Mafia, Messina Denaro latitante in Calabria prima dell’arrivo a Campobello
Grazie alla protezione della ‘ndrangheta Matteo Messina Denaro si sarebbe rifugiato tra Lametia Terme e Cosenza
È il 3 settembre del 2016. Nicola Accardo e Antonino Triolo, due mafiosi di Partanna, nel trapanese, parlano non sapendo di essere intercettati. “Dice che Matteo era in Calabria ed è tornato…”, rivela Accardo. Gli investigatori non hanno dubbi: si tratta di Matteo Messina Denaro, all’epoca ricercato numero uno in Italia. Una pista tornata d’attualità quella calabrese perchè dagli ultimi elementi raccolti dagli inquirenti emerge che l’ultima tappa della latitanza del padrino di Castelvetrano, prima del suo trasferimento a Campobello di Mazara, è stata proprio la Calabria. Grazie alla protezione della ‘ndrangheta Matteo Messina Denaro si sarebbe rifugiato tra Lametia Terme e Cosenza, città in cui il boss avrebbe avuto anche diversi affari: da quello dei traffici di droga in cui le ‘ndrine hanno ormai conquistato un ruolo di primo piano, alla realizzazione di un villaggio turistico e di impianti eolici, business sul quale il capomafia, attraverso l’imprenditore Vito Nicastri, avrebbe investito anche in Sicilia. Ma, mentre quella trascorsa da Messina Denaro a Campobello è stata quasi una vita normale, in Calabria, secondo gli investigatori, il capomafia avrebbe avuto una latitanza simile a quella del suo storico alleato corleonese, Bernardo Provenzano costretto a nascondersi e a spostarsi più volte. (ANSA 11.5.2023).
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La latitanza iniziata nell’estate 1993 – Nei suoi confronti è stato emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materiale esplosivo, furto e altri reati minori. E da allora Messina Denaro è irreperibile. Nessuna traccia. C’è chi assicura che vivrebbe in Sicilia, spostandosi di continuo. Chi parla di interventi chirurgici al viso e ai polpastrelli. Chi dice che è protetto dalla ‘ndrangheta. Chi di volta in volta lo colloca sulle tribune di uno stadio o in una spiaggia all’estero.
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Prima della strage di Capaci, Cosa Nostra aveva progettato l’eliminazione “eclatante” del giudice Paolo Borsellino, con un’autobomba a Marsala ma i boss si rifiutarono. Sarebbero morte troppe persone. A raccontarlo in Corte d’Assise il pentito Carlo Zichittella, nel processo a carico del superlatitante Matteo Messina Denaro, per le stragi del 1992. Borsellino dirigeva la procura della Repubblica a Marsala, tra la fine del ’91 ed i primi del ’92. Il pentito ha raccontato di aver saputo da Gaetano D’Amico della riunione che si tenne a Mazara del Vallo. I capi Francesco D’Amico e Francesco Craparotta, interpellati dalla famiglia di Mazara, si rifiutarono di eliminare Borsellino in “modalità eclatanti” e per questo furono uccisi.
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Delle protezioni accordate al boss latitante Matteo Messina Denaro parlano tutti. Protezioni istituzionali e politiche. Ipotesi, generici pourparler che lasciano il tempo che trovano. Ben diverso provare a capire chi oggi protegga il latitante, chi lo favorì quando organizzava le stragi di Capaci e via D’Amelio, il perché di quelle stragi.
Il magistrato Nino Di Matteo, qualche giorno fa, ha affermato come sia “grave che la latitanza di Matteo Messina Denaro, condannato all’ergastolo per questi fatti, si protragga da 27 anni. Così come per 43 anni si protrasse latitanza di Provenzano. Situazioni di questo genere non possono non essere anche, in parte, il frutto di coperture istituzionali e politiche. Non è normale che per 27 anni, o 43 anni, non si riesca a catturare un latitante” aggiungendo che nel caso di Matteo Messina Denaro “la gravità è acuita dal fatto che è stato uno dei protagonisti della campagna stragista. Questo lo pone in condizioni, potenzialmente perché è uno dei pochi depositari di segreti inconfessabili, di brandire un’arma micidiale di ricatto nei confronti di chi ha ancora molto da nascondere su quella fase di storia recente”. Parole, fiumi di parole, e non solo quelle di Di Matteo, che nulla aggiungono o tolgono ai fatti. Non serviva il magistrato Di Matteo per capire che la strage di via D’Amelio non fu solo opera di “cosa nostra” o che comunque dietro quelle stragi si celassero interessi che coinvolgevano il mondo degli affari, della politica, i potentati economici. “Dopo gli iniziali depistaggi ed errori già dal 1996 le indagini dei processi hanno consentito di accertare passaggi importanti” ha affermato Di Matteo. Ma quali indagini e quali processi hanno permesso di accertare questi passaggi importanti? Per anni si è dato credito al falso pentito Vincenzo Scarantino e soltanto adesso, a distanza di 28 anni dalle stragi, emerge una verità che ha portato a indagare e accusare chi gestì il falso pentito.
Di Matteo, inoltre, sbaglia a indicare come depistaggi ed errori iniziali quelli del ’96, visto che forse non si è accorto di come nel processo in corso a Caltanissetta, che vede Matteo Messina Denaro imputato per le stragi, vien fuori il nome di un altro inquinatore dei pozzi – così lo ha definito il pm Gabriele Paci – che già nel ‘91spostava l’attenzione dai Messina Denaro, padre e figlio, in direzione di altri soggetti che venivano indicati quali capi mafia del trapanese.
Vincenzo Calcara indicò in Mariano Agate il capo provincia di Trapani (anziché Francesco Messina Denaro) e non fece mai il nome di Matteo Messina Denaro. Un paio di settimane fa, con un post sulla sua pagina Facebook, nell’attaccare il pm Paci è tornato a tentare di discolpare il boss latitante dall’accusa di aver progettato, o dato il consenso, alle stragi nella quali morirono i giudici Falcone e Borsellino. Perché?
Eppure, Calcara, evidentemente senza rendersene conto, con il suo post del 9 agosto, tentando di scagionare il boss latitante dall’accusa di aver preso il posto del padre ai vertici della consorteria mafiosa, dichiara, per l’ennesima volta, un fatto importantissimo:
“Quando nell’ autunno del 1991 – ero latitante- ho incontrato Matteo Messina Denaro, gia’ adulto in quanto aveva 29 anni , non sapevo il suo ruolo all’ interno della famiglia mafiosa di Castelvetrano, ma in quella occasione il suo ruolo era anche di partecipare per uccidere il Dott. Paolo Borsellino e ho capito che tra lui e il padre c’era una perfetta simbiosi, come se erano la stessa persona”
Calcara dunque era a conoscenza del ruolo che Matteo Messina Denaro avrebbe avuto nell’esecuzione delle stragi, a prescindere dalla sua posizione gerarchica all’interno della consorteria mafiosa. Eppure in quel lontano 1991, quando dice di aver tentato di salvare la vita a Borsellino, non ne parlò. Matteo Messina Denaro per altri due anni ancora fu lasciato libero di agire indisturbato. Solo nell’estate 1993, mentre avvenivano gli altri attentati dinamitardi, dopo aver trascorso una vacanza a Forte dei Marmi insieme con i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, si diede alla latitanza.
Ha ragione Di Matteo nel sostenere che la latitanza del boss è frutto anche di coperture istituzionali e politiche. Venga però a spiegarci da parte di chi. Venga a spiegarci le opere di depistaggio, il perché per decenni si è voluto ignorare il fatto che Falcone e Borsellino ritenevano di vitale importanza le indagini condotte da Mori e De Donno in materia di mafia-appalti.
Di Calcara, depistaggi e mafia-appalti, abbiamo scritto a lungo (forse per alcuni anche troppo). È di qualche giorno fa l’intervista realizzata dal giornalista Paolo De Chiara al collaboratore di giustizia siciliano Benito Morsicato. Il collaboratore, le cui propalazioni alla stessa maniera di quelle degli altri devono essere attentamente verificate, nel ricostruire gli anni dell’inizio della sua collaborazione con la giustizia, a partire dal 2014, quando cominciò a parlare di Matteo Messina Denaro, dichiara “ho avuto un casino di problemi”.
Morsicato, che nell’intervista afferma di aver fatto arrestare circa 60 persone, tra le quali tutti i parenti di Matteo Messina Denaro e persone molto vicine a lui, racconta di aver paura.
Di cosa ha paura? – chiede il giornalista.
“Nel 2014, quando ho iniziato la mia collaborazione, dissi telefonicamente a mia moglie, ero stato autorizzato dalla Procura di Palermo a poter telefonare ogni giorno dieci minuti solo a mia moglie per sentire lei e le bambine, loro già si trovavano in una località segreta e io in un carcere definito località segreta. Ero a Frosinone. A mia moglie dissi telefonicamente, perché era stata autorizzata a fare un incontro con i genitori in località segreta, di portarmi degli appunti, avevo il vizio di segnarmi tutto anche quando facevo parte dell’organizzazione mafiosa… Mia moglie viene accompagnata con la scorta ad incontrare i genitori e guarda caso viene fatto il furto nella macchina di scorta. Vengono rubate le due valigie dove all’interno c’erano gli appunti, le cose che dovevo dichiarare ai PM…”
Una vicenda che il collaboratore dichiara venne denunciata. A suo parere, chi portò via le due valigie ne conosceva il contenuto, poiché le telefonate sicuramente erano controllate. Una storia che Morsicato collega a un altro episodio accaduto al Tribunale di Palermo.
“Lo sa dove è avvenuto lo stesso furto, nello stesso periodo? Sempre su Matteo Messina Denaro. Così ho collegato… – prosegue il collaboratore – Al Tribunale di Palermo, nell’ufficio della Principato. Sparito un PC con le chiavette, dove c’erano tutte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e delle importanti prove su Matteo Messina Denaro. Dentro la Procura. E allora mi son messo un po’ di paura.”
Di questa storia abbiamo scritto più volte, fin da quando venne assolto per la settima volta il finanziere Calogero Pulici, stretto collaboratore della Principato e proprietario sia del pc che delle chiavette scomparse. Anni di indagini sul boss latitante, svanite nel nulla.
Ma non soltanto di questo si tratta, visto che ai supporti telematici scomparsi dall’interno del tribunale, fece seguito la cancellazione di tutti i dati contenuti nel computer sequestrato dagli inquirenti a casa del Pulici. Perché vennero cancellati questi dati sul computer personale del Pulici? Perché nessuno chiese a Pulici neppure di che marca fosse il computer scomparso dall’ufficio della Principato? Per quale motivo, la Guardia di Finanza che operò il sequestro del computer di Pulici presso la sua abitazione, dichiarò che si trattava del computer scomparso dagli uffici della procura, nonostante le palesi differenze persino della dimensione? Errori e sviste dovute all’improvviso venir meno della fiducia nei confronti di Pulici da parte della procura? Chi lo sa, quello che sappiamo per certo, le tante anomalie che riguardarono anche l’indagine su due magistrati, Marcello Viola e Teresa Principato, che durante quel periodo indagavano sulla latitanza di Matteo Messina Denaro. Due magistrati che proprio per questi fatti vennero indagati con l’infamante accusa dell’aggravante dell’articolo 7, l’aver favorito la mafia. Risulteranno poi estranei a ogni accusa, in quella che ha tutta l’apparenza di una guerra tra toghe.
Una guerra spietata. Viola, Principato e Pulici, nel 2015, sono oggetto di un’anonima lettera di minacce. A differenza di quello che accade in merito gli accertamenti sulla scomparsa dalla procura dei supporti telematici di Pulici, viene immediatamente avviata attività investigativa volta a individuare impronte papillari latenti sulla missiva. A tal proposito vennero effettuati accertamenti tecnici non ripetibili, di tipo biologico, per i quali si comunicava potevano partecipare consulenti o avvocati nominati dalle parti. Ovvero, dai destinatari della missiva minatoria. Inutile chiedersi quale fosse il dubbio, il “buon Giulio Andreotti” avrebbe dato immediatamente una risposta.
È il periodo in cui la magistratura indaga anche sulla scorta delle rivelazioni dell’architetto agrigentino Giuseppe Tuzzolino, arrestato nel 2013 per truffa al Comune di Palma di Montechiaro, il quale narra agli inquirenti dell’esistenza di una “superloggia” che s’interessa degli appalti in Sicilia, guidata dal boss latitante Matteo Messina Denaro. Sia l’allora procuratore di Trapani Marcello Viola che il procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato sentono Tuzzolino. È il finanziere Pulici a mettere a verbale le dichiarazioni dell’architetto che racconta di legami tra mafia, politica e massoneria, tracciando in particolare l’organigramma, la struttura e la mappatura di quest’ultima.
Tuzzolino è un fiume in piena. Racconta di incontri tra soggetti arrestati nell’operazione Cupola, di uomini di ‘cosa nostra’ che entrano a far parte della massoneria per potersi fare accreditare nel territorio del latitante di Castelvetrano.
Come per tutte le propalazioni dei collaboratori di giustizia, servono i riscontri. Era credibile Tuzzolino quando parlava di mafia, politica e massoneria? Era credibile quando dichiarava di conoscere Matteo Messina Denaro e di sapere dove si nascondesse il latitante? Questo forse non lo sapremo mai. Tuzzolino è stato poi dichiarato inattendibile, ma tutto quel che disse era frutto di fantasia? Sappiamo che in ogni caso le dichiarazioni del collaborante in quel momento non potevano essere ignorate e che il partecipare a quelle indagini faceva gola a molti.
Era trascorso qualche anno da quando Francesco Messineo, all’epoca procuratore di Palermo, aveva ordinato 49 arresti in provincia di Agrigento. Tra questi, quello di Leo Sutera, detto “il professore”, un capomafia che secondo la Principato poteva consentire agli inquirenti di arrivare a Matteo Messina Denaro, con il quale era in contatto. Secondo la Principato, le attività d’indagine dei Ros che da un pezzo seguivano le mosse di Leo Sutera, vennero mandate in fumo da quegli improvvidi arresti.
Bruciata quell’indagine, si apriva una nuova pista, proprio nel momento in cui sembrava che a Palermo si potesse arrivare a una collaborazione fattiva tra carabinieri e polizia, a tal punto da pensare a una comune centrale operativa ubicata nell’hangar di Bocca di Falco. Anche la Guardia di Finanza, nella persona del suo comandante, colonnello Francesco Mazzotta, scalpitava per entrare in gioco. È proprio lo stesso Mazzotta che infatti accompagnerà i magistrati Viola e Principato, nonché l’appuntato della Finanza Calogero Pulici, in un giro di perlustrazione con l’elicottero della Guardia di Finanza. Il fatto che Pulici da anni sia un fedele collaboratore della Principato, non può non giocare a favore della Guardia di Finanza per ottenere un ruolo nell’inchiesta.
Cosa accadde dopo non lo sappiamo. A un certo punto qualcosa si incrina nel rapporto con il Mazzotta, tant’è che è lo stesso, nella primavera del 2015, a lamentarsi con il Pulici del fatto che la Guardia di Finanza resti tagliata fuori dalle deleghe. Come se non bastasse, si avanza anche il timore di aver perso il collaborante Tuzzolino.
Calogero Pulici, improvvisamente nel settembre 2015 viene allontanato dalla Procura di Palermo poiché era venuta meno la fiducia nei suoi confronti. Viola e la Principato, indagati con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio con l’aggravante dell’articolo 7, ovvero di aver agevolato la mafia, per avere messo a repentaglio le indagini della Dda di Palermo.
A condurre le indagini, lo stesso colonnello della Guardia di Finanza che aveva accompagnato con l’elicottero del corpo i due magistrati e l’appuntato nel giro di perlustrazione.
Marcello Viola prosciolto nel merito, Teresa Principato assolta in appello e Calogero Pulici assolto per ben sette volte. Per i due magistrati la procura di Caltanissetta aveva chiesto l’archiviazione perché era “processualmente accertato un continuo rapporto di collaborazione e di scambio di atti tra le Autorità Giudiziarie di Trapani e Palermo”. Forse i magistrati titolari delle indagini, che a seguito delle stesse per le quali gli imputati vennero assolti fecero carriera, non tennero conto del rapporto di collaborazione tra due magistrati impegnati in delicate indagini sul latitante Matteo Messina Denaro, ipotizzando persino che avessero favorito la mafia. Così come chi condusse le indagini, che pure sapeva della collaborazione tra Viola e la Principato, forse dimenticò di avere pure accompagnato i due magistrati.
Tra indagini mandate in fumo – come nel caso di quella su Leo Sutera – beghe interne alle forze dell’ordine e alla magistratura, Matteo Messina Denaro continua a godersi beatamente la sua lunga latitanza.
Viola e la Principato, indagati con l’aggravante dell’articolo 7, se anche avessero avuto la velleità di ambire a altri importanti incarichi, in quel momento venivano stoppati. Per Viola era solo la prima volta, visto che di recente, in maniera alquanto anomala, è stata interrotta la sua corsa a procuratore di Roma, nonostante di lui il pm Luigi Spina, all’epoca consigliere del Csm, nel corso di un’intercettazione a Luca Palamara, avesse detto che era l’unico non ricattabile. E su questo, forse per mancanza di coraggio ma non certo per incapacità di analisi, non ci sentiamo di parafrasare il “buon Giulio Andreotti” in merito al pensar male…
Le incognite, purtroppo, rimangono altre alle quali nessuno sembra voler dare una risposta: Perché far partire le operazioni dei depistaggi dal 1996, quando è nel ‘91 che Matteo Messina Denaro organizza le stragi e nonostante un collaboratore di giustizia ne conosca il ruolo omicidiario non ne parla? In che misura incise l’indagine mafia-appalti nel determinare le stragi di Capaci e via D’Amelio? Perché ancora oggi si fa così tanta fatica a parlarne? Era totalmente inattendibile Tuzzolino? Cosa contenevano le chiavette e il pc di Pulici scomparsi dalla Procura?
