizzano le “rivelazioni” e risiedono stabilmente sulle prime pagine, ai servitori dello Stato, però, abbiamo messo un sasso in bocca, allo stesso Canale abbiamo impedito di parlare, per quattordici anni, e se anche avesse parlato nessuno lo sarebbe stato ad ascoltare, come non è stata pubblicata la notizia della sua assoluzione, e tutto questo capita perché si fa fede a chi ha lavorato per gli assassini, non a chi ha lavorato per lo Stato e per Borsellino. Vi è chiaro, questo? Che altro dovete leggere e sapere per urlare tutti contro il mare di infondatezze nel quale siamo stati annegati? Queste storie di mafia, e, soprattutto, queste storiacce di falsa antimafia, sono il sigillo di un’Italia deviata. Che, però, state bene attenti, non si nasconde nell’ombra, non trama nel segreto, bensì s’esibisce davanti ai vostri occhi, incucchiaiandovi la bocca con presunte “verità” che, però, sono il contrario delle verità precedenti. La verità al servizio della fazione e del disegno politico, una suggestione orwelliana che, da noi, è divenuta realtà.
Sostenitori delle Forze dell’Ordine su Freedom24 il 13 Luglio 2010
CASO CARMELO CANALE
Anche con una sentenza di assoluzione si può essere condannati, e se poi le sentenze di assoluzione sono due la “condanna” può diventare una persecuzione di Stato.
Carmelo Canale, il ten. Canale, il braccio destro di Paolo Borsellino, è perseguitato da una giustizia, con la g minuscola, che risponde solo a disegni incomprensibili.
La vicenda processuale di Carmelo Canale comincia nel 1996. Il 4 marzo del 1995 suo cognato, il maresciallo Antonino Lombardo, si era suicidato, nel cortile della caserma di Capaci, dopo che Leoluca Orlando Cascio lo aveva accusato di mafia, nel corso di una trasmissione televisiva condotta da Michele Santoro. Il vero scopo di quell’attacco consisteva nell’impedire a Lombardo di andare a prelevare, negli Stati Uniti, il mafioso Tano Badalamenti, che prometteva di smontare le accuse rese, de relato (per sentito dire), da Tommaso Buscetta contro Giulio Andreotti. Lombardo finì sfigurato in televisione e con pesanti minacce mafiose che lambivano la famiglia, così mise al sicuro i propri cari, non attese che altri lo uccidessero e provvide da solo. Canale fu chiarissimo: lo hanno ammazzato. Non gliela perdonarono, così anche lui finì nel tritacarne.
Fu accusato prima di concorso esterno in associazione mafiosa. Poi, fra il primo ed il secondo grado, di essere direttamente affiliato alla mafia, curandone gli interessi. C’è un dettaglio: egli era il “braccio destro” di Paolo Borsellino, come si legge nella sentenza, che lo chiamava “fratello”. L’accusa, fra le altre cose, utilizza questo rapporto per affermare che gli consentiva di avere anticipato accesso alle inchieste, che poi rivendeva ai mafiosi. Già, però questo poteva avvenire solo in uno di questi due casi: a. che Borsellino fosse connivente; b. che fosse del tutto cretino. Ma è un dettaglio che si sono gettati alle spalle. Quel che contava era far tacere Canale, e ci sono riusciti. Quelli della procura, intendo. Ora uno dei procuratori ha anche fatto carriera politica, è assessore regionale. Chissà non sia una delle voci pronte a spiegare in che consiste la “questione meridionale”. Siamo tutt’orecchi.
Il 15 novembre 2004, otto anni dopo le prime accuse, Canale è assolto in primo grado, perché il fatto non sussiste. Il 17 luglio 2008, dodici anni dopo, è assolto in secondo grado. La corte fissa in novanta giorni (come prevede la legge) i termini per il deposito delle motivazioni, che, però, arrivano solo in questo agosto 2009. Tredici anni dopo. Ora la procura generale della repubblica ha inoltrato ricorso per cassazione, ha chiesto alla Suprema Corte di annullare la seconda sentenza di assoluzione e di fare ripetere il processo. Insomma la storia continua, secondo la pubblica accusa CANALE è un colluso della mafia, ma i giudici che si sono occupati di lui hanno sbagliato.
A loro non costa, e perdere tempo è già un successo. Già, perché con la carriera bloccata, essendo imputato, Canale è stato posto a riposo. Con lui riposa la nostra sete di giustizia.
La lettura delle 126 pagine, che motivano la conferma dell’assoluzione, perché il fatto non sussiste, è tanto istruttiva quanto impressionante. I giudici premettono una lunga disamina su come devono essere utilizzate le dichiarazioni dei collaboranti, volgarmente ed imprecisamente detti “pentiti”. In pratica: non basta che dicano cose coerenti, non basta che si confermino fra di loro, ci vuole anche un riscontro, qualche cosa che somigli ad una prova. E qui non ce n’è neanche mezza. Lo dice il tribunale di primo grado, lo conferma, spesso con le stesse parole, quello di appello. Più sonora ed umiliante bocciatura delle accuse è difficile immaginare.
I pentiti che accusano Canale sono tanti, alcuni di alto rango, nella scala dei disonorati, come Siino e Brusca (quello che uccise Falcone, che fece strangolare e sciogliere nell’acido un bambino, quello che volò in aereo con Violante e gli ricordò gli accordi presi). I giudici di secondo grado lavorano di fino: il fatto che questi collaboranti siano credibili, che abbiano detto altre cose vere, non significa che si debba credere loro qualsiasi cosa dicono, ma, al tempo stesso, il fatto che oggi non si creda loro non fa perdere loro credibilità. Un colpo al cerchio ed uno alla botte. Ma siano sicuri?
Questi disonorati sono giunti al punto di voler dimostrare la corruttibilità di Canale affermando che chiese molti soldi per curare la figlia, gravemente malata e poi scomparsa (ed hanno sostenuto pure che chiese soldi per la tomba), salvo il fatto che la data della presunta corruzione precede di dieci anni la comparsa dei sintomi mortali. Basta questo, per capire che stanno lavorando di fantasia. Tralascio le mille altre ragioni d’innocenza, tralascio gli scrupolosi approfondimenti patrimoniali, che non trovano una sola lira fuori posto, così come la dimostrazioni che quelle cure, purtroppo inutili, furono anticipate dal servizio sanitario nazionale e che Canale ebbe l’aiuto di un vero amico, Borsellino. Tralascio tutto, ma la domanda è: perché una manica d’assassini, vergogna di tutti i siciliani, si sveglia una mattina e decide di accusare Canale? E perché si svegliano solo quando Canale denuncia le modalità della morte del cognato? E’ una troppo imbarazzante coincidenza con gli interessi della (falsa) antimafia militante. Non può essere taciuta.
So, per esperienza diretta, che nessuno accetta di parlare pubblicamente con Carmelo Canale. Orlando Cascio è stato invitato a pubblici dibattiti, ma si rifiuta. Lui, che parla anche quando dorme, in questo caso si scopre riservato, silente. Vergogna. Oggi Canale è ancora imputato, ma innocente. Noi, al contrario, siamo liberi, ma colpevoli se non dicessimo che tutta la storia di quegli anni, tutta la vicenda di Falcone e Borsellino, delle loro morti, dei processi politici e dell’antimafia deve essere scritta. Con inchiostro di sangue. 3 Luglio 2018 Progetto Innocenti
21.4.1996 AGENDA ROSSA – CARMELO CANALE Carabinieri UN PENTITO ACCUSA CANALE RITA BORSELLINO: ‘ E’ ASSURDO’
LA REPUBBLICA “Sono senza parole, esterrefatto, e quando avrò modo di leggere il verbale dell’ udienza querelerò il collaboratore di giustizia che lancia queste accuse”. Il tenente Carmelo Canale, l’ ombra, l’ amico del giudice Paolo Borsellino, che del carabiniere si fidava ciecamente, replica così alle pesanti dichiarazioni del pentito Antonino Patti che lo accusa di essere colluso con la mafia di Marsala. Anche Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso nella strage di via D’ Amelio, appena appresa la notizia si mette a ridere e aggiunge: “Ho troppa stima per Canale, e non posso fare altro che ridere”.
