PAOLO BORSELLINO – Dicono di lui – Amici, testimoni di giustizia, altri

AMICI E SOCIETA’ CIVILE 

  • PAOLINO BIONDO – Barbiere personale 
  • Don CESARE ROTTOBALLI – Confessore
  • GIUSEPPE D’AVANZO – Giornalista
  • ALFIO LO PRESTI – Medico
  • ANTONIO TRICOLI – Amico
  • PAOLO PROCACCIANTI – Medico legale
  • PIERA AIELLO – Testimone di giustizia
  • EZIA, la figlia dell’oste
  • ANTONIA e MARIANNA, le figlie del mezzadro

PAOLINO BIONDO

IL GIORNO CHE LO VIDI SBIANCARE PER FALCONE” 

è stato per oltre venti anni il barbiere del magistrato ucciso a Palermo in Via D’Amelio 26 anni fa: qui ne ricorda l’umanità e l’amicizia. “Lui preferiva aspettare il suo turno. Gli piaceva perché da me si rilassava e faceva la sua anticamera leggendo qualche rivista. Non chiedeva mai quanto c’era da attendere. Quando ci fu il maxi-processo, si iniziò a capire che fosse una persona in pericolo e allora un giorno gli dissi: ”Dottore Borsellino, se vuole posso venire io a farle i capelli a casa.” Lui per tutta risposta: ”Paolì, mi vuoi togliere il piacere di venirti a trovare?” A Palermo, a qualche centinaio di metri da via Cilea, vi è un negozio da barbiere gestito da oltre quarant’anni da Paolino Biondo. Lo specchio del suo salone ha visto molti volti, noti e meno noti. Gli occhi di Paolino hanno incrociato lo sguardo di migliaia di persone e le sue mani hanno “accarezzato” molti visi. Tra questi, sicuramente, quello che ha lasciato di più una traccia nel cuore di Paolino è un magistrato che in comune con il barbiere aveva anche il nome: Paolo Borsellino. E allora abbiamo pensato di chiedere a Paolino quali sono i ricordi di questo cliente speciale che conserva gelosamente. E’ stata una conversazione molto emozionante, a volte interrotta dalla voce rotta e commossa di Paolino che faceva fatica a raccontare, e ci siamo emozionati anche noi.. 

Come hai conosciuto il dottore Borsellino? “Ho il negozio vicino a dove abitava lui, in via Cilea. Lo conoscevo fin dal ’71. Ho avuto il piacere di servirlo dal 71 fino al 1992″. 

Sapevi chi fosse quando ha iniziato ad essere un tuo cliente? Sapevi del suo lavoro? “No. Solo dopo qualche tempo, parlando, ho saputo che era un Magistrato. Siamo entrati in confidenza in qualche modo”. Ma davi del tu al Giudice? “No. Assolutamente, io nel mio lavoro, con i miei clienti, ho sempre mantenuto un rapporto di cordialità e rispetto”. 

Abbiamo letto che portava anche i bambini a tagliare i capelli quando erano piccoli. “Si, Manfredi lo ricordo ancora con i pantaloncini corti. Una volta mi portò tutti e tre i bambini per il taglio dei capelli, anche le femminucce. Era una giornata di 40° a Palermo, d’estate, e bambini soffrivano il caldo coi capelli lunghi. Allora il Giudice mi chiese di tagliare i capelli anche alle bambine. “Perchè non le porta dal parrucchiere?” , gli dissi. Rispose “No, glieli devi tagliare tu, perchè come tagli tu i capelli corti non li taglia nessuno”. 

E i bambini non si lamentarono di questa specie di costrizione? Di solito le bambine sono un po’ più difficili da accontentare, un po’ più civettuole. “No, anche perché lui col carattere che aveva non era facile potersi lamentare. Aveva un carattere forte coi figli, ma molto dolce e legato alla famiglia. Quando Manfredi divenne più grandicello iniziò a venire anche lui da me per farsi tagliarsi i capelli. E adesso ho sia lui che suo figlio come clienti. Ho un altro Paolo Borsellino che è mio cliente, e a volte se penso a questo ed a suo nonno, mi si stringe il cuore”. 

Quindi Manfredi ha continuato questa amicizia? “Si, con Manfredi siamo più amici che con suo papà, perché è diversa come cosa, me lo sono visto crescere. Oggi, nonostante sia un Dirigente di Polizia, nonostante il ruolo che ricopre, è un ragazzo giocherellone che quando viene da me ama molto scherzare. E in questo somiglia molto a suo padre”. 

Di cosa parlavate quando il Giudice veniva da te? “Mi raccontava delle marachelle di Manfredi a casa, era quello più discolo, o parlava di cosa facessero i figli, in generale cose della sua vita familiare. Eravamo entrati in confidenza”. 

La gente lo riconosceva quando entrava nel tuo negozio? “Si. Però lui preferiva aspettare il suo turno. Gli piaceva perché da me si rilassava e faceva la sua anticamera leggendo qualche rivista. Non chiedeva mai quanto c’era da attendere. Quando ci fu il maxi-processo, si iniziò a capire che fosse una persona in pericolo e allora un giorno gli dissi:” Dottore Borsellino, se vuole posso venire io a farle i capelli a casa.” Lui per tutta risposta:” Paolì, mi vuoi togliere il piacere di venirti a trovare?” 

Veniva da solo o con la scorta? “Sempre senza scorta. Ha cominciato ad essere accompagnato dalla scorta dopo che uccisero il dottore Falcone”. 

Abbiamo letto che amava molto usare la Vespa. “Si, certe volte, d’estate, si presentava in pantaloncini, con la vespa e con gli zoccoli. Agli inizi però, negli ultimi anni non lo faceva più”. 

Al Giudice assegnarono la scorta nel 1980, nonostante questo lui continuò a venire al negozio da solo? “Si. Magari lo lasciavano a casa e lui riferiva che non sarebbe uscito, che magari aveva da studiare delle carte e poi invece scendeva a comprare le sigarette o qualche rivista, o veniva da me. Era un momento di libertà che si concedeva. Si svagava, e poi con me si rilassava. Quando stava per essere approvata la legge che vietava di fumare nei locali pubblici, gli dissi: “Dottore Borsellino, lei lo sa che tra un po’ non potrà più fumare qui?” E lui mi fa: “Paolì che problemi ti poni, chiama gli sbirri e mi fai arrestare..”. C’era una certa amicizia e gli piaceva scherzare così”. 

