Salvatore Riina – biografia

 

Salvatore Riina, detto Totò (Corleone, 16 novembre 1930Parma, 17 novembre 2017), è stato un mafioso e terrorista italiano.

Legato a Cosa nostra, di cui è stato il capo assoluto dal 1982 fino al suo arresto, avvenuto il 15 gennaio 1993, è generalmente ritenuto il più potente, pericoloso e sanguinario mafioso di sempre, venendo etichettato come il capo dei capi e con i soprannomi û curtu (il basso), per via della sua bassa statura (158 cm) e la belva, per indicare la sua brutalità sanguinaria. Era detenuto presso il carcere di Opera, dove stava scontando 26 ergastoli.

Le origini e l’ingresso in “Cosa Nostra”

Salvatore Riina nacque a Corleone in una famiglia di contadini il 16 novembre 1930. Nel settembre 1943 perse il padre Giovanni e il fratello Francesco (di 7 anni): i tre, insieme al fratello Gaetano, stavano cercando di estrarre la polvere da sparo da una bomba inesplosa, rinvenuta tra le terre che curavano, per rivenderla insieme al metallo. Gaetano rimase ferito, mentre Totò rimase illeso. In questi anni conobbe il mafioso Luciano Liggio, con il quale intraprese il furto di covoni di grano e bestiame e che lo affiliò nella locale cosca mafiosa, di cui faceva parte anche lo zio paterno di Riina, Giacomo.

A 19 anni Riina fu condannato a una pena di 12 anni, scontata parzialmente nel carcere dell’Ucciardone, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo, Domenico Di Matteo, venendo scarcerato nel 1956. Insieme a Liggio e alla sua banda, cominciò a occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato nei terreni della società armentizia di contrada Piano di Scala. Nel 1958 Liggio eliminò il suo capo Michele Navarra e nei mesi successivi, insieme alla sua banda, di cui faceva parte anche Riina, scatenò un conflitto contro gli ex uomini di Navarra, che furono in gran parte assassinati fino al 1963.

Riina venne però arrestato nel dicembre del 1963 a Corleone nella parte alta del paese, da una pattuglia di agenti di Polizia di cui faceva parte anche il commissario Angelo Mangano il quale, nel 1964, parteciperà, sotto la direzione del tenente colonnello dei Carabinieri Ignazio Milillo, alla cattura di Luciano Liggio. Riina, che aveva una carta d’identità rubata (dalla quale risultava essere “Giovanni Grande” da Caltanissetta) e una pistola non regolarmente dichiarata, tentò di scappare, ma venne catturato dalle forze dell’ordine. Fu riconosciuto dall’agente Biagio Melita.

Tuttavia, dopo aver scontato alcuni anni di prigione nel carcere dell’Ucciardone(dove conobbe Gaspare Mutolo), fu assolto per insufficienza di prove nel processo svoltosi a Bari nel 1969. Dopo l’assoluzione, Riina si trasferì con Liggio a Bitonto, in provincia di Bari, ma il Tribunale di Palermo emise un’ordinanza di custodia cautelare nei loro confronti. Riina tornò da solo a Corleone, dove venne arrestato e gli venne applicata la misura del soggiorno obbligato nella cittadina di San Giovanni in Persiceto (BO); scarcerato e munito di foglio di via obbligatorio, Riina non raggiunse mai il luogo di soggiorno obbligato e si rese irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza.

I rapporti con la politica e la “seconda guerra di mafia”

La «strage di viale Lazio» (10 dicembre 1969), organizzata da Riina per assassinare il boss Michele Cavataio