Sulle brillanti carriere di alcuni magistrati, sulle smanie di protagonismo e gli errori eclatanti, torneremo a breve, raccontando anche di come venne distrutta la possibilità di una collaborazione tra forze dell’ordine che forse avrebbe impedito che il boss stragista restasse uccel di bosco per 27 anni.
Gli antagonismi all’interno delle forze dell’ordine e della magistratura, possono giustificare tutto quello che è accaduto JosephMorici La Valle dei Templi
Quando Messina Denaro con un assegno si accese la sigaretta
«Matteo era di livello superiore. Era di un’eleganza, di uno stile per noi inarrivabile. E poi è un uomo colto. Leggeva Nietzsche, libri di romanzieri importanti, scrittori sudamericani. A volte faceva citazioni per noi incomprensibili. In 30 anni di solitudine chissà quanti libri avrà letto». Gli amici di gioventù del mafioso Matteo Messina Denaro, sfuggito alla cattura per tre decenni, parlano al bar, a Selinunte, a 10 minuti da Castelvetrano, borgo marinaro con sabbia dorata che giace ai piedi dei templi dorici, dove il boss mafioso trascorreva spesso le sue giornate. Nessuno vuole si faccia il proprio nome. Degli amici storici del boss, qualcuno è in carcere, qualcun altro è collaboratore di giustizia, uno, Giuseppe Clemente, condannato all’ergastolo, si è suicidato in cella, altri sono stati condannati per mafia o favoreggiamento e sono liberi. Nessuno rinnega quell’amicizia. «Matteo è una persona gentilissima, generosa. Forse avrà una doppia personalità considerate le tante condanne. Ma con gli amici era un galantuomo», dice chi lo ha conosciuto bene tanto da finire in galera per averlo aiutato. «Quello che mi ha stupito – aggiunge – è sapere che ha consentito a fare un selfie col medico della clinica dov’è stato operato. Lui non amava farsi ritrarre, ed era pure latitante. Mi chiedo perchè si sia fatto quella foto».
Cresciuto a Castelvetrano Messina Denaro ha frequentato le elementari nella scuola Ruggero Settimo, le medie all’istituto comprensivo Capuana-Pardo e poi si è iscritto all’istituto tecnico commerciale ma non avrebbe terminato gli studi.
Il carteggio con l’ex sindaco Vaccarino
Nel suo carteggio con l’ex sindaco Antonino Vaccarino, soprannome Svetonio, utilizzato dai servizi segreti per arrivare alla cattura del boss, Messina Denaro, soprannome Alessio, nel febbraio 2005 cita lo scrittore brasiliano Jorge Amado: «Amado diceva che non c’è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica ed io sono d’accordissimo con lui». E sempre nel 2005 scrive ancora: «Veda io qualche rimpianto nella mia vita ce l’ho: il non aver studiato è uno di essi, è stato uno dei più grandi errori della mia vita, la mia rabbia maggiore era che ero un bravo studente solo che mi sono distratto con altro. Se potessi ritornare indietro conseguirei la laurea senza ombra di dubbio… vorrei la laurea solo per me stesso e non per altro… Oggi mi ritrovo ad avere letto davvero tanto essendo la lettura il mio passatempo preferito, a livello culturale mi definisco un buono a nulla (visto che non ho le basi) che se ne intende un pò di tutto». E una conferma alla voglia conoscenza del padrino trapanese viene dal suo covo di Campobello di Mazara dove sono stati trovati diversi libri tra cui alcuni testi storici.
Il rivale in amore trovato morto
Matteo, ricordano gli amici, a fine anni Ottanta si muoveva tra l’hotel Zeus, il ristorante Pierrot, il Clip line pub, il bar Paperino, il Paradise beach dove conobbe Andrea Haslehner, bella ragazza austrica di cui s’innamorò. Di lei era infatuato anche Nicola Consales vice direttore dell’albergo. Quest’ultimo venne ucciso il 21 febbraio 1991 e Messina Denaro è ritenuto il mandante. «È vero che aveva la passione per la bella vita, le donne, le auto. Ma da giovane quale ragazzo non l’ha? – dice un altro amico – Aveva una Bmw, se non ricordo male una E30, poi ha comprato una Lancia Delta integrale e infine la Porsche Carrera».
La Merit accesa dando fuoco a un assegno di 800 mila lire
Messina Denaro, spiega chi lo ha conosciuto, amava giocare a carte, soprattutto a Chemin de fer. E frequentava il circolo Pirandello e il circolo Gioventù. C’è chi ricorda il giorno in cui con l’accendino diede fuoco a un assegno di 800 mila lire, che era girato tra i tavoli da gioco e che alla fine arrivò a lui, e si accese una Merit. I soldi erano stati persi da un suo amico.
Matteo Messina Denaro, un latitante protetto dallo Stato
di Enrico Bellavia
Chi ha permesso i 28 anni di libertà dell’ultimo stragista in circolazione. Nel libro di Marco Bova la storia dei passi falsi nelle inchieste sulla cattura
Un itinerario sui passi falsi. Le piste colpevolmente abbandonate, le mani leste che hanno sottratto prove, le coperture che hanno protetto la fuga, gli affari che governano l’intima necessità della sua libertà. Un percorso di guerra tra nemici riconoscibili e molti dalla doppia e tripla identità, annidati ovunque. Cecchini anche ai piani alti dei palazzi che contano, la politica, la magistratura, gli apparati investigativi e dei servizi, capaci di sparare a vista con precisione millimetrica per atterrare i cacciatori.
Anche per questo, una preda come Matteo Messina Denaro, diventa un «latitante di Stato» come lo è nel titolo del saggio inchiesta che Marco Bova ha scritto per Ponte alle Grazie, con la prefazione di Paolo Mondani.
La biografia, al limite del mitologico, della quasi trentennale latitanza dell’ultimo dei padrini stragisti dell’ala corleonese in circolazione, rimane, come è giusto, sullo sfondo in una ricerca che è densa di dettagli.
Messi in fila, squadernano una sceneggiatura più sconcertante della pur prolifica produzione sul tema. Ne viene fuori un’analisi puntigliosa delle tracce cancellate che hanno allungato i giorni e gli anni della fortuna di un boss, nato nella culla dell’intreccio tra mafia e massoni. In quella provincia trapanese che coltiva il potere con la formidabile arte di dosare segreti e misteri, per conservare l’essenza di una Cosa nostra capace di adattarsi alle circostanze, pur di mantenere il proprio predominio.
Grande distribuzione, turismo, energie rinnovabili, sanità, produzione vinicola, fondi pubblici, tanti e a pioggia, grandi eventi. Nulla sfugge ai mafioimprenditori protetti dal cartello che ha in Matteo e nel suo esteso clan familiare le leve che muovono tutto.
Un dialogo telefonico con il sottosegretario Antonino D’Alì, discendente della genia che ebbe il padre del latitante, Francesco, come campiere, condannato a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è un capolavoro di inventiva cinematografica. Ma è stato raccontato a verbale in procura generale nel 2015 dal vicequestore Giuseppe Linares. Perché purtroppo non è una fiction. Siamo nel gennaio del 2002, all’indomani di una retata condotta dal poliziotto che per 14 anni, da capo della Mobile, ha dato la caccia a Messina Denaro. «In quella occasione D’Alì si congratulò pacatamente dell’operazione, e mi disse testualmente “Sarebbe il caso che lei se ne andasse”, e mi disse che ero troppo esposto. Il tono era algido». Un consiglio da amico o, se preferite, un’offerta che non si può rifiutare da parte del ras forzista che aveva fatto di tutto per far saltare la poltrona di Linares, riuscendoci con il compianto prefetto Fulvio Sodano.
Tra «covi caldi» e «cerchi che si stringono», le cronache riattizzano periodicamente l’attenzione su un latitante che riesce a farla franca da 28 anni, avendo contro, sulla carta, praticamente tutti: polizia, carabinieri, finanza, perfino i forestali. E, naturalmente gli 007 che fissano pure sostanziose taglie che alimentano un indotto della ricerca già di suo consistente. Mettere d’accordo tutti i cacciatori è il primo problema, per evitare sovrapposizioni. È accaduto anche che nella foga di spiare le mosse dei sodali dell’imprendibile i finanzieri abbiano sorvegliato dei poliziotti e poliziotti e carabinieri si siano trovati in contemporanea sullo stesso teatro di osservazione.
Per il resto, cimici che smettono di funzionare, che i familiari di Messina Denaro rintracciano con provvidenziali bonifiche, talpe che soffiano dettagli salvifici, punteggiano interi paragrafi di questa «corsa avvelenata».
Nel suo lavoro, Bova ricostruisce con l’aiuto del protagonista, morto nel maggio scorso, il carteggio epistolare intrattenuto tra Alessio, alias Matteo Messina Denaro e Svetonio, lo pseudonimo affibbiato dal latitante all’ex sindaco della sua città, Castelvetrano, il professore Antonino Vaccarino, infiltrato dai servizi con l’obiettivo della cattura ma poi inspiegabilmente bruciato.
Una delle vittime incruente, almeno tante quante quelle lasciate per strada con il piombo, del sistema Messina Denaro. Capace di stritolare e annichilire gli avversari anche con l’arma della legalità, vera o presunta. Pende ancora a Caltanissetta, per dire, l’inchiesta sulla misteriosa sparizione dell’archivio delle indagini condotte per anni dal pm, poi procuratore aggiunto, Teresa Principato. Nel 2015, il suo braccio destro, Carlo Pulici finì denunciato per molestie, e subì improvvisamente l’ostracismo della procura di Palermo, guidata da Franco Lo Voi, ritrovandosi nel gorgo del désordre giudiziario che servì a sbarrare la strada alla procura di Roma di Marcello Viola, allora procuratore a Trapani. Pulici, assolto da tutto dopo 5 processi, ha dovuto pensionarsi dalla Finanza che aveva tagliato fuori dalle inchieste un altro solerte investigatore, Carmelo D’Andrea. Viola, è uscito a testa alta dall’accusa di aver ricevuto sottobanco proprio da Pulici verbali del pentito Giuseppe Tuzzolino, legati alle ricerche di Messina Denaro che era legittimo che avesse. Ma a Roma non è mai arrivato. Teresa Principato, che al suo braccio destro aveva confidato lo sconforto per le domande a cui era stata sottoposta dai colleghi, ha avuto il suo quarto d’ora di tribolazioni, fino alla migrazione alla procura nazionale antimafia. Tuzzolino è stato bollato come falso pentito senza ulteriori approfondimenti sulla pista americana che pure aveva indicato. Così come è stata abbandonata la fonte Y che aveva iniziato a fidarsi di Pulici. E Matteo? Si sarà fatto una compiaciuta risata. Tanto più che il sassolino nell’ingranaggio della macchina delle ricerche gli ha permesso di conoscere una infinità di interessanti retroscena venuti a galla con l’inevitabile contorno di veleni.
Era già accaduto nel 2012, durante lo scontro alla procura di Palermo, guidata allora da Francesco Messineo, poi arrivato da commissario regionale proprio a Castelvetrano, sulla opportunità di procedere a un blitz ad Agrigento. A giudizio di Teresa Principato, si era bruciata in quel modo l’ennesima pista per arrivare alla cattura. Come succede, ha precisato la magistrata, quando intorno ai personaggi chiave individuati si spande l’odore delle logge.
Lui, il latitante, è dappertutto e in nessun luogo. In Nord Europa e in Africa, in Turchia o a Dubai. A Castelvetrano e a Bagheria. Ad operarsi agli occhi a Barcellona, in vacanza nella Costa del Sol, in viaggio in barca per la Tunisia o per Malta, in volo su un piccolo aereo verso l’Inghilterra. Puntuale, come sempre nelle storie delle latitanze più eccellenti, è pure circolata voce che sia morto. E in tanti lo sperano. Scommettendo, che in caso di arresto aprirebbe la bocca. E per gli eccellentissimi protettori, sarebbe un inferno. L’ESPRESSO 10.11.2021
13.7.2021 – MATTEO MESSINA DENARO IN VIA D’AMELIO. LO DICE TOTO’ RIINA Analizzando le intercettazioni abbiamo scoperto che Riina indica Messina Denaro tra gli esecutori della strage di Via D’Amelio. Parla anche di un altro uomo che proviene dall’Albania. Ma nelle trascrizioni delle intercettazioni del 2013 c’è un omissis…
di Damiano Aliprandi IL DUBBIO
Matteo Messina Denaro è stato condannato in primo grado dalla Corte di assise di Caltanissetta per essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio.
Dalle intercettazioni abbiamo scoperto che Totò Riina lo indica chiaramente Ma Il Dubbio, analizzando attentamente le intercettazioni di Totò Riina quando era in 41 bis, ha scoperto che il capo dei capi ha chiaramente indicato il superlatitante Messina Denaro, “quello della luce”, così lo definisce, tra gli esecutori della strage di Via D’Amelio nella quale perse la vita Era lì. Tanto che Riina gli ha dato ordine di tenersi preparato. Le intercettazioni di Totò Riina offrono nuovi spunti. Tra le sue parole c’è la chiave di volta del movente delle stragi (che non è la “trattativa” visto che la smentisce diverse volte), omicidi eccellenti commessi, ma anche di come hanno operato per compiere gli indicibili attentati.
Totò Riina parla di un altro uomo proveniente dall’Albania La strage di Via D’Amelio è stata descritta da Riina a più riprese durante i suoi colloqui con il compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso. Parla anche di un altro uomo, tra gli esecutori, che proviene dall’Albania. Ma nelle trascrizioni delle intercettazioni del 2013 c’è un omissis. Per capire il riferimento alla partecipazione esecutiva di Matteo Messina Denaro alla strage di Via D’Amelio, bisogna contestualizzare.
Matteo Messina Denaro conosce bene i meccanismi decisionali di Cosa nostra Il superlatitante appartiene a una generazione più giovane rispetto a boss come Totò Riina e Bernardo Provenzano, secondo alcuni non avrebbe più alcun ruolo all’interno di Cosa Nostra, ma è certamente l’ultimo grande latitante della mafia siciliana. Non solo.
Conosce bene i meccanismi decisionali dell’organizzazione visto che ha partecipato alle riunioni, ha contribuito al famoso tavolino a tre gambe (mafia, imprenditori e politici) per la spartizione degli appalti pubblici e custodisce, quindi, i moventi che dettero impulso alla stagione stragista.
Il superlatitante figura centrale nel processo per gli attentati stragisti tra il ’93 e il ’94 La Procura di Caltanissetta, in particolar modo grazie al magistrato Gabriele Paci, ha avuto il merito di attenzionare la figura di Messina Denaro rimasto fino a poco tempo fa estraneo ai processi nei confronti di mandanti ed esecutori delle stragi siciliane del ’92.
Da ricordare che il latitante è stato già figura centrale nel processo svoltosi avanti la Corte d’Assise di Firenze ed avente ad oggetto gli attentati stragisti commessi da Cosa nostra “nel continente” tra il ’93 ed il ’94, all’esito del quale venne condannato all’ergastolo per i reati di strage e devastazione.
Designato dal capo dei capi a fare il “reggente” della provincia di Trapani Grazie ad un’attenta rilettura degli atti giudiziari, si è potuto ricostruire il fatto che in rappresentanza della provincia di Trapani, l’attuale super latitante è stato designato da Totò Riina – a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano – a svolgere le funzioni di “reggente” della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell’87 e conclusasi nel ’91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del ’92.
Messina Denaro per Riina era “quello della luce”, perché si interessava all’eolico «Si, si, ci combattono da diversi anni con questo Gricoli (ex braccio destro economico di Messina Denaro, ndr) perché sempre … hanno detto … prestanome di … piritumpiti … piritampiti…, pali, pali e pali … pali e pali … sempre a pali vanno …, sempre pali di luce».
È Totò Riina che parla. Lo fa riferendosi a Matteo Messina Denaro, sul fatto che si sia dato allo sfruttamento della green economy. Ovvero all’energia eolica. Riina ce l’ha particolarmente con Messina Denaro per il fatto che si sia dedicato all’eolico. “I pali della luce”, li chiama. E fa una provocazione: «Io …visto che questo è cosi intelligente, così stravagante … solo … com’è che non me lo ha passato a me questo discorso di fare pali della luce? Perché io ho terreni là … ho dei terreni che sono i migliori che ci sono là … non è che gli sembra che sono terreni che non valgono niente. Lui si faceva vendere il posto del terreno, e lui sicuramente non aveva niente altro. Perché non mi faceva, non mi diceva di fare questi pali, di questi pali della corrente?».
Nelle intercettazioni Riina non nasconde la sua delusione per il suo ex pupillo Riina, a più riprese, ritorna su Matteo Messina Denaro. Sembrerebbe proprio che non gli sia andata giù che il suo pupillo (dalle intercettazioni che non riportiamo per motivi di spazio, si evince che aveva molto puntato su di lui per rispetto del padre) abbia deciso di dedicarsi a questo business. «Stravagante quello e quello … quello dei pali della luce più stravagante ancora di lui. Però sono tutti stravaganti», qui Totò Riina indica Messina Denaro inequivocabilmente come “quello dei pali della luce”. «Ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse», dice sempre Riina in 41 bis. «No, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque. Fa luce. Fa pali per prendere soldi, per prendere soldi». Totò Riina è chiaramente infervorato con Messina Denaro, perché «si è messo a fare la luce!». Davvero una delusione per lui, che cercava invece un prosecutore della sua strategia stragista.