Da Bologna a Palermo la notizia giunge come una bomba. Il clima, dopo l’ arresto del poliziotto accusato di essere una “talpa” al servizio delle cosche, non è dei migliori.
Nell’ aula bunker del carcere della Dozza, nel capoluogo emiliano, il pentito Antonino Patti, un killer della cosca mafiosa di Marsala, accusatosi di oltre cinquanta omicidi, spara a zero. Lo fa nel processo dove sono sotto accusa quattro carabinieri, imputati di avere fatto numerosi favori alle cosche mafiose del Trapanese. “Anche il maresciallo Carmelo Canale, passava informazioni alla famiglia di Marsala. La nostra famiglia gli ha fatto costruire una villa in contrada Amabilina, gli hanno fatto un favore”.
Il procuratore aggiunto Luigi Croce, che ha preso il posto di Borsellino, è molto scettico. “Sono stato informato delle dichiarazioni rese da Patti nell’ udienza a Bologna – afferma il magistrato – si tratta di dichiarazioni che vanno assunte, approfondite, riscontrate”.
Canale agli amici dice di non dare troppo peso alle “calunnie” di Patti e qualcuno ricorda la drammatica vicenda del cognato dell’ ufficiale, il maresciallo Antonino Lombardo, suicidatosi nel marzo dello scorso anno all’ interno della caserma della Regione militare Sicilia, dopo violente polemiche e accuse di “collusione” con la mafia. Era ai funerali del cognato, nella chiesa madre di Terrasini Canale, quando prese la parola e disse: “A quanti pensano che mio cognato si sia suicidato rispondo: vi sbagliate, questo è un omicidio calcolato da tempo, da quelle menti raffinatissime che poco hanno in comune con quanti, in silenzio, combattono la piovra mafiosa”.
La sera che Borsellino mi confidò i sospetti sul suo braccio destro
RICORDA gli amici e i nemici, gli imputati sconosciuti o eccellenti, i mafiosi di rango, ricorda soprattutto gli eroi dimenticati. E intorno a loro rievoca paure, le diffidenze e i risentimenti che si sono inseguiti in una Sicilia che sembra lontana nel tempo ma che è ancora lì, cangiante nella forma ma nella sostanza immobile, mascherata. Ricorda anche i tradimenti. È una lunga confessione a se stesso e alla sua Palermo, pensieri su potenti e prepotenti che ha incontrato in ormai quasi un quarto di secolo in quella sacca dove ha trovato e perduto i compagni di una vita. E il suo racconto non poteva partire che da là, da Marsala, dove per lui è cominciato tutto. Dove ha conosciuto un uomo che avrebbe segnato il suo destino: Paolo Borsellino. Le emozioni del procuratore aggiunto Antonio Ingroia sono scivolate in un libro – “Nel labirinto degli dèi, storie di mafia e di antimafia” (Il Saggiatore, pagg. 224, euro 15), una «ricostruzione di fatti» che riporta al passato più drammatico dei siciliani e soprattutto a lui, a quel magistrato incrociato in un tribunale di provincia nella seconda metà degli anni ‘ 80, un uomo piccolo con i baffetti ben curati e la sigaretta sempre in bocca. Uno ascoltava – Ingroia – e l’ altro – Borsellino – a volte si confidava: «Accadeva la sera, Paolo usciva allo scoperto, capace di parlare di tutto, dai suoi antichi trascorsi sportivi fino a delicate vicende giudiziarie del passato, per concludere con la recita, a memoria e in tedesco, dedicati da Goethe a Palermo, la città più bella del mondo, diceva…». Sono passati quasi vent’ anni e Borsellino è morto, saltato in aria. Da quelle “conversazioni” n’ è nato un capitolo che ha come titolo “Amicizie e tradimenti”. Scrive Ingroia: «Ero un “giudice ragazzino” quando iniziai a frequentare il palazzo di giustizia di Palermo… devo dire che mi è rimasta impressa l’ atmosfera ostile nei confronti di Falcone…». Ma più del clima, il procuratore in quel capitolo parla di due suoi «stretti collaboratori» accusati di tradimento. Parla per la prima volta del tenente dei carabinieri Carmelo Canale e del maresciallo della Finanza Giuseppe Ciuro.
Sono fra le pagine più dolorose del libro. Partono da una testimonianza inedita su Canale, quella di Borsellino, che del carabiniere si fidava anche se c’ era un’ ombra. Racconta Ingroia: «Dell’ unica ragione di esitazione e perplessità espresse da Borsellino sono stato testimone. Riguardava una vicenda specifica: le indagini sull’ omicidio del colonnello Giuseppe Russo, ucciso il 20 agosto del 1977 a due passi da Corleone…». L’ omicidio fu voluto da Totò Riina, Bernardo Provenzanoe Leoluca Bagarella, ma per tanto tempo furono accusati tre pastori. Uno si chiamava Casimiro Russo: chiuso in una caserma dei carabinieri si autoaccusò del delitto senza averlo commesso. In quella caserma, proprio quando ci fu la confessione, c’ era anche Carmelo Canale. Gli chiedeva Borsellino: «Carmelo, dimmi la verità… a me la puoi dire… tu la sai, tu eri lì». Racconta ancora Ingroia: «Sì, c’ era qualcosa che non lo convinceva. Una volta, me lo disse in confidenza». Poi Canale fu coinvolto in un gorgo di mafia dal quale n’ è uscito pulito, ma con Ingroia non si parlarono mai più. Ancora più drammatica e ancora più forte la delusione e il dolore per il suo braccio destro, Ciuro, un finanziere che indagava al suo fianco e che è stato arrestato e condannato per mafia: «Ho dovuto prendere atto della sua infedeltà, godeva della mia massima fiducia, eravamo anche diventati amici… lui finì con il tradire entrambe, sia la fiducia che l’ amicizia… rivelava li contenuti dei miei interrogatori e persino le date dei miei spostamenti». Giuseppe Ciuro non ha mai chiesto perdono per ciò che ha fatto. «L’ ho aspettato inutilmente…», confessa Antonio Ingroia. ATTILIO BOLZONI 15 novembre 2010 LA REPUBBLICA
L’agenda rossa di Paolo Borsellino sparisce nel nulla
Ci si deve poi soffermare (come preannunciato) sulla vicenda relativa alla misteriosa scomparsa dell’agenda rossa del dottor Paolo Borsellino, dalla quale (come è noto) il Magistrato, nel periodo successivo alla morte di Giovanni Falcone, “non si separava mai”, portandola sempre nella sua borsa di cuoio e nella quale appuntava, in modo “quasi maniacale”42 e con grande ampiezza di dettagli, fatti e notizie riservate, nonché le proprie riflessioni sugli accadimenti che si susseguivano nell’ultimo periodo della sua vita, poiché, nella vana attesa d’essere convocato dal Procuratore Capo di Caltanissetta, per essere sentito sulla strage di Capaci, riteneva che era giunto “il momento di scrivere”.