Il 10 dicembre 1969, Riina fu tra gli esecutori della cosiddetta strage di Viale Lazio, che doveva punire il bossMichele Cavataio. Nel periodo successivo Riina sostituì spesso Liggio nel “triumvirato” provvisorio di cui faceva parte assieme ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, che aveva il compito di dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo. Riina e Liggio divennero i principali capi-elettori del loro compaesano Vito Ciancimino, il quale venne eletto sindaco di Palermo; nel 1971, Riina fu esecutore materiale dell’omicidio del procuratore Pietro Scaglione e, nello stesso anno, partecipò ai sequestri a scopo di estorsione ordinati da Liggio a Palermo: furono rapiti Antonino Caruso, figlio dell’industriale Giacomo, e il figlio del costruttore Francesco Vassallo, mentre nel 1972 Riina stesso ordinò il sequestro del costruttore Luciano Cassina, nel quale vennero implicati uomini della cosca di Giuseppe Calò: l’obiettivo principale di Riina non era solo quello di incassare il denaro del riscatto, ma anche quello di colpire Badalamenti e Bontate, che erano legati al padre dell’ostaggio, il conte Arturo Cassina, che aveva il monopolio della manutenzione della rete stradale, dell’illuminazione pubblica e della rete fognaria a Palermo.

Attraverso Liggio, Riina divenne “compare di anello” di Mico Tripodo, boss della ‘ndrangheta, e si legò ai fratelli Nuvoletta, camorristi napoletani affiliati a Cosa nostra, con cui avviò un contrabbando di sigarette estere. Nel 1974, Riina divenne il reggente della cosca di Corleone dopo l’arresto di Liggio e nel 1975 fece sequestrare e uccidere Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo, ricco e famoso esattore affiliato alla cosca di Salemi; il sequestro venne attuato per dare un duro colpo al prestigio di Badalamenti e di Bontate, i quali erano legati a Salvo e non riusciranno a ottenere né la liberazione dell’ostaggio, né la restituzione del corpo, anche se Riina negò con forza ogni coinvolgimento nel sequestro.

Nel 1978, Riina ottenne l’espulsione di Badalamenti dalla Commissione, con l’accusa di aver ordinato l’uccisione di Francesco Madonia, capo della cosca di Vallelunga Pratameno (Caltanissetta) e strettamente legato ai Corleonesi;l’incarico di dirigere la “Commissione” passò a Michele Greco, che avallerà tutte le successive decisioni di Riina. Per queste ragioni, Giuseppe Di Cristina, capo della cosca di Riesi legato a Bontate e Badalamenti, tentò di mettersi in contatto con i Carabinieri, accusando Riina e il suo luogotenente Bernardo Provenzano di essere responsabili di numerosi omicidi per conto di Liggio, all’epoca detenuto; alcuni giorni dopo le sue confessioni, Di Cristina venne ucciso a Palermo a maggio, mentre in settembre dopo anche il suo socio Giuseppe Calderone, capofamiglia di Catania, finì anche ammazzato dal suo luogotenente Nitto Santapaola, che si era accordato con Riina.

L’omicidio di Stefano Bontate (23 aprile 1981), che aprì la “seconda guerra di mafia

Nel 1981, Riina fece eliminare Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia, strettamente legato a Bontate, il quale reagì organizzando un complotto per uccidere Riina, che però venne rivelato da Michele Greco e Salvatore Montalto; Riina allora orchestrò l’assassinio di Bontate, avvalendosi anche del tradimento del fratello di quest’ultimo, Giovanni, e del suo capo-decina Pietro Lo Iacono. L’11 maggio 1981, venne ucciso anche il boss Salvatore Inzerillo, strettamente legato a Bontate. I due omicidi diedero inizio alla cosiddetta «seconda guerra di mafia» e, nei mesi successivi, nella provincia di Palermo, i boss dello schieramento che faceva capo a Riina uccisero oltre 200 mafiosi della fazione Badalamenti-Bontate-Inzerillo, mentre molti altri rimasero vittime della cosiddetta «lupara bianca». Il massacro continuò fino al 1983, quando si insediò una nuova “Commissione”, composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e Provenzano e guidata dallo stesso Riina, anche se gli omicidi e le lupare bianche continuarono.

Il principale referente politico di Riina inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto di collaborazione con la corrente di Giulio Andreotti, in particolare con Salvo Lima, che sfociò poi in un formale inserimento in tale gruppo politico e nell’appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983. Per proteggere gli interessi di Ciancimino, Riina propose alla “Commissione” gli omicidi dei suoi avversari politici: il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa nostra.