Il capo dei capi racconta di come ha organizzato la strage di Via D’Amelio Ma ora veniamo al dunque. Come detto, Totò Riina a più riprese parla anche della strage di Via D’Amelio. Racconta di come è riuscito ad organizzare l’attentato in tre o quattro giorni, perché qualcuno gli disse di fare presto. Non in due giorni, ma tre o quattro giorni. Importante il numero, perché sarebbe interessante capire cosa ha detto o fatto Borsellino qualche giorno prima, tanto da mettere in allarme quel “qualcuno” che poi ha avvisato Riina di fare presto. Forse Borsellino qualche giorno prima si è esposto in maniera plateale?
Riina ribadisce che “quello della luce” era in Via D’Amelio Giungiamo ora al punto cruciale. Riina, ai colloqui del 6 agosto 2013, ad un certo punto dice: «Minchia, cinquantasette giorni (i giorni che passano dalla strage di Capaci a quella di Via D’Amelio, ndr). Minchia, la notizia l’hanno trovata là, da dentro l’hanno sentita dire che domenica deve andare (Borsellino, ndr) da sua madre, deve venire da sua madre. Gli ho detto: allora preparati, aspettiamolo lì. A quello della luce… anche perché … sistemati, devono essere tutte le cose pronte. Tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: se serve mettigli qualche cento chili in più». Ora sappiamo, che “quello della luce” è Matteo Messina Denaro. Difficile dare altra interpretazione. Totò Riina ha detto a “quello della luce” che doveva prepararsi, sistemare, farsi ritrovare pronti e se serve, di mettere altro esplosivo in più. Si riferisce alla Fiat 126 imbottita con 100 kg di tritolo che i mafiosi hanno parcheggiato sotto l’abitazione della madre. «Però io ci combattevo, tre giorni, quattro giorni la macchina messa là, andavo a cambiare il posteggio», dice Riina.«Quando io dico che uno deve lavorare! Deve lavorare perché deve capire che se ti serve un posto vicino alla portineria, lo devi lavorare, lo devi cercare, ci devi “combattere” (perdere tempo ndr) te lo prendi, te lo prendi e te lo conservi, metti la macchina», prosegue Riina.
E spunta “quello dall’Albania” esperto di esplosivo «Esci con una macchina e ci metti quella. E poi vai a trovarlo, vai a cercarlo, …. come quello che venne solo dall’Albania… vallo a trovare un esperto come questo», dice ancora Riina. A chi si riferisce? Chi è quello che venne dall’Albania? Potrebbe essere l’uomo che Spatuzza non riconobbe al garage di via Villasevaglios dove è stata imbottita la macchina? Riina aggiunge: «Ai domiciliari a Palermo, ci vuole fortuna». Chi era? C’è un proseguo, ma è omissato. Forse in quell’omissis si potrebbe trovare una risposta.
Un ricordo del giudice del primo maxiprocesso Alfonso Giordano Questa inchiesta la dedichiamo al giudice Alfonso Giordano scomparso oggi all’età di 92 anni. È stato il presidente della Corte del primo maxiprocesso. Per la prima volta è stata processata e condannata la mafia. Un uomo coraggiosissimo, accettò l’incarico per gestire il dibattimento, dopo che ben 10 colleghi l’avevano rifiutato, e per bene. Nonostante ciò è rimasto umile fino all’ultimo.
“MESSINA DENARO ERA IN VIA D’AMELIO”
Il boss Matteo Messina Denaro, 59 anni dei quali 28 trascorsi in una latitanza ininterrotta dal giugno 1993, sulla scena della strage di via D’Amelio in cui furono barbaramente uccisi il procuratore Paolo Borsellino e i agenti della scorta, Emanuela Loi, Walter Cusina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Il capo mafia di Castelvetrano forte di una alleanza con la mafia catanese, fu tra quelli che uccisero in Calabria il magistrato della Cassazione Antonino Scopelliti e prima a Trapani il pm Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Notizie che sono il risultato di un lavoro proprio del giornalismo investigativo. Già in passato anche da queste pagine scrivendo di Ciaccio Montalto avevamo raccontato che quel delitto doveva essere riletto, e che allo stato la verità e la giustizia su questo omicidio non sono state compiutamente rese. Adesso si affacciano nuovi elementi. La strategia mafiosa che dagli anni 80 in poi ha portato alla uccisione di uomini delle Istituzioni non sarà letta compiutamente se resterà ancora spezzettata. Ce lo dice in un libro prossimo all’uscita il giornalista Michele Santoro: a lavorare con lui un gruppo di veri infaticabili, professionisti del giornalismo d’inchiesta, tra questi un’altra firma importante del giornalismo italiano, come Guido Ruotolo. Per diverso tempo sono stati a fare quello che non tutti i giornalisti sono oramai abituati a fare, andare nei tribunali a leggere le sentenze, seguire poi determinati processi. Nell’epoca in cui i giornalisti scrivono di ordinanze di custodia cautelare, perdendo poi di vista i dibattimenti e le pronunce dei giudici (una volta mi capitò di sentirmi dire da un acclamato giornalista che è inutile leggere le sentenze), Santoro ha scelto di spendere questi mesi di allontanamento dalla tv, sua specialità nel fare informazione, frequentando i Palazzi di Giustizia, scoprendo quelle verità che stanno nelle carte giudiziarie, incollando i pezzi, mettendo assieme un puzzle, accedendo luci sulle zone d’ombra. Da domani sarà in libreria il suo libro “Nient’altro che la verità”. Su la 7 giovedì 28 aprile andrà in onda uno speciale dedicato al libro, condotto da Enrico Mentana e con in studio oltre a Santoro tra gli altri anche Fiammetta Borsellino, l’ex pm Antonio Di Pietro e il giornalista Andrea Purgatori. A parlare di Via d’Amelio e del delitto Ciaccio Montalto è stato l’ex killer catanese Maurizio Avola, il sicario che uccise anche il giornalista Pippo Fava. Uno che di segreti di Cosa nostra se ne intende benissimo. E’ lo stesso che ha parlato dei contatti tra mafia e massoneria. Da Marcello D’Agata, “consigliori” della famiglia mafiosa di Catania, ha detto di avere appreso che vertici di Cosa Nostra sono inseriti nelle logge segrete della massoneria. E fu lo stesso D’Agata che gli svelò del delitto Ciaccio Montalto, magistrato trapanese ucciso a Valderice (Trapani) il 25 gennaio 1983 compiuto da sicari arrivati nel trapanese da Catania e assieme a loro c’era l’allora giovanissimo Matteo Messina Denaro. La morte di Ciaccio Montalto non fu decisa quindi da Cosa nostra trapanese, ma dall’alleanza tra Cosa nostra trapanese e quella catanese. Non fu una vendetta per le indagini, ma la morte del magistrato, ucciso quando era prossimo a trasferirsi alla Procura di Firenze, era l’unico modo per fermare il suo progetto investigativo che era quello di seguire l’”odore dei piccioli”, seguire il filone dei soldi che Cosa nostra guadagnava con il controllo del mercato della droga, le raffinerie di eroina, e che investiva in grandi affari, soldi che finanziavano il traffico di armi, gli appalti, ma che servivano anche ad alimentare Cosa nostra americana. Basta dare uno sguardo alle carte firmate da Ciaccio Montalto per rendersi conto di cosa si stava occupando e di cosa ancora si sarebbe occupato se gliene avessero dato il tempo. Eppure i suoi colleghi sentiti al Csm dopo l’omicidio pare non sapessero nulla delle sue inchieste. Ciaccio Montalto fu ucciso per avere superato quella certa “sottile linea rossa” determinata a Trapani dall’alleanza tra borghesia mafiosa e anche certa parte di magistratura e investigatori. Uno scenario del quale ha parlato con chiarezza il pentito Nino Giuffrè, braccio destro di Bernardo Provenzano, il potente mafioso di Corleone: “a Trapani ci sono i cani attaccati”, insomma a Trapani Cosa nostra in quegli anni ’80 stava bene perché nessuno si occupava di mafia, Ciaccio Montalto superò questa linea e fu ucciso. Matteo Messina Denaro, racconta Avola, all’epoca andava spesso a Catania, dove si discuteva di come aggiustare il processo per l’omicidio del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, dove tra gli imputati c’era il boss catanese Nitto Santapaola e il mafioso trapanese Mariano Agate. Un processo che il giornalista Mauro Rostagno seguiva udienza per udienza, raccontando poi ogni cosa in tv, a Rtc: durante il processo Mariano Agate dalla gabbia fece avvicinare un collaboratore di Rostagno dicendogli di andare a dire “a chiddu vistutu di bianco” (Rostagno solitamente andava vestito con abiti bianchi, un grande camicione sui pantaloni) “di finirla col dire minchiate”. Rostagno continuò e fu ucciso il 26 settembre 1988. Ma Avola ha svelato che in via d’Amelio a Palermo quel 19 luglio 1992 c’era anche lui. Ha raccontato dinanzi alla Corte di Assise di Caltanissetta durante il processo che ha visto condannato per le stragi del 1992 il trapanese Matteo Messina Denaro, che fu lui a dare il segnale per la detonazione stragista. Ha detto di aver guardato negli occhi Borsellino prima di dare il segnale. E in via d’Amelio c’era anche Matteo Messina Denaro. Il processo che a Caltanissetta lo ha visto condannato, frutto di un intenso lavoro investigativo coordinato dal procuratore aggiunto nisseno Gabriele Paci, vicino alla nomina a procuratore a Trapani, dopo il voto della commissione incarichi del Csm, ha posto il boss trapanese al centro della scena stragista assieme a Totò Riina, dopo che nei precedenti processi delle stragi non era nemmeno tra gli indagati. Un processo che non ha messo alcun punto finale. Quanto emerso dal dibattimento è materiale utile per riaprire altre inchieste, come quella per l’omicidio di Ciaccio Montalto. Il processo poi ha fatto emergere come Matteo Messina Denaro da tempo aveva deciso la morte di Paolo Borsellino, reo di avere sfidato il padre: Borsellino quando era procuratore a Marsala aveva portato don Ciccio Messina Denaro, il padrino del Belice, davanti ai giudici del Tribunale delle misure di prevenzione. I giudici però non diedero retta a Borsellino e respinsero quella richiesta. Per loro l’anziano boss belicino non era pericoloso. Erano appena iniziati gli anni ’90, e adesso sappiamo che in quegli anni don Ciccio Messina Denaro non era solo il capo della cupola provinciale di Cosa nostra trapanese, ma era sullo stesso piano di Riina e Provenzano. Erano gli anni in cui la mafia trapanese stava vicinissima alla borghesia trapanese. I Messina Denaro, padre e figlio, erano i campieri, i guardiani, dei vasti possedimenti terrieri di proprietà di famiglie blasonate, come i D’Alì. Secondo i pentiti parteciparono alla scalata del potere politico da parte di Antonio D’Alì, nel 1994 diventato con Forza Italia, senatore della Repubblica. Nel suo libro Michele Santoro racconta trent’anni di storia italiana. Maurizio Avola è un killer della mafia che ha alle spalle ottanta omicidi e ha preso parte alla stagione delle stragi. «Non so bene – ci dice Michele Santoro – perché ho deciso di incontrare uno che ha ucciso ottanta persone. Guardo Avola e ho la sensazione di trovarmi davanti uno specchio nel quale comincio a riconoscere tratti che sono anche i miei. Inizio a seguirlo in un labirinto di ricordi». Maurizio Avola non è famoso come Tommaso Buscetta e non è un capo come Totò Riina. Ma non è un killer qualsiasi: è il killer perfetto, obbediente, preciso, silenzioso, e proprio per questo indispensabile nei momenti decisivi. Forse sottovalutato dai suoi capi e dagli inquirenti che ne hanno vagliato le testimonianze, ha archiviati nella memoria particolari, voci, volti che coprono tre decenni di storia italiana. Ad accendere l’interesse di Santoro è il fatto che Avola abbia conosciuto Matteo Messina Denaro e abbia compiuto con «l’ultimo padrino» diverse azioni. Scoprirà però che è solo una parte, e non la più rilevante, di quanto Avola può svelare, andando incontro a quella che è probabilmente l’inchiesta più importante della sua vita. A Michele Santoro, Avola ha affidato le tessere del puzzle e le sconvolgenti rivelazioni che emergono. Mafia e antimafia, politica e potere, informazione e depistaggi, vicende personali e derive sociali si intrecciano in un racconto che si muove tra passato e presente, dalla Sicilia degli anni settanta al paese che siamo diventati.AlquamaH 27.4.2021 RINO GIACALONE
L”ultimo mistero di Messina Denaro. “Una donna, il tramite con il boss”
La recente inchiesta del Ros rilancia il giallo della “scrivana” e dei pizzini scritti su indicazione del superlatitante. Dalle intercettazioni, una pista porta alla madre di Luca Bellomo, il nipote acquisito della primula rossa di Castelvetrano
Raccontano che abbia avuto sempre tante donne. Ma negli ultimi anni, carabinieri e polizia ne hanno cercata soprattutto una: quella che avrebbe avuto il compito di scrivere i pizzini per lui. L’imprendibile Matteo Messina Denaro ha problemi di vista, o forse è solo ossessionato dalla sua sicurezza e non vuole lasciare tracce. Adesso, due frammenti di intercettazioni nell’ambito dell’indagine sulla mafia agrigentina rimettono in primo piano un’altra donna nello scenario dei misteri su cui si muove l’ultimo grande latitante di Cosa nostra. Una donna che avrebbe fatto da tramite fra i padrini e la primula rossa. Negli atti dell’inchiesta, che il 2 febbraio ha portato a 23 arresti, il pool coordinato dal procuratore aggiunto Paolo Guido parla di un «segreto ed efficiente canale di comunicazione». È l’ultimo mistero attorno a Messina Denaro. Il 2 maggio 2019, due mafiosi stanno parlando di una proposta d’affari arrivata da un emissario del clan Gambino di New York. All’improvviso, restano in silenzio per venti secondi. I carabinieri del Ros sentono il rumore leggero di una penna che scivola su un foglio. Poi, uno dei mafiosi sussurra il nome del fantasma: «Messina Denaro». Prosegue con alcune parole che non sono comprensibili. E ancora: «Iddu… la mamma del nipote, che è di qua… è mia commare». A parlare è Giancarlo Buggea, boss di Canicattì; ad ascoltarlo, c’è Simone Castello, mafioso palermitano, un tempo era il fidato postino di Bernardo Provenzano. Sono nello studio legale dell’avvocatessa Angela Porcello, pure lei è finita in manette con l’accusa di aver fatto parte del clan di Canicattì. Il 13 gennaio 2020, arriva un’altra intercettazione nello studio della legale. Il mafioso Antonio Chiazza chiede a Buggea: «Quelli di Trapani lo sanno dov’è?». Buggea risponde: «Minchia, non lo sanno? Lo sanno». Chiazza fa riferimento a “sua madre”. Buggea ripete: «Sua madre». Chiazza aggiunge: «Io gli ho visto fare un gesto… noialtri con Matteo glielo dovremmo dire… ci volevano altri due che ci andavano». Per gli investigatori, la donna citata nelle due intercettazioni «può identificarsi nella madre di Luca Bellomo, Maria Insalaco, morta a Canicattì il 12 aprile 2019». è nipote acquisito di Messina Denaro, per avere sposato la nipote, Lorenza Guttadauro. È in carcere dal novembre 2015, sta scontando una condanna a 10 anni e 10 mesi. Personaggio di molti misteri, Bellomo. Ufficialmente, era un imprenditore rampante spesso in viaggio fra la Colombia, la Francia e l’Albania, la sua ditta forniva tovagliati ai migliori alberghi della città. Secondo la procura di Palermo, avrebbe finanziato la latitanza del padrino. E restano un grande giallo i suoi viaggi in Sud America. Ora spunta un riferimento alla madre. E torna il mistero della donna che avrebbe scritto i pizzini per conto del latitante. Mistero nato dopo una consulenza disposta anni fa dalla procura su alcuni biglietti riconducibili al latitante. Gli esperti grafologi parlavano di una “scrittura femminile”. Dov’è finito Messina Denaro? Sembra essere diventato davvero un fantasma. Ma non è scomparso del tutto, scrivono i magistrati. «Continua infatti a ricomparire periodicamente per impartire regole di comportamento ai suoi sodali, per risolvere questioni di interesse dell’organizzazione criminale e per nominare ovvero rimuovere i vertici delle diverse articolazioni mafiose siciliane». Nell’ultimo provvedimento, i pm parlano del «reticolo di protezione che gli consente tuttora di mantenere la latitanza ed il proprio potere». Questa la sua strategia: «Ha sospeso le azioni clamorose (stragi e omicidi eccellenti) — analizzano in Procura — per operare in una cornice di pace apparente, utilizzando soggetti insospettabili, che gli hanno permesso di penetrare nel tessuto sociale ed economico». SALVO PALAZZOLO LA REPBBLICA 16.2.2021
TRACCE DI MATTEO MESSINA DENARO.
Il tesoro e il denaro per vivere da fuggitivo. Gli imprenditori al suo fianco, gli amici di vecchia data e le vittime del suo sistema. E poi i misteri sulle mancate catture: l’ultima passa per un intrigo che coinvolge due procure, un confidente in contatto diretto con il boss e uomini dei servizi, gli stessi condannati in primo grado per la trattativa stato-mafia. Un viaggio da Castelvetrano al nord Italia passando per la Calabria. Un racconto scritto e video, con il primo documentario, solo per gli abbonati, prodotto da Domani: testimonianze inedite e personaggi che hanno conosciuto il boss siciliano per entrare nel mondo del padrino di cosa nostra
All’ora di pranzo le strade del centro storico di Castelvetrano sono deserte. I pochi ristoranti sono chiusi per ferie. La trattoria “da Giovanni” no, è aperta. È una gestione familiare senza pretese, ha tavoli in legno, la cucina è casalinga. Non passano inosservati due ritratti del bandito Giuliano appesi al muro: si tratta del mafioso di Montelepre trasformato in mito da cosa nostra, coinvolto nell’eccidio del 1948 di Portella della Ginestra, e ritrovato cadavere a Castelvetrano, a pochi metri dalla trattoria “da Giovanni”.