[Cfr. deposizione di Carmelo Canale, nel verbale d’udienza dibattimentale del 6.5.2013”
TESTE CANALE C. – Sì, ci sono due circostanze, se è per questo: una, la circostanza è… eravamo a Salerno ed eravamo in albergo. (…) Al ritorno dalla… dalla Germania. (…) Una settimana prima di morire. (…) La mattina, mi riferisco alla… alla cosa principale, quello che è successo principalmente la mattina. La mattina lui, come al solito, si svegliava alle sei, cinque e mezzo, perché lui aveva… da buon palermitano sosteneva che si alzava prima per fottere almeno i palermitani di un’ora, questa era… così, proprio la diceva così. Mi venne a svegliare verso le sei – sei e mezzo. (…) non le… non le nascondo la felicità nel sentire bussare alle sei e mezzo, di farmi la sveglia, avevamo fatto tardi la sera prima, quindi… E nella circostanza mi disse di andarci a prendere il caffè, che già lui ne aveva preso uno. Naturalmente io mi alzai, mi feci in fretta e in furia la doccia, non… non lo volevo fare aspettare, e lui era… io credo che… io ho un ricordo, ricordo che era diste… no disteso, seduto sul letto che stava scrivendo proprio, o sul letto o sulla scrivania, ma io ho la certezza è sul letto, ho un ricordo… (…) Stava scrivendo. (…)
E io… mi venne così, ma perché noi eravamo due palermitani, tutti e due nati alla Kalsa, avevamo questo modo di parlare, tutti e due scherzavamo, la prendevamo perché non si poteva essere seri, sennò finiva prima la vita, quindi la prendevamo scherzando, gli dissi: “Procurato’, ma che fa, scrive a quest’ora? Ma che fa, ‘u pentito pure lei?” E lui inizialmente accennò ad un sorriso, ma poi, molto seriamente, disse che era venuto il momento di scrivere e che ce ne sarebbe stato per tutti: “Ivi compreso anche per lei”, naturalmente rideva, ma questa fu una battuta che… chiuse l’agenda, la ripose nella sua valigetta, nella sua borsa, e siamo scesi giù a prenderci il caffè in riva al mare, perché c’era… eravamo sul mare noi, era un albergo sul mare. Ecco, lo vidi però molto… non era al solito suo la mattina. Tra l’altro io mi pigliai il caffè, ma lui si mangiò il gelato, e quindi lo vidi, era un po’… era molto teso. Questo. (…) No, no, no, l’ho visto… io… allora, bisognerebbe conoscere Borsellino. Quando lui era così, c’era qualche cosa che non andava; io cercavo di… così, di rompere questo ghiaccio per farlo stare tranquillo, ma non… non è che stava poi bene bene, era proprio teso, molto teso, nervoso. (…) Andammo giù. Io presi il caffè, ma lui mangiò un gelato, se non ricordo male.(…) E lui in quella circostanza mi disse questa… questa battuta, cioè: “Sarei ipocrita – dice – a dirle che il dolore che lei, in quanto padre, ha provato per la morte di sua figlia, sia la stessa che io provo per Giovanni, per la morte di Giovanni Falcone, ma le assicuro che sono veramente colpito di questo”. Cioè assimilò al dolore che io provavo come padre, che mi era venuta a mancare una bambina, rispetto alla morte di Giovanni Falcone, che aveva lui. (…) E io credo che la connessione potrebbe essere in quello che lui aveva scritto in quel diario. (…) In quell’agenda. (…) Come se lui avesse trasferito qualche pensiero legato a Falcone su quell’agenda, non c’è dubbio.
P.M. Dott. LUCIANI – Ma glielo esplicitò chiaramente o è una sua deduzione?
TESTE CANALE C. – No, no, no, è una mia intuizione, perché non avevamo altri discorsi, ecco. E andare a toccare poi mia figlia, che lui sapeva che era un argomento che mi pesava tantissimo, era appena morta la bambina, quindi era un argomento molto pesante.
P.M. Dott. LUCIANI – Certo. Giusto per chiarire, lei, proseguendo, dice: “Ma certo, per me è stato un dolore immenso – riferendosi alla morte del dottore Falcone – per questo ho deciso che è giunto il momento di scrivere”.
TESTE CANALE C. – “E’ il momento di scrivere”, sì, questo io l’ho detto, certo.
P.M. Dott. LUCIANI – Ah, ok. Fa riferimento, comunque, al fatto.
TESTE CANALE C. – Certamente sì, di scrivere. Ed ecco perché io lo trovo mentre scrive. Guardi, poi questa sua… a questa agenda è legato un altro… un altro fatto, io ho un vago ricordo, ma io credo che ci siamo allontanati, credo, il sabato dalla… dall’albergo e Borsellino dimenticò l’agenda. Se la portava sempre dietro, e allora, arrivato a casa di Cavaliero successe l’inferno, perché dovevamo andare a prendere ‘sta agenda, cioè per lui l’agenda era sacra. (…) L’aveva dimenticata in albergo. (…) Lui pensava: “Non è che l’ho persa?” Cioè aveva tutte le… secondo me aveva tutti gli appunti in quell’agenda, che gli servivano, perché lui aspettava, e lo diceva sempre, non ne faceva mistero, lui aspettava di essere sentito dal Procuratore di Caltanissetta.
P.M. Dott. LUCIANI – E si mostrò agitato per il fatto che non trovava la borsa?
TESTE CANALE C. – Certo, era agitatissimo, abbiamo dovuto ritornare nuovamente in albergo e quando ha visto che la borsa era là, l’agenda era là, insomma, si è tranquillizzato. Ma lui non se ne distaccava mai, soprattutto negli ultimi tempi”.].
Ebbene, che Paolo Borsellino avesse portato con sé l’agenda in questione anche quel 19 luglio 1992, non v’è alcun dubbio.
Infatti, la figlia Lucia Borsellino, quella mattina, era con lui, nello studio di casa, quando il padre riordinava la propria scrivania e metteva proprio quell’agenda rossa dentro la sua borsa, subito prima di uscire
[Cfr. deposizione di Lucia Borsellino, nel verbale d’udienza dibattimentale del 19 ottobre 2015, pag. 55:
TESTE L. BORSELLINO – Lo ricordo perché dormendo nel suo studio vidi proprio gli oggetti che stava recuperando, tra cui un’agenda marrone, un’agenda rossa, il costume da bagno, le chiavi, le sigarette e qualche altra cosa; non ricordo se avesse anche qualche carta con sé, però ricordo tranquillamente che ordinò il tavolo riponendo all’interno della borsa questi oggetti..
46 Cfr. deposizione di Carmelo Canale, nel verbale d’udienza dibattimentale del 6.5.2013, pag. 98:
“TESTE CANALE C. – Allora, per quelli che sono i miei ricordi, credo che sia o Agnese Borsellino o Lucia mi riferirono… mi riferirono che suo marito aveva ricevuto… o l’aveva visto il professore Tricoli, aveva ricevuto una telefonata da un funzionario e lui aveva annotato un numero lunghissimo della Germania, perché, come le dicevo poc’anzi, ci preparavamo per andare a fare la rogatoria nuovamente in Germania, e quindi lui aveva annotato il numero di telefono proprio su quell’agenda rossa.
P.M. Dott. LUCIANI – Questo il giorno della domenica, il 19 luglio?
