MANFREDI BORSELLINO : mio padre

manfredi Borsellino

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TRATTI DA “PAOLO BORSELLINO ERA MIO PADRE”


18.5.2022 Processo depistaggio  – Manfredi Borsellino e lo sguardo silenzioso sui colleghi


AUDIO

 

Selezione e montaggio di video tratti dallo speciale PAOLO BORSELLINO ERA MIO PADRE  andato in onda su NOVE TV l’11 ottobre 2020


 



Paolo Borsellino – Era mio padre”:  
La storia del magistrato antimafia attraverso gli occhi di suo figlio Manfredi. Il bellissimo documentario andato in onda l’11 ottobre 2020 su NOVE e che è stato realizzato anche grazie a preziosi filmati privati forniti dalla famiglia del magistrato.

Ci sono uomini che grazie al loro operato riescono a diventare dei simboli, e come tali passare alla storia. Paolo Borsellino è uno di questi. Il magistrato palermitano è diventato con Giovanni Falcone il simbolo della lotta alla mafia e di una fedeltà allo Stato assoluta, spinta fino al sacrificio della propria vita. La sua è una storia affascinante ed esemplare.

Così al centro del documentario non c’è soltanto l’attività di magistrato di Borsellino ma si riesce a fare luce anche su alcuni suoi momenti privati, grazie a filmati originali provenienti dalla famiglia: integrati dalle preziose testimonianze degli amici più stretti, suoi e di sua moglie Agnese, questi filmati  forniscono un ritratto per molti versi inedito di Borsellino. Il documentario ripercorre poi tutte le tappe più importanti della carriera di Borsellino, una carriera spesso costellata da difficoltà e gli ostacoli che il magistrato ha dovuto affrontare nel suo impegno quotidiano per cercare di smantellare l’organizzazione di Cosa Nostra. Uno dei momenti più importanti riguarda ovviamente il racconto degli anni del maxiprocesso nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, a Palermo.

Viene ricordato quando i magistrati del pool, Falcone e Borsellino in testa, furono trasferiti nottetempo al carcere dell’Asinara, in Sardegna, in modo da poter concludere la requisitoria del processo in condizioni di sicurezza, dopo che alla procura di Palermo erano giunte voci di attentati in preparazione.

Ma quella di Borsellino è  sempre stata una vita in prima linea. Tanto che anche quando, tra il finire degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 divenne Procuratore a Marsala, entrò nel mirino di Matteo Messina Denaro, l’attuale numero uno di Cosa nostra, tuttora latitante. E poi il ritorno a Palermo, dopo il massacro di Capaci, in cui perse la vita l’amico fraterno Giovanni Falcone, insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della scorta.

Borsellino, un uomo capace di camminare per lungo tempo con la morte al fianco, eppure, pur conscio di essere di fatto un condannato a morte, non solo non ha indietreggiato di un passo, ma è anche stato capace di trasmettere  fino all’ultimo serenità in famiglia.  E anche in questo caso risultano preziosi i filmati privati girati in famiglia, grazie ai quali si può vedere un Borsellino con il suo proverbiale sorriso, godersi l’ultima vacanza sulla neve a Capodanno del 1991.

il documentario affronta inoltre la complessa indagine per risalire a mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio. A 28 anni di distanza da quei fatti e dopo cinque processi, rimangono ancora molte zone d’ombra su quello che qualcuno ha definito come il depistaggio più grave della storia italiana recente.

Filmati e audio originali di intercettazioni, interrogatori e sopralluoghi accompagnano in particolare il racconto della terzogenita Fiammetta, la principale artefice di una battaglia per la verità sul movente dell’attentato e sulla sparizione dell’agenda rossa del magistrato, che conteneva probabilmente appunti per qualcuno troppo scottanti.  


 

  • Oltre il ruolo di investigatore  “Mio papà era un uomo generoso e lo era con tutti. Quando venne a sapere che la moglie vedova di un mafioso ucciso di cui lui si era occupato, aveva bisogno di un motorino per il figlio che doveva portare in giro il pane per portare a casa uno stipendio, mi chiese di donare il mio primo ciclomotore a quel ragazzo. Mio padre andava oltre il suo ruolo di investigatore ma si interessava al futuro delle famiglie coinvolte in un omicidio di mafia. Diceva che andavano aiutate anche le famiglie degli uomini d’onore per strappare i loro figli alla criminalità organizzata. Mi ha insegnato così che la generosità e l’amore sono qualcosa che si deve fare senza che si sappia”.
  • Abituarsi alla scomparsa Quando il padre venne messo sotto scorta lui era adolescente: “Non avevo paura per me ma di perdere il papà. Capivo che gli sarebbe potuto accadere qualcosa. Dopo la morte di Giovanni Falcone mio padre cambiò atteggiamento. Lui che amava scherzare con noi, che era come un fratello, in quegli ultimi 57 giorni divenne sempre più cupo, staccato nei nostri confronti. Era un modo d’abituarci all’idea della sua scomparsa. Voleva prepararci a ciò che sarebbe potuto accadere. Lo faceva per amore. Noi non lo capimmo subito ma dopo la sua morte parlando con il suo confessore siamo venuti a sapere che lui sapeva di dover morire. Anche per noi quei giorni non furono più uguali: io avevo quasi ogni notte incubi. Sognavo che lo avrebbero ammazzato in un attentato proprio come è accaduto il 19 luglio”.
  • L’agenda rossa Pensando al 19 luglio 1992, il figlio del magistrato, ha parlato della famosa agenda rossa sparita quel giorno: “Lì erano custodite delle verità che mio padre non ci aveva riferito ma di cui aveva lasciato traccia perché sperava che qualcuno le sfruttasse per fare luce su quei mesi drammatici. Purtroppo quell’agenda non è andata distrutta, è stata sottratta dalle persone sbagliate che oggi la custodiscono. La mia speranza è che i miei figli, i miei nipoti possano conoscere il contenuto di quell’agenda e capire perché non hanno potuto conoscere il loro nonno”. Tante le domande dei bambini. Manfredi ha risposto a ciascuno. Davide ha rotto il ghiaccio chiedendo: “Ma tu conoscevi quel ragazzo cui hai regalato il motorino?”. Emilia ha chiesto: “Da bambino non avevi paura a sapere che tuo papà faceva quel lavoro?”. E Gregorio ha voluto sapere: “Quando avevi dieci anni come noi volevi fare il magistrato come tuo padre o avevi altri sogni?”.

Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto/ Il figlio Manfredi: “Papà grande giudice grazie alla mamma”  Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto, una coppia che ha vissuto insieme la lotta alla mafia. Il ricordo del figlio Manfredi: “Senza di lei…”.  Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto hanno formato per anni una coppia bellissima che, insieme, ha condiviso anche la lotta alla mafia. Dopo la morte del marito, ucciso dalla mafia nella strage di via D’Amelio assieme ai cinque agenti della sua scorta il 19 luglio 1992, Agnese Piraino Leto ha portato avanti, seppur in modo diverso, la lotta alla mafia cominciata dal marito. Una donna forte, dolce e sempre presente nella vita del magistrato che, per tutta la sua vita sia privata che professionale. Dalla loro unione sono nati tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta che, in modo diverso, portano avanti quelli che sono stati gli insegnamenti dei genitori. Molto riservata, la signora Borsellino ha dedicato la sua vita alla famiglia accompagnando, però, il marito nelle cerimonie ufficiali e incoraggiandolo nelle sue scelte, anche quando sapeva che avrebbero potuto metterlo in pericolo. Il giorno della morte di Paolo Borsellino avrebbe voluto accompagnare il marito che, tuttavia, decie di lasciarla a casa come era solita raccontare lei stessa: “Quando gli ho detto: ‘Vengo con te’. E lui ‘No, io ho fretta’. Io: ‘Non devo chiudere nemmeno la casa, chiudo il cancello e vengo con te’. Lui continuava a darmi le spalle e a camminare verso l’uscita del viale, allora ho detto: ‘Con questa borsa che porti sempre con te sembri Giovanni Falcone’”.

 

 


PENSO CHE MIO PADRE DEBBA ESSERE RICORDATO SOPRATTUTTO PER LA SUA BONTÀ D’ANIMO
, essendo egli una persona fondamentalmente buona e carica di una sconfinata umanità. La sua generosità era senza limiti: avevo quindici anni quando mi chiese di regalare il mio motorino al figlio di una vedova il cui marito era morto in una strage di mafia in quanto gli necessitava per recarsi in una borgata di Palermo ove svolgeva l’attività di panettiere. A un collaboratore di giustizia, lo stesso che tra il ’91 e il ’92 gli rivelò di essere stato incaricato dalle famiglie del Trapanese di organizzare ed eseguire il suo assassinio, forniva personalmente le lamette, la schiuma da barba e le sigarette, in un periodo storico in cui, è importante evidenziarlo, mancavano del tutto le agevolazioni di cui oggi essi fruiscono. nonostante gli impegni di lavoro trovava sempre il tempo di stare in famiglia, di seguire personalmente le nostre attività, fossero esse di studio o ludiche. E’ indelebile il ricordo dell’amore e del trasporto con cui mi fece ripetere le mie prime due materie universitarie – analogamente accadde con mia sorella Fiammetta – dedicandomi intere serate prima degli esami. era premuroso, sempre presente non solo per i familiari, ma anche per i tanti cugini e parenti collaterali.

Di fatto egli cresceva e seguiva come fossero suoi i sette figli della sorella più grande, rimasta vedova prematuramente e non economicamente in grado di sostenere una così numerosa famiglia. Io e le mie due sorelle non siamo stati mai né viziati né agevolati, piuttosto “responsabilizzati” di fronte a situazioni molto più grandi di noi, sì che al momento della sua morte può dirsi che eravamo a nostro modo “preparati”, preparati da un padre che tutto avrebbe potuto desiderare fuorché lasciarci orfani così giovani. Sin dai primi giorni successivi alla sua morte, infatti, circolava la voce che egli fosse andato incontro “rassegnato” a questo infausto destino. Bene, ciò non corrispondeva affatto a verità: mio padre amava in modo viscerale la vita e le tante piccole o grandi sorprese che questa riserva, sì da apparirmi inverosimile che egli andasse incontro alla morte ritenendola in quel momento un evento ineluttabile. In verità abbiamo assistito alla morte di un uomo lasciato solo in un momento storico in cui occorreva massima coesione e distribuzione della responsabilità, anche all’interno degli uffici giudiziari.

Tuttavia noi non abbiamo alcun rammarico, poiché se la morte di mio padre, unitamente a quella di tanti altri servitori dello Stato, è servita a svegliare dal torpore tante coscienze, ciò ci ripaga della sua assenza. dopo tutti questi anni ciò che forse manca maggiormente del Paolo Borsellino uomo, padre e marito sono la bontà d’animo e generosità di spirito che lo contraddistinguevano. ci ha lasciato un grandissimo patrimonio morale e ci ha insegnato ad essere umili: i meriti erano sempre degli altri, non si atteggiava mai a protagonista ed era privo di qualsiasi ambizione, a tal punto da non manifestare alcun interesse a ricoprire quell’incarico di super procuratore antimafia che, subdolamente, rappresentanti del governo di allora gli avevano proposto, rimanendo prioritaria per lui la vicinanza alla sua famiglia e alla sua Palermo.