A ritrovarlo settant’anni fa è stato proprio il titolare, Giovanni, che è anche lo zio del super latitante Matteo Messina Denaro, il capo della mafia della provincia di Trapani, introvabile da 28 anni. «Avevo riconosciuto il volto di Giuliano perché qualche tempo prima mi aveva regalato mille lire, che all’epoca era un’enormità», racconta Giovanni seduto dietro una scrivania mentre dà ordini a figli e nipoti, unici camerieri della sala. Del latitante Matteo, però, non vogliono sentire parlare.
«Siamo gente onesta, lavoratori», dice il figlio di Giovanni mentre ci accompagna fuori dal locale per mostrarci dove i reparti speciali dei carabinieri hanno piazzato le telecamere puntate sull’uscio della trattoria. «Siamo sotto controllo perenne, le televisioni ci fanno brutta pubblicità, una volta è passato un signore di Milano per chiederci di intercedere con Messina Denaro affinché ritrovasse il camion che gli avevano rubato al Nord». Al boss seppure latitante riconoscono l’autorità, è lui che può risolvere un problema, più rapidamente degli uomini di Legge.
La storia di Messina Denaro è prima di tutto un affare di famiglia. Ma è soprattutto un sistema di potere, che resiste a retate e centinaia di arresti, cementato dalle relazioni con politici, imprenditoria, servitori infedeli dello stato. Perché una latitanza così lunga è impossibile da reggere senza appoggi, connivenze e soldi, montagne di soldi. Messina Denaro ha molti soprannomi: “L’invisibile”, “Diabolik”, “lo Zio”.
Al netto dei suoi nomi in codice, è di certo l’ultimo dei latitanti della mafia siciliana, l’ultimo dei padrini coinvolti nella stagione delle stragi che hanno insanguinato l’Italia dal ’92 al ’94. Ma è anche regista di trame finanziarie che hanno garantito profitti costanti al suo clan: dagli investimenti nel settore delle energie rinnovabili al turismo fino alla grande distribuzione e alla filiera dell’agroindustria.
In sequenza sono stati arrestati e condannati il re dell’eolico, Vito Nicastri, con un patrimonio valutato in un miliardo di euro, e Giuseppe Grigoli, il re dei supermercati, monopolista del marchio Despar nella Sicilia orientale. Accusati di essere la cassaforte del boss, le loro aziende e i loro tesori sono stati confiscati. Eppure “lo Zio” è ancora un fantasma, con una pletora di imprenditori al suo servizio, custodi del tesoro della famiglia di Castelvetrano e finanziatori della latitanza del capo.
Uomini d’affari secondo cui il problema di questa terra non è la mafia, piuttosto l’antimafia. Un gioco di specchi come nei romanzi di Montalbano scritti da Andrea Camilleri, dove tra il bianco e il nero non c’è alcun grado di separazione, ma una vasta zona grigia da decifrare. Silenzi e protettori sono l’assicurazione sulla vita del latitante.
Dal 1993 Matteo Messina Denaro è irreperibile, ricercato in tutto il pianeta, introvabile nonostante il dispiegamento di forze e le numerose procure della repubblica che lavorano al caso. Chi lo protegge? Come finanzia la latitanza che dura da quasi tre lustri? Il viaggio del Domani inizia nella roccaforte del potere del ricercato numero uno, arriva in Toscana e passa dalla Calabria. Da Castelvetrano, alfa e omega della parabola del boss di cosa nostra, a Viareggio, attraverso i misteriosi luoghi dell’Aspromonte calabrese. Sulle tracce del padrino diventato negli anni icona per molte giovani leve dell’esercito di cosa nostra.
ANTEFATTO. La carovana composta da un camion e da almeno quattro auto era arrivata in perfetto orario a San Luca, alle pendici dell’Aspromonte, nello spicchio di provincia di Reggio Calabria affacciata sul mare Jonio. Giunto nel paese che ha dato i natali allo scrittore Corrado Alvaro ma anche ai clan più potenti della ‘ndrangheta, l’esercito di don Ciccio Messina Denaro è stato scortato in un luogo sicuro. Il padre di Matteo non si era spinto fin lì da Castelvetrano, provincia di Trapani, per un giro turistico.
Trasportava 160 chili di cocaina. Al ritorno avrebbero riportato il camion carico di fucili da guerra marca Norinco. Nel mezzo, tra lo scarico della droga e il carico di armi, don Ciccio e il boss locale di San Luca (clan Nirta) hanno pranzato per sancire l’alleanza, «una bella tavolata a base di carne di capra», ricorda un pentito siciliano che aveva preso parte alla spedizione. La trattativa era stata condotta alla pari, tra cosa nostra e ‘ndrangheta. Rapporti che negli anni sarebbero serviti, utili a entrambi gli schieramenti. E questo che può sembrare un dettaglio dei tanti in una delle solite storie di mafia, è in realtà un tassello decisivo per comprendere il potere di Matteo Messina Denaro.
La spedizione in Calabria del padre di Matteo Messina Denaro risale al 1991. Un anno prima delle stragi di Capaci e via D’Amelio, dell’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e due dall’inizio della latitanza di Matteo Messina Denaro. La trasferta in Calabria è uno dei segreti mai raccontati e meglio custoditi dalla famiglia del latitante, perché è anche grazie a questa sinergia con le cosche della ‘ndrangheta che il boss ha ottenuto protezioni, soldi e uomini pronti a gestire i suoi movimenti.
Non è un caso che in una inchiesta antidroga dell’antimafia di Reggio Calabria sulle cosche della zona jonica spunti il nome del super latitante. Atti giudiziari che confermano la sinergia tra i Messina Denaro e la ‘ndrangheta, considerata l’organizzazione più ramificata e ricca.
TRA LEGGENDA E REALTÀ «Matteo Messina Denaro è il capo mafia di Castelvetrano, è l’ultimo dei corleonesi nel senso che è stato il referente del feroce gruppo mafioso di Corleone retto da Totò Riina, il capo dei capi», dice Giacomo Di Girolamo, giornalista di Tp24 autore di un libro inchiesta sul padrino di Castelvetrano. Di Girolamo spiega che Messina Denaro è diventato il pupillo di Riina perché il padre, don Ciccio, era alleato dei Corleonesi nella seconda guerra di mafia, capolinea dei vecchi capi della mafia palermitana, quella cittadina e nobiliare. «Matteo Messina Denaro da giovane era già un predestinato», dice Di Girolamo.
La spietatezza lessicale è parte del personaggio: «Con le persone che ho ucciso potrei riempirci un cimitero», Di Girolamo riporta le confidenze di chi ha conosciuto il boss. «Un giorno un vigile urbano lo ha multato perché aveva parcheggiato l’auto troppo vicino a una fontana a Mazara del Vallo, il giorno dopo la macchina del vigile è stata bruciata», racconto il giornalista. L’antagonismo con le istituzioni era solo una parte da recitare.
Con i politici, forze dell’ordine e magistrati corrotti, Matteo Messina aveva già instaurato un dialogo. Così come suo padre, Francesco: intoccabile a tal punto da morire libero nel 1998 di morte naturale seppure da latitante. Il suo corpo è stato fatto ritrovare in campagna, vestito in abito scuro, pronto per la cerimonia funebre. Il padre di Matteo era un capo, rispettato anche dalla borghesia locale: era il campiere, il guardiano, dei terreni della famiglia D’Alì, che ha espresso banchieri e politici, come Antonio, senatore e sottosegretario al ministero dell’Interno nel governo Berlusconi dal 2001 al 2006. Il ministero che si occupa di coordinare la ricerca dei latitanti più pericolosi.
D’Alì è entrato in Parlamento nel 1994 con Forza Italia e ce rimasto fino al 2018. È sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa, anche per i suoi legami con la famiglia Messina Denaro. Assolto in due gradi di giudizio, la Cassazione ha annullato le sentenze e rimandato tutto ai giudici di secondo grado per un nuovo processo.
UNA VALIGETTA DI SOLDI La latitanza di Messina Denaro è ricca di misteri. Sono poche le persone che possono dire di averlo conosciuto o almeno incontrato. Tra questi c’è un testimone, che vive in Toscana, centrale nel giallo della latitanza dello “Zio”. Ecco che cosa ha raccontato ai magistrati il 21 maggio 2015: «Mi ha contattato un imprenditore, Giovanni De Maria, e ci siamo visti in un bungalow del carnevale di Viareggio, qui mi ha consegnato una valigetta 48 ore con del denaro contante». Il teste riferisce che dopo la consegna è partito per Palermo, dove ad aspettarlo c’era proprio De Maria, ma non era solo. Lì con lui c’erano altri due personaggi, uno dei quali legato alla mafia calabrese. In un’auto, a distanza di sicurezza, c’era Messina Denaro: «La valigetta l’ho consegnata al calabrese che a sua volta l’ha consegnata a Messina Denaro». Al testimone era stato preannunciato che avrebbe incontrato qualcuno di importante, «avrei dovuto essere rispettoso», dice ai magistrati che raccolgono la sua testimonianza. Il racconto dell’imprenditore apre uno squarcio sulla rete economica del clan Messina Denaro. De Maria è un imprenditore della nautica, che in passato ha ottenuto anche concessioni pubbliche a Viareggio e ha lavorato per importanti istituti di credito, che gli hanno appaltato il recupero delle imbarcazioni intestate a società fallite: «Banche come Unicredit, Banca popolare di Milano e società di leasing, riconoscono alla mia società di servizi una percentuale per il recupero e una quota per la vendita», spiega De Maria, seduto su una sedia sotto i portici della piazza del mercato di Viareggio, la città della Versilia dove l’imprenditore catanese vive e lavora.
Sul suo trascorso giudiziario, indagato più volte anche con uomini sospettati di appartenere alla ‘ndrangheta, dice: «Mi sento un perseguitato, sono stato assolto e ho chiesto il risarcimento per ingiusta detenzione, ho solo una vecchia condanna». Per quale reato è stato condannato De Maria, però, non vuole dirlo. La prefettura ha firmato un’interdittiva antimafia nei confronti della sua società: un provvedimento di prevenzione destinato sospendere da commesse o concessioni pubbliche società sospettate di subire l’ingerenza delle cosche. «Abbiamo in ballo il ricorso al tribunale amministrativo, che vinceremo, ne sono certo», commenta l’imprenditore. Ma c’è un’informativa in cui De Maria è messo in collegamento con cosa nostra e ‘ndrangheta. L’imprenditore sorride quando chiediamo se ha mai incontrato Matteo Messina Denaro, come raccontato dal testimone nel verbale. «Ma si figuri, non credo di essere così importante, se fossi stato un politico lo potrei capire», è categorico De Maria. C’è un nome, però, che lega De Maria all’ambiente del latitante. Un suo socio d’affari è considerato dall’antimafia molto vicino a Carlo Guttadauro, considerato esponente dell’omonima famiglia di mafia e imparentato proprio con la famiglia Messina Denaro.
ACCUSE INFONDATE Nello studio ci accoglie per l’intervista, Andrea Bulgarella, indica sulla mensola due statuette dei carabinieri in ceramica. Le ha girate di spalle, guardano il muro. «Non ho più fiducia nelle istituzioni, finché non mi chideranno scusa resteranno così», dice amareggiato. Bulgarella è uno degli impresari più noti e ricchi della provincia di Trapani, ex presidente anche della squadra di calcio della città. È stato accusato di essere a disposizione della mafia trapanese e quindi della famiglia Messina Denaro.
Solo sospetti, è stato prosciolto da ogni accusa. L’imprenditore ha costruito la sua fortuna acquistando edifici abbandonati in tutta Italia per trasformarli in gioielli a cinque stelle: alberghi di lusso e resort. L’ultimo progetto è la realizzazione di una cinque stelle a Viareggio. «Purtroppo è la condanna degli imprenditori siciliani: se fai successo vuol dire sei amico della mafia», sostiene Bulgarella, che è molto duro con lo Stato: «Le imprese del nord possono venire qui e fare qualunque imbroglio, noi invece siamo etichettati come mafiosi».
Messina Denaro, però, è il problema della Sicilia?, chiediamo. «Credo che il male di questa terra sia una certa stampa e una classe politica che non difende il territorio, credo siano delle istituzioni che invece di prendere questo mafioso, se esiste o non esiste, hanno distrutto l’immagine della Sicilia e della provincia di Trapani. Si parla di racket, sfido chiunque a mostrarmi un imprenditore che paga il pizzo. Voi credete ancora alla mafia? La mafia c’è stata, erano quattro ignorantoni con cui io non ho mai avuto a che fare». Secondo Bulgarella, quindi, il problema della sua regione è l’antimafia, più del potere di cosa nostra, definita dall’imprenditore una banda di rozzi e villani.
MATTEO E L’OLIO ALLA CASA BIANCA La campagna attorno è arsa dal sole agostano. Una doppia fila di alberi circonda la villa a due piani. Un piccolo ponte pavimentato in cotto attraversa uno stagno di acqua torbida. La casa dove vive l’imprenditore Gianfranco Becchina all’epoca dell’intervista era sotto sequestro. Becchina, ottant’anni, è un mercante internazionale d’arte, ma anche il mago dell’olio di Castelvetrano. Il prodotto che riesce a ricavare delle olive verdi e grandi, tipiche del territorio, è di qualità sopraffina, ha fatto il giro del mondo, ci tiene a precisare. «Il mio olio è commercializzato negli Stati Uniti dal distributore che rifornisce la Casa Bianca a Washington», dice soddisfatto Becchina, con indosso una polo blu scuro e un pantalone consunto che usa per lavorare nei campi.
Per muoversi nell’immensa proprietà usa un motorino sgangherato. Per l’antimafia è uno degli ingranaggi del mulino che fa affluire denaro nelle casse della cosca di Messina Denaro. «Mi hanno sequestrato tutto: conti in banca, in Italia e Svizzera, casa e azienda», Becchina si difende spiegando che da mercante d’arte ha guadagnato molto nella vita e quindi chi ha indagato sul suo conto ha preso un abbaglio.
Attraverso la sua attività di mercante d’arte ha finanziato Messina Denaro? Becchina ride, «non so se è vero che Messina Denaro è appassionato d’arte, ma di sicuro io qui in Sicilia non ho mai comprato nessun reperto quindi come posso averlo foraggiato?». Becchina è stato anche indagato per il commercio di opere, ma il processo non si è mai svolto perché è intervenuta la prescrizione.
«La mia vicinanza a Messina Denaro è inventata, è frutto delle malelingue del paese: siccome ero un imprenditore di successo, facevo affari in Svizzera, ha comprato palazzi, insomma, le invidie paesane». Becchina conclude l’intervista rispondendo alla domanda sulle stragi di mafia, di cui Messina Denaro è stato regista insieme alla cupola di cosa nostra. Il mercante d’arte ha maturato un’idea precisa: «Secondo me la mafia è quel pretesto usato per coprire tutte le malefatte politiche». .
Però le bombe le hanno messe, chiediamo: «Che ne sappiamo? Voi avete visto chi ha premuto il pulsante del detonatore? Come faccio a credere che quattro mafiosi, quattro viddani (villani) possono avere avuto la capacità di piazzare tutto quel popò di esplosivo». Se Messina Denaro è soltanto un delinquente rozzo e villano, come vuol fare credere Becchina, come ha potuto architettare una latitanza così lunga? Non ha avuto protezioni occulte? «Sono ragazzi del territorio, mica hanno fatto i campi di addestramento di Arafat», è il verdetto di Becchina.
L’imprenditore nega, cerca responsabilità altre. E non è l’unico.
L’AMICO DI MATTEO. «Matteo è un individuo talentuoso, ha un’intelligenza sopra la media, avrebbe potuto fare molto per la Sicilia», dice Giuseppe Fontana, detto Rocky per la prestanza fisica. Rocky è amico del latitante e ha scontato una pena di quasi vent’anni di carcere per mafia e traffico di armi e droga. «Sono stato un prigioniero politico», contesta ancora oggi la sentenza che lo ha tenuto in carcere fino al 2013.
«Nel processo è stato accertato che Fontana in almeno tre occasioni nei primi anni ‘90 aveva ceduto alcune armi direttamente a Matteo Messina Denaro, incontrato più volte durante la latitanza e con il quale aveva più volte viaggiato all’estero», si legge negli atti giudiziari. «Sono innocente, e non mi sono mai pentito perché non ho nulla di cui pentirmi, la mia unica colpa è aver conosciuto Matteo e averlo incontrato da uomo libero nella terrazza – bar che gestivo a Selinunte alla fine degli anni ’80», si difende Rocky, che ci accoglie nella sua villetta tra Castelvetrano e Selinunte, luogo di rovine antiche e mare cristallino.
Sul cancello della casa di Fontana sventola la bandiera dell’autonomia siciliana con la scritta «Siciliani liberi», su sfondo bianco e un arcobaleno che richiama i colori della trinacria, il simbolo della regione. «Sono stato uno dei fondatori di Sicilia Libera, nei primi anni ’90». Il riferimento è al partito autonomista che numerosi pentiti di cosa nostra riconducono al braccio destro di Totò Riina, Leoluca Bagarella, che con Sicilia Libera voleva attuare un progetto secessionista staccando l’isola dal governo centrale.
Fontana conosce quella storia, l’ha vissuta, ma non ama parlarne. Sull’amico latitante ha invece qualcosa da dire: «Lui aveva consapevolezza politica, era convinto come me che la Sicilia per essere libera aveva bisogno di autonomia, nei nostri discorsi convergevamo nelle istanze di questa». Emerge un lato inedito del capo mafia di Castelvetrano, attento alle macro questioni politiche, un affresco che coincide con la genesi che ha portato alla nascita del movimento, dipinto da una schiera di investigatori come il progetto politico più ambizioso di cosa nostra.