TESTE CANALE C. – Sì, prima di… prima di andarsene a Palermo. Questo me lo riferisce o la signora Agnese Borsellino o Lucia, o qualcuno della famiglia, o lo stesso professore Tricoli, non… non ho un ricordo”.
47 Cfr. deposizione di Antonio Vullo, nel verbale d’udienza dibattimentale del 8.4.2013, pag. 34:
AVV. REPICI – La prima: ha ricordo se… o meglio, il giorno in cui andaste, il pomeriggio del 19 luglio andaste a prendere il dottor Borsellino a Villagrazia di Carini, partendo verso Palermo il dottor Borsellino aveva una borsa professionale con sé?
TESTE VULLO A. – Ma io l’ho… l’ho visto uscire con la borsa, però non… non l’ho visto se l’ha messa in auto o meno, però l’ho visto con la borsa.
AVV. REPICI – Cioè lui è uscito di casa con la borsa.].
Inoltre, nel pomeriggio, quando il Magistrato riceveva una telefonata di lavoro a Villagrazia di Carini, usava proprio l’agenda rossa per annotarvi un lungo numero di telefono tedesco, in vista della nuova rogatoria che s’apprestava ad effettuare in Germania. Ancora, quando usciva dalla casa di villeggiatura di detta località, per recarsi a Palermo, dalla madre, in via D’Amelio, Paolo Borsellino aveva con sé la sua borsa, così come l’aveva quando salutava, per l’ultima volta, il figlio Manfredi [Cfr. deposizione di Manfredi Borsellino, nel verbale d’udienza dibattimentale del 19 ottobre 2015, pagg. 85 ss:
AVV. REPICI – Dottore, una precisazione: lei vide allontanarsi suo padre da Villagrazia di Carini nel pomeriggio?
TESTE M. BORSELLINO – Allora, mio padre da Villagrazia di Carini è andato via una volta che già, previ accordi con mia nonna, doveva… doveva raggiungerla per portarla dal cardiologo. Io ho trascorso buona parte della mattinata, il pranzo con mio padre; il pranzo un po’ come tanti pranzi siciliani durò abbastanza, dopodiché mio padre credo che ricevette pure una o due telefonate, non ricordo bene, tant’è che forse cercava una penna per annotarsi qualche cosa, comunque dopo il pranzo, ripeto, la nostra villa era aperta, probabilmente all’interno di quella villa aveva lasciato lui la borsa, perché comunque la nostra villa rimane tutto il tempo aperta, era da molto che era chiusa, per cui l’abitudine era di aprire finestre, porte, etc.
Dopo pranzo mio padre è andato a riposare. Io mi trattenni, invece, presso la villa del professore Tricoli, c’era un campo da… un tavolo da ping-pong, quindi mi misi a giocare a ping-pong, e mio padre è rimasto nella villa a riposare. In realtà lo capimmo dopo che non era andato a riposare, perché accanto… intanto non era salito sopra, dove c’era la camera matrimoniale dei miei genitori, ma si era trattenuto in una stanza giù, che, diciamo, ai tempi era adibita a… era la stanza matrimoniale dei… la camera matrimoniale dei miei nonni; e poi abbiamo notato che c’era un portacenere pieno, proprio carico di cicche di sigarette, cicche peraltro abbastanza recenti, perché lì la casa era chiusa da diverso tempo, per cui non poteva che… non potevano che essere riconducibili a lui. Si trattenne poco a riposare, perché, ripeto, il pranzo era finito tardi, abbastanza tardi; peraltro durante quelle ore abbiamo trascorso dei momenti assolutamente sereni, spensierati, anche mio padre pareva di buonumore. Poi però, ripeto, si andò a riposare. Era sua abitudine fare una (…) una piccola pausa dopo pranzo, però dovrebbe essere durata abbastanza poco, perché già era tardi, eravamo nel pomeriggio inoltrato. Quando mio padre ha deciso di… di prepararsi per fare rientro a Palermo, si è vestito lì nella casa nostra, ci ha raggiunto nella villa del professore Tricoli; ricordo che aveva questa borsa che teneva nella mano; chiese anche notizie un po’ del tour de France com’era andato, come non era andato, salutò tutti i commensali di quella… perché comunque aveva detto che si sarebbe allontanato, poi però è ritornato per salutare tutte le persone con cui aveva pranzato; ovviamente salutò mia madre, i miei zii, mia nipote, dopodiché io lo aspettavo in qualche modo sull’uscio della… del cancello della villa Tricoli e lui mi fece segno come dire: “Manfredi, vieni con me, accompagnami fino alla macchina”. Tra l’altro io credo che seppi in quel momento che stava andando da mia nonna, perché sapevo che sarebbe rientrato anticipatamente perché aveva necessità di… lavorava tantissimo in quei giorni e comunque lui era un momento in cui non gradiva probabilmente che noi familiari (…) entrassimo con lui nella macchina blindata o ci muovessimo con lui. Non lo so, probabilmente percepiva… anzi, no, sicuramente percepiva un pericolo maggiore dopo la morte di Falcone, ce lo disse in modo evidente: “Guardate, siamo a un punto di non ritorno, la morte… cioè Giovanni Falcone per me rappresentava uno scudo, dopo di lui io non ho più…” Ci diceva, siccome per tanti anni si era sforzato di farci condurre una vita normale, ci disse che non sarebbe più riuscito a garantirci questa vita normale, probabilmente avremmo vissuto tutti una situazione, lui in particolare, dalla quale non sarebbe più potuto sfuggire, non si sarebbe potuto sottrarre più a certi dispositivi di sicurezza. Io che in quei giorni seguivo molto mio padre anche con lo sguardo, quando andava via al Palazzo di Giustizia la mattina, quando rientrava, ero un po’ ansioso devo dire, anche quella mattina effettivamente mi è venuto naturale, a prescindere che mio padre mi chiedesse di fare questi due passi insieme, che poi…
AVV. REPICI – Quindi quel pomeriggio intende?
TESTE M. BORSELLINO – Sì, sì, quel pomeriggio, quando… dico, la distanza tra la villa del professore Tricoli e dove erano parcheggiate le tre macchine blindate, inclusa quella in cui poi entrò mio padre, che guidava mio padre, dico, è una distanza veramente irrisoria, parliamo di settanta metri, però io me li feci tutti insieme a… a mio padre. Scusate, non è facile parlare di questo istante, perché… (…) Niente, quindi percorro questo tratto di strada con mio padre. Ricordo bene anche un particolare: mio padre aveva la borsa da una parte e la mano assolutamente libera dall’altra. Ho solo un piccolo… faccio solo una piccola confusione sul fatto che questa borsa per un piccolo tratto gliel’ho portata io; però, in realtà, o gliel’ho portata io o l’ha portata lui, perché poi è stato lui a metterla dentro la macchina blindata, lui aveva la borsa, tutto il contenuto all’interno della borsa, l’altra mano era assolutamente libera, lo accompagno… proprio le macchine, gli agenti di scorta, i ragazzi, erano tutti che l’aspettavano, tranne forse uno che l’ha seguito insieme a me in questi settanta metri, tutti che l’aspettavano in questo piazzale che c’è all’ingresso del residence. Mio padre mi sa… mi salutò due volte. (…) ].
Di detta agenda rossa, tuttavia, non v’era più alcuna traccia, quando la borsa del Magistrato veniva restituita ai suoi familiari, diversi mesi dopo la strage, con ancora dentro tutti gli altri effetti personali, integri (fra i quali persino un pacchetto di sigarette, oltre ad un’altra agenda marrone).