E’ evidente quanto sia stato forte il desiderio di avere un padre così al nostro fianco nei momenti in cui ci siamo trovati a fronteggiare situazioni molto più grandi di noi, nel momento in cui abbiamo scelto ciascuno di servire, seppur in amministrazioni diverse, lo Stato, quello Stato che non seppe essere in grado di difendere e proteggere uno dei suoi figli migliori ma che mio padre ha sempre rispettato e onorato e ci ha sempre insegnato a rispettare e onorare, nel momento in cui avremmo avuto bisogno di uno suo consiglio o anche solo di uno sguardo. Sono tuttavia convinto che io, le mie sorelle e mia madre, abbiamo seguito la strada che lui ci aveva tracciato. La nostra fede ci rende sicuri del fatto che un giorno lo rivedremo, bello e sorridente, come lo ricordiamo sempre.


Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua. Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.

 

La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive. Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano, “mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii”.

Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii e ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino e a grande velocità ci recammo in via D’Amelio […]. La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta e abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza se e senza ma a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in ‘familiari superstiti di una vittima della mafia’, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva Paolino sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.

Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.


a MIO PADRE – Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai (leggi tutto) 


VI RACCONTO MIO PADRE 

Il ricordo del figlio: “Sin dai primi giorni successivi alla sua morte, infatti, circolava la voce che egli fosse andato incontro ‘rassegnato’ a questo infausto destino. Bene, ciò non corrispondeva affatto a verità: mio padre amava in modo viscerale la vita e le tante piccole o grandi sorprese che questa riserva, sì da apparirmi inverosimile che egli andasse incontro alla morte ritenendola in quel momento un evento ineluttabile” Penso che mio padre debba essere ricordato soprattutto per la sua bontà d’animo, essendo egli una persona fondamentalmente buona e carica di una sconfinata umanità. La sua generosità era senza limiti: avevo quindici anni quando mi chiese di regalare il mio motorino al figlio di una vedova il cui marito era morto in una strage di mafia in quanto gli necessitava per recarsi in una borgata di Palermo ove svolgeva l’attività di panettiere. A un collaboratore di giustizia, lo stesso che tra il ‘91 e il ‘92 gli rivelò di essere stato incaricato dalle famiglie del Trapanese di organizzare ed eseguire il suo assassinio, forniva personalmente le lamette, la schiuma da barba e le sigarette, in un periodo storico in cui, è importante evidenziarlo, mancavano del tutto le agevolazioni di cui oggi essi fruiscono. Nonostante gli impegni di lavoro trovava sempre il tempo di stare in famiglia, di seguire personalmente le nostre attività, fossero esse di studio o ludiche. È indelebile il ricordo dell’amore e del trasporto con cui mi fece ripetere le mie prime due materie universitarie – analogamente accadde con mia sorella Fiammetta – dedicandomi intere serate prima degli esami. Era premuroso, sempre presente non solo per i familiari, ma anche per i tanti cugini e parenti collaterali. Di fatto egli cresceva e seguiva come fossero suoi i sette figli della sorella più grande, rimasta vedova prematuramente e non economicamente in grado di sostenere una così numerosa famiglia. Io e le mie due sorelle non siamo stati mai né viziati né agevolati, piuttosto “responsabilizzati” di fronte a situazioni molto più grandi di noi, sì che al momento della sua morte può dirsi che eravamo a nostro modo “preparati”, preparati da un padre che tutto avrebbe potuto desiderare fuorché lasciarci orfani così giovani. Sin dai primi giorni successivi alla sua morte, infatti, circolava la voce che egli fosse andato incontro “rassegnato” a questo infausto destino. Bene, ciò non corrispondeva affatto a verità: mio padre amava in modo viscerale la vita e le tante piccole o grandi sorprese che questa riserva, sì da apparirmi inverosimile che egli andasse incontro alla morte ritenendola in quel momento un evento ineluttabile. In verità abbiamo assistito alla morte di un uomo lasciato solo in un momento storico in cui occorreva massima coesione e distribuzione della responsabilità, anche all’interno degli uffici giudiziari. Tuttavia noi non abbiamo alcun rammarico, poiché se la morte di mio padre, unitamente a quella di tanti altri servitori dello Stato, è servita a svegliare dal torpore tante coscienze, ciò ci ripaga della sua assenza. Dopo tutti questi anni ciò che forse manca maggiormente del Paolo Borsellino uomo, padre e marito sono la bontà d’animo e generosità di spirito che lo contraddistinguevano. Ci ha lasciato un grandissimo patrimonio morale e ci ha insegnato ad essere umili  i meriti erano sempre degli altri, non si atteggiava mai a protagonista ed era privo di qualsiasi ambizione, a tal punto da non manifestare alcun interesse a ricoprire quell’incarico di super procuratore antimafia che, subdolamente, rappresentanti del governo di allora gli avevano proposto, rimanendo prioritaria per lui la vicinanza alla sua famiglia e alla sua Palermo. È evidente quanto sia stato forte il desiderio di avere un padre così al nostro fianco nei momenti in cui ci siamo trovati a fronteggiare situazioni molto più grandi di noi, nel momento in cui abbiamo scelto ciascuno di servire, seppur in amministrazioni diverse, lo Stato, quello Stato che non seppe essere in grado di difendere e proteggere uno dei suoi figli migliori ma che mio padre ha sempre rispettato e onorato e ci ha sempre insegnato a rispettare e onorare, nel momento in cui avremmo avuto bisogno di un suo consiglio o anche solo di uno sguardo. Sono tuttavia convinto che io, le mie sorelle e mia madre, abbiamo seguito la strada che lui ci aveva tracciato. La nostra fede ci rende sicuri del fatto che un giorno lo rivedremo, bello e sorridente, come lo ricordiamo sempre. Mio padre era un uomo aperto e leale. Però era anche preoccupato di proteggere i collaboratori e i familiari». E infatti in famiglia non aprì bocca per non accendere ancora un clima infuocato dalla strage di Capaci in cui era morto Falcone. «Una sola cosa posso comunque dire con assoluta chiarezza: mio padre non avrebbe mai accettato, tanto meno avallato, una trattativa di quel genere. Si sarebbe attivato perché non andasse avanti. Non avrebbe guardato in faccia nessuno: né chi la stava conducendo né il garante politico che la stava coprendo. Lo avrebbe anzi ritenuto complice di una deviazione facendo esplodere il caso». Forse non fece in tempo ma aveva lanciato segnali di irrequietezza e di apprensione. “Sono stato tradito”, aveva detto, in quei giorni che precedettero la strage».  Da “Lo Stato Nascosto.


«Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta». da Postfazione di Manfedi Borsellino al libro “Era d’Estate”, a cura di Roberto Puglisi e Alessandra Turrisi

Gli istanti immediatamente successivi la Strage di Capaci (23 maggio 1992): «Ero a casa a studiare per l’università e mio padre era andato dal barbiere, a piedi, da solo, eludendo la sorveglianza della sua scorta. Lì ricevette una telefonata da un collega. Poco dopo sentii mio padre bussare alla porta, molto affannato, con delle tracce di schiuma da barba sul viso. Io guardavo la televisione impietrito. Non saprei descrivere l’espressione del suo viso. Si diresse nella sua stanza come se non mi avesse visto. Non gli chiesi nulla, lo vidi cambiarsi. In una situazione del genere non si sarebbe mai presentato vestito male, mi ricordo che indossò una giacca, una camicia, come se stesse andando al lavoro. Trovò soltanto il tempo di dirmi di non muovermi di casa. E uscì in fretta… Mia sorella Lucia lo raggiunse in lacrime al centro di medicina legale. Mio padre la prese fra le braccia: “Non piangere Lucia, non dobbiamo dare spettacolo davanti a tutti ora…”. Il giorno dopo fu aperta la camera ardente in un’aula del tribunale, ho trascorso gran parte della giornata con mio padre lì per vegliare i resti di Falcone, accanto a quelli della moglie e della sua scorta. Mi ricordo che non ho fatto altro che piangere. Vedevo mio padre allontanarsi da noi. La notte, poi, sognavo attentati, autostrade che saltavano in aria, edifici sventrati… La vittima era sempre sconosciuta, e mi svegliavo tutto sudato.

LA SUA LA MORTE PIU’ ANNUNCIATA” ha reagito ”ma non abbastanza” all’ uccisione di Borsellino, ”forse quella più annunciata” tra le molte volute dalla mafia, i suoi funerali, però, avranno forma privata per rispettare la volontà del giudice ucciso, non per polemica contro lo Stato. Lo dice Manfredi Borsellino, figlio ventenne del magistrato, in un’intervista pubblicata oggi sull’ ”Osservatore romano” nella quale invita anche a ”non gettare la spugna”. ”Abbiamo rinviato i funerali – dice il figlio di Borsellino – non solo per aspettare mia sorella Fiammetta, ma anche perchè non volevamo che mio padre fosse sottoposto a una ‘cerimonia’ come quella riservata a Giovanni Falcone, alla moglie e alle vittime della sua scorta. Quel giorno – racconta Manfredi Borsellino – papà rimase profondamente scosso dal chiasso, dalle urla, dall’ atmosfera nella quale si celebrava un rito per i defunti”. ”Non è vero – dice ancora il figlio del giudice ucciso – quanto abbiamo letto, visto e sentito attraverso giornali, radio e tv, che noi siamo in polemica con le istituzioni. Non abbiamo recriminazioni, anzi, dopo la strage di Capaci mio padre ebbe una protezione persino superiore a quella di Falcone. I funerali privati sono una scelta nostra che rispetta il suo desiderio, la sua schiettezza, la sua religiosità”’. ANSA 23-LUG-92


MORTE ANNUNCIATA” – La scelta dei funerali in forma privata, dice ancora il figlio di Borsellino, ”non ha niente a che vedere con le vicende che da magistrato mio padre affrontò. Lui si è sempre ritenuto, era ed agiva da uomo di Stato. Quanto ai suoi contrasti, alle difficoltà o alle sue posizioni, mio padre stesso ha gia’ detto tutto quello che aveva da dire, apertamente, quando era in vita”. Palermo, infine. ”Mio padre – dice Manfredi Borsellino – amava questa città, la nostra terra fatta di una stragrande maggioranza di persone oneste; non avrebbe potuto vivere altrove era legatissimo alla Sicilia, e proprio questi legami, l’attaccamento alla sua gente, gli davano la spinta per andare avanti, per combattere questa minoranza di criminali che soffocano milioni di persone, che ci aggrediscono. Ma noi, malgrado tutto, non possiamo e non dobbiamo lanciare la spugna”. ”Purtroppo però – conclude il figlio di Borsellino – da noi c’ e’ il rischio dell’apatia, della resa. Palermo ha reagito, è vero, a queste ultime due stragi. Ma non abbastanza, non come si doveva di fronte ad avvenimenti di questa portata”CITTA’ DEL VATICANO


 

“Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita. Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere”. Da “Era d’estate”


Parlare di mio padre per me è estremamente difficile, mi sono anche risposto del perché fosse così difficile. L’unica vera ragione per la quale non riesco, dopo 22 anni, a parlare di lui è che non riesco materialmente a coniugare il suo verbo al passato. Vorrei che tutti sapessero che per me la bomba esplosa in via D’Amelio è troppo vicina, nonostante siano trascorsi 22 anni – ha detto – come se mio padre fosse morto l’altro ieri, non si può pretendere il ricordo di un figlio quando ancora il cadavere è caldo, e siccome avverto ancora forte la presenza di mio padre non riesco a parlarne con distacco.