Per Fontana però il Matteo che ha conosciuto non era un criminale, «penso che ci siano persone più pericolose di Messina Denaro, siedono in parlamento, gente che bombarda paesi inermi». Per le vittime Messina Denaro ha asfissiato l’economia locale, la libera impresa, la concorrenza. Rocky Fontana è in disaccordo: «Si poteva fare benissimo impresa quando c’era la mafia al governo della provincia di Trapani, poi è arrivata l’antimafia: da allora non si può fare più niente, o meglio devi chiedere il permesso e affiliarti all’antimafia, altrimenti ti espropriano delle tue cose». L’antimafia come problema e non soluzione.
La tesi lega affermati imprenditori sfiorati delle trame finanziarie di cosa nostra a chi è stato accusato di essere soldato della famiglia di Messina Denaro. Secondo Rocky, il latitante è talmente lungimirante da non far pagare il pizzo, «aveva capito che farsi nemico un popolo era controproducente». Una testa così, dice Fontana, sarebbe cosa buona averla in ogni provincia: «Con dieci Messina Denaro la Sicilia sarebbe una regione avanzatissima».
Il pensiero di Fontana fa rabbrividire Giuseppe Cimarosa, che vive a Castelvetrano, isolato da tutti e odiato per il coraggio di aver scelto da che parte stare.
NEL NOME DEL PADRE Giuseppe Cimarosa è il figlio di Lorenzo. «Mio padre era un imprenditore dell’edilizia, parente dei Messina Denaro, perché sposato con la prima cugina», dice. La sua storia ricorda quella di Peppino Impastato, il giornalista militante di Cinisi, provincia di Palermo, che si è ribellato al sistema mafioso. Impastato fu ucciso il 9 maggio 1978 da un commando della cosca di Tano Badalamenti. Cimarosa vive nel feudo di Messina Denaro e come Impastato fin da piccolo è stato costretto a respirare aria di mafia. «Mi sono sentito sempre a disagio, quando mio padre ha deciso di collaborare con la giustizia per me è rinato», racconta mentre accudisce i cavalli del suo maneggio dove organizza spettacoli di teatro equestre.
Il padre di Giuseppe è morto da pentito, il figlio ricorda alcune confessioni consegnate agli inquirenti. Ha raccontato per esempio degli appalti organizzati con la famiglia Messina Denaro. Come quello per disseminare di pale eoliche le campagne della provincia di Trapani: «Uno degli appalti in cui mio padre ha lavorato è quello delle pale eoliche, appalto arrivato per volere di Matteo Messina Denaro».
Giuseppe ricorda un particolare: «Mio padre è stato tramite di una busta di denaro destinato al latitante». Dopo la collaborazione del padre con i magistrati «siamo stati isolati, nessuno voleva più frequentarci», dice Cimarosa, che vive a Castelvetrano come se il criminale fosse lui: «Non mi sento voluto a Castelvetrano. Mi chiedo se ne sia valsa la pena se il risultato è sentirsi un corpo estraneo in una società che non ti vuole».
CAPITOLO 2
I SERVIZI SEGRETI E IL SIGNOR SVETONIO. Nella latitanza di Matteo Messina Denaro, che dura da ventotto anni, c’è una parentesi nella quale lo stato si sarebbe avvicinato alla sua cattura instaurando, tramite una fonte coperta, una fitta corrispondenza con il boss stragista. Una parentesi che è però avvolta nel mistero perché i protagonisti di questa storia sono, per una procura, fidati collaboratori.
Per un’altra, complici di Cosa nostra. Protagonisti che a Palermo sono grigi, oscuri, pericolosi. A Caltanissetta, utili portatori di informazioni. In questo quadro fosco non mancano i servizi segreti, ma l’unico a guadagnarci, vista la prolungata latitanza, è uno solo: Matteo Messina Denaro.
Nel 2003 al governo del paese c’è Silvio Berlusconi, al ministero dell’Interno Beppe Pisanu. Il braccio destro del presidente del Consiglio, Marcello Dell’Utri, è sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa mentre il mafioso Vittorio Mangano, stalliere ospite nella villa di Arcore negli anni Ottanta, viene dipinto come una brava persona. Tuttavia magistratura e forze dell’ordine sono alla caccia dei boss stragisti.
All’epoca decine di mafiosi sono latitanti, tra questi anche il capo assoluto Bernardo Provenzano, poi arrestato nel 2006, durante le elezioni. Nella lunga lista c’è, ovviamente, Matteo Messina Denaro. Per catturarlo si muovono persino i vertici dei servizi segreti, il generale Mario Mori e i suoi collaboratori, tra gli altri Giuseppe De Donno.
Mori e De Donno, successivamente, saranno coinvolti nel processo sulla trattativa tra lo stato e la mafia stragista: in primo grado Mori è stato condannato a dodici anni di carcere, a otto anni De Donno per i rapporti intrattenuti con il sindaco mafioso Vito Ciancimino, quando entrambi erano al Ros, il raggruppamento operativo speciale dei carabinieri.
Mori nel 2003 è il numero uno del Sisde, il servizio segreto civile, dove lavora anche De Donno come capo della segreteria operativa. Quell’anno al Sisde arriva una lettera firmata da Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, il paese trapanese dei Messina Denaro. Vaccarino, di professione insegnante, si rende disponibile a collaborare per indagini contro la criminalità organizzata. Vaccarino non è uno qualunque, è stato processato e assolto per mafia, ma condannato per traffico internazionale di stupefacenti. In particolare, conoscendo bene la famiglia Messina Denaro, è pronto a dare un contributo per la cattura. Il Sisde accetta.
Inizia così il giallo Vaccarino: scrive lettere che consegna alla rete criminale del latitante, che viene agganciato e inizia una fitta corrispondenza che si protrae fino al 2006. Il latitante si firma Alessio, il professore Svetonio. Mori e De Donno raccontano di aver avvisato l’allora procuratore capo di Palermo, Pietro Grasso, al quale hanno spiegato ogni dettaglio, riferito ogni cosa, tranne il nome della fonte.
L’attuale senatore di Leu, ex presidente del Senato, smentisce categoricamente: «Da procuratore di Palermo ero stato informato, credo alla fine del 2004, dell’intenzione da parte del Sisde di avviare un’attività informativa diretta a scoprire il sistema degli appalti pubblici e l’impiego dei profitti mafiosi, senza nessun dettaglio né tantomeno nomi».
Versioni completamente contrastanti. Secondo Mori e De Donno lo stato per due anni è stato in contatto, tramite un informatore, con Matteo Messina Denaro, senza catturarlo. Nel 2006, quando viene arrestato Bernardo Provenzano, nel covo del boss vengono trovati pizzini di Matteo Messina Denaro che avvisa il capo di Cosa nostra dei contatti con Vaccarino. Vengono recuperati durante la perquisizione e il Sisde avvisa subito la procura di Palermo che la fonte è proprio Vaccarino. In quel momento, il Sisde lo considera affidabile e serio «al cento per cento».
Pochi mesi fa De Donno ha confermato tutto ascoltato, insieme a Mario Mori, dal tribunale di Marsala in un processo a carico proprio di Vaccarino. La fonte affidabile al cento per cento, però, viene scaricata dai magistrati antimafia di Palermo subito dopo l’arresto di Bernardo Provenzano quando i vertici del Sisde consegnano tutti i documenti alla procura siciliana. «Pietro Grasso mi telefonò dicendo che la procura riteneva di non poter trattare il signor Vaccarino né come confidente, né come collaboratore e che quindi tutta l’attività del servizio doveva essere trasmessa alla polizia giudiziaria», ha detto Mario Mori lo scorso maggio.
Un racconto che trova Grasso in totale disaccordo. «In conseguenza del fatto che dalle indagini successive alla cattura di Provenzano erano venuti fuori dei contatti del Vaccarino sia con esponenti mafiosi – tra cui prima della cattura di Provenzano, il nipote Gariffo – sia con esponenti dei servizi, fui informato. Solo a quel punto Mori mi relazionò sull’attività compiuta col Vaccarino, affinché io potessi riferirne alla procura di Palermo. Cosa che feci».
Mori e De Donno, insomma, rischiarono anche un’incriminazione per favoreggiamento: solo dopo relazionarono ogni cosa, solo di fronte al rischio di finire travolti dalla loro azione “segreta”.
LA CATTURA SVANITA. Vaccarino finisce così sotto indagine per associazione mafiosa. Ma sarà la stessa procura di Palermo, nel 2007, a chiederne l’archiviazione pur precisando che «nel comportamento di Vaccarino si ravvisano alcune zone d’ombra». Quali sono le conseguenze di quell’indagine archiviata? A rispondere è Mario Mori quando il difensore di Vaccarino, l’avvocato Bartolomeo Lauria, gli chiede: «L’indagine aperta nei confronti del signor Vaccarino per associazione mafiosa ha pregiudicato la cattura del latitante?». Il generale risponde secco: «Certamente sì».
Sarebbe stato possibile, secondo Mori, arrivare al ricercato numero uno, ma l’inchiesta dei magistrati palermitani ha pregiudicato la cattura. Chi ha dato disposizione per conto della procura di interrompere ogni rapporto di collaborazione con il signor Vaccarino? De Donno risponde: «A noi fu riferito dal dottor Grasso, però all’epoca il dottor Grasso si interfacciava con il procuratore Giuseppe Pignatone, che se non sbaglio era reggente o era quello che gestiva l’arresto di Bernardo Provenzano». Secondo Grasso non è vero che l’indagine su Vaccarino sia stata d’ostacolo all’arresto del latitante.
«Come ricorda lo stesso Mori in udienza, con la cattura di Provenzano gli scambi epistolari si erano interrotti perché l’arresto alterava tutto il sistema di Cosa nostra, come affermato dallo stesso Messina Denaro nell’ultimo “pizzino” (missiva ndr) a Vaccarino del maggio 2006», dice l’ex presidente del Senato. Ma Vaccarino era credibile o faceva il doppio gioco?
«Sulla base delle notizie che noi avevamo raccolto tramite l’attività con Vaccarino, furono arrestate circa una decina di persone tra Castelvetrano e Mazara del Vallo», ha detto De Donno lo scorso 12 maggio. Vaccarino è entrato in contatto con mafiosi, ha collaborato ad alcune operazioni, testimoniato contro l’imprenditore Rosario Cascio e il cognato di Messina Denaro, Vincenzo Panicola.
Il racconto di De Donno sembra un film già visto: «Avevamo sostanzialmente convinto il vertice di Cosa nostra a fidarsi di noi, con un poco di fortuna li avremmo messi a terra tutti quanti». Ma era una pista Vaccarino? «A Palermo non venne considerata una vera e propria pista che potesse portare a risultati, dato che si basava su uno scambio di corrispondenza che si era già interrotto. Se posso aggiungere una mia valutazione personale, Messina Denaro non avrebbe mai incontrato Vaccarino», replica Grasso, che aggiunge: «Io venni informato solo dopo l’ultima lettera di Messina Denaro ricevuta da Vaccarino. Fino ad allora io non ero a conoscenza dell’identità del soggetto, né della sua attività. La decisione successiva fu della procura di Palermo, e io quella riportai a Mori».
Una vicenda che si aggiunge allo scontro, in quel caso interno alla procura di Palermo, consumato tra l’allora procuratore capo Francesco Messineo e il suo aggiunto Teresa Principato. Quest’ultima accusò il capo della procura di aver eseguito arresti che nei fatti avevano pregiudicato un’indagine dei carabinieri dei Ros sulla cattura del superlatitante.
Una vicenda datata 2013 utile per capire i dissidi tra inquirenti e investigatori che cercano il fantasma di Castelvetrano.
IL PROFESSORE E I MILLE VOLTI. Dunque Vaccarino è totalmente affidabile per il Sisde, ma non per la procura di Palermo. Vaccarino viene condannato nei primi anni Novanta in un processo che lo vede imputato con don Ciccio Messina Denaro, il padre del latitante. Nonostante tutto il Sisde, nei primi anni Duemila, si è affidato a lui per catturare il figlio di don Ciccio.
La parabola da informatore di Vaccarino si interrompe con l’indagine a suo carico poi archiviata. Quando l’identità di Vaccarino viene scoperta, Matteo Messina Denaro gli invia un’ultima lettera di minacce. Ma i suoi contatti con lo stato non si interrompono.
L’ultima pagina di questo libro degli equivoci la scrive la procura di Caltanissetta che dà credito al professore. In particolare lo fa Gaetano Paci, pubblico ministero nel processo contro Matteo Messina Denaro, accusato delle stragi del 1992, per le quali sono già stati condannati i vertici di Cosa nostra. «Diciamo che Vaccarino è stato, da parte della procura di Caltanissetta, un portatore di informazioni sulle vicende stragiste del ‘92. Era interesse dell’ufficio sentirlo», ha detto lo scorso aprile l’attuale procuratore aggiunto di Caltanissetta durante il processo a carico dell’ex sindaco.
Il pentimento del boss Gaspare Spatuzza ha permesso di riscrivere la storia della strage di via D’Amelio dove sono stati uccisi Paolo Borsellino e la sua scorta. Mori, De Donno, Paci parlano durante un processo che ha visto Vaccarino imputato e condannato per favoreggiamento alla mafia a sei anni in primo grado, accusato di aver passato informazioni riservate a un funzionario della direzione investigativa antimafia. Mentre la procura di Caltanissetta lo considerava un portatore di informazioni, quella di Palermo ne ha richiesto l’arresto e poi ottenuto la sua condanna.
Sullo sfondo del trentennio vissuto dall’ex sindaco e professore si muove il pentito Vincenzo Calcara. Lo abbiamo incontrato in un paese del nord Italia. Camicia bianca, calvo, con una foto di Paolo Borsellino, a cui era legatissimo, fissata sulla parete della stanza.
IL PENTITO, INQUINATORE O NO? «Mi sono pentito grazie al giudice Borsellino, a cui devo tutto. Era il 1991. Il giorno del mio compleanno. Gli dissi che doveva blindarsi perché la mafia aveva deciso il suo omicidio. Pochi mesi prima, da latitante, mi ero incontrato con Francesco Messina Denaro e con l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino. Zi Ciccio mi aveva dato l’incarico di tenermi pronto perché dovevo uccidere Borsellino. A quell’incontro era presente anche Matteo».
Calcara etichetta subito Vaccarino: «Quello è il male assoluto, un vero mafioso». Anche il percorso di Calcara è pieno di inciampi. Una omissione, in particolare, getta ombre sul suo percorso da pentito. «Tra le tante questioni che nacquero, c’era proprio quella della infondatezza delle dichiarazioni di Calcara e sulla base di un presupposto più ampio, e cioè che Calcara potesse essere stato etero diretto», dice il magistrato Paci del pentito.
Calcara preannuncia esposti e replica: «Con quale riscontri il dottor Paci si può permettere di dire queste cose? La difesa di Antonio Vaccarino ha chiamato, prima di Paci, il generale Mori, il colonnello De Donno, entrambi condannati nel processo sulla trattativa stato mafia. Comunque il Vaccarino alla fine è stato condannato a sei anni per favoreggiamento. Chi ha ragione?».
Ma perché Calcara non ha mai accusato Messina Denaro e non l’ha indicato a capo della commissione provinciale di Trapani? «Sono anni che chiedo a Paci di essere ascoltato, sono stato il primo a dire che Borsellino era stato condannato a morte. Francesco Messina Denaro non era capo provincia, era Mariano Agate. Paci dice che ho inquinato i pozzi, ma ci sono altri pentiti che mi danno ragione».
È centrale stabilire chi era il capo della commissione provinciale di Trapani in quel periodo. Il perché lo ha spiegato Paci nella requisitoria del processo sulle stragi contro Matteo Messina Denaro. Trapani a fine anni Ottanta era terra di mafia e logge massoniche segrete: indicare come capo della provincia Mariano Agate pregiudicava la verità e avrebbe salvato Messina Denaro dal ruolo di stragista e capo. Nella requisitoria Paci dice: «Vincenzo Calcara tace per anni il nome di Matteo Messina Denaro al tempo in cui uccideva e faceva stragi. Signor Calcara dovrebbe dire la verità proprio su questi punti oscuri che impediscono di fare luce sulle ambiguità. Agate era uomo di primo ordine, ma non aveva la qualifica di capo della provincia di Trapani, questa apparteneva a Francesco Messina Denaro che poi la cede al figlio. Perché Calcara ci ha indirizzato verso qualcosa di impreciso e perché non abbia riferito il nome di Matteo è un punto di interesse per future indagini». L’opacità, il tratto distintivo degli affari di casa Messina Denaro. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA DOMANI 17 gennaio 2021
LA CASSAZIONE: “FU MESSINA DENARO A ORDINARE L’OMICIDIO DI MAURO ROSTAGNO”»
di Rino Giacalone. L’attività giornalistica di Mauro Rostagno, sociologo e giornalista, torinese di origine, tra i fondatori di Lotta Continua, «poneva in crisi il sistema di potere criminale imperante nella provincia di Trapani». Da qui la decisione di Cosa nostra di uccidere il 26 settembre 1988 Mauro Rostagno, 46 anni, che all’epoca dirigeva a Trapani l’emittente televisiva Rtc.
La Cassazione (presidente Di Tomassi, relatore Santalucia) ha così scritto nelle 38 pagine con le quali ha motivato la conferma della condanna all’ergastolo del capo mafia di Trapani Vincenzo Virga, mandante, «per volere del capo mafia della provincia di Trapani, Francesco Messina Denaro» dell’omicidio.