L’istruttoria dibattimentale, oltre a far emergere molteplici contraddizioni fra le deposizioni dei vari testi esaminati sulla sparizione dell’agenda in questione, evidenziava un comportamento veramente inqualificabile da parte del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo: infatti, il dottor Arnaldo La Barbera dapprima diceva alla vedova Borsellino che la borsa del marito era andata distrutta ed incenerita nella deflagrazione (come risulta dalla deposizione del Maggiore Carmelo Canale, sul punto, de relato dalla Sig.ra Agnese Piraino) salvo poi restituirgliela, diversi mesi dopo (come si vedrà a breve), negando -in malo modo- l’esistenza di agende rosse.
[Cfr. deposizione di Carmelo Canale, nel verbale d’udienza dibattimentale del 6.5.2013, pagg. 100 s: “
P.M. Dott. LUCIANI – Questa circostanza che ora le leggo. Le ho già menzionato l’articolo apparso (…) sul settimanale “Esse”.
TESTE CANALE C. – Sì.
P.M. Dott. LUCIANI – In quella circostanza lei, è un virgolettato, quindi volevo capire se è… ma poi, diciamo, sul punto lei è stato anche specificamente sondato da questo ufficio, lei dice, o meglio, almeno è riportato virgolettato, quindi dovrebbero essere le sue parole: “Arnaldo La Barbera mi ha detto che la borsa è andata distrutta…”
TESTE CANALE C. – E’ così.
P.M. Dott. LUCIANI – “…disse a Canale la signora Agnese Borsellino”. E infatti sul punto lei viene escusso il 13 novembre del 2012 dalla Procura di Caltanissetta e anche in quella sede lei dichiara: “Sul punto confermo sostanzialmente, il contenuto di quanto riferito nell’intervista, precisando che la notizia secondo cui Arnaldo La Barbera aveva detto che la borsa era andata distrutta è stata da me appresa da Agnese Borsellino…”
TESTE CANALE C. – Sì.
P.M. Dott. LUCIANI – “…che me lo disse pochi giorni dopo il 19 luglio del ’92”.
TESTE CANALE C. – Sì.
P.M. Dott. LUCIANI – Glielo leggo perché, diciamo, lei l’ha posta in forma dubitativa ora.
TESTE CANALE C. – Sì, sì, ma io credo… credo di aver detto questo.
P.M. Dott. LUCIANI – Qua è assertivo, invece.
TESTE CANALE C. – Io credo di aver detto questo. Io confermo integralmente questo, cioè perché io quando… quando ho avuto l’opportunità di parlare con Agnese Borsellino, lei immagini l’indomani cosa c’era a casa.].
Dunque, si può affermare[…] che l’istruttoria dibattimentale ha fatto emergere le persistenti zone d’ombra sull’argomento, anche per le notevoli ambiguità e la scarsa linearità di alcuni dei testimoni assunti, sovente in contraddizione reciproca fra loro.
Non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare, in maniera definitiva, la matassa relativa alle modalità della sparizione dell’agenda rossa del Magistrato (certamente non sottratta da appartenenti a Cosa nostra), che si sarebbe rivelata di fondamentale importanza per lo sviluppo delle indagini sulle vicende stragiste.
Tuttavia, alcuni dati possono senz’altro esser affermati, alla luce delle emergenze istruttorie:
– già nell’immediatezza della strage, attorno all’automobile blindata del Magistrato ucciso, vi erano una pluralità di persone in cerca della sua borsa e di quello che la stessa conteneva, ivi compresi alcuni appartenenti ai Servizi Segreti;
– chi notava detta presenza di quella “gente di Roma” (oggettivamente anomala, se non altro per i tempi), non riteneva di riferire alcunché ai propri superiori gerarchici od ai Pubblici Ministeri (la circostanza, come detto, veniva affermata dal Sovrintendente Maggi, per la prima volta in assoluto, nel dibattimento di questo processo, oltre vent’anni dopo i fatti; anche il Vice Sovrintendente Garofalo veniva sentito, per la prima volta, dalla Procura di Caltanissetta, nell’anno 2005);
– ai familiari di Paolo Borsellino non veniva mai notificato alcun verbale di sequestro della borsa del loro congiunto ed alla vedova veniva mentito, considerato che il dottor Arnaldo La Barbera le diceva che detta borsa era andata distrutta nella deflagrazione, sebbene risulti (come detto) che il reperto giungeva nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo già nel pomeriggio del 19 luglio 1992;
– chi portava la borsa nell’ufficio del Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, non riteneva di dover fare alcuna relazione di servizio (almeno fino a cinque mesi dopo), né di dover far rilevare che vi erano degli appartenenti ai Servizi Segreti sullo scenario della strage;
– alcuni mesi dopo la strage, il dottor Arnaldo La Barbera riteneva di recarsi, personalmente, a casa della Sig.ra Agnese Piraino, per la restituzione della borsa del marito, che avveniva in maniera irrituale e frettolosa (ancora una volta, non veniva redatto alcun verbale, né consta alcuna relazione di servizio);
– in detta occasione, innanzi alla richiesta della figlia, Lucia Borsellino, di riavere indietro anche l’agenda rossa del padre (non presente fra gli altri suoi effetti personali, dentro la borsa), il Dirigente della Squadra Mobile di Palermo, con un atteggiamento infastidito e sbrigativo, affermava, in maniera categorica (ed apodittica), che non esisteva alcuna agenda rossa da restituire;
– a fronte dell’insistenza della ragazza (che usciva persino dalla stanza, sbattendo la porta), il dottor Arnaldo La Barbera, con la sua voce roca, diceva alla vedova che sua figlia necessitava di assistenza psicologica, in quanto “delirava”
[Cfr. deposizione di Lucia Borsellino, nel verbale d’udienza dibattimentale del 19 ottobre 2015, pagg. 58 s:
TESTE L. BORSELLINO – Sì, disse proprio… non era stata per niente contemplata l’ipotesi che potesse esserci un altro… un altro oggetto, per cui, al mio insistere, mi fu detto addirittura che deliravo.] o “farneticava” [Cfr. deposizione di Manfredi Borsellino, nel verbale d’udienza dibattimentale del 19 ottobre 2015, pagg.156:
TESTE M. BORSELLINO – Ma io mi riferisco al modo con cui si rivolse soprattutto a mia sorella e poi a noi tutti, sostenendo che farneticava, sostenendo che si stava inventando lì per lì il discorso dell’agenda rossa quasi per farle… per fargli perdere tempo. Cioè lui ha avuto… lui, sostanzialmente, non era venuto per acquisire informazioni, per avere dei colloqui investigativi, che in quel momento penso fosse il minimo dovere avere con la moglie e con i figli di Paolo Borsellino, cioè lui è venuto là semplicemente per liberarsi del… della borsa e del contenuto che… di cui riteneva di potersi liberare, cioè che non aveva rilevanza investigativa per lui e… e andarsene (…).].
Un atteggiamento, questo, che rivelava non solo una impressionante insensibilità per il dolore dei familiari di Paolo Borsellino, ma anche una aggressività volta a mascherare la propria evidente difficoltà a rispondere alle domande poste, con grande dignità e coraggio, da Lucia Borsellino, nel suo forte e costante impegno di ricerca della verità sulla morte del padre.