Quando il giudice veniva da te, e faceva tutto il giro passando davanti ad altri negozi, era un momento quasi di libertà che si ritagliava. Momenti in cui in cui aveva una parvenza di vita normale. “Lui scendeva da casa e percorreva tutto il tratto passando davanti a vari esercizi commerciali, magari comprava qualche rivista. Ti racconto un episodio simpatico che mi è rimasto impresso. C’era un negoziante, e quando il giudice passava lì davanti questo signore gli diceva sempre: “Dottore Borsellino, mu volissi trovari un posto?” e il giudice di rimando: “Ma che posto ti devo trovare? E dove lo dovrei trovare sto posto?”. E la cosa si ripeteva ogni volta che passava da là. E il giorno dopo, e quello appresso, di nuovo sempre la stessa tiritera. Fino a quando il Giudice gli rispose diversamente “Attrovai nu posto pe tia!”. “Ma veramente, mi trovo una sistemazione??” gli rispose il negoziante. “Sì vero, all’Ucciardone, ci voi iri?” 

Questo dimostra ancora una volta il pensiero di Paolo Borsellino e la sua integrità morale. “Lui, le combatteva queste cose”. 

Tutti ti conoscono perché sei la persona che era presente quando fu comunicato al Giudice che c’era stato un attentato a Giovanni Falcone. Presumo che tu quel giorno non te lo scorderai mai nella vita. “E come potrei scordarlo? E’ rimasto indelebile nei miei ricordi. Era sabato pomeriggio, Borsellino aveva fatto due ore di attesa per il suo turno. Si sedette e gli feci lo shampoo. Mentre stavo asciugandogli i capelli, gli arrivò una telefonata al cellulare che era poggiato sullo sterilizzatore. Prese il telefono, rispose, e lo vidi sbiancare in volto tanto che mi preoccupai e gli chiesi cosa stesse succedendo perché sentivo, dall’altra parte del telefono, parlare a voce alta e disperatamente. Capivo che era successo qualcosa di grave e allora, agitato, gli dissi: ”Dottore Borsellino ma che c’è, che cosa è successo?” Lui mi fa: ”Levami sta cosa” E io sempre più preoccupato insistetti: ”Ma vuole dirmi cosa è successo, mi fa sta facendo preoccupare” E lui: ”Hanno fatto un attentato a Giovanni” Ed è scappato, bianco come la carta. Subito dopo venne un Carabiniere in borghese, che io conoscevo, a chiedere del Giudice e anche a lui chiesi cosa fosse accaduto e mi disse: ”Hanno fatto un attentato a Giovanni Falcone”. Poi seppi che il Giudice andò prima a casa e da lì in ospedale dove il Giudice Falcone gli morì tra le braccia”. Palermo, 19 luglio, 1992: Via d’Amelio                                                                                      

PAOLINO BIONDO – Barbiere di Paolo Borsellino Il giorno che lo vidi sbiancare per Falcone” – Paolino Biondo è stato per oltre venti anni il barbiere del magistrato ucciso a Palermo in Via D’Amelio 26 anni fa: qui ne ricorda l’umanità e l’amicizia. “Lui preferiva aspettare il suo turno. Gli piaceva perché da me si rilassava e faceva la sua anticamera leggendo qualche rivista. Non chiedeva mai quanto c’era da attendere. Quando ci fu il maxi-processo, si iniziò a capire che fosse una persona in pericolo e allora un giorno gli dissi: ”Dottore Borsellino, se vuole posso venire io a farle i capelli a casa.” Lui per tutta risposta: ”Paolì, mi vuoi togliere il piacere di venirti a trovare?” A Palermo, a qualche centinaio di metri da via Cilea, vi è un negozio da barbiere gestito da oltre quarant’anni da Paolino Biondo. Lo specchio del suo salone ha visto molti volti, noti e meno noti. Gli occhi di Paolino hanno incrociato lo sguardo di migliaia di persone e le sue mani hanno “accarezzato” molti visi. Tra questi, sicuramente, quello che ha lasciato di più una traccia nel cuore di Paolino è un magistrato che in comune con il barbiere aveva anche il nome: Paolo Borsellino. E allora abbiamo pensato di chiedere a Paolino quali sono i ricordi di questo cliente speciale che conserva gelosamente. E’ stata una conversazione molto emozionante, a volte interrotta dalla voce rotta e commossa di Paolino che faceva fatica a raccontare, e ci siamo emozionati anche noi.. 
–  Nei giorni immediatamente successivi all’omicido di Cassarà e Antiochia, ebbe inizio quella che qualcuno chiamò “la deportazione di Falcone e Borsellino”. I due Giudici, in poco tempo, furono prelevati da Palermo e trasferiti in Sardegna con un volo riservato dei servizi segreti.
In quell’agosto del 1985 la notizia doveva restare segreta, o per lo meno si cercò di farla rimanere segreta. Quando trapelò si disse ai giornalisti che erano stati inviati lì per lavorare tranquilli, per preparare l’ordinanza del maxi.. invece non avevano nulla di nulla. La storia completa la racconterà Caponnetto dopo la morte del Dott.Falcone in un’intervista al settimanale Suddovest riportata da La Repubblica il 17 Giugno del 1992.
Antonino Caponetto,in quegli anni era consigliere istruttore a Palermo, considerava Falcone e Borsellino come dei figli, dirà in seguito, e lo dimostrò proteggendoli come dei figli.. Fu sua la decisione di inviare i due giudici al “soggiorno obbligato” all’ Asinara per sottrarli ad un “grave ed incombente pericolo segnalato da una persona di assoluta fiducia e credibilità”. Quella persona era un alto ufficiale dei carabinieri che, nell’ estate dell’ 85, si precipitò nell’ ufficio del consigliere istruttore: “Abbiamo intercettato una cartolina in partenza dall’ Ucciardone – gli disse -. C’ è un piano della mafia per uccidere prima il giudice Borsellino, poi Giovanni Falcone”. Caponnetto non ci pensò due volte e ordinò che i due magistrati e le loro famiglie fossero immediatamente trasferiti al sicuro, all’ isola dell’Asinara. “Per lungo tempo quest’ episodio rimase sconosciuto ai più e quando la notizia trapelò riuscimmo a mantenere il segreto sulla drammatica motivazione di quell’ improvviso trasferimento che la stampa ha sempre attribuito alla decisione dei due colleghi di appartarsi in un luogo sicuro ed isolato per meglio dedicarsi alla stesura della sentenza-ordinanza. In realtà avendo lasciato Palermo con la massima urgenza a poche ore dalla segnalazione ricevuta, Falcone e Borsellino non avevano alcuna possibilità di portare con sé alcuna parte dell’ immenso materiale raccolto con la conseguenza che, per quindici giorni, dovettero sospendere il loro lavoro. Ogni giorno insistevano per poter tornare al lavoro, ma glielo consentimmo solo quando fummo tranquilli sul cessate pericolo”. Per quel “soggiorno obbligato” sull’ isola dell’ Asinara, Falcone e Borsellino dovettero persino pagare le spese di soggiorno per loro e le loro famiglie allo Stato. Questo raccontò il Giudice Caponnetto.
Appena arrivati furono ricevuti dall’allora Direttore del carcere Franco Massida, fatto rientrare dalle ferie precipitosamente, poi alloggiati nella foresteria del carcere, alla Cala Oliva.
Una prigionia che si ripercuoterà notevolmente sulle famiglie, specie per una delle figlie del Dott Borsellino, ragazzi dell’età di 15/13 / 14 anni venivano catapultati in un posto desolato con solo mare e natura, straordinari sì ma solo mare e natura..
Lucia, la maggiore, ne risentì così tanto che si ammalò.. E per Lucia il Dott Borsellino rientrò in gran segreto a Palermo, con lei per salvarla da ciò che le stava accadendo. La storia la racconterà la signora Agnese Borsellino nel suo libro,. Quella delicatissima, e allo stesso tempo difficile, storia, di amore tra padre e figlia..
https://ricerca.repubblica.it/…/nel-1985-falcone-borsellino-…https://ricerca.repubblica.it/…/la-prigionedei-giudici26.html  “Ti racconterò tutte le storie che potrò” A.Borsellino, S.Palazzolo.