Rostagno, come hanno confermato diversi collaboratori di giustizia, testimoniando nel processo di primo grado svoltosi dinanzi alla Corte di Assise di Trapani (presidente Pellino a latere Corso) rappresentava per la mafia trapanese una “camurria”, una persona fastidiosa, da eliminare. Furono tentati dalla mafia tentativi a zittirlo attraverso l’editore della tv dove Rostagno, giornalista intelligente e caparbio, dove di fatto faceva da direttore, un ridimensionamento dell’attività giornalistica che però non ci fu, tanto che la mafia aveva anche pensato di uccidere per vendetta e punizione l’editore, l’imprenditore Puccio Bulgarella.
La Cassazione, che però nulla ha detto sulle connessioni esistenti nel trapanese tra mafia e massoneria, sui quali parecchio si soffermarono i giudici di primo grado descrivendo lo scenario in cui maturò il delitto, ha condiviso le sentenze di primo grado e di appello a proposito della responsabilità nel delitto del capo mafia di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro, morto nel 1998, ma all’epoca dell’omicidio Rostagno indiscusso capo della cupola della provincia di Trapani.
Da “don” Ciccio Messina Denaro, padre dell’attuale latitante Matteo, arrivò la condanna a morte di Mauro Rostagno. Il pentito Angelo Siino ha riferito dell’odio di Francesco Messina Denaro verso Rostagno, e dei relativi propositi di sopprimerlo a causa delle inchieste giornalistiche sul contesto mafioso trapanese. «Francesco Messina Denaro – ha riferito il pentito Vincenzo Sinacori – disse di aver dato incarico a Vincenzo Virga di eseguire l’omicidio di Mauro Rostagno» e questo «particolare non è per nulla incompatibile con la ricostruzione di come operassero gli organi di vertice di Cosa nostra nella deliberazione di omicidi eccellenti». E quello di Mauro Rostagno fu un delitto eccellente. Al quale fece seguito la solita opera di “mascariamento” della vittima, tipico comportamento mafioso per distrarre gli investigatori, messa in campo in molti delitti mafiosi.
La sentenza di primo grado fu pronunciata nel 2014, 26 anni dopo il delitto. Anni segnati da gravissime lacune investigative, veri e propri depistaggi, scomparsa di brogliacci di intercettazioni e verbali, che hanno agevolato Cosa nostra nel potersi nascondere bene dietro le quinte del delitto. Il processo si concluse anche con l’ipotesi di accusa per falsa testimonianza di dieci testi, tra loro un paio di massoni e un luogotenente dei Carabinieri, Beniamino Cannas.
Il processo per le false testimonianze è nella fase finale, si profila la prescrizione per i dieci imputati e tra loro c’è anche l’elvetica Leonie Heur, la vedova di un generale dei servizi segreti, Angelo Chizzoni. La donna ha negato di avere informato Rostagno di certi segreti. Segreti che porterebbero alla cosiddette piste alternative che però per la Cassazione sono infondate: non vi sono nel delitto partecipazioni di “entità esterne” a Cosa nostra. Si è sempre detto che Rostagno sarebbe stato prossimo a svelare l’esistenza di traffici di armi all’interno di un aeroporto militare abbandonato, ai quali partecipavano servizi di intelligence, ma per i giudici della massima corte «non vi sono dati di fatto sui quali poter ipotizzare che, successivamente alla deliberazione dell’omicidio, intervennero altri soggetti, estranei al contesto mafioso e comunque interessati alla eliminazione fisica di Mauro Rostagno».
Sulle cosiddette piste esterne la Cassazione sostiene che sono state tutte sondate, e comunque le ipotesi che richiamerebbero altro movente per il delitto non sono tesi che vedrebbero esclusa la matrice mafiosa. Mancanza di riscontri per l’altro imputato del processo, il conclamato killer di mafia Vito Mazzara, ergastolano e presunto esecutore del delitto Rostagno per gli investigatori, condannato in primo grado ma assolto in Appello e in Cassazione.
Mazzara, nel trapanese capo della famiglia mafiosa di Valderice e Custonaci – campione nazionale di tiro al volo – andava in giro in quegli anni a uccidere spesso accompagnato dall’attuale latitante Matteo Messina Denaro, che all’epoca sebbene giovanissimo era stato già autore di spietati delitti. Ma i sicari dell’omicidio Rostagno dopo la Cassazione restano ancora senza volto. Vincenzo Mastrantonio, operaio Enel, guardia spalle del mafioso Virga, per come ha raccontato il pentito Francesco Milazzo, sarebbe stato l’unico che avrebbe conosciuto i nomi dei “picciotti”. Milazzo raccolse la confidenza da Mastrantonio che gli disse che a fare il delitto erano stati “i picciotti di Valderice”. Mastrantonio, che avrebbe fatto si di far restare al buio la stradina di campagna dove Rostagno fu ucciso, a sua volta però fu ammazzato qualche settimana dopo l’omicidio del giornalista.
«Un milione per avere notizie di mio cognato Messina Denaro». Lo ha detto Filippo Guttadauro, internato a Tolmezzo, al giudice di sorveglianza. Il suo difensore Michele Capano, esponente dei Radicali italiani: «c’è una drammatica convergenza, verso una condizione di “tortura democratica”».«Per avere informazioni su mio cognato mi hanno offerto la scarcerazione e un milione di euro». Il cognato non è uno qualunque, ma si tratta del latitante di Cosa Nostra numero uno, Matteo Messina Denaro. Lui è Filippo Guttadauro, attualmente non detenuto, ma internato al 41 bis fin dal gennaio 2016 – data di fine pena per associazione di stampo mafioso – presso la “casa di lavoro” di Tolmezzo.
Il carcere, però, come riportato più volte da Il Dubbio, non ha nessuna attività lavorativa e per gli otto internati, in mancanza dello strumento di valutazione, la proroga è pressoché automatica. Per questo da settimane sono in sciopero della fame. La denuncia di Guttadauro, assistito dall’avvocato e militante dei Radicali italiani Michele Capano, è verbalizzata dall’ufficio di sorveglianza di Udine in occasione dell’udienza tenutasi il 20 marzo scorso per il riesame della misura di sicurezza dell’internamento a Tolmezzo. Davanti al magistrato di sorveglianza e al pm, Guttadauro ha chiesto la revoca dell’internamento e la possibilità di poter lavorare presso l’azienda agricola intestata alla moglie del fratello Carlo, assolto in secondo grado dalla contestazione di associazione mafiosa. Il Pmha avanzato richiesta di proroga della misura di sicurezza, accolta poi dal magistrato di sorveglianza.
Durante l’udienza Filippo Guttadauro, a una precisa domanda risponde testuali parole, riportate nel verbale del 20 marzo, presso la “casa lavoro” di Tolmezzo: «Ci sono stati diversi interrogatori investigativi, nell’anno 2014 mi è stato chiesto di collaborare con la giustizia, subito dopo l’arresto di mio figlio, una seconda richiesta è intervenuta nel gennaio- febbraio 2017 e nell’ottobre dello stesso anno da parte di due persone che si sono qualificate come ufficiali dei Carabinieri dei Ros». Fin qui emergerebbe una richiesta, fatta anche nel periodo successivo alla fine dello sconto di pena e quindi da internato, che rientra nella piena autonomia dei reparti speciali.
Poi Guttadauro prosegue: «Nei primi mesi dell’anno scorso si sono presentati un vice questore ed un agente della squadra mobile della questura di Palermo, che mi hanno offerto la scarcerazione immediata e un milione di euro, e poi sono ritornati il colonnello che era venuto da l’Aquila, un agente della Dia di Palermo e una persona che non saprei indicare, che mi hanno offerto “una montagna di soldi”. Sostanzialmente chiedevano informazioni per rintracciare mio cognato».
Come detto, il cognato è Matteo Messina Denaro, 56 anni, il latitante più ricercato d’Italia, uno degli ultimi boss di una generazione a cavallo tra la mafia stragista dei corleonesi e i nuovi business globali. Oltre un quarto di secolo di indagini, centinaia di arresti e decine di sequestri e confische non hanno messo fine alla latitanza del capomafia.
Filippo Guattadauro – da 12 anni in carcere e ora internato da tre anni a Tolmezzo -, secondo il ministero della Giustizia che gli ha prorogato da internato il 41 bis, è ritenuto ancora pericoloso perché potrebbe continuare ad intrattenere legami e rapporti con esponenti mafiosi che si trovano attualmente fuori dal circuito penitenziario. D’accordo anche il ministero dell’Interno, che ritiene Guttadauro ancora stabilmente e organicamente inserito nella struttura mafiosa con un ruolo apicale in seno alla “famiglia” di Castelvetrano, guidata dal cognato, il boss latitante Matteo Messina Denaro.
Per la difesa, invece, non c’è nessun elemento che sorregge la sua presunta capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, tali da giustificare la proroga del 41 bis, soprattutto quando a Tolmezzo, la stessa equipe ha ritenuto che Guttadauro, nel prosieguo del trattamento, possa «fruire di licenze finalizzate ad un graduale reinserimento nel conteso familiare». Il paradosso è che da internato avrebbe diritto, infatti, a beneficiare delle licenze, ma essendo nelle celle del 41 bis, non può usufruirne.
Ma ritorniamo alla dichiarazione di Guttadauro, resa davanti al magistrato di sorveglianza, circa le proposte in denaro e scarcerazione, che avrebbe ricevuto da soggetti istituzionali. Sorge un dubbio. L’internato è sottoposto a pressioni di collaborazioni di questo tipo? E se fosse così, chi consente o dispone in modo che questo avvenga?
Intanto, secondo l’avvocato Michele Capano, queste pressioni chiarirebbero anche «le ragioni di queste proroghe ‘ sine die’ dell’internamento». Sottolinea a Il Dubbio come nel verbale «si rende rappresentazione delle visite periodiche di funzionari dello Stato – che intervengono ‘ motu proprio’, senza essere chiamati – portatori di offerte di danaro e benefici vari, compresi provvedimenti che dovrebbero essere di competenza di magistrati».
L’avvocato e militante dei Radicali Italiani denuncia che «finché dura l’internamento, vi è la possibilità di sollecitare alla collaborazione con la giustizia come unica via per sottrarsi alla girandola altrimenti infinita ed esasperante delle proroghe, in assenza di profili di attualità della pericolosità». Capano conclude: «Vi è una drammatica convergenza della condotta del potere giudiziario e del potere esecutivo, in direzione di una condizione di ‘ tortura democratica’ utile alla collaborazione con la giustizia, alla ‘ confessione’, come fu in un tempo che ci si augurava non ritornasse» . Il caso emblematico dell’internato è stato segnalato anche al collegio del Garante Nazionale delle persone private della libertà, che ha affrontato spesso la criticità riguardante gli internati e in particolar modo proprio quelli di Tolmezzo. Damiano Aliprandi. 10 Apr 2019 IL DUBBIO
Matteo Messina Denaro – Troppi silenzi su quelle indagini scomparse
Tribunali posti poco sicuri Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, se ci sono posti poco sicuri dove custodire atti di indagine, questi sembrano essere gli uffici giudiziari dei tribunali. È sufficiente fare una ricerca in rete per verificare come la scomparsa di fascicoli dai tribunali italiani non sia un evento così raro. Atti processuali per cause di lavoro e cause civili, fino ad arrivare a fascicoli di stragi, terrorismo e mafia. Il più delle volte la scomparsa dei documenti è dovuta ad attività svolte, trasferimenti d’indagini o altro, senza che ci si sia poi preoccupati di rimetterli al proprio posto o segnalarne l’eventuale spostamento. Avviate le doverose indagini, talvolta vengono rinvenuti. Altre volte, invece, la scomparsa è reale.
È questo il caso di un computer e delle pendrive contenenti anni di indagini sul boss latitante Matteo Messina Denaro, letteralmente svaniti nel nulla. Volatilizzatisi da quella che doveva essere una delle stanze più sicure di un tribunale. Non una cancelleria, frequentata da avvocati, personale d’ufficio e magistrati, bensì la stanza di uno dei più importanti pm all’epoca a capo del pool che dava la caccia al noto latitante di Castelvetrano.
Un computer scomparso L’episodio risale al 2015, ma è emerso a margine del processo d’Appello in cui Teresa Principato – il pm dal cui ufficio scomparvero i supporti telematici contenenti le indagini – venne assolta dall’accusa di aver rivelato un’indagine all’appuntato della Guardia di Finanza Calogero Pulici, all’epoca applicato alla sua segreteria.
Era stato lo stesso Pulici – “cacciato via” dalla Procura di Palermo poiché era venuta meno la fiducia nei suoi confronti – a denunciare che l’11 dicembre 2015, recatosi nella stanza della dottoressa Principato per ritirare i suoi effetti personali faceva la scoperta, in presenza di testimoni, che era “scomparso” il suo pc e due pendrive che contenevano tutti i file delle attività di indagini svolte dall’ufficio e coperte da segreto istruttorio. Pulici, lo stesso giorno, informava il suo comando provinciale, nella persona del suo comandante, di ciò che era successo.
Le accuse Quella di Pulici è una vicenda che ha del paradossale. Allontanato verbalmente dalla Procura di Palermo nell’estate 2015, a seguito di una querela per molestie (finita archiviata) l’appuntato, da anni fidato collaboratore della Principato, rimase coinvolto in più processi (almeno sette terminati con assoluzione) tra i quali uno per aver consegnato nell’ottobre 2015, all’allora capo della Procura di Trapani, Marcello Viola, una pendrive contenente i verbali di interrogatorio di un collaboratore di giustizia coperti da segreto investigativo. Anche i due magistrati, sia la Principato che Viola, vennero indagati con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio, inizialmente con l’aggravante dell’articolo 7, per aver agevolato la mafia, ostacolando le indagini della Dda di Palermo.
Un lecito scambio di informazioni tra due magistrati trasformato in un’accusa che portò soltanto ad archiviazioni e assoluzioni. Le indagini erano state condotte dalla Guardia di Finanza, il cui colonnello era consapevole del rapporto di collaborazione tra i due magistrati, tanto da aver effettuato insieme a loro anche un sopralluogo con un elicottero della Guardia di Finanza.
Indagini condotte con la Guardia di Finanza. Se l’ufficiale avesse ravvisato in tali attività gli estremi di un reato, doveva aspettare una delega di indagini o nell’immediatezza avrebbe dovuto farne denuncia all’Autorità Giudiziaria competente? E invece no, soltanto quando vengono meno i rapporti istituzionali e personali con i due magistrati e l’appuntato, e solo dopo aver ricevuto delega d’indagini, si accorge del presunto reato commesso dai tre. Un reato assai presunto, per la verità, visto che anni di inutili processi portarono soltanto ad assoluzioni.
Cancellati anni di indagini su Matteo Messina Denaro. Cosa accadde a seguito delle relazione presentata dal Pulici al suo comando? Pulici nel 2016 subì anche delle perquisizioni che portarono al sequestro di materiale informatico e di un vecchio computer. Secondo la Finanza tra questo materiale c’era quello di cui Pulici denunciava la scomparsa, ma tra gli oggetti sequestrati non c’era alcun portatile come quello indicato dal finanziere, tanto da indurre la Procura a dover dichiarare che si trattava di altri dispositivi e non di quelli scomparsi dall’ufficio del pm Principato.
Dopo numerose e reiterate richieste per tornare in possesso dei suoi effetti personali, di quanto altro era stato sequestrato e del computer della Procura nel quale erano custoditi file di lavoro, a Pulici veniva consegnato un hard disk smontato e privo di password. Tutto era stato cancellato.
Computer che misteriosamente spariscono, altri dai quali viene smontato l’hard disk e cancellati tutti i file contenenti indagini top secret su Matteo Messina Denaro, diedero luogo a indagini da parte della procura? Secondo quanto riportato dalla stampa venne aperto un fascicolo che finì archiviato senza che fosse stato sentito il finanziere e neppure la Principato.
Uno strano modo di condurre le indagini, visto che nessuno si preoccupò neppure di chiedere all’appuntato quale fosse la marca, e nemmeno il colore, del computer trafugato. Si cercava dunque qualcosa senza sapere cosa si stesse cercando? Le domande in merito, in verità, sarebbero anche tante altre, a cominciare dalla procura competente.
La procura competente Trattandosi di un furto perpetrato nella stanza di un magistrato e contenente atti investigativi della stessa, forse a condurre le indagini doveva essere una diversa procura. Che la competenza fosse di altra procura, lo dimostrano, infatti, i precedenti di semplici intrusioni nottetempo nella stanza di magistrati, senza che fosse stato portato via nulla, e che comportò la segnalazione del fatto a procure diverse da quella dove operavano i magistrati in questione.
Accadde così nel 2014 quando ignoti entrarono nella stanza dell’allora Procuratore di Trapani Marcello Viola e la vicenda – così come è giusto – fu segnalata ai pm di Caltanissetta che aprirono un fascicolo. La stessa cosa nel 2017, quando l’intrusione avvenne nella stanza del Procuratore aggiunto della DDA di Caltanissetta, Lia Sava, e la procura nissena, dopo aver avviato i primi atti urgenti d’indagine, trasferì tutto alla procura di Catania competente per i reati ai danni di magistrati del distretto nisseno. La procura di Caltanissetta venne interessata a seguito del furto avvenuto nella stanza della dottoressa Principato? Forse no, nonostante in quella circostanza avvenne un furto che permise di fare sparire anni di indagini condotte in merito alla latitanza di Matteo Messina Denaro.
Vennero mai avviate le indagini? La domanda a questo punto è un’altra: Venne realmente avviata un’indagine o di questa si hanno solo notizie riportate dalla stampa? La domanda è legittima, visto che ufficialmente non si ha notizia di indagini avviate e di quale fu l’esito delle stesse. A rigor di logica – e a termini di legge – la relazione con la quale Pulici denunciava l’avvenuta sottrazione del computer e di altro materiale informatico, essendo avvenuta in un ufficio pubblico doveva obbligatoriamente dar luogo all’apertura di un fascicolo, trattandosi di un reato perseguibile d’ufficio.