(pagg 824-829; pagg 962-964)
Ecco la valigetta di Borsellino La conserva il maggiore Canale Conteneva la famosa agenda rossa del magistrato, ma all’interno non c’è
Ricompare dopo vent’anni e diventerà un cimelio da osservare al «museo della legalità» aperto lo scorso 3 settembre presso la Legione dei carabinieri di Palermo la borsa del giudice Paolo Borsellino. Proprio la borsa sparita e ritrovata dopo la strage di via D’Amelio priva della famosa Agenda rossa, da allora introvabile. Si è scoperto che nel 1992 la vedova, Agnese Borsellino, la donò all’allora maresciallo Carmelo Canale, l’uomo ombra del magistrato che oggi, dopo tanti sospetti, processi e assoluzioni, la dona al museo nella Legione dove, dopo una sorta di «esilio» calabrese, adesso lavora col grado di maggiore.
L’AGENDA SPARITA – La foto della borsa, sforacchiata com’è dall’effetto bomba, campeggia sulla prima pagina di “S”, il magazine del gruppo I love Sicilia, dove viene raccontata la storia di questo prezioso cimelio finito nelle mani dell’ufficiale incriminato dalla Procura di Palermo e poi sempre assolto, nonostante venti pentiti abbiano tentato di trasformare Canale in un infido collaboratore del giudice ucciso meno di due mesi dopo il massacro di Giovanni Falcone. «Fu la signora Agnese Borsellino a donarla a mia figlia Manuela…», rivela Canale lasciando inquadrare al fotoreporter Luigi Sarullo il fronte della borsa devastato dall’esplosione, al contrario della parte posteriore e dell’interno, perfettamente intatti. Questo significa che doveva essere integra l’agenda rossa contenuta in uno degli scomparti con gli appunti di Paolo Borsellino, con i riferimenti ai filoni su mafia e appalti, a tangentopoli e ai contatti avuti nelle settimane precedente con fonti tedesche per contattare un pentito agrigentino.
INDAGINI TARDIVE – «Ancora prima degli ingiusti sospetti rovesciati sulla mia persona, nemmeno la magistratura di Caltanissetta volle ascoltarmi quando dicevo che l’agenda rossa i numeri di telefono delle persone contattate in quelle settimane, che le ragioni della strage andavano cercate nel filone mafia appalti, ma si cominciò a indagare su tutto questo troppo tempo dopo», rivela Canale allo scrittore Aldo Sarullo che ne raccolse il primo disappunto. E l’ufficiale rincara la dose oggi: «Il dottore Borsellino aveva perfino in pubblico che attendeva di essere interrogato su Capaci, sulle notizie che lui aveva in relazione agli appalti, ma i magistrati di Caltanissetta non lo convocarono mai. Non solo, ma invitò a cena una sera a casa sua uno dei sostituti che indagavano e non servì a nulla…». Si riaccendono così i riflettori su questa introvabile agenda della quale esiste una copia, come mostra Canale: «Eccone una uguale. ‘Agenda dei carabinieri 1992’. Quando lavoravamo a Marsala, il dottor Brosellino come procuratore, io come suo stretto collaboratore, ce ne regalarono due…».
SOSPETTI SUGLI INQUIRENTI – I sospetti più pesanti coinvolsero il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, inquisito dopo che erano state trovate delle foto in cui figurava a due passi dall’auto di Borsellino mentre si allontana dalla scena del delitto con la borsa in mano. Una vicenda giudiziaria chiusa con un proscioglimento. Nessuno ha mai spiegato come quella stessa borsa sia ricomparsa vuota, repertata dall’allora capo della Mobile Arnaldo La Barbera, consegnata agli uffici giudiziari e, dopo qualche tempo, restituita alla signora Borsellino e ai suoi figli, compreso Manfredi, oggi funzionario i polizia.
IL DONO DI AGNESE – L’odissea giudiziaria ha comunque incrinato i rapporti tra la famiglia e Canale. La signora Borsellino nel ‘92 aveva grande considerazione del maresciallo, a sua volta oggi triste nel ricordo di una tragedia privata: «Mia figlia Antonella era stata uccisa da un tumore e mia figlia Manuela veniva a trovarmi in ufficio a Marsala, all’uscita da scuola. Quando andavamo tutti via, Paolo Borsellino che aveva amato Antonella come un padre e stravedeva per Manuela la coinvolgeva: ‘Prendi tu la borsa’. E lei ci seguiva, con la scorta. Si, quella borsa di cui abbiamo poi tanto parlato la portava Manuela, fiera di essere utile…». La stessa che l’ufficiale è pronto a portare al piano terra della Legione dove il 3 settembre, nel trentesimo anniversario di un’altra devastante strage, quella del generale Dalla Chiesa, alla presenza della figlia Rita, è stato inaugurato un piccolo ma prezioso museo della legalità. Un dono oggi apprezzato da Manfredi Borsellino: «Mia madre donò quella borsa alla quale teneva soprattutto la piccola Manuela. Andammo a casa loro. La bimba la teneva in camera sua. Toccante. E l’idea di esporla al museo dei carabinieri è una gran cosa…». Un simbolo fra tanti cimeli, compresa l’altra «Agenda rossa 1992», gemella di quella introvabile, oggi ancora sulla scrivania del maggiore Canale.
Felice Cavallaro Corriere della Sera
Ecco la valigetta di Borsellino La conserva il maggiore Canale Conteneva la famosa agenda rossa del magistrato, ma all’interno non c’è
Ricompare dopo vent’anni e diventerà un cimelio da osservare al «museo della legalità» aperto lo scorso 3 settembre presso la Legione dei carabinieri di Palermo la borsa del giudice Paolo Borsellino. Proprio la borsa sparita e ritrovata dopo la strage di via D’Amelio priva della famosa Agenda rossa, da allora introvabile. Si è scoperto che nel 1992 la vedova, Agnese Borsellino, la donò all’allora maresciallo Carmelo Canale, l’uomo ombra del magistrato che oggi, dopo tanti sospetti, processi e assoluzioni, la dona al museo nella Legione dove, dopo una sorta di «esilio» calabrese, adesso lavora col grado di maggiore.
L’AGENDA SPARITA – La foto della borsa, sforacchiata com’è dall’effetto bomba, campeggia sulla prima pagina di “S”, il magazine del gruppo I love Sicilia, dove viene raccontata la storia di questo prezioso cimelio finito nelle mani dell’ufficiale incriminato dalla Procura di Palermo e poi sempre assolto, nonostante venti pentiti abbiano tentato di trasformare Canale in un infido collaboratore del giudice ucciso meno di due mesi dopo il massacro di Giovanni Falcone. «Fu la signora Agnese Borsellino a donarla a mia figlia Manuela…», rivela Canale lasciando inquadrare al fotoreporter Luigi Sarullo il fronte della borsa devastato dall’esplosione, al contrario della parte posteriore e dell’interno, perfettamente intatti. Questo significa che doveva essere integra l’agenda rossa contenuta in uno degli scomparti con gli appunti di Paolo Borsellino, con i riferimenti ai filoni su mafia e appalti, a tangentopoli e ai contatti avuti nelle settimane precedente con fonti tedesche per contattare un pentito agrigentino.