I CAPELLI DI BORSELLINO  E L’ATTENTATO A FALCONE – Signor Paolino, che tipo di cliente era il giudice Borsellino?“Bravo”. Ci sono quelli che dal barbiere stanno in silenzio e osservano cupi lo specchio, al passaggio delle forbici, persi nei loro pensieri. E altri che chiacchierano di calcio o di qualunque cosa per non sentirsi soli.“Ah, il dottore era un miscuglio. Di solito stava zitto. Altre volte voleva parlare. E prendeva bonariamente in giro suo figlio Manfredi quando era un ragazzo, per via della prima barba”. E’ Manfredi che ci ha svelato dove trovarla. Sa, ha avuto il terzo figlio. Una bimba.“Che bellezza (Paolino Biondo zompa di felicità e quasi picchia la testa sul soffitto). Me lo deve salutare tanto”. Se ci legge, lo consideri salutato. Dove sedeva il giudice?“Qui (nel divanetto accanto alla porta, ndr). Aspettava il suo turno buono buono”. Significa che non saltava l’attesa? Che non le spaventava i clienti con la scorta?“Stava qui, paziente. E arrivava da solo, senza scorta, a piedi. Infatti, una volta gliel’ho detto”.Che cosa gli ha detto? “Dottore, vengo a tagliarle i capelli a casa. Lo faccio per lei…”. E lui?“Paolì – mi ha risposto – non ti arrisicare. Mi vuoi togliere l’unico momento di normalità che mi è rimasto?”. Era il 23 maggio del 1992…“Finisco quasi di tagliare i capelli al dottore Borsellino, lui era qui da me di pomeriggio. L’ultima passata di lacca, mi pare”. E che succede?“Gli squilla il telefonino. Lo porta all’orecchio. Diventa pallido, il dottore, si alza di scatto. Ha il viso bianchissimo.  Prende i soldi dalla tasca e li posa sul tavolo”. E lei?“Dottore, che c’è?”. E lui?“All’inizio non risponde. Poi, con gli occhi persi nel vuoto, come se non mi vedesse,  sussurra: mio Dio, un attentato a Giovanni. Esce fuori correndo. Purtroppo, non l’ho incontrato mai più”.Paolino, non faccia finta di non commuoversi. Chi era il giudice Paolo Borsellino? “Una brava persona”. Da casa dei Borsellino fino al barbiere di via Zandonai ci sono più di cento passi di normalità. Proviamo a percorrerli, immaginandoci nei vestiti di un giudice che sognava di tagliarsi i capelli come gli altri. Uno, due, tre… L’odore del verde, dei gerani al balcone, del caffè,   stringe il cuore con una tenerezza primitiva, da bambini. E adesso lo sappiamo. Il 23 maggio del 1992, nella passeggiata fino alla bottega di Paolino Biondo, prima dell’attentato a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino era ancora un uomo vivo e felice. Un colpo di forbici. E tutto cambiò. LIVE SICILIA 18 Luglio 2010


DON CESARE ROTTOBALLI

«BORSELLINO MI DISSE: CONFESSAMI, MI STO PREPARANDO»– 
padre Cesare parroco in un quartiere della periferia di Palermo e amico del giudice: Paolo è stato un martire per la giustizia. – Il 19 luglio 1992 un’autobomba uccise in via D’Amelio a Palermo il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Agostino Catalano. Una strage annunciata, avvenuta in un’afosa domenica, 57 giorni dopo quella di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. È questa l’unica cosa certa, perché vent’anni, undici processi, una sfilza di ergastoli, sette dei quali annullati l’anno scorso, non sono ancora bastati per fare luce su una strage di Stato. Del massacro di via D’Amelio è stata ritenuta responsabile tutta la Cupola di Cosa Nostra. Secondo il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, e i suoi sostituti – che negli ultimi tre anni hanno provato a togliere il velo della mistificazione su una delle pagine più oscure della storia d’Italia – «Borsellino fu ucciso perché si oppose alla trattativa tra Stato e mafia». A dare lo spunto per le nuove indagini, sono state le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Secondo la Procura di Caltanissetta, che ha chiesto e ottenuto la sospensione della pena per sette ergastolani ritenuti estranei al delitto e l’arresto di altri quattro affiliati a Cosa nostra, Borsellino fu ucciso perché Riina lo riteneva un ostacolo alla trattativa con esponenti delle istituzioni. «Paolo Borsellino aveva piena consapevolezza di stare per morire, ma continuò a fare il suo dovere fino alla fine. Per questo mi piace dire che rientra tra i beati a causa della giustizia». Don Cesare Rattoballi, 54 anni, parroco dell’Annunciazione del Signore a Medaglie d’Oro, un quartiere della periferia di Palermo, è un testimone privilegiato del travaglio degli ultimi mesi di vita del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio con cinque agenti di scorta. Il 19 luglio saranno vent’anni da quella esplosione che, assieme a quella del 23 maggio 1992, cambiò la storia della Sicilia e dell’Italia intera, ma le lacrime gli sgorgano ancora al pensiero delle lunghe chiacchierate col giudice Borsellino, delle confidenze raccolte e di ciò che vide in quella strada sventrata. Accetta di parlare dopo vent’anni di silenzio don Cesare, che il mondo ricorda al fianco della vedova Rosaria Schifani durante i funerali delle vittime della strage di Capaci, mentre dall’ambone invoca la conversione dei mafiosi. Perché don Cesare era cugino di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta morti assieme al giudice Giovanni Falcone, e – per casi della vita che nessuno conosce – si è trovato a incrociare il suo destino con quello di altre vittime di mafia, da Calogero Zucchetto, un giovane poliziotto ucciso nel 1982 al centro di Palermo proprio mentre don Cesare passava da quella strada, a don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993.