Mio padre è stato magistrato, mio nonno materno è stato magistrato, mio bisnonno è stato un giudice militare: una certa aria di giustizia e di legge l’ho respirata fin da bambino. Ho voluto continuare questa strada familiare, anche se con un incarico diverso, poiché credo tantissimo nei valori della giustizia e dell’onestà. Amo a dismisura la mia terra e la città in cui vivo, ho il dovere di fare di tutto per cambiarla in meglio. Indubbiamente la scelta del lavoro è stato influenzata anche dal fatto che mio padre era quasi sempre circondato da poliziotti di scorta o da carabinieri o finanzieri che lo aiutavano nell’attività investigativa, per cui sono sempre stato attratto dal lavoro svolto da questi validissimi collaboratori di mio padre.

«Giovanni Falcone, un secondo papà»: ecco il ricordo di Manfredi Borsellino – Giovanni Falcone ricordato in modo non convenzionale. L’anniversario di Capaci, di quella orribile strage di mafia si snoda con tanto di dichiarazioni e di presenza di ogni autorità dello Stato. Quasi un rituale. Come ogni anno. E, invece, un modo nuovo, una maniera diversa l’ha trovata Manfredi Borsellino. Il figlio di Paolo Borsellino, intervistato da Repubblica, parla infatti nel giorno della strage di Capaci di un film. Parla di “Era d’estate” un film in uscita proprio in questi giorni. E lo fa col garbo e la delicatezza che gli sono consueti.  “‘Era d’estate’ è il film che meglio e più di tutti, ad esempio, indugia sul particolare rapporto tra nostro padre e Giovanni Falcone, anche sul rapporto tra quest’ultimo e me o tra mia madre e Francesca Morvillo, insomma ne esce fuori un quadro di famiglia allargata” rileva Manfredi Borsellino. Il film in uscita ripercorre l’estate trascorsa da Falcone e Borsellino all’Asinara. Manfredi ricorda poi anche il primo incontro, lui ancora bimbo, con Giovanni Falcone: “Lo conobbi all’inizio degli anni Ottanta, non avevo neanche 10 anni; ma i suoi tratti caratteriali più nascosti vennero fuori proprio durante quel soggiorno forzato all’Asinara, dove evidentemente proprio questa “famiglia allargata” lo portò ad essere assai diverso da quella persona austera che conoscevo”. “Durante quel breve periodo in cui mio padre si assentò per i primi problemi di salute di mia sorella – ricorda Manfredi -, si affannò quasi a farmi da secondo padre, o da zio, risultando talvolta anche comico ai miei occhi ma terribilmente umano”. “Era d’estate” di Fiorella Infascelli con Massimo Popolizio e Beppe Fiorello impegnati rispettivamente nei panni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è il racconto del mese di soggiorno forzato – per motivi di sicurezza – dei due magistrati nell’isola bunker dell’Asinara. SECOLO D’ITALIA


QUANDO PAPA’ MI REGALO’ IL MOTORINO 

“Quando avevo poco più di tredici anni mio padre mi acquistò un ciclomotore marca ‘Garelli’, con le marce a pedale. L’intento di mio padre era quello che io mi esercitassi ad andare in moto dentro il cortile del nostro condominio e solo dopo il quattordicesimo anno di età mettessi il naso fuori. Avevo fatto il “solco” dentro quel cortile ma il naso fuori con quel ciclomotore non lo misi mai. Ricordo che ero entusiasta perché non solo era il mio primo motorino ma soprattutto mi consentiva di portare dietro i miei compagnetti (o compagnette), allora infatti non vigeva il divieto di circolare in due su di un ciclomotore. L’entusiasmo però finì presto perché un bel giorno, proprio alla vigilia della bella stagione, mio padre mi disse se ero pronto a fare un gesto di grande responsabilità e coraggio. Io non capivo esattamente a cosa alludesse perché così piccolo non è che ci fossero tutti questi gesti di responsabilità e coraggio che potesse farmi fare ma non feci una piega,anzi ero pure divertito dalla sfida che lui  mi chiamava ad affrontare. Doverosa una premessa: in quel tempo di omicidi e assassini di mafia a Palermo, in piazza Scaffa, in un quartiere popolare della città ad alta intensità mafiosa c’era stata ad opera dei corleonesi, quella famiglia di di cosa nostra che stava mettendo le mani sulla città, una vera e propria strage all’interno di una stalla clandestina, la strage di piazza Scaffa in cui morirono i fratelli Quattrocchi. Mio padre da giudice istruttore si occupò della relativa inchiesta e in poco tempo assicurò alla giustizia i responsabili di quell’eccidio ma, come era solito fare, non si limitò  solo al suo dovere di giudice inquirente andando ben oltre, iniziò infatti a prendersi cura e a provvedere ai bisogni primari di una delle tante vedove di mafia che incrociò lungo il suo cammino di giudice istruttore prima e pubblico ministero dopo, tale Pietra Lo Verso, vedova di uno dei fratelli Quattrocchi ma soprattutto madre di tre figli e senza una lira per sfamarli. Inoltre non era una vedova di mafia come tante altre, era anche una delle prime collaboratrici donne di quei primi anni ’80, dato che alcune sue rivelazioni fatte a mio padre si erano rivelate determinanti per individuare i responsabili della morte del marito.  Bene, questa lunga ma indispensabile premessa per dire che quel giorno in cui mio padre mi chiamò per farmi fare quel famoso gesto di “responsabilità e coraggio”, mi chiese senza tanti giri di parole di rinunciare al mio primo motorino e praticamente regalarlo al figlio più grande della sig.ra Lo Verso per consentirgli di recarsi all’alba in in panificio di Mondello,nota località balneare alle porte di Palermo, per svolgere le mansioni di garzone. In realtà non parlò di regalare ma più esattamente di “prestare” per qualche tempo la motocicletta ma io presi quel verbo prestare con molto molto beneficio d’inventario. Io ovviamente rimasi un po interdetto ma prima che proferissi parola mio padre mi presentò questo giovane (che evidentemente aveva ascoltato nella stanza accanto il nostro colloquio) e mi disse: Manfredi, allora tutto a posto, scendete giù in garage e consegna il motorino a …… (non mi ricordo come si chiamava questo ragazzo, ricordo che era ben più aitante e muscoloso di me). Ed io come un automa scesi con quel ragazzo giù in garage, gli consegnai chiavi e documenti del motorino e lo lasciai andare ben consapevole che quel motorino difficilmente l’avrei più rivisto. Ed infatti non solo non lo rividi più, ma soprattutto dovetti aspettare un bel pò per averne un altro (ma non certo lo stesso), e in particolare che ne regalassero uno a mio padre i suoi colleghi in occasione del suo trasferimento a Marsala come procuratore capo. Metabolizzai successivamente ciò che mi aveva fatto fare mio padre e ne sono andato fiero e orgoglioso per tutti gli anni a seguire, quel giorno grazie a lui avevo davvero compiuto un gesto nobile di grande “responsabilità e coraggio”. Questa é la storia del motorino”.   Fonte: Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino


“PAOLO BORSELLINO – ERA MIO PADRE”: LA STORIA DEL MAGISTRATO ANTIMAFIA ATTRAVERSO GLI OCCHI DI SUO FIGLIO Per la serie “Nove racconta” domenica 11 ottobre va in onda il documentario realizzato anche grazie a preziosi filmati privati forniti dalla famiglia del magistrato ucciso dalla mafia.
Ci sono uomini che grazie al loro operato riescono a diventare dei simboli, e come tali passare alla storia. Paolo Borsellino è uno di questi. Il magistrato palermitano è diventato con Giovanni Falcone il simbolo della lotta alla mafia e di una fedeltà allo Stato assoluta, spinta fino al sacrificio della propria vita. La sua è una storia affascinante ed esemplare, che viene ora ricostruita nel film documentario “Paolo Borsellino – Era mio padre”, nuovo episodio della serie “Nove racconta”, prodotto da Verve media company andrà in onda domenica 11 ottobre alle 21:25 sul Nove, il canale generalista di Discovery (e già disponibile su Dplay Plus).
A differenza di altre opere incentrate sul magistrato ucciso dalla mafia nell’attentato di via D’Amelio a Palermo, il 19 luglio del 1992, il racconto di questo documentario ha un surplus di emotività, essendo costruito su una lunga lettera scritta dal figlio Manfredi, attualmente funzionario di polizia in Sicilia.
Così al centro del documentario non c’è soltanto l’attività di magistrato di Borsellino ma si riesce a fare luce anche su alcuni suoi momenti privati, grazie a filmati originali provenienti dalla famiglia: integrati dalle preziose testimonianze degli amici più stretti, suoi e di sua moglie Agnese, questi filmati forniscono un ritratto per molti versi inedito di uno dei fondatori del pool antimafia di Palermo. Il documentario ripercorre poi tutte le tappe più importanti della carriera di Borsellino, una carriera spesso costellata da difficoltà e gli ostacoli che il magistrato ha dovuto affrontare nel suo impegno quotidiano per cercare di smantellare l’organizzazione di Cosa Nostra. Uno dei momenti più importanti riguarda ovviamente il racconto degli anni del maxiprocesso nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, a Palermo. Un processo che portò alla sbarra più di 450 imputati e che per la prima volta permise di assestare un colpo alla mafia siciliana. Per arrivare a quel procedimento il pool lavorò per anni, spesso in condizioni difficili e sotto la minaccia continua degli uomini della mafia corleonese. Viene così ricordato quando i magistrati del pool, Falcone e Borsellino in testa, furono trasferiti nottetempo al carcere dell’Asinara, in Sardegna, in modo da poter concludere la requisitoria del processo in condizioni di sicurezza, dopo che alla procura di Palermo erano giunte voci di attentati in preparazione.
Ma quella di Borsellino è stata sempre una vita in prima linea. Tanto che anche quando, tra il finire degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, si staccò dal pool per trasferirsi a Marsala, entrò nel mirino di Matteo Messina Denaro, l’attuale numero uno di Cosa Nostra, tuttora latitante. E poi il ritorno a Palermo, dopo il massacro di Capaci, in cui perse la vita l’amico fraterno Giovanni Falcone, insieme alla sua compagna e agli uomini della scorta.
Borsellino è stato un uomo capace di camminare per lungo tempo con la morte al fianco, eppure, pur conscio di essere di fatto un condannato a morte, non solo non ha indietreggiato di un passo nella sua missione lavorativa, ma è anche stato capace di mantenere una serenità all’interno della famiglia fino agli ultimi momenti. E anche in questo caso risultano preziosi i filmati privati girati in famiglia, grazie ai quali si può vedere un Borsellino con il suo indistinguibile sorriso e la battuta sempre pronta, godersi l’ultima vacanza sulla neve a Capodanno del 1991, e concedere qualche gesto di tenerezza verso i suoi affetti più cari.
Ma parlare di Borsellino significa non fermarsi alla sua biografia, per quanto ricca e importantissima. C’è un “dopo” che ancora oggi tiene banco. E nel documentario viene quindi affrontata la complessa indagine per risalire a mandanti ed esecutori della strage di via D’Amelio. A 28 anni di distanza da quei fatti e dopo cinque processi, rimangono ancora molte zone d’ombra su quello che qualcuno ha definito come il depistaggio più grave della storia italiana recente. Filmati e audio originali di intercettazioni, interrogatori e sopralluoghi accompagnano il racconto di Fiammetta e Salvatore Borsellino (rispettivamente figlia e fratello minore di Paolo), che sono i principali artefici di una battaglia per la verità sul movente dell’attentato e sulla sparizione dell’agenda rossa del magistrato, che conteneva probabilmente materiale per qualcuno troppo scottante.