Tante volte abbiamo letto di presunte talpe di boss mafiosi. Chi aveva interesse a fare sparire le indagini su Matteo Messina Denaro? Tante volte le presunte talpe non erano tali, eppure si sono condotte indagini, arresti – talvolta di innocenti – e processi.
È normale che un caso tanto eclatante non abbia comportato alcuno sviluppo e sia passato anche sotto tono sui media?
Quel che è certo è che non si ha traccia di quanto trafugato dalla stanza della Principato e che nella migliore delle ipotesi le indagini – se mai vennero avviate – seguirono un iter che definire “particolare” sarebbe un eufemismo.
Si sarebbe potuto catturare il boss latitante? Cosa ne fu del computer di Pulici? Chi lo portò via dalla stanza del magistrato? Cosa conteneva? Si sarebbe potuti arrivare alla cattura del boss latitante a seguito di quelle indagini? Queste domande forse dovrebbero porsele anche altri che potrebbero avere un interesse istituzionale a conoscere l’intera vicenda che allunga angoscianti ombre su quello che accade in certi palazzi dove Iustitia, la dea romana della Giustizia, sembra aver lasciato il posto a Marco Giunio Bruto, il cesaricida. Gian J. Morici LA VALLE DEI TEMPLI 1.12.2020
Dietro di lui solo la morte
«Con le persone che ho ammazzato potrei riempirci un cimitero». Parola di Matteo Messina Denaro. Tra gli Anni Ottanta e gli Anni Novanta “U siccu” è un boss emergente. È il prediletto di Totò Riina ed esecutore e mandante di numerosi omicidi. I giudici parlano di “totale assenza di scrupoli”. Nessuno sa, con esattezza, quanta gente ha ucciso o fatto uccidere. Vincenzo Milazzo e Antonella Bonomo sono tra questi.
Vincenzo Milazzo è uomo dei corlenoesi, capace raffinatore di eroina, e boss di Alcamo che un quarto di secolo fa è nel mezzo di una guerra di mafia. Vincenzo e Antonella vivono insieme. Lei soffre quando lo vede partire come un soldato, anche di notte, per una missione da compiere. Sognano un figlio, un po’ di pace e prospettano una fuga lontano da tutto. La guerra di mafia finisce, c’è la “pace” ad Alcamo. Ma non per loro.
Dicono che lui comincia a parlar male dei pezzi grossi, per Cosa nostra diventa una mina vagante. Un giorno credendo che avessero arrestato Totò Riina, Vincenzo organizza una festa, comincia a capeggiare. Riina viene a sapere tutto ed emette la sentenza. Portano Milazzo in una casa di campagna, dentro c’è anche Messina Denaro. Milazzo entra, viene ucciso con un colpo alla testa e sotterrato nel terreno vicino. Nei giorni successivi Antonella Bonomo è preoccupata. Il suo ‘guerriero’ non torna a casa e lei ha una gravidanza da portare avanti. Diventa pericolosa per Cosa nostra, potrebbe conoscere tutti i fatti della mafia in quel territorio e ha anche un parente nei servizi segreti. Non dà garanzie di una vedovanza tranquilla. Un giorno viene condotta nello stesso casolare. Lei entra, ma nessuno le spara. Il codice degli uomini d’onore vieta di sparare ad una donna. La strangolano e la incaprettano, mentre lei implora pietà per il bimbo che porta in grembo. Sarà Messina Denaro a metterla in un sacco nero e a seppellirla nella stessa fossa del suo uomo.
Matteo Messina Denaro e il suo gruppo di fuoco viene incaricato di risolvere i problemi ad Alcamo e Marsala. Nelle due città ci sono dei gruppi di mafiosi che vogliono tirarsi fuori dall’egemonia dei corleonesi. Nella guerra di mafia ad Alcamo muoiono più di quaranta uomini. Matteo Messina Denaro sarà, ad esempio, mandante dell’agguato a Felice Buccellato, il figlio di Don Cola, il capo storico della mafia di Castellammare del Golfo, che si era messo contro i corleonesi dopo decenni di assoluto potere. “U siccu” partecipa con il padre anche all’omicidio di quattro personalità di spicco della mafia di Alcamo: Filippo Melodia, reggente della famiglia di Alcamo, Damiano Costantino, Giuseppe Colletta e Vito Varvara.
Altra guerra a Marsala. Sempre nei primi anni Novanta. Una famiglia decide di allearsi con la mafia di Agrigento e Gela, gli “stiddari”. La capeggia Carlo Zichittella. Vuole diventare il referente di Cosa nostra in città, con l’aiuto dei vecchi nemici dei corleonesi. Vengono tutti fatti fuori nel 1992. Prima Vincenzo D’Amico e Francesco Caprarotta, i reggenti della famiglia marsalese. Poi tocca a Gaetano D’Amico, fratello di Vincenzo. A marzo, nella piazza Porticella, un commando circonda tre uomini in pieno giorno. Muore crivellato Antonino Titone. Vengono uccisi i parenti e gli amici più fidati di Zichittella. Infine, a giugno, viene assassinato suo padre, lo “zio Vanni”. È seduto su una Vespa 50, stava comprando dei pesci. Matteo Messina Denaro, nel 1992, viene incaricato anche di far fuori Maurizio Costanzo. Il suo gruppo di fuoco parte per Roma con un carico di mitra, fucili, pistole. È il mese di febbraio. Pensano di uccidere Costanzo con l’esplosivo. Individuano anche un punto che si presta bene per l’attentato. Si aspetta l’ok di Totò Riina. Da Palermo però arriva l’ordine di sospendere tutto. C’è da organizzare l’attentato a Falcone. di Giacomo Di Girolamo 23.3.2017
Mafia: Messina Denaro; pm, partecipò a sequestro Di Matteo“Anche Matteo Messina Denaro partecipa alle barbarie cui fu sottoposto il piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e tenuto prigioniero per tre anni per poi ucciso e sciolto nell’acido, autorizzando che il bambino, nel corso della lunga prigionia, resti per tre occasioni ristretto in un immobile vicino Castellamare e in uno vicino Custonaci”. Così il pm Gabriele Paci che, nel corso della requisitoria per il processo a Mattia Messina Denaro, ha ricostruito la carriera criminale del latitante, imputato, dinanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio. “Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso Santino – ha continuato Paci – fu sequestrato per tentare di bloccare la collaborazione del padre con la giustizia. Matteo Messina Denaro oltre a organizzare e deliberare il sequestro mette a disposizione, nel trapanese, i covi in cui il piccolo Di Matteo viene tenuto segregato”. Dopo 779 giorni di prigionia il piccolo di Matteo, l’11 gennaio del 1996, venne strangolato e sciolto nell’acido. (ANSA).
Borsellino e i Messina Denaro, lo ‘schiaffo’ al giudice Borsellino chiese misure nei confronti del padre del Superlatitante, ma si sentì rispondere che Francesco Messina Denaro non aveva fatto nulla –
AGI 16.7.2020 Nel gennaio del 1990 Paolo Borsellino chiese il divieto di soggiorno per Francesco Messina Denaro, vecchio campiere classe 1928 e padre del superlatitante Matteo, ma il Tribunale di Trapani rigettò la richiesta, con un decreto che “è una sorta di schiaffo a chi l’aveva avanzata”. Erano gli anni in cui ‘don Ciccio’ “usciva fuori dai radar, dicendo che aveva una brutta malattia e mandando avanti il figlio Matteo che partecipò alle riunioni decisive per le Stragi del 92”.
Il decreto di ‘non luogo a procedere’ – scritto a mano e datato 13 luglio 1990 – è stato depositato dal pm Gabriele Paci e citato durante la requisitoria nel processo in corso davanti ai giudici della corte d’Assise di Caltanissetta contro il latitante Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993 e accusato di essere il mandante dei due attentati in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Quest’ultimo dall’agosto dell’86 al marzo 1992 era stato a capo della Procura di Marsala e il 23 gennaio 1990 aveva chiesto la sorveglianza speciale, il divieto di dimora e il sequestro di tutti i beni di ‘don Ciccio’. Ad ottobre dello stesso anno Borsellino – con le stesse accuse – emise un ordine di cattura nei confronti del capomafia, che da allora iniziò la sua latitanza, condannato da ricercato nel 1992 e morto da ricercato nel 1998.
“Rileggendo quel decreto potete apprezzare qual era lo stato dell’arte, qual era lo stato delle indagini fatte da valorosissimi inquirenti”, ha continuato Paci, rilevando e “l’ironia contenuta nel provvedimento” quando si afferma: “alla fine che cosa ha fatto questo Messina Denaro?“. Nel decreto (presidente G.Barraco, giudici Massimo Palmeri e Tommaso Miranda) i giudici sottolineano, inoltre, che “non risulta a carico del proposto dal 1964 ad oggi alcun precedente penale”.
Le imprese di ‘don Ciccio’, invece, erano ben note. Sul finire degli anni cinquanta Messina Denaro senior – già allora campiere dei D’Alì – fu indagato per il sequestro-omicidio del notaio Francesco Craparotta e di un tale Vito Bonanno, uccisi il 9 gennaio 1957. I carabinieri di Castelvetrano lo ascoltarono il 16 maggio di quell’anno, ma nel 1964 venne scagionato da ogni accusa.
“Le notizie relative agli asseriti rapporti del proposto con appartenenti a consorterie mafiose – si legge nel decreto del Truibunale di cui l’AGI è venuta in possesso – si sono rivelate per alcuni versi, stando agli elementi di fatto forniti, incontrollabili (non vi è alcun elemento agli atti che indichi Giuseppe Garamella, Paolo Marotta, Vito Guarrasi e Saverio Furnari quali affiliari alle cosche mafiose) e peraltro non certamente all’origine della presunta pericolosità qualificata (la figlia Rosalia ha contratto matrimonio con Guttadauro Filippo, sulla cui trasparente personalità non si solleva alcuna ombra di dubbio se non purtroppo, che è fratello di tale Guttadauro Giuseppe, ex diffidato e sorvegliato speciale, indiziato di mafia)”.
Il “trasparente” Filippo Guttadauro di cui parla il decreto del Tribunale fu arrestato una prima volta nel 1994, dopo quelle parole assolutorie e poi nel 2006, ed è oggi detenuto al 41bis. “Alla fine della fiera è (quel decreto, ndr.) una sorta di schiaffo a chi aveva avanzato la richiesta, per dire ‘non lo vedi che non c’è nulla’ “, ha detto il pm Paci nel corso della requisitoria a Caltanissetta.
Tutti i nominativi citati poi furono condannato per mafia, meno che Guarrasi, mente occulta della politica e dell’economia siciliana dal secondo dopoguerra. Nel documento si elencano anche i rapporti con la blasonata famiglia trapanese dei D’Alì. “L’unica operazione che ha richiesto l’impiego di una consistente somma di denaro per l’acquisto di un fondo facente parte delle proprietà fondiarie dei D’Alì risulta onorata con un mutuo – si legge nel provvedimento – contratto presso la Banca di Sicilia e di cui il Messina Denaro e la moglie risultano ancora gravati”. “Gli accertamenti bancari hanno consentito di verificare che l’odierno proposto risulta aver una situazione debitoria per svariati milioni (oltre 18 milioni per il mutuo soprannominato) e di non essere in possesso di altra liquidità economica”, continua il decreto, dipingendo ‘don Ciccio’ come persona modesta e onesta.
Per anni, ha spiegato Paci,. “l’attenzione si focalizzò su Mariano Agate, indicato erroneamente come capo della provincia di Trapani, trascurando la figura di don Ciccio Messina Denaro”, su cui si erano invece soffermati “validi investigatori come Rino Germanà”, poi sfuggito a un agguato sul lungomare di Mazara nel settembre 1992. Per dieci anni , ‘don Ciccio’, ha ribadito Paci, “fu non solo il capo del mandamento di Castelvetrano, ma anche di tutta la mafia trapanese”, ha detto il pm Paci.
L’eredità fu raccolta dal figlio Matteo che, dopo aver condotto le faide di Alcamo e Partanna, nell’autunno 1991 affiancò Totò Riina partecipando alla missione romana del febbraio-marzo novantadue per uccidere Falcone nella capitale e seguendolo fino alle stragi del 1992. Proseguendo con quelle al nord del 1993, di Firenze e Milano, per cui è già stato condannato all’ergastolo
Il grande colpo al Monte dei pegni Cosa nostra rubò l’oro dei pover Pochi ricordano la rapina miliardaria dell’estate 1991 che portò a Messina Denaro e Riina miliardi in oro e gioielli Autunno 1991. Un’Alfa 164 di colore bianco parcheggia davanti a una gioielleria di Castelvetrano. Al volante c’è Matteo Messina Denaro. Comodamente seduti Totò Riina e consorte. Prendono un borsone e lo consegnano al gioielliere Francesco Geraci, che cinque anni dopo deciderà di pentirsi raccontando tutto ai PM Già perché e solare ed evidente che le casseforti economico/finanziarie che garantiscono la sua latitanza affondano radici profonde oltreoceano (come abbiamo visto) ma anche in Sicilia. Pizzo, traffici illeciti, pervasività nell’economia pubblica sono costanti.
Sul piatto degli investigatori, per certificare la sua attendibilità, Cancemi mise il tesoro del padrino corleonese che si trovava dai Geraci a Castelvetrano. Sotto sequestro finirono gioielli, preziosi e lingotti d’oro che valevano due miliardi di lire. Quello era solo una parte del bottino I lingotti erano una parte del colpo al Monte dei pegni della Sicilcassa in via Calvi a Palermo. Parlare di rapina sarebbe riduttivo.
Il 13 agosto del 1991 sette banditi sbucarono dai bagni. Gli impiegati erano appena rientrati dalla pausa pranzo. Razziarono l’oro dei poveri, tutta gente che impegnava i regali di una vita. Li portavano al Monte di pietà e ricevevano in cambio soldi in contanti per mandare avanti la baracca. Le polizze di pegno venivano spillate sulle buste di plastica che custodivano i gioielli. Era un modo per tenere viva la speranza, spesso vana, che la merce potesse essere un giorno riscattata. Dal caveau di via Calvi sparì merce per 18 miliardi di lire. Una cifra calcolata per difetto. A parte i lingotti di Riina la refurtiva non è più stata ritrovata. Ripulita finanziando chissà quali affari. Di recente quel mega colpo è tornato d’attualità. Fra gli uomini d’oro che assaltarono il Monte di Pietà c’era pure Francesco Paolo Maniscalco, imprenditore del caffè, già condannato per quel colpo e anche per mafia. I finanzieri della Polizia hanno sequestrato beni per 15 milioni di euro.
A Geraci venne affidato il delicato compito di gestire la cassa di famiglia, che amministrò per anni, custodendo il denaro nel caveau della propria gioielleria.
Ed è proprio lui a raccontarlo in un interrogatorio sostenuto dalla 12.45 del 5 ottobre 1996: «L’episodio nel quale è coinvolto mio fratello è quello che concerne la gestione di “conti” ce io tenevo in gioielleria nell’interesse di Messina Denaro Matteo: il Matteo avendo notato un caveau particolarmente protetto, mi aveva chiesto se potevo custodirgli del denaro in contanti, ed io mi ero messo a disposizione senza alcuna difficoltà. Tale denaro, in pratica confluiva in quattro conti: uno era quello personale di Matteo che ebbe al massimo un saldo di 35 milioni; un altro che ha avuto anche la consistenza di 100-150-200 milioni; l’altro ancora ammontava a 100 milioni e che, come mi disse Matteo, erano soldi di sua madre; un ultimo invece fu fatto in occasione dell’acquisto di terreni, di cui parlerò appresso, di cui la S.V. mi invita a fare. Ero stato io a confidare a mio fratello l’esistenza di quei conti anche per consentire che in mia assenza Matteo potesse effettuare operazioni di deposito o prelievo di denaro rivolgendosi direttamente a lui. Il Matteo veniva assiduamente a compiere queste operazioni, le quali venivano annotate in dei bigliettini in cui sostanzialmente veniva riportato soltanto il saldo e che venivano successivamente strappati. Mio fratello si occupava anche della gestione di questa contabilità ma ero io di fatto che mantenevo i rapporti con Matteo (…) Prima del mio arresto ricordo che il conto personale del Matteo era stato azzerato e ciò in concomitanza con l’inizio della sua latitanza; quello degli “affari correnti”, per così dire, era stato assottigliato (…) Aggiungo che per un certo periodo, sempre tramite il Matteo, anche …omissis…ci aveva portato in custodia 200 milioni che erano dei soldi di cui egli si era appropriato in banca. Mi risulta inoltre che …omissis…si fece custodire una certa somma, forse circa 70 milioni, anche da…omissis…Mi sovviene che ho custodito anche i soldi di…omissis…, circa 20 milioni, che mi furono portati da…omissis».
L’ulteriore passaggio evolutivo di tale rapporto – annota il Gip a pagina 21 del provvedimento – fu l’affidamento a Geraci di numerosi lingotti d’oro (chi, di noi, non ne ha una decina in casa per far fronte a spese improvvise o per dare una mancia al corriere!, nda) e di una valigia piena di monili e oggetti preziosi, beni tutti appartenenti a Totò Riina, consegnati da Geraci agli inquirenti all’inizio della sua collaborazione. «Nella terza occasione – proseguirà Geracinell’interrogatorio del 5 ottobre 1996 – Riina si presentò nel negozio accompagnato da Matteo, con la moglie e le due figlie, affidandomi una borsa con i gioielli della famiglia perché li custodissi; si trattava di orecchini, monili ed altro che io ho occultato in un nascondiglio segreto nella mia abitazione unitamente ai lingotti d’oro che in un’altra occasione mi aveva portato il Matteo dicendomi che erano di Riina
A proposito di Riina ricordo che per due estati in due occasioni ho fatto fare insieme al Matteo delle gite in barca a tutti e quattro i suoi figli, unitamente alle figlie di Pietro…omissis…e di tale “vartuliddu” di Corleone, entrambi all’epoca dimoranti a Triscina.