Don Cesare, come nasce il suo rapporto con Borsellino? Facevamo parte della stessa parrocchia, Santa Luisa di Marillac, perché anche io abitavo in quella zona, quindi ci salutavamo cordialmente. Ma fu la notte della camera ardente allestita al Palazzo di giustizia dopo la strage di Capaci ad avvicinarci. Io mi trovavo lì, perché mio cugino era tra le vittime. Quella notte io e la moglie di Vito Schifani scrivemmo la lettera che fu letta durante i funerali. Quella sera feci una lunga chiacchierata con Paolo Borsellino, lui volle conoscere la vedova di Vito, e al mattino, prima dei funerali, le mise il braccio sulla spalla per accompagnarla. Era un padre. 

Il giudice rimase colpito dalle parole che Rosaria Schifani disse piangendo: «Rivolgendomi agli uomini della mafia e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio…». Cosa le disse? A Borsellino piacque moltissimo quell’invito alla conversione. Mi disse di andarlo a trovare a casa con mia cugina. Ci disse che quello che avevamo fatto quel giorno stava già dando i suoi frutti, che alcuni mafiosi in carcere, quando avevano visto in tv lo strazio di quella donna, avevano vomitato, avevano chiesto di parlare coi magistrati. Paolo ci disse di andare avanti. In meno di due mesi ci incontrammo almeno una quindicina di volte. Lo invitai a partecipare alla marcia organizzata dagli scout a fine giugno, perché ero assistente regionale dell’Agesci. Affidò il testimone ai ragazzi e in quel rotolo di carta c’erano scritte le Beatitudini.

 Con che stato d’animo viveva Borsellino quelle settimane? Un giorno nel suo studio a casa mi confidò che il Ros aveva scoperto che era arrivato il tritolo anche per lui. Gli chiesi: «Perché non te ne vai?». Mi rispose: «Prega per la mia famiglia». E mi disse anche che da un po’ di tempo guardava i suoi figli da lontano, li contemplava, non gli dava più carezze, «così li farò abituare alla mia assenza. Amava profondamente i suoi figli, era un vero padre. 

Quale fu il vostro ultimo incontro? Andai a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi disse: «Fermati, voglio confessarmi. Vedi, io mi preparo». Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere. Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia e davvero penso che Paolo e tutti i magistrati e gli agenti uccisi dalla mafia sono beati a causa della giustizia.

Ha mai pensato quello che disse il giudice Caponnetto: «È finito tutto»? No, ho sempre sperato. Quello di Caponnetto fu uno sfogo dettato dall’amarezza del momento. Lì non finì nulla, anzi tutto ebbe inizio. Palermo oggi è libera. Se nessuno avesse dato la vita, saremmo ancora schiavi. 

Si riuscirà a capire chi ordinò davvero la strage? Paolo direbbe ancora oggi: convertitevi. Chi sa, chi conosce la verità, deve parlare, perché la verità vuole la sua giustizia. Avvenire Alessandra Turrisi – 16 luglio 2012

Don CESARE ROTTOBALLI: «Borsellino mi disse: confessami, mi sto preparando»–   Un giorno nel suo studio a casa mi confidò che il Ros aveva scoperto che era arrivato il tritolo anche per lui. Gli chiesi: «Perché non te ne vai?». Mi rispose: «Prega per la mia famiglia». E mi disse anche che da un po’ di tempo guardava i suoi figli da lontano, li contemplava, non gli dava più carezze, «così li farò abituare alla mia assenza. Amava profondamente i suoi figli, era un vero padre.   Andai a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi disse: «Fermati, voglio confessarmi. Vedi, io mi preparo». Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere. Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia e davvero penso che Paolo e tutti i magistrati e gli agenti uccisi dalla mafia sono beati a causa della giustizia. 

Facevamo parte della stessa parrocchia, Santa Luisa di Marillac, perché anche io abitavo in quella zona, quindi ci salutavamo cordialmente. Ma fu la notte della camera ardente allestita al Palazzo di giustizia dopo la strage di Capaci ad avvicinarci. Io mi trovavo lì, perché mio cugino era tra le vittime. Quella notte io e la moglie di Vito Schifani scrivemmo la lettera che fu letta durante i funerali. Quella sera feci una lunga chiacchierata con Paolo Borsellino, lui volle conoscere la vedova di Vito, e al mattino, prima dei funerali, le mise il braccio sulla spalla per accompagnarla. Era un padre. Il giudice rimase colpito dalle parole che Rosaria Schifani disse piangendo: «Rivolgendomi agli uomini della mafia e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio…».   A Borsellino piacque moltissimo quell’invito alla conversione. Mi disse di andarlo a trovare a casa con mia cugina. Ci disse che quello che avevamo fatto quel giorno stava già dando i suoi frutti, che alcuni mafiosi in carcere, quando avevano visto in tv lo strazio di quella donna, avevano vomitato, avevano chiesto di parlare coi magistrati. Paolo ci disse di andare avanti. In meno di due mesi ci incontrammo almeno una quindicina di volte. Lo invitai a partecipare alla marcia organizzata dagli scout a fine giugno, perché ero assistente regionale dell’Agesci. Affidò il testimone ai ragazzi e in quel rotolo di carta c’erano scritte le Beatitudini. 


 

“Visti da Vicino. Falcone e Borsellino gli Uomini e gli Eroi”, di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti   Palermo, 25 giugno 1992, Casa Professa (n.d.r.). Ricorda Alcamo (Vittorio, magistrato): «Una serata da fare accapponare la pelle. Io ero lì e rimasi veramente sconvolto. L’indomani mattina andai nel suo ufficio per stargli un po’ vicino. Ero rimasto così colpito dalle sue parole, dalla sua sofferenza espressa in modo così chiaro che sentii il bisogno di andarlo a trovare e cercai di confortarlo dicendogli: “Paolo, ma hai visto quanta gente c’era, quanto affetto attorno a te…».E lui mi rispose: “Gli applausi erano per Giovanni”».Con Pippo Tricoli e la sua famiglia Borsellino trascorse quella domenica in cui nella mente gli si affollavano rabbia, angoscia, paura. All’amico fraterno Pippo, dopo un bagno al largo e un pranzetto a base di panelle, crocchè, pesce e dolci, Paolo confidò scuro in volto: «È arrivato il tritolo anche per me».