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Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi. Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola. Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.

Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre. Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.

Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii. Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.

La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.

Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.
Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre,  una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.

 

 


 

 Il grande amore di mamma e papà – Quando si parla di Agnese, si parla anche di suo marito, Paolo. Non possono stare lontani il dottore Paolo Borsellino e sua moglie, la signora Agnese. Come per un rimpiattino dell’eternità. E quando si parla di uno, come per un’eco, affiora l’altra. Qualche giorno fa, il cinque maggio, si è celebrato con una discrezione intrisa di gratitudine il quinto anniversario della morte di Agnese Piraino Leto, vedova Borsellino. Qualcuno l’ha ricordata sui social. Qualcuno ha riaperto in silenzio il cassetto delle lacrime. In contemporanea, è saltato fuori un particolare sul magistrato ucciso con la scorta in via D’Amelio.  Durante la notte bianca della legalità’, il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, ha raccontato: “Paolo Borsellino fu talmente consapevole di dovere morire, che proprio in questo Palazzo di giustizia volle compiere un gesto simbolico: chiamò un amico sacerdote per confessarsi e prendere la comunione”. Nelle stesse ore, la memoria della dipartita della moglie mischiata a una cronaca commossa degli ultimi istanti del marito.

 

 

 

Parlare di mio padre per me è estremamente difficile, mi sono anche risposto del perché fosse così difficile. L’unica vera ragione per la quale non riesco, dopo 22 anni, a parlare di lui è che non riesco materialmente a coniugare il suo verbo al passato. Vorrei che tutti sapessero che per me la bomba esplosa in via D’Amelio è troppo vicina, nonostante siano trascorsi 22 anni – ha detto – come se mio padre fosse morto l’altro ieri, non si può pretendere il ricordo di un figlio quando ancora il cadavere è caldo, e siccome avverto ancora forte la presenza di mio padre non riesco a parlarne con distacco.
Mio padre è stato magistrato, mio nonno materno è stato magistrato, mio bisnonno è stato un giudice militare: una certa aria di giustizia e di legge l’ho respirata fin da bambino. Ho voluto continuare questa strada familiare, anche se con un incarico diverso, poiché credo tantissimo nei valori della giustizia e dell’onestà. Amo a dismisura la mia terra e la città in cui vivo, ho il dovere di fare di tutto per cambiarla in meglio. Indubbiamente la scelta del lavoro è stato influenzata anche dal fatto che mio padre era quasi sempre circondato da poliziotti di scorta o da carabinieri o finanzieri che lo aiutavano nell’attività investigativa, per cui sono sempre stato attratto dal lavoro svolto da questi validissimi collaboratori di mio padre
Il primo pomeriggio di quel 23 maggio (1992) studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.  Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola. Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno.  Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo. Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.   Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima.  Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.   La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive. Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì.  L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.  Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.  Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.  Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.   Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.   Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.
Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna.   Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.   
La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di ….., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava.   A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.   Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.  D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.   Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.  Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.     Da “Lo Stato Nascosto.


Palermo, venerdì 17 luglio 1992. Un po’ d’aria. – Borsellino arriva in famiglia nel tardo pomeriggio, teso, nervoso. A casa, però, trova spazio per un momento di ottimismo. Dice a Manfredi: «Sento che il cerchio attorno a Riina sta per chiudersi, stavolta lo prendiamo». Non fa il nome di Mutolo, non può farlo, ma confida a suo figlio che c’è un nuovo pentito, uno che sa tante cose, che ha fatto rivelazioni su uomini d’onore vicini a Riina. Ma c’è di più, anche se quel di più Manfredi lo verrà a sapere solo dopo: il giorno precedente, Mutolo ha promesso di verbalizzare le accuse su Contrada e Signorino. Ecco perché Borsellino è così nervoso. A un tratto propone ad Agnese: «Andiamo a Villagrazia, ho bisogno di un po’ d’aria, ma senza scorta, da soli». Agnese è stupita. «Da soli? Paolo, cosa c’è? È successo qualcosa?». «Andiamo», ordina. La moglie lo conosce, lo segue. In macchina, in silenzio, mentre cala la sera, Agnese lo guarda, capisce che è tormentato da mille angosce, mille dubbi. Riesce a fargli ammettere che qualcosa è successo: Mutolo ha parlato, ha detto cose gravissime, ha accusato personaggi al di sopra di ogni sospetto. Paolo è sconvolto, confida ad Agnese che alla fine dell’interrogatorio era cosi traumatizzato da avere addirittura vomitato. «Stavo malissimo» dice. Anni dopo, Agnese, sentita come teste nel processo Borsellino ter, ricorda: «Mutolo gli aveva annunciato che avrebbe dovuto parlare di Signorino, però mio marito ha detto pure: “Se ne riparla la prossima settimana, perché è tardi e dobbiamo […] abbiamo chiuso già il verbale, dunque se ne riparlerà lunedì”». La moglie di Borsellino afferma che Paolo quella sera non fa altri nomi. E lei non insiste con le domande, cogliendo il suo profondo turbamento. «Non gli ho fatto altre domande, sapevo che avrebbe significato ferirlo ancora di più. Capivo che dentro di lui provava un dolore immenso». Che ha detto di così sconvolgente Mutolo a Borsellino? Ha parlato solo di Contrada e Signorino? Ha parlato d’altro. da “L’Agenda Rossa di Paolo Borsellino” di Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco  

 


IL MIO RICORDO GIOVANNI FALCONE

Sul particolare rapporto tra nostro padre e Giovanni Falcone, anche sul rapporto tra quest’ultimo e me o tra mia madre e Francesca Morvillo, insomma ne esce fuori un quadro di famiglia allargata” rileva Manfredi Borsellino. Manfredi ricorda poi anche il primo incontro, lui ancora bimbo, con Giovanni Falcone: “Lo conobbi all’inizio degli anni Ottanta, non avevo neanche 10 anni; ma i suoi tratti caratteriali più nascosti vennero fuori proprio durante quel soggiorno forzato all’Asinara, dove evidentemente proprio questa “famiglia allargata” lo portò ad essere assai diverso da quella persona austera che conoscevo”.
“Durante quel breve periodo in cui mio padre si assentò per i primi problemi di salute di mia sorella – ricorda Manfredi -, si affannò quasi a farmi da secondo padre, o da zio, risultando talvolta anche comico ai miei occhi ma terribilmente umano”. “Era d’estate” di Fiorella Infascelli con Massimo Popolizio e Beppe Fiorello impegnati rispettivamente nei panni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è il racconto del mese di soggiorno forzato – per motivi di sicurezza – dei due magistrati nell’isola bunker dell’Asinara. 