Il ruolo nella seconda guerra di mafia

Dopo l’inizio della seconda guerra di mafia, i cugini Ignazio e Nino Salvo, ricchi e famosi esattori affiliati alla cosca di Salemi, passarono dalla parte dello schieramento dei Corleonesi, che faceva capo proprio a Riina, e furono incaricati di curare le relazioni con Salvo Lima, che divenne il nuovo referente politico di Riina, soprattutto per cercare di ottenere una favorevole soluzione di vicende processuali; infatti, sempre secondo i collaboratori di giustizia, Lima si sarebbe attivato per modificare in Cassazione la sentenza del maxiprocesso di Palermo che condannava Riina e molti altri boss all’ergastolo. In particolare, il collaboratore Baldassare Di Maggio riferì che nel 1987 accompagnò Riina nella casa di Ignazio Salvo a Palermo, dove avrebbe incontrato Lima e il suo capocorrente Giulio Andreotti per sollecitare il loro intervento sulla sentenza; la testimonianza dell’incontro venne però considerata inattendibile nella sentenza del processo contro Andreotti.

Gli attentati del biennio 1992/1993 e l’arresto

Tuttavia, il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò gli ergastoli del maxiprocesso e sancì l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal pentito Tommaso Buscetta. Sempre secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, Riina decise allora di lanciare un avvertimento ad Andreotti, che si era disinteressato alla sentenza e anzi aveva firmato un decreto-legge che aveva fatto tornare in carcere gli imputati del maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini e quelli agli arresti domiciliari: per queste ragioni il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche e, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò a Ignazio Salvo.

Le deposizioni dei collaboratori di giustizia (su tutti Tommaso Buscetta) scateneranno la ritorsione di Cosa Nostra su precisa indicazione di Totò Riina, il quale autorizzò i capofamiglia a eliminare i familiari dei pentiti “sino al 20º grado di parentela”, compresi i bambini e le donne.

Ai primi di luglio del 1992, fece particolare scalpore l’intervista resa al TGRdall’avvocato Cristoforo Fileccia, storico difensore di Riina, il quale affermò che il suo assistito “si trovava in Sicilia e lo incontrava spesso“, affermazioni per le quali fu indagato per favoreggiamento.

L’allora vicecomandante dei Ros, Mario Mori, incontrò nei primi giorni di giugno e nei mesi successivi Vito Ciancimino, proponendo una trattativa con Cosa Nostra per mettere fine alla lunga scia di stragi che insanguinavano Palermo. Mori si difese raccontando di avere avviato i contatti per tendere una trappola volta a stanare qualche latitante, ma Riina rispose con il papello, un documento di richieste per ammorbidire le condizioni dei detenuti, degli indagati, delle loro famiglie, la cancellazione della legge sui pentiti e la revisione del maxiprocesso.

L’esistenza della trattativa Stato-mafia è stata successivamente confermata da varie sentenze e dalle dichiarazioni di numerosi pentiti e di uomini dello Stato che per 20 anni avevano taciuto sulla trattativa. La stessa trattativa, secondo l’accusa, si sarebbe svolta per mezzo del papello che Riina avrebbe fatto avere al Ros dei carabinieri. Le richieste del boss Corleonese riguardavano il 41 bis, la chiusura delle carceri di Pianosa e Asinara e l’abolizione dell’ergastolo. Il 12 marzo 2012, poi, nella motivazione della sentenza del processo a Francesco Tagliavia per le stragi del 1992 – 1993, i giudici scrivono che la trattativa tra Stato e Cosa nostra “ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des […] L’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”.

Nell’estate del 1992 fu il principale responsabile della strage di Capaci e della strage di via D’Amelio. L’8 gennaio 1993, il collaboratore Balduccio Di Maggiorivelò ai Carabinieri di Novara dove si trovava il “covo” di Riina, una villa con palme nel centro di Palermo, che incrociava via Bernini 55, dove aveva trascorso venticinque anni di latitanza.

La casa non era distante dai luoghi nei quali il clan svolgeva abitualmente i propri affari e dove nel 2018 fu scoperto anche il figlio dell’autista e fiduciario di Riina, il mafioso Salvatore Biondino.