ALFIO LO PRESTI
 amico di Paolo Borsellino (n.d.r.):
 

«Aveva premura, era evidentissimo che aveva premura di sistemare alcune cose. In quelle settimane si chiuse in un silenzio totale e non si confidava più. Aveva chiarissima l’ostilità del palazzo. Di quei giorni, e fu una delle ultime volte che lo vidi, ricordo uno scontro quasi violento. Eravamo a casa sua, una sera, come spesso accadeva. Io lo invitai a fermarsi un poco, a riflettere, a essere particolarmente prudente e lui mi rispose malamente. Io e la mia famiglia avevamo già fatto i biglietti per un viaggio in Indonesia. Con noi sarebbe venuta anche Fiammetta. Fu quella sera, a conclusione di quel diverbio, che Paolo mi disse: “Tu mi devi fare solo un gran favore: ti devi portare via Fiammetta, lontano da qui”. A quel punto io capii tante cose e decisi di non insistere più di tanto. Paolo era assolutamente cosciente del gran pericolo che correva e la sua grande angoscia era la famiglia, i figli. Da sempre Lucia, Manfredi e Fiammetta erano il cruccio di Paolo Borsellino. Sembrava non avere altra paura se non quella di mettere a rischio l’incolumità dei ragazzi. Lui andava in bicicletta senza scorta, ma appena uno dei ragazzi ritardava perdeva la testa. Soprattutto Manfredi, quando erano al mare, spesso non tornava all’orario previsto e Paolo diventava pazzo. Quante volte è uscito di casa per cercare i suoi figli nei bar, nei locali, a casa degli amici. Sarebbe andato da solo anche nei covi dei peggiori mafiosi se pensava che i ragazzi fossero in pericolo. Era un padre molto affettuoso e non particolarmente severo, autoritario».MDopo pranzo fece finta di andarsi a riposare un’oretta e prima di riavviarsi verso Palermo, Borsellino bussò alla porta di Pippo per un abbraccio indimenticabile, ben più lungo e stretto del solito, come quelli che negli ultimi due giorni si era scambiato con alcuni colleghi. «Ciao Pippo, vado da mia madre…».MPochi amici, ma veri e fidati come in un’unica grande famiglia. Era così che Paolo Borsellino concepiva l’amicizia.

Alfio Lo Presti (amico di Paolo Borsellino, e il Ministro Scotti lo ha appena proposto come successore di Falcone alla Superprocura, n.d.r.): «“Fece volare il piatto che aveva davanti , batté con violenza il pugno sul tavolo e si mise ad urlare: Questa è la mia condanna a morte. Io che c’entro con Roma?”». 

Alfio Lo Presti, medico ginecologo, uno degli amici più cari del Dott. Borsellino racconta i momenti trascorsi con lui. Era di domenica, al tempo in cui i panifici erano chiusi. “Andammo a piedi a fare una passeggiata alla ricerca di un filone di pane da portare a casa per il pranzo. Trovammo un carrettino nei pressi di piazza Ottavio Ziino, vicino all’assessorato alla Sanità”. Borsellino compra due filoni di pane, il venditore ambulante glieli consegna e dice con una punta d’ orgoglio: “A lei, il pane io glielo regalo”. Loro insistono per pagare, l’altro muovendo la testa da una parte all’altra, in segno di diniego, è irremovibile e gli ricorda: “Signor giudice, lei mi ha condannato per vendita di pane abusivo e ora viene da me a comprarlo. Ma io glielo regalo con tutto il cuore”. Borsellino rimane immobile per qualche secondo, poi supera l’imbarazzo a modo suo, abbracciando il venditore abusivo di pane.
(Testo tratto dal libro “Visti da vicino: Falcone e Borsellino, gli uomini e gli eroi”)

ANTONIO TRICOLI
amico

«[…] a un certo punto, improvvisamente, lui interruppe la discussione che si stava facendo tesa e pesante e ci raccontò questo aneddoto. “Ero a casa mia a Villagrazia, a un certo punto ho deciso di uscire e ho aperto il cancello. I ragazzi della scorta erano in macchina e dormivano profondamente” e dicendo questo mimò in maniera estremamente divertente le facce addormentare degli agenti, chi dormiva con la bocca aperta, chi raggomitolato. “E a quel punto sapete cosa ho fatto io… me ne sono andato da solo a piedi in paese a comprare il pane. E vi pare che se ne sono accorti quelli?”. E insistette nell’imitare i poliziotti che dormivano. Ci fece ridere veramente smussando la tensione. Questo era Paolo. 

Il Paolo Borsellino che è vivo nella mente di Alfio Lo Presti è il trentacinquenne giovane e brillante magistrato degli anni Settanta ancora senza troppi problemi sulle spalle.
«Paolo è sempre rimasto tale e quale agli anni della gioventù, un uomo semplice. Gli piaceva stare con gli amici, a casa sua si mangiava in cucina il sabato sera, mai nella sala da pranzo, almeno tra di noi. Si parlava di politica, di calcio, gli piaceva stuzzicare suo figlio Manfredi che era interista e gli diceva che lui era milanista. Gli piaceva mangiare e bere, mangiava di tutto, ma anche questo con una certa sobrietà.
Cucinare no, mai, anzi a casa era sbadato e pasticcione. E le rare volte che andavamo a cena fuori preferiva sempre le trattorie alla buona. La sua preferita si trovava in via Discesa dei Giudici, dove mangiava sempre bollito e involtini. Ogni tanto aveva dei battibecchi con Agnese. Magari lei, da donna, avrebbe preferito qualche volta prendere parte a ricevimenti, manifestazioni ufficiali dove erano invitati, ma lui non ci voleva andare assolutamente. Non amava queste mondanità e diceva che quello era un ambiente ipocrita e falso. Tantomeno andava a casa delle persone che lo invitavano, tranne gli amici veri naturalmente. Sfido qualcuno a dire di avere avuto Paolo ospite».


Antonio Tricoli: «[…] Paolo era un grande organizzatore, in tutti i sensi, e anche nelle vicende più tragiche riusciva sempre a mantenere la calma. Ricordo quel maledetto giorno che uccisero il mio collega Rosario Livatino, uno dei giudici ragazzini come li definì l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Con Livatino e con la collega Maria Agnello avevamo istruito un grande processo alla mafia di Agrigento. I provvedimenti di sequestro dei beni dei mafiosi portavano la firma di Livatino, la mia e quella della collega Agnello. E fu proprio quel provvedimento, si apprese poi, che costò la vita a Rosario. Quel giorno, il 21 settembre, io ero ad Agrigento con Paolo Borsellino quando in Procura giunse la notizia che Livatino era stato trucidato. Si scatenò un putiferio, il Palazzo di Giustizia si svuotò immediatamente, sembravano scomparsi tutti. Gli avvocati abbandonarono il palazzo e in quelle stanze restammo solo noi magistrati. Davanti al dolore, allo sgomento, al dramma che si consumava dentro la stanza del procuratore di Agrigento, Borsellino conservò una calma glaciale. C’erano da prendere delle decisioni immediate, delle cose da fare subito. E così, anche se non spettava a lui, cominciò a dare delle direttive: “Tu fai questo, tu quest’altro, tu vai lì, tu vai a fare il sopralluogo…».Insomma, Paolo Borsellino risolse molte cose in quelle tragiche ore dove tutti piangevano per l’uccisione di Livatino. Io andai sul posto dell’agguato, in una scarpata lungo la strada statale tra Canicattì dove Rosario abitava ad Agrigento. Ero lì quando un poliziotto alzò il lenzuolo che copriva il corpo del mio collega martoriato di proiettili. E sbiancai in volto. E Paolo era accanto a me, mi rincuorava, mi faceva coraggio in un momento in cui mi rendevo conto che anch’io, che avevo firmato con Rosario quei provvedimenti di sequestro dei beni di quei mafiosi, potevo essere nel mirino. Ma Borsellino non mi lasciò un attimo e il suo conforto mi fece superare quei tragici momenti».