INDAGINI TARDIVE – «Ancora prima degli ingiusti sospetti rovesciati sulla mia persona, nemmeno la magistratura di Caltanissetta volle ascoltarmi quando dicevo che l’agenda rossa i numeri di telefono delle persone contattate in quelle settimane, che le ragioni della strage andavano cercate nel filone mafia appalti, ma si cominciò a indagare su tutto questo troppo tempo dopo», rivela Canale allo scrittore Aldo Sarullo che ne raccolse il primo disappunto. E l’ufficiale rincara la dose oggi: «Il dottore Borsellino aveva perfino in pubblico che attendeva di essere interrogato su Capaci, sulle notizie che lui aveva in relazione agli appalti, ma i magistrati di Caltanissetta non lo convocarono mai. Non solo, ma invitò a cena una sera a casa sua uno dei sostituti che indagavano e non servì a nulla…». Si riaccendono così i riflettori su questa introvabile agenda della quale esiste una copia, come mostra Canale: «Eccone una uguale. ‘Agenda dei carabinieri 1992’. Quando lavoravamo a Marsala, il dottor Brosellino come procuratore, io come suo stretto collaboratore, ce ne regalarono due…».
SOSPETTI SUGLI INQUIRENTI – I sospetti più pesanti coinvolsero il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, inquisito dopo che erano state trovate delle foto in cui figurava a due passi dall’auto di Borsellino mentre si allontana dalla scena del delitto con la borsa in mano. Una vicenda giudiziaria chiusa con un proscioglimento. Nessuno ha mai spiegato come quella stessa borsa sia ricomparsa vuota, repertata dall’allora capo della Mobile Arnaldo La Barbera, consegnata agli uffici giudiziari e, dopo qualche tempo, restituita alla signora Borsellino e ai suoi figli, compreso Manfredi, oggi funzionario i polizia.
IL DONO DI AGNESE – L’odissea giudiziaria ha comunque incrinato i rapporti tra la famiglia e Canale. La signora Borsellino nel ‘92 aveva grande considerazione del maresciallo, a sua volta oggi triste nel ricordo di una tragedia privata: «Mia figlia Antonella era stata uccisa da un tumore e mia figlia Manuela veniva a trovarmi in ufficio a Marsala, all’uscita da scuola. Quando andavamo tutti via, Paolo Borsellino che aveva amato Antonella come un padre e stravedeva per Manuela la coinvolgeva: ‘Prendi tu la borsa’. E lei ci seguiva, con la scorta. Si, quella borsa di cui abbiamo poi tanto parlato la portava Manuela, fiera di essere utile…». La stessa che l’ufficiale è pronto a portare al piano terra della Legione dove il 3 settembre, nel trentesimo anniversario di un’altra devastante strage, quella del generale Dalla Chiesa, alla presenza della figlia Rita, è stato inaugurato un piccolo ma prezioso museo della legalità. Un dono oggi apprezzato da Manfredi Borsellino: «Mia madre donò quella borsa alla quale teneva soprattutto la piccola Manuela. Andammo a casa loro. La bimba la teneva in camera sua. Toccante. E l’idea di esporla al museo dei carabinieri è una gran cosa…». Un simbolo fra tanti cimeli, compresa l’altra «Agenda rossa 1992», gemella di quella introvabile, oggi ancora sulla scrivania del maggiore Canale.
12.7.2017 Assolto Canale, i magistrati rispondano degli errori su via D’Amelio
Roma, 12 lug (Il Velino) – Nessun giornale, tranne due eccezioni (“Il Giornale di Sicilia” e ”Libero”), ha riportato la notizia dell’assoluzione definitiva di Carmelo Canale, oggi capitano dei carabinieri e per anni, da maresciallo e da tenente, il principale e più fidato collaboratore di Paolo Borsellino. Venerdì la quinta sezione della Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla Procura generale di Palermo contro Canale, già assolto in primo e in secondo grado, e ha posto la parola fine a un’indagine e a un processo infiniti, durati 14 anni (Canale è indagato dal 1996 ed è stato rinviato a giudizio nel 1999). “Quando questo processo al tenente Canale sarà finito – scrivevo otto anni fa (“Panorama”, 21 marzo 2002, pag.89) – non sapremo soltanto chi ha suicidato il maresciallo Lombardo. Sapremo pure ciò che tutti i processi celebrati finora per la strage di via D’Amelio non hanno saputo chiarire: chi e perché ha ammazzato Paolo Borsellino”.
Carmelo Canale, infatti, è stato perseguitato per 14 anni non solo perché aveva denunciato per calunnia e per istigazione al suicidio i diffamatori di suo cognato, il maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, che si era sparato un colpo alla tempia con la pistola d’ordinanza il 4 marzo 1995 nel cortile della caserma, ma anche perché, 15 anni prima che lo confermasse il pentito di mafia Gaspare Spatuzza, aveva spiegato che le indagini e i processi per la strage di via D’Amelio erano stati un indescrivibile pasticcio e che i veri responsabili dell’assassinio di Paolo Borsellino e della scorta erano in libertà e in galera erano finiti gli innocenti.
Il maresciallo Lombardo, che aveva comandato per vent’anni la stazione dei carabinieri di Terrasini, il feudo del boss Gaetano Badalamenti, era stato inviato in missione negli Stati Uniti ed aveva convinto Badalamenti, detenuto nelle carceri americane, a venire a deporre in Italia al processo contro Giulio Andreotti, dove avrebbe smentito, come aveva preannunciato, le accuse di Tommaso Buscetta. Autorizzato a tornare negli Usa per prelevare Badalamenti e portarlo a Palermo, Lombardo, proprio mentre stava per partire, era stato accusato dall’ex sindaco di Palermo e leader della “Rete” Leoluca Orlando, ospite della trasmissione di Michele Santoro, di intelligenza con la mafia. La Procura di Palermo, sollecitata dai vertici dell’Arma dei carabinieri, si era rifiutata di smentire le accuse di Orlando e aveva fatto trapelare la voce che si accingeva ad arrestare Lombardo, e questi si era sparato nel cortile della caserma, dopo avere scritto una lettera, in cui denunciava che i suoi guai erano stati provocati dai “viaggi americani”, e cioè dall’avere lui convinto Badalamenti a venire a deporre e a smentire Buscetta.
Canale aveva subito parlato di “delitto di Stato” e, dopo aver denunciato per calunnia e istigazione al suicidio Orlando e Santoro, aveva rivelato il contenuto del rapporto fatto dopo il viaggio negli Usa al comando dell’Arma dei carabinieri da suo cognato Lombardo e dal suo superiore, il maggiore Mauro Obinu, in cui, dopo la conferma che Badalamenti era disposto a venire in Italia a smentire Buscetta, si denunciava che il sostituto procuratore di Palermo, che aveva accompagnato negli Usa i due carabinieri, aveva dimostrato “seria preoccupazione per la decisione di Badalamenti, pericoloso per l’impianto processuale” dell’accusa contro Andreotti poggiato sulle accuse di Buscetta, ed aveva esortato i carabinieri “a non insistere”. Canale sosteneva che qualcuno dalla Procura di Palermo aveva fatto conoscere a Orlando il rapporto segreto di Lombardo e del maggiore Obinu e che il cognato era stato appositamente diffamato e “istigato al suicidio” per impedirgli di andare a prendere Badalamenti e portarlo a deporre in Italia.
Non solo. Deponendo dinanzi allo commissione parlamentare antimafia, allora presieduta da Ottaviano Del Turco, Canale aveva sostenuto che la vicenda Badalamenti-Lombardo-Orlando-Procura di Palermo era intrecciata con la strage di via D’Amelio e che Borsellino era stato ucciso perché, lontano dalla Procura, di cui diffidava, e chiuso nella caserma dei carabinieri, stava indagando sull’assassinio del suo amico Giovanni Falcone con l’ausilio del maggiore Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, autori dell’indagine “mafia e appalti”, una indagine vanificata per la fuga di notizie dalla Procura e ritenuta da Borsellino la vera causa della strage di Capaci.