L’arresto avvenne a un chilometro e quindici minuti di auto dalla ventennale sua dimora. Il 15 gennaio del 1993 fu catturato dal CRIMOR (la squadra speciale dei ROS guidata da Sergio De Caprio, noto con il soprannome di Capitano Ultimo). Riina, latitante dal 1969, venne arrestato al primo incrocio davanti alla sua villa, in via Bernini n. 54, insieme al suo autista Salvatore Biondino, a Palermo. Nella villa aveva trascorso alcuni anni della sua latitanza, insieme alla moglie Antonietta Bagarella e ai suoi figli. L’arresto fu favorito dalle dichiarazioni rese nei giorni precedenti al generale dei carabinieri Francesco Delfino dall’ex autista di Riina, Baldassare (Balduccio) Di Maggio, che decise di collaborare per ritorsione verso Cosa Nostra, che lo aveva condannato a morte.

La condanna al regime carcerario duro

Il 1º marzo 1993, Riina fece la sua prima apparizione pubblica dopo l’arresto durante un’udienza del processo per gli omicidi MattarellaReinaLa Torre, in cui figurava come imputato: davanti ai giudici, affermò di essere vittima di un complotto ordito dai cosiddetti “pentiti” e negò addirittura di far parte di Cosa Nostra, paragonandosi al noto presentatore Enzo Tortora; chiese ed ottenne inoltre di essere messo a confronto con i suoi principali accusatori, i collaboratori di giustizia Giuseppe Marchese e Gaspare Mutolo (confronti che ottennero visibilità nazionale poiché vennero trasmessi dal programma televisivo di Rai 3 Un giorno in pretura), mentre quello con Tommaso Buscettavenne in un primo momento richiesto e poi rifiutato dallo stesso Riina in aula poiché affermò che era un personaggio di scarsa moralità rispetto a lui.

A partire dal dicembre 1995, Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell’Asinara, in Sardegna. In seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto, ad Ascoli Piceno, dove, per circa tre anni, è stato sottoposto al carcere duro, previsto per chi commette reati di mafia (41-bis), ma il 12 marzo del 2001 gli viene revocato l’isolamento, consentendogli di fatto la possibilità di vedere altri detenuti nell’ora di libertà.

Proprio mentre era sottoposto a regime di 41-bis, il 24 maggio 1994, durante una pausa del processo di primo grado a Reggio Calabria per l’uccisione del giudice Antonino Scopelliti, fu raggiunto da Michele Carlino, giornalista di un’agenzia video (Med Media News), al quale rilasciò dichiarazioni minacciose contro il procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli e altri rappresentanti delle istituzioni e della cultura (Luciano Violante, all’epoca presidente della Commissione antimafia, e il sociologo Pino Arlacchi), accusandoli di fare parte di un presunto complotto “comunista” ai suoi danni e lamentandosi delle severe condizioni imposte dal carcere duro. L’intervento di Riina causò l’apertura di un provvedimento disciplinare da parte del Consiglio Superiore della Magistraturacontro il pubblico ministero Salvatore Boemi, accusato di non aver vigilato sul detenuto. Dopo pochi mesi dalle dichiarazioni del boss corleonese il regime di 41-bis (allora valido per soli tre anni, decorsi i quali decadeva la sua applicabilità) è stato rafforzato mediante vari interventi legislativi volti a renderlo prorogabile di anno in anno.

Gli ultimi anni e la morte

A metà marzo del 2003 subì un intervento chirurgico per problemi cardiaci e nel maggio dello stesso anno venne ricoverato nell’ospedale di Ascoli Piceno per un infarto. Sempre nel 2003, a settembre, venne nuovamente ricoverato per problemi cardiaci.

Il 22 maggio 2004, nell’udienza del processo di Firenze per la strage di via dei Georgofili, accusò il coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi di Capaci e via d’Amelio e riferì dei contatti fra l’allora colonnello Mario Mori e Vito Ciancimino, attraverso il figlio di lui Massimo, al tempo non convocato in dibattimento.