Visto con gli occhi dell’avvocato difensore (Roberto Tricoli, n.d.r.), Paolo Borsellino era un uomo che riusciva a guadagnarsi rispetto anche da parte degli imputati. «Non ho mai sentito nessuno rivolgersi nei suoi confronti con parole di disprezzo o di odio, Paolo sapeva farsi rispettare dagli imputati. Era un uomo che comunicava in maniera molto diretta ed efficace. Ricordo una volta l’interrogatorio di un ragazzo arrestato per droga, accusato di aver fatto da “spallone” per un carico di stupefacenti. Stava lì e non parlava, fino a quando Borsellino lo apostrofò così: “Ma insomma cosa sei tu, sei uomo o pecora?”, e riuscì a farlo parlare. Quando poteva li aiutava pure gli imputati. Una volta mi capitò di assistere un indagato per mafia che viveva un terribile dramma familiare: gli morirono diversi figli a quattro-cinque mesi per una rara sindrome. La speranza era un preparato che c’era a Genova e Borsellino lo mandò personalmente a prendere. E poi, così come faceva Falcone, agli imputati spiegava chiaramente perché erano colpevoli e, per quanto strano possa sembrare, così facendo si guadagnava il loro rispetto» Erano gli anni Ottanta quando 

PAOLO PROCACCIANTI

allora giovane allievo di Paolo Giaccone, direttore dell’istituto di medicina legale del Policlinico, cominciò a lavorare su incarico di Falcone e Borsellino. E proprio a Paolo Borsellino ritiene, forse, di dovere persino la sua vita. «Era maggio del 1980 e Borsellino mi aveva dato l’incarico di effettuare il guanto di paraffina sui presunti killer del capitano Emanuele Basile, ucciso a Monreale mentre tornava a casa insieme alla moglie e la figlioletta di quattro anni in braccio. Io ero giovane, avevo ventotto anni e abitavo ancora con mia madre. Ricevetti a casa una telefonata in cui mi si minacciava di morte se non avessi indicato come negativo l’esito del guanto di paraffina e rimasi sconvolto. L’indomani mattina arrivai in istituto con le gambe che mi tremavano e raccontai tutto a Giaccone. Io avevo una gran paura, mi misero sotto controllo il telefono, andammo a raccontare tutto a Borsellino che mi disse: “Io ti tolgo l’incarico, lo do fuori, se no ti ammazzano, questa è gente che non scherza”. E mi levò l’incarico…».
Ricordo ancora che Paolo, appena varcata la porta, si guardò attorno, diede un’occhiata a quei mobili scuri, massicci e disse: «Pare una casa protestante». E poi le classiche giornate di Pasquetta passate sempre a Villagrazia. Paolo a fumare sempre Super senza filtro. «Si fuma solo senza filtro» diceva con quella voce roca. E un grandissimo senso della famiglia. Negli anni in cui fu Procuratore di Marsala si vantava di non aver mai dormito una sola notte a Marsala, faceva avanti e indietro da Palermo per non trascurare la moglie e i figli. Paolo Borsellino conosciuto da ragazzo si trasformò agli occhi dell’amico Roberto Tricoli in: «[…] Un uomo di destra, un eroe solitario che credeva nell’onore e nella patria. Ci definivamo fascisti immaginari, avevamo una concezione della vita eroica, contraria a certe strutturazioni della società. E come un eroe solitario Paolo andò incontro alla morte. “Io amo Palermo e per questo la odio”, ripeteva spesso».


Paolo Procaccianti (medico legale di Palermo, n.d.r.):
«Un giorno, era sabato mattina, rimasi molto stupito di incontrarlo così, tutto solo nell’atrio dei Palazzo di Giustizia praticamente deserto. Lui uscì dall’ascensore e io gli dissi: “Paolo, ma che fai qui da solo?”. Mi rispose: “Sono stato all’ufficio postale a pagare le bollette, in ufficio a vedere delle carte che mi servono che devo andare in Germania a interrogare un collaboratore, ora me ne vado”. Insistei: “Ma così da solo, ti pare il caso?”. E lui: “Ma tanto è finito tutto, ormai non c’è più niente da fare. Che vuoi che serva la scorta? Spesso cammino solo, così muoiono meno figli di mamma. Ma lo sai che a casa mia non mi affaccio neanche più dal balcone. Quelli hanno anche il bazooka, possono ammazzare anche la mia famiglia”».


PIERA AIELLO

“Maledetta Mafia”, di Piera Aiello e Umberto Lucentini
 Una mattina, mentre sono in caserma, scoppio a piangere. Sarà il destino, ma pochi minuti dopo arriva Borsellino, quel giorno non è prevista una sua visita. Mi trova in lacrime, mi chiede: «Cosa c’è Piera, hai paura? Temi che qualcuno possa avere capito cosa stai facendo? Dimmelo, troviamo subito un rimedio, ma dimmi cosa ti passa per la testa».