Un giorno Messina Denaro Matteo mi chiese se mediante un’operazione “pulita” potevo intestarmi un terreno che da quello che capiì apparteneva alla famiglia mafiosa di Castelvetrano: si trattava di un terreno di tre salme e mezzo (pari a 18 ettari circa) sito alle spalle della grande costruzione di Genco cui si accede da viale Roma.Non sono in grado di dire se quel terreno intestato formalmente a …omissis…di fatto apparteneva già a Messina Denaro Matteo ed ai suoi amici mafiosi oppure se di fatto costoro ne diventavano proprietari a seguito della vendita nella quale io figuravo come formale acquirente. L’acquisto avvenne, se mal non ricordo, tra i 1990 e il ’91 (…) Successivamente alla compravendita, il terreno acquistato da …omissis….fu un compromesso rivenduto ai Sansone di Palermo per la somma di 550 milioni. Il Sansone mi versò 450 milioni in assegni ma prima che saldasse completamente il debito venne arrestato per cui rimase in debito di 100 milioni. Ricordo che si diceva che quel terreno doveva diventare edificabile e che anzi il Sansone doveva realizzare un grosso insediamento edilizio, tipo “Castelvetrano due”; infatti attualmente il terreno vale svariati miliardi. Con il guadagno di 250 milioni previsto a seguito di quella compravendita, il Matteo mi aveva detto che dovevo intestarmi un terreno di Riina…». Guarda caso, in quegli anni prende il via la grande speculazione edilizia di Castelvetrano verso Santa Ninfa. Il piano Regolatore approvato dalla Giunta Bongiorno e dal consiglio dell’epoca consentì in quella zona investimenti immobiliari per miliardi di lire. La classe dirigente di Castelvetrano decise uno strano sviluppo urbanistico che non portava verso il mare ma verso l’entroterr Resta da capire chi, oggi – a fronte dei tanti prestanome della famiglia allargata già colpiti da provvedimenti di sequestro o confisca – continui, in Sicilia e non solo, a tenere “i conti” dorati del superlatitante trapanese e della sua “famiglia allargata”. Fonte: Live Sicilia
Matteo Messina Denaro, il boss delle stragi e la fidanzata: la lettera d’addio
Matteo Messina Denaro, il «capo dei capi» della mafia, è ancora latitante, a 25 anni dalle stragi di mafia in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino A differenza degli altri capimafia, come Provenzano e Riina, non è mai stato in carcere A Caltanissetta inizia il processo a suo carico
Qui si fa il punto delle indagini per catturare il superlatitante. Dove si nasconde?
Se e quando lo prenderanno, per essere sicuri della sua identità dovranno sottoporlo al test del Dna. Solo in quel momento, se i confronti coincideranno, si potrà sancire la fine della latitanza di Matteo Messina Denaro, l’unico grande capomafia ancora in libertà e mai transitato dalle patrie galere, di cui non si hanno foto segnaletiche né impronte digitali. Anche Totò Riina e Bernardo Provenzano sono rimasti in fuga per decenni, ma in gioventù erano stati in carcere; Matteo — generazione successiva, classe 1962 — mai. Caso unico nella storia delle indagini antimafia. A venticinque anni dalla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a Caltanissetta è appena cominciato il processo a suo carico per le due stragi del 1992: a parte i «mandanti occulti» su cui ancora si indaga, ma mai individuati, è rimasto l’ultimo imputato, giudicato in contumacia.
«Che Dio mi aiuti» Ufficialmente Messina Denaro è ricercato dall’anno successivo, ordine d’arresto numero 267/93 per quattro omicidi, emesso da un giudice palermitano il 2 giugno 1993. Tre giorni dopo scrisse una lettera alla ragazza con cui era fidanzato all’epoca, per annunciarle la sua fuga: «Non so se hai capito che nell’operazione di ieri da parte dei carabinieri c’è anche un mandato di cattura nei miei confronti… Qualunque cosa abbiano messo è soltanto una grande infamia, perché sono innocente… È iniziato il mio calvario, e a 31 anni, e con la coscienza pulita, non è giusto né moralmente né umanamente… Spero tanto che Dio mi aiuti… Non voglio neanche pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò… Vuol dire che il nostro destino era questo. Spero tanto, veramente di cuore, che almeno tu nella vita possa avere fortuna… Non pensare più a me, non ne vale la pena… Con il cuore a pezzi. Un abbraccio, Matteo».
In quello stesso periodo il neo-latitante stava partecipando all’organizzazione delle stragi mafiose dell’estate ’93, ma gli investigatori hanno cominciato a concentrarsi su di lui molto tempo dopo, all’indomani della cattura di Provenzano. Da quel momento, anno 2006, è diventato il ricercato numero uno, preda invisibile di una caccia nella quale lo Stato ha investito decine di milioni e che finora ha portato a oltre cento arresti di familiari, complici, fiancheggiatori e mafiosi vari, senza però arrivargli nemmeno vicino. E la caccia continua. A Palermo ci sono almeno 200 investigatori della polizia e dei carabinieri che si dedicano a tempo pieno alle indagini finalizzate alla sua cattura, strutturati in compartimenti stagni, con scambi di informazioni che avvengono tra i vertici delle due strutture sotto il coordinamento di due Procure, Palermo e Caltanissetta. La polizia conta su quasi 100 tra funzionari e agenti della Sezione Catturandi della Squadra Mobile di Palermo, a cui si aggiungono quelli della Mobile di Trapani e gli agenti del Servizio centrale operativo, alcuni già protagonisti della cattura di Provenzano. Lavorano in una sede distaccata presso un aeroporto, dov’è installata la sala ascolto delle migliaia di intercettazioni captate da microspie piazzate nei luoghi più impensati e impensabili in cui si ritiene che qualcuno possa parlare di lui, iddu, il latitante.
Pure i carabinieri schierano un centinaio di uomini a tempo pieno tra Ros, il raggruppamento operativo speciale dedito alle indagini sulla criminalità organizzata, e i comandi provinciali di Palermo e Trapani, con una sala ascolto sistemata all’interno di un altro aeroporto della zona, dove convergono le informazioni raccolte dalle cimici. Qualche anno fa s’è tentato l’esperimento di unificare le due strutture, ma è stato abbandonato: il protocollo per lo scambio di notizie è tuttora in vigore, tuttavia i dati vengono condivisi solo ad alto livello. Anche per evitare che eventuali «talpe» possano rovinare l’intera inchiesta, come si rischiò durante le ricerche di Provenzano.
Infine ci sono i servizi segreti, impegnati su quel fazzoletto di Sicilia occidentale in cui il boss ha visto crescere il suo potere mafioso e che forse non batte più, ma in assenza di altre tracce è inevitabile ripartire da lì, e insistere su chiunque possa avere rapporti con lui. A cominciare dalle famiglie: quella di sangue e quella mafiosa, che in alcuni casi coincidono. Se infatti Matteo non ha mai varcato il portone di un carcere, quasi tutti i suoi parenti sono stati arrestati, e spesso condannati, per appartenenza a Cosa nostra: dal fratello Salvatore — al 41 bis — alla sorella Patrizia (fresca di 14 anni e mezzo di pena inflitti in appello), passando per il cognato Filippo Guttadauro, il nipote Lorenzo, il cugino acquisito Lorenzo Cimarosa che s’è pentito ed è morto di malattia nel gennaio scorso: ha fatto in tempo a fornire notizie per la cattura di altri personaggi, compresi politici e imprenditori in grado di procurare appalti e affari, considerati vicini al latitante, ed è possibile che a breve si arrivi allo scioglimento per mafia del Comune di Castelvetrano. Ma niente di decisivo per afferrare iddu. È la strategia della «terra bruciata» intorno al latitante, arrivata fin dentro la casa del paese dove non abita più nemmeno l’anziana madre di Matteo; quattro anni fa da quelle mura se n’erano andate la figlia concepita del boss quand’era già latitante, insieme alla ex compagna di Matteo: un altro segnale di un codice mafioso-patriarcale che sembra disgregarsi, insieme al prestigio del padrino che «picciotti» o «uomini d’onore» non hanno più paura di criticare.
«Ma questo che fa? Totò Riina, nei dialoghi registrati in carcere, l’ha accusato di aver abbandonato la causa di Cosa nostra per pensare ai fatti propri: «Non ha fatto niente… io penso che se n’è andato all’estero». E Giuseppe Tilotta, sospettato di far parte della mafia trapanese, si sfogava così nell’agosto 2015: «Ma anche questo, che minchia fa? Cioè, arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati e tu non ti muovi? Ma fai bordello!». Ed esprimeva un’idea che comincia a fare capolino anche fra qualche inquirente: «Io sono del parere che questo qualche giorno, a meno che non lo abbia già fatto, si ritira… e gli altri vanno a fare cose a nome suo quando lui oramai non c’è più qua…».
Le tracce del 2013 È come se Matteo Messina Denaro fosse diventato un’icona, un nome che pure mafiosi di piccolo o piccolissimo calibro pronunciano per darsi un tono o acquistare peso, com’è capitato nelle intercettazioni che l’altra settimana hanno portato al fermo di 14 persone; dicevano che Matteo nel 2015 era intorno a Marsala, ma non ce n’è prova. Gli indizi un po’ più consistenti della sua presenza in Sicilia sono del 2013, quando la sorella Patrizia portò al marito in galera un ordine del latitante, Cimarosa ha riferito che bisognava recapitargli 60.000 euro e qualcuno si mosse per trovare una casa nella zona di San Vito Lo Capo. Poi più niente. I pizzini inviati ai boss Provenzano e Lo Piccolo, firmati «Alessio», risalgono al 2006 e 2007, li ha dettati a qualcuno: non sono scritti da lui, come ha stabilito il confronto con la lettera d’amore del ’93, una delle poche tracce autentiche che ha lasciato dietro di sé. Interrotti quei contatti, ne potrebbero essere rimasti con i capi di altre organizzazioni criminali; gli inquirenti hanno subodorato qualche indizio in questa direzione, ma ancora poco concreti. Le indagini non si fermano monitorando colloqui e sussurri, messaggeri veri e presunti, rapporti autentici o solo immaginari. Ma il boss è ancora libero, forse vicino a chi lo cerca o forse addirittura in un altro continente. Continuano a finire in carcere persone che senza la caccia non sarebbero nemmeno state inquisite, mentre Matteo Messina Denaro insegue il destino del padre, capomafia anche lui, morto in latitanza nel 1998; la famiglia annunciò la dipartita con un aulico necrologio pubblicato sul Giornale di Sicilia, firmato anche da Matteo. Era già in fuga da cinque anni. 17 maggio 2017 Corriere della Sera – Giovanni Bianconi
Quello che i magistrati sapevano
Carta canta! Carta canta! È vero, le carte cantano e – come continua il proverbio – “villan dorme”, ovvero, se anche sei analfabeta e non sai neppure leggere, è sufficiente che tu abbia un documento che possa dimostrare i tuoi diritti, per poter dormire sonni tranquilli. Ma se carta canta e nessuno la legge, anche i delinquenti possono dormire. E dormire sonni tranquilli.
È questa la storia che ha permesso ai Messina Denaro, per decenni, di rimanere defilati rispetto le loro gravi responsabilità su quanto avveniva nel territorio trapanese, e in particolare del coinvolgimento dell’attuale boss latitante, Matteo Messina Denaro, nelle stragi del ’92.
Il periodo è quello successivo alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, quando vennero uccisi Giovanni Falcone, la moglie, Paolo Borsellino e i componenti delle rispettive scorte.
Due magistrati, destinati a diventare nel tempo due importanti procuratori, stanno sentendo alcuni collaboratori di giustizia che narrano anni di mafia, traffici, affari, delitti.
A Caltanissetta, intanto, si indaga sulle stragi, e Vincenzo Scarantino assolve al suo compito di “depistatore” accusando innocenti e permettendo ai veri responsabili di non essere individuati dagli inquirenti.
Sono gli anni in cui anche altri “pentiti” assolvono a un ruolo che ancora oggi è tutto da chiarire, indicando in Mariano Agate il rappresentante provinciale di “cosa nostra” trapanese.
Decenni di false piste da seguire, che hanno portato fuori strada gli investigatori, non permettendo neppure di mettere nero su bianco il nome dell’imprendibile Matteo Messina Denaro, che oggi sappiamo aver pianificato le stragi, che rimase libero e indisturbato fino al ’93, quando si diede alla latitanza.
Gli stessi magistrati che ascoltano e verbalizzano le dichiarazioni di collaboratori di giustizia che raccontano fin dalle origini il “sistema Siino” (quello degli appalti pilotati finito nel dossier mafia-appalti a opera di Mori e De Donno, voluto da Giovanni Falcone e che Borsellino avrebbe voluto venisse ripreso e a lui affidato) raccolgono anche le dichiarazioni di chi tace sul nome di Matteo Messina Denaro e sminuisce il ruolo del padre Francesco.
Ma “carta canta”, ed è sufficiente leggere alcune deposizioni di collaboratori di giustizia – questa volta seri – che indicano in Francesco Messina Denaro il capo di “cosa nostra” trapanese, quantomeno dalla seconda metà degli anni ’80.
Francesco Messina Denaro, un nome che veniva già messo in relazione alla strage di Via D’Amelio, che avrebbe dovuto indurre gli inquirenti che ascoltavano le dichiarazioni dei vari collaboratori a valutare meglio le propalazioni del “pentito” che ne sminuiva il ruolo, e ad informare i colleghi nisseni di ciò di cui erano a conoscenza, evitando che per decenni seguissero una falsa pista.
Infatti, soltanto in occasione del processo a Matteo Messina Denaro, condannato all’ergastolo a Caltanissetta per le stragi del ’92, il pm Gabriele Paci ha fatto piena luce sul vero ruolo dei Messina Denaro, padre e figlio, con il pieno coinvolgimento di quest’ultimo nelle stragi.
Matteo Messina Denaro. Il fantasma, l’innominato, l’impunito.
Ma qual era lo spessore criminale dell’attuale latitante?
Considerato che fino al ’93 non sentì neppure la necessità di darsi alla latitanza, come aveva fatto il padre, dovremmo dedurre che a parte un cognome pesante l’allora ragazzo non doveva aver nulla da temere dagli inquirenti, neppure il fatto che qualcuno un po’ curioso andasse a ficcare il naso nei suoi affari, nelle sue amicizie, negli incontri che teneva, scoprendo così quei summit del ’91 con i vertici di “cosa nostra” regionale, quando pianificò il massacro dei giudici Falcone e Borsellino.
Ma, ancora una volta, carta canta!
E questa volta, a parlare non è un collaboratore di giustizia, attendibile o meno che fosse.
L’ex maresciallo Carmelo Canale, poi ufficiale dei carabinieri, nell’aprile del ’94, nel corso di un processo, racconta di come i carabinieri dopo l’uccisione di Francesco Accardo (13 giugno 1988), e comunque dopo l’arresto di Mariano Agate, avessero appreso che Francesco Messina Denaro era stato nominato rappresentante provinciale di “cosa nostra” di Trapani.
Una dichiarazione un po’ contraddittoria, visto che prima afferma che non esistevano i collaboratori, ma i carabinieri erano riusciti a sapere (evidentemente da fonti confidenziali – ndr) che il Messina Denaro Francesco era stato nominato rappresentante provinciale, salvo poi dichiarare che erano sue personali deduzioni investigative.
Su un dato, invece, il militare è certo, anche perché documentato da relazioni dei carabinieri che si trovarono ad assistere all’incontro.
Il giorno successivo all’omicidio dell’Accardo (13 giugno 1988), i militari avevano notato la presenza di Matteo Messina Denaro in compagnia di quello che ritenevano essere un presunto killer della cosca di Partanna, tale Casciotta Girolamo.
Ed è sempre Canale che afferma che Matteo Messina Denaro faceva da tramite tra il padre e la famiglia mafiosa di Castelvetrano.
Carta canta! Quantomeno dalla prima metà degli anni ’90, in molti, compreso quelli che poi diventeranno alti magistrati, conoscevano il ruolo provinciale di Francesco Messina Denaro e lo spessore criminale di suo figlio Matteo.
Eppure, né prima delle stragi, nè dopo, e per lunghi decenni, i magistrati nisseni sembra ne sapessero nulla, e continuavano a seguire la falsa pista di Mariano Agate…
Sarà sempre un alto magistrato palermitano (e non Paolo Borsellino, come ha affermato vergognosamente lo pseudo pentito definito “inquinatore di pozzi” ed “eterodiretto”), ad appena due giorni dal D.L. che prevedeva la possibilità, per gravi e urgenti motivi, che persone detenute per espiare la pena, fossero custodite in luoghi diversi dagli istituti penitenziari, definendo “estremamente importante” la collaborazione dello pseudo pentito, a chiederne in via d’urgenza, e su pressante istanza, che venisse autorizzata la detenzione dello stesso in luogo diverso dalle strutture carcerarie.
Tutto questo avveniva pochi giorni prima dell’uccisione di Paolo Borsellino.
Tanta solerzia, non la si era vista neppure nell’avvisare il giudice che a Palermo era arrivato il tritolo a lui destinato, né, tantomeno, nell’affidargli l’indagine su mafia-appalti a cui teneva tantissimo, e che avrebbe ottenuto soltanto la stessa mattina – con una telefonata ricevuta intorno alle sette – del giorno in cui venne ucciso.
Anche sotto questo aspetto, carta canta! (Quando non scompaiono misteriosamente fascicoli e altro, e quando non si perdono nel corso di qualche perquisizione).vGian J. Morici 22 Marzo 2021 | la valle dei templi