Canale non aveva finito di deporre dinanzi alla commissione parlamentare antimafia, tra le proteste dei membri comunisti della commissione, che abbandonarono la seduta, che spuntò il primo mafioso “pentito” ad accusarlo. Rapidamente i “pentiti” divennero cinque, poi sette, poi dodici, e accusarono Canale di aver fornito ripetutamente “informazioni” alla mafia in cambio di danaro, che gli era servito prima per curare una figlia malata e poi per costruirle la tomba al cimitero. Il pubblico ministero Massimo Russo (che poi è entrato in politica e oggi è assessore alla Sanità nella giunta Lombardo) aveva chiesto per Canale “che è un Giano bifronte – aveva gridato nella requisitoria finale – che ha indossato per anni la divisa di servitore dello Stato, ma al tempo stesso violava il giuramento di fedeltà alle istituzioni perché faceva parte della mafia, una mafia che è diventata il mostro che è grazie a individui abietti come lui”, la condanna a dieci anni di galera. Canale è stato assolto in primo e secondo grado con formula piena, e i giudici d’appello hanno respinto il ricorso di Russo, rilevando nel pm “preconcetti e ansia colpevolista” e “atteggiamenti ingenerosi”.
E tuttavia ci sono voluti 14 anni e Canale, nel frattempo, è andato in pensione senza poter recuperare la progressione in carriera, che per lui si è fermata al grado di capitano. Ora che è finita, i magistrati di Caltanissetta, competenti per i reati commessi dai magistrati a Palermo, dovrebbero riaprire i verbali segretati delle deposizioni rese all’epoca da Canale, che parlò per nove ore, e iscrivere nel registro degli indagati, sia il pm citato nel rapporto Lombardo-Obinu, che li voleva far “soprassedere” dal portare a Palermo Badalamenti, sia il pm, sempre della Procura di Palermo, che fece intendere che stavano per arrestare Lombardo e provocò il suo suicidio (e il suo nome è nel verbale della deposizione resa dall’allora colonnello Mario Nunzella, comandante dei Ros, dinanzi alla commissione parlamentare antimafia).
Nel frattempo, la commissione parlamentare, oggi presieduta dal senatore Pisanu, anche se è molto occupata a cercare i responsabili della presunta “trattativa” tra lo Stato e la mafia, potrebbe riaprire il plico della deposizione resa a suo tempo da Canale e indagare seriamente sulle responsabilità degli errori madornali commessi nelle indagini e nei processi per la strage di via D’Amelio, senza prendersela con i tre poveri poliziotti oggi indagati a Caltanissetta, ma chiedendone conto, come di dovere, a quella dozzina di pm che hanno indagato nei tre processi e a quella trentina di giudici del primo grado e dell’appello, responsabili delle aberranti sentenze che hanno condannato all’ergastolo gli innocenti e lasciato in libertà i colpevoli. Dal canto suo, il ministro della Giustizia farebbe bene a mandare gli ispettori alla Procura di Palermo per far cessare lo scandalo di questo accanimento giudiziario contro i carabinieri che, dopo il caso Canale, continua con le sedute spiritiche organizzate col figlio di Vito Ciancimino ai danni del generale Mori e, guarda caso, del colonnello Mauro Obinu.
11.7.2010. Adesso, chi paga?
Non fermatevi qui, però. Perché qualcuno deve pagare, e non per la tortura inflitta ad un servitore dello Stato, ma per il depistaggio ai danni dell’Italia. Canale, difatti, è stato assolto in primo grado, assolto in secondo e, giunti in cassazione, il procuratore generale ha chiesto di respingere il ricorso presentato dalla procura di Palermo. La Corte è andata oltre, considerandolo inammissibile. Somari, nel merito e nella procedura. Già, ma il pubblico ministero che sostenne l’accusa contro questo carabiniere oggi è assessore regionale. Amministra la cosa pubblica, veste i panni del moralizzatore, elargisce lezioni di correttezza. Mentre il politico che accusò Lombardo, esponendo la sua famiglia a un pericolo rispetto a quale quell’uomo preferì la morte propria, che accusò Giovanni Falcone di tenere nei cassetti le indagini, anch’egli complice di mafiosi e amici dei mafiosi, ancora calca la scena, esponente del partito giustizialista e manettaro, sempre pronto a dire che l’opera dei magistrati deve avere la precedenza. Ora la giustizia ha fatto il suo corso, Canale è definitivamente innocente, ma questa gente è passata a parlar d’altro, senza che nessuno li rimproveri, senza che si sbatta loro in faccia quel che hanno combinato. Un Paese, il nostro, senza anticorpi, senza memoria, quindi senza dignità. Mi prendo i miei rischi, allora, e mentre i copisti di procura scioperano per non essere imbavagliati (tanto stanno zitti per vocazione), urlo la rabbia di un’Italia che vuole essere diversa.
Badate bene, la cosa riguarda solo marginalmente Carmelo Canale. Carne da cannone, spappolata da uno Stato fellone e ingiusto. Ma la vicenda collettiva è assai più vasta e ci riguarda tutti. Siamo ancora qui a discutere dell’ipotesi che ci sia stata una trattativa fra lo Stato e la mafia, pendiamo dalla bocca di disonorati e figli di disonorati, che rateizzano le “rivelazioni” e risiedono stabilmente sulle prime pagine, ai servitori dello Stato, però, abbiamo messo un sasso in bocca, allo stesso Canale abbiamo impedito di parlare, per quattordici anni, e se anche avesse parlato nessuno lo sarebbe stato ad ascoltare, come non è stata pubblicata la notizia della sua assoluzione, e tutto questo capita perché si fa fede a chi ha lavorato per gli assassini, non a chi ha lavorato per lo Stato e per Borsellino. Vi è chiaro, questo? Che altro dovete leggere e sapere per urlare tutti contro il mare di minchionerie nel quale siamo stati annegati?
Nessuno replicherà, come nessuno ha interesse a sapere che fine fece l’inchiesta mafia appalti, che dopo l’eliminazione di Paolo Borsellino la procura di Palermo provvide a smembrare, sezionare, spappolare e neutralizzare. Nessuno replica perché l’unica cosa che sanno fare è mettere il bavaglio, coprendo le poche voci eterodosse con il silenzio e l’accantonamento. Queste storie di mafia, e, soprattutto, queste storiacce di falsa antimafia, sono il sigillo di un’Italia deviata. Che, però, state bene attenti, non si nasconde nell’ombra, non trama nel segreto, bensì s’esibisce davanti ai vostri occhi, incucchiaiandovi la bocca con presunte “verità” che, però, sono il contrario delle verità precedenti. La verità al servizio della fazione e del disegno politico, una suggestione orwelliana che, da noi, è divenuta realtà. Fino a sconfinare nel comico, così che chi ci raccontò la credibilità di Scarantino, e su quella basò sentenze definitive relative alla morte di Borsellino, oggi sdottoreggia sulla credibilità di Spatuzza, che dimostra quanto il primo sia un buffone. Ma la coerenza e la serietà non sono specialità praticate da procuratori e giornalisti battaglieri, in eterna guerra contro il diritto e l’onestà.
Nessuno pagherà, allora, per la semplice ragione che abbiamo già pagato tutti. Il prezzo più alto: la rinuncia alla giustizia e la falsificazione della nostra storia. L’assoluzione di Carmelo Canale è solo una piccola consolazione, che a lui è costata una vita.
DAVIDE GIACALONE