Io smetto di piangere, mi asciugo le lacrime, gli racconto tutto: non ce la faccio a stare nel villaggio turistico con i ragazzi che mi vengono dietro mentre mia figlia è lontana da me. Basta, voglio finirla qui, smetto tutto. Gli annuncio che voglio stracciare tutti i verbali che ho compilato e tornarmene a casa. Basta. Sono sconsolata, non ho più speranze, penso che per me la vita sia finita. Ho subito troppi traumi in poco tempo. Vedo tutto nero. La morte di mio marito ha fatto finire tutto. Ho solo mia figlia, e per giunta adesso non è accanto a me. Borsellino a questo punto mi prende per le braccia, mi spinge con dolcezza e mi mette davanti allo specchio che ho già visto accanto alla porta d’ingresso della caserma.
Mi tiene stretta, vedo la mia immagine riflessa e dietro di me l’immagine di Borsellino. Il giudice mi fa questa domanda: «Piera, tu cosa vedi allo specchio?».
E io: «Vedo una ragazza con un passato turbolento, un presente inesistente e un futuro con un punto interrogativo grande quanto il mondo. Che futuro posso avere io, zio Paolo?».
Lui mi guarda fissando i miei occhi che si riflettono sullo specchio. E dice: «Io vedo una ragazza che ha avuto un passato turbolento, che però si è ribellata a questo passato che non ha mai accettato. Vedo una ragazza che ha un presente e avrà un futuro pieno di felicità. Non per altro: hai diritto ad avere felicità per tutto questo che stai facendo». No, io in quel momento non immagino che la mia vita possa avere una strada diversa dal mio passato. In questo momento non ho ancora capito nulla. Non so di avere diritto a un contributo economico che mi permetterà di tirare avanti e del quale non devo vergognarmi. E che quando mi presentano un foglio su cui c’è scritto la formula “testimone di giustizia” non dovrò vergognarmi. Non ho capito neppure, mentre anch’io guardo riflessa sullo specchio l’immagine di Borsellino, che dietro questa formula giuridica ci sono io. Io con la mia storia passata e con quella ancora da scrivere. Borsellino lo ripete due volte: «Io vedo felicità nel tuo futuro, vedo felicità nel tuo futuro…». A questo punto lo interrompo, e gli dico: «Zio Paolo, tu mi devi fare una promessa…». «Dimmi, Piera, a cosa ti riferisci» fa lui. Ora tocca a me parlare. Gli ricordo che in questi anni ho vissuto sentendo la morte addosso, percependo il puzzo della morte violenta. Proprio così: sento addosso a me il puzzo della morte: «Se mi succede qualcosa ti affido mia figlia. Sappi che è il bene più prezioso che ho nella mia vita. Non ho altro che lei. Se mi succede qualcosa, se io muoio, prendila con te, portala a casa tua. Vita Maria a Partanna non ci deve tornare, non voglio che possa essere costretta a tornare in quel contesto mafioso da cui sono scappata». Borsellino mi risponde con un sorriso: «Non ti preoccupare Piera, perché tanto ammazzano prima me» .A pensarci bene, è una risposta terribile. Ma lui continua, quasi non mi dà il tempo di riflettere su cosa ha appena detto: «Piera, dovresti essere orgogliosa e contenta che i ragazzi si interessano a te. Sei una bella ragazza, cosa c’è di strano? Hai visto? È la prova che puoi avere un futuro». Sono parole cariche di un’umanità così grande che non ho mai sentito prima in vita mia. Torno a sentirmi un essere umano, una donna, non solo un “testimone di giustizia”. Le frasi di Borsellino mi riconciliano con la vita. Fino a pochi secondi fa, se mi avessero detto di scommettere 5 lire sul futuro della mia vita, sono sicura che le avrei perse. Non posso passare tutta la mia esistenza con il desiderio di tornare a Partanna e anche con la paura che mi uccideranno, con la certezza che la mafia mi farà pagare il mio gesto di ribellione. Mi guardo ancora allo specchio: non mangio né dormo da mesi, sono diventata anoressica. Ho perso trenta chili. Ma capisco che Borsellino ha ragione: ho ancora un futuro.


EZIA la figlia dell’OSTE

 

Come entrò il Dottore Borsellino nella vita della sua famiglia e come lo conosceste?
Paolo Borsellino “entrò” nella nostra vita, mia e della mia famiglia, nel lontano 1987, quando era Procuratore Capo a Marsala. Avevamo un ristorante a Marsala, La Torre, vicino al mare, a San Teodoro. Un ristorante a conduzione familiare, e il Dr Borsellino veniva spesso a mangiare da noi. Io avevo appena 6 anni quindi i miei ricordi sono vaghi perché essendo piccola lo consideravo un cliente come gli altri. I miei invece hanno ricordi molto precisi perché sapevano chi fosse. A lui piaceva molto sia il posto, sia il fatto che ci fosse un clima familiare, con piatti semplici e caserecci e amava la nostra discrezione.
Ricordo che le prime volte che sentii parlare e vidi il Giudice Borsellino, lui era in compagnia di altri magistrati, con le rispettive scorte. Successivamente iniziò a venire anche da solo, a volte in compagnia di due colleghe, assolutamente in incognito, a bordo di una 500 bianca viaggiando sul sedile dietro e coperto da uno scialle a quadrettoni. Prima di scendere dalla macchina, visto che era un orario insolito per la cena, una delle signore ci chiedeva di aprire la porta e solo allora lui scendeva ed andava ad occupare il solito posto, spalle al muro e occhi rivolti verso l’entrata. Solo molto tempo dopo mi spiegarono che lo faceva per questioni di sicurezza. Ero troppo piccola per capire, sembrava un gioco..

Che tipo di pietanze amava mangiare?
A volte dei piatti tipici e diceva, in maniera scherzosa, che la Sig.ra Agnese non glieli avrebbe mai preparati in quanto molto ”pesanti ”come la pasta con il nero di seppia o frittura mista.
Ha un ricordo particolare di qualche serata al vostro locale?
Veramente più di uno. Una sera, ad esempio, arrivò mentre noi cenavamo con pasta fresca condita con il sugo di pollo ruspante e con fare amichevole ci chiese se potesse sedersi con noi al tavolo. Per tutti noi fu una gioia ma anche un imbarazzo che superammo immediatamente perché lui incominciò a mangiare il pollo con le mani come si mangia il pollo ruspante e si sentiva a suo agio come fosse a casa sua. Quella sera iniziò un rapporto più confidenziale con tutti noi tanto che con i miei incominciarono a darsi del tu e mia madre, soprattutto, lo riprendeva quando lo vedeva arrivare da solo senza scorta.
Un’altra sera, verso le 19.30,arrivò in compagnia delle solite colleghe. Ordinò e dopo circa 10 minuti arrivarono tre ragazzi in vespa, entrarono e si accomodarono proprio davanti a loro, accanto alla porta di uscita con un sacchetto di plastica in mano.
In quel momento il giudice senza mettere in ansia le colleghe fece un cenno a mia madre con lo sguardo, il senso era:“ Cerca di capire chi sono..”.La prima cosa che fece mia madre fu quella di fare uscire noi bambini dal ristorante e, sempre con gli occhi e lo sguardo, chiese a mia zia di cercare di capire. Questa, con una scusa, si avvicinò ai ragazzi e chiese loro cosa avessero nel sacchetto di così misterioso da custodire così gelosamente. E, in quel momento si accorse che nel sacchetto c’erano solo attrezzi del vespino, stavano aggiustando la vespa proprio fuori dal mostro ristorante.. e così la paura, tanta paura, finì in una grande risata collettiva.

Lei fu “interrogata” dal dr Borsellino per un evento molto particolare. Le va di raccontarlo?