Trasferito nel carcere di Opera, venne nuovamente ricoverato nel 2006, sempre per problemi cardiaci, all’ospedale San Paolo di Milano.

Nel 2017, gli avvocati di Riina fecero richiesta al tribunale di sorveglianza di Bologna per il differimento della pena a detenzione domiciliare, sottoponendo come motivazione lo stato precario di salute dello stesso Riina. Il 19 luglio il tribunale si pronunciò negativamente su questa istanza, spiegando che Riina “non potrebbe ricevere cure e assistenza migliori in altro reparto ospedaliero, ossia nel luogo in cui ha chiesto di fruire della detenzione domiciliare”.

Dopo essere entrato in coma in seguito all’aggravarsi delle condizioni di salute, Riina morì alle ore 3:37 del 17 novembre 2017, il giorno successivo al suo ottantasettesimo compleanno, nel reparto detenuti dell’ospedale Maggiore di Parma. A seguito del decesso, la Procura di Parma ha disposto che venisse eseguita l’autopsia della salma per escludere un potenziale caso di omicidio colposo o doloso a carico di ignoti. L’autopsia è stata eseguita dall’anatomopatologa Rosa Maria Gaudio, dell’Università di Ferrara. Nei giorni successivi “il capo dei capi” è stato sepolto nel cimitero di Corleone.

Processi

Condanne

Assoluzioni

Il processo sulla trattativa Stato-Mafia

Dal carcere di Opera, il 19 luglio 2009, nel ricorrerne l’anniversario, Riina espresse di nuovo la sua posizione secondo cui la strage di via D’Ameliosarebbe da imputare ad altri soggetti e non a lui, nello stesso periodo in cui Massimo Ciancimino annunciò che avrebbe consegnato ai magistrati il “papello”, una sola pagina a firma di Riina che conterrebbe le condizioni poste dalla mafia allo Stato. Tuttavia i legali di Riina smentirono che il loro assistito avesse partecipato a una trattativa fra Stato e mafia.

Il 24 luglio 2012, la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all’indagine sulla trattativa Stato-mafia, chiese il rinvio a giudizio di Riina e altri 11 indagati accusati di “concorso esterno in associazione mafiosa” e “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”. Gli altri imputati sono i politici Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri, gli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Bernardo Provenzano, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (anche “calunnia”) e l’ex ministro Nicola Mancino (“falsa testimonianza”).

Nel novembre 2013, trapelò la notizia di minacce da parte di Riina nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo, il pm che rese l’accusa in numerosi procedimenti penali a suo carico, e degli altri magistrati che svolsero il ruolo di pubblici ministeri nel processo sulla trattativa Stato-mafia: Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi, Francesco Del Bene.

Il 4 marzo 2014, venne nuovamente ricoverato. Il 31 agosto 2014 i giornali riferirono che nel novembre dell’anno prima Riina avrebbe rivolto minacce anche nei confronti di Don Luigi Ciotti.

Vita privata

Il 16 aprile 1974 Riina sposò, tramite un matrimonio che poi risulterà non valido legalmente, Antonietta Bagarella, sorella degli amici d’infanzia Calogero e Leoluca Bagarella. Dall’unione nacquero quattro figli: Maria Concetta (19 dicembre 1974), Giovanni Francesco (21 febbraio 1976), Giuseppe Salvatore (3 maggio 1977) e Lucia (11 aprile 1980).

Giovanni Francesco Riina fu condannato all’ergastolo per quattro omicidi avvenuti nel 1995.

Giuseppe Salvatore Riina fu dapprima condannato per associazione mafiosa, quindi scarcerato il 29 febbraio 2008 per decorrenza dei termini dopo essere stato detenuto per otto anni. Il 2 ottobre 2011, dopo aver scontato completamente la pena di 8 anni e 10 mesi, venne nuovamente rilasciato sotto prevenzione con obbligo di dimora a Corleone e iniziò a trapelare la notizia di un suo piano per organizzare un attentato ai danni dell’ex Ministro della Giustizia Angelino Alfano a seguito dell’inasprimento del regime dell’articolo 41-bis.

Impatto culturale

Libri biografici

 

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