Si, sono ricordi che resteranno indelebili nel mio cuore e nella mente, e che lo saranno per sempre, partendo dal giugno del 1989. Un aereo militare precipitò proprio di fronte al ristorante. In quel tratto di mare che tante volte il Giudice Borsellino ammirava dal suo tavolo. Io ero in punizione, non volevo asciugare i capelli, e guardavo gli aerei militari che facevano dei giochi in aria tipo le frecce tricolori, quando ad un certo punto uno di questi perse quota, toccò l’acqua del mare e cosa strana prese di nuovo quota ma per poi scoppiare in alto poco dopo pochi secondi. L’impatto fu tremendo tanto che mia madre accorse da me non sapendo cosa fosse successo. Io non riuscivo a rispondere ad alcuna domanda che mi faceva lei. Non mi usciva più la voce, ma segnalai con i gesti quanto era appena accaduto. Riuscivo solo a dire che era caduto un aereo. Dopo pochi minuti arrivarono tutti i soccorsi i giornalisti e operatori vari facendo delle domande a cui nessuno volle rispondere. Solo quando arrivò il Giudice Borsellino i miei genitori dissero, in forma privata, che io avevo assistito a tutto e che se lo avesse ritenuto opportuno, avrebbe potuto provare a parlare con me. Allora mi si avvicinò, aspettò che tutti fossero andati via, e con molta pacatezza, mi chiese se mi andava di raccontare allo “Zio Paolo” quella mia giornata particolare. Io a quel punto seduta sulle sue ginocchia raccontai tutto quello che avevo visto. Con il senno di poi, oggi da adulta, posso dire che il ricordo di quella nostra conversazione non solo non mi ha traumatizzata ma in quel momento fece sentire me, una bambina di soli 8 anni, la protagonista di un evento particolare dove io ero la protagonista di un racconto. Da quel momento, ”lo zio Paolo” divenne, per me, molto importante, compresi che se avessi avuto bisogno lui ci sarebbe stato. E infatti, da quel momento, ogni qual volta veniva da noi, io mi sedevo in braccio, o vicino, a lui e consumavamo la cena assieme e mi parlava della sua famiglia, mi raccontava dei suoi figli, della sua splendida moglie. Certo nel modo in cui si può raccontare a una bambina di 8 anni ma avevamo instaurato un rapporto di complicità come solo un grande Uomo può instaurare con una bimba così piccola. Amava i bambini, riusciva a diventare egli stesso bambino nel parlarci. Una grande complicità che non scorderò mai..

Poi il Dottore Borsellino andò a Palermo, tornò a trovarvi?
Si tornò. Per questioni logistiche lo vedevamo di meno ma non per questo i nostri incontri erano meno piacevoli del solito.
Per me lo zio Paolo non era l’uomo pubblico conosciuto da tutti, anche perché non sapevo il vero ruolo della sua professione, per me era un amico a cui riuscivo a raccontare le piccole cose della vita di una bambina.
L’ultima volta che lo vidi mai avrei pensato che fosse l’ultima ma che ci sarebbero stati altri 10, 100 1000 incontri.
Fu un arrivederci e non un addio. Pensavo che da li a poco sarebbe ritornato con un dono che lui pensava potesse rendermi felice, infatti mi disse:”Appena torna, lo zio Paolo ti porta una meravigliosa bambola come te”.
Dopo un pò’ di tempo, in un caldo giorno di Luglio, mentre guardavo la TV appresi della morte dello zio Paolo e subito corsi dai miei a farmi spiegare cosa fosse successo. Le spiegazioni che mi diedero non mi convinsero perché dentro di me ero convinta che non esistesse persona al mondo che potesse fargli così tanto male visto che era una persona buona e altruista. Ma nello stesso momento, adesso mi vergogno quasi a raccontarlo, mi sentii quasi tradita non potendolo più rivedere, ero quasi offesa. Non potevo accettare che lo zio Paolo non ci fosse più e allora lo aspettavo. Speravo di vederlo arrivare, speravo di vederlo entrare dalla porta con in braccio la bambola che mi aveva promesso. Gruppo Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino 

Un articolo del 2001 in cui il Dr Luciano Costantini, collega del Giudice Borsellino a Marsala, ricordandolo, parlava di una bambina bionda che fu “interrogata” da Paolo Borsellino a fine anni 80. La bimba era stata testimone di un incidente aereo avvenuto vicino Birgi. Dopo aver visto l’ accaduto si chiuse in un mutismo assoluto fin quando non arrivò lo ”zio Paolo”


ANTONIA E MARIANNA LE FIGLIE DEL MEZZADRO

“Quando giocavamo con Paolo Borsellino”

VIDEO


Castrofilippo. “Quando giocavamo con Paolo Borsellino”

Il giudice nei ricordi di Antonia e Marianna Fabella, figlie del mezzadro che si occupava dei terreni della famiglia Borsellino

La “Strada degli Scrittori” sta lavorando a tre nuove tappe per visitatori e studiosi interessati a leggere e conoscere sempre meglio Leonardo Sciascia. Tappe indicate durante il terzo master di scrittura tenuto al Palacongressi di Agrigento, dopo le prime due edizioni svoltesi alla fondazione Sciascia di Racalmuto.

Si lavora a un percorso interno alla miniera Italkali, quella dei “carusi” delle Parrocchie di Regalpetra. È già visitabile la casa di Sciascia in cui visse da bambino e da maestro. Una casa purtroppo messa in vendita da una parte della famiglia, salvata da un intellettuale che l’ha acquistata, Pippo Di Falco, deciso a lasciarla com’è, in sintonia con la “Strada degli Scrittori” che ha già allestito dei pannelli esplicativi apprezzati dai primi visitatori, da Gioacchino Lanza Tomasi a Luigi Lo Cascio, da Nadia Terranova a Pierluigi Battista o Andrea Purgatori.

Terza tappa è Castrofilipo con la sua “Scala della memoria” e con targa scoperta durante il master di scrittura da Don Luigi Ciotti, insieme con Filomena Bartolotta, figlia dell’appuntato dei carabinieri nato lì a due passi e caduto con il giudice Rocco Chinnici a Palermo nella strage mafiosa del 19883.

Felice Cavallaro, direttore della “Strada degli scrittori”, ricorda di avere parlato di quella vittima innocente di mafia nel 1983 con Leonardo Sciascia nella sua casa di campagna in contrada Noce: “Ma allora ignoravamo entrambi che sulle colline di Castrofilippo, proprio di fronte alla Noce, c’era anche la casa in cui da bambino Paolo Borsellino trascorreva le vacanze estive insieme con i genitori e i fratelli…”.

Una scoperta recente che ha consentito a Salvatore Picone e Gioacchino Schicchi di intervistare per la “Strada degli Scrittori” le figlie del mezzadro che si occupava dei terreni in Contrada Grotticelli. Oggi ottuagenarie, Antonia e Marianna Fabella nel video ricordano come vennero accolte con generosità in casa Borsellino, anche a Palermo. Due preziose testimonianze proiettate la sera dell’evento organizzato con Don Ciotti davanti ad una platea emozionata. Un video che Malgrado tutto propone, d’intesa con la “Strada”, nel giorno dell’anniversario dell’eccidio di via D’Amelio.

Malgrado Tutto di Salvatore Picone – Gioacchino Schicchi | 19/07/2019