 

 

 

La scelta dei funerali in forma privata, dice il figlio di Borsellino, ”non ha niente a che vedere con le vicende che da magistrato mio padre affrontò. Lui si è sempre ritenuto, era ed agiva da uomo di Stato. Quanto ai suoi contrasti, alle difficoltà o alle sue posizioni, mio padre stesso ha gia’ detto tutto quello che aveva da dire, apertamente, quando era in vita”. Palermo, infine. ”Mio padre – dice Manfredi Borsellino – amava questa città, la nostra terra fatta di una stragrande maggioranza di persone oneste; non avrebbe potuto vivere altrove era legatissimo alla Sicilia, e proprio questi legami, l’attaccamento alla sua gente, gli davano la spinta per andare avanti, per combattere questa minoranza di criminali che soffocano milioni di persone, che ci aggrediscono. Ma noi, malgrado tutto, non possiamo e non dobbiamo lanciare la spugna”. ”Purtroppo però – conclude il figlio di Borsellino – da noi c’ e’ il rischio dell’apatia, della resa. Palermo ha reagito, è vero, a queste ultime due stragi. Ma non abbastanza, non come si doveva di fronte ad avvenimenti di questa portata’. CITTA’ DEL VATICANO

 

 

“Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita. Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere”.Da “Era d’estate”

“Caro nonno, se tu fossi vivo avresti capito quanto ti coccolerei”. La lettera di Fiammetta a Paolo Borsellino, a 26 anni dall’uccisione

“Caro nonno, mi dispiace per il 19 luglio 1992. Certo se tu fossi vivo, avresti capito quanto ti coccolerei. Ti voglio bene,

 la tua nipotina Fiammetta Borsellino”. Queste le parole affettuose che la nipotina Fiammetta (Figlia di Manfredi) ha dedicato al nonno che non ha mai conosciuto, accompagnate dal disegno di un grande cuore. Il messaggio è stato letto a conclusione della messa dedicata alle vittime della strage, celebrata nella chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria. Grande l’emozione suscitata tra i fedeli da queste parole, pronunciate da Don Cosimo Scordato, da sempre impegnato nella lotta per un riscatto sociale del Paese.

 

 

 

 


23.5.2021 LE STRAGI 29 ANNI DOPO, MATTARELLA NELL’AULA BUNKER: “O SI STA CONTRO LA MAFIA O SI È COMPLICI”. E SUL CAOS PROCURE: “BASTA SCONTRI”

MANFREDI BORSELLINO …“Le istituzioni non fecero tutto quello che c’era da fare per salvare uno dei suoi figli migliori”, dice in diretta a Uno Mattina. E’ la prima volta che Manfredi parla in Tv di suo padre e di quei giorni. 

“Nessuna zona grigia, omertà, o si sta contro la mafia o si e complici dei mafiosi, non ci sono alternative”. Le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella risuonano nell’aula bunker in ricordo delle vittime delle stragi. “La mafia non è invincibile e può essere definitivamente sconfitta”. Parole di speranza e di impegno. Il Capo dello Stato lancia un appello preciso contro le cosche, che suona come un monito: “La mafia esiste ancora – dice – non è stata sconfitta. E’ necessario tenere sempre attenzione alta e vigile da parte dello Stato”. Mattarella mette in risalto il ruolo della società civile nella battaglia contro la criminalità organizzata e la subcultura che la pervade: “L’onda di sdegno e di commozione generale, suscitata dopo i gravissimi attentati a Falcone e a Borsellino, il grido di dolore e di protesta che si è levato dagli italiani liberi e onesti è diventato movimento, passione, azione. Hanno messo radici solide nella società. Con un lavorio paziente e incessante, hanno contribuito a spezzare le catene della paura, della reticenza, dell’ambiguità, del conformismo, del silenzio, della complicità”. Parole accorate, nel discorso di Mattarella c’è un vero e proprio manifesto di impegno per rilanciare la lotta alla mafia. Un impegno che parte della memoria: “In questa giornata, così significativa e partecipata, ricordiamo – nel nome di Falcone e Borsellino – tutti gli uomini e le donne che sono stati uccisi dalla mafia. Magistrati ed esponenti politici; sindaci e amministratori; giornalisti e testimoni; appartenenti alle forze dell’ordine e alla società civile; servitori dello Stato e cittadini che hanno detto no al pizzo; collaboratori di giustizia, loro familiari, persino persone che passavano per caso in un luogo di attentato”. Il Capo dello Stato ribadisce il sacrificio delle vittime: “Il loro numero è impressionante, una lista interminabile, una scia di sangue e di coraggio, che ha attraversato dolorosamente la nostra storia recente. La loro morte ha provocato lutti, disperazione, sofferenze. Non li possiamo dimenticare. Ognuno di loro ha rappresentato un seme e chiede decisi passi avanti verso la liberazione e il riscatto”. Un altro passaggio forte è dedicato alla magistratura: “Sentimenti di contrapposizione, contese, polemiche all’interno della magistratura minano il prestigio e l’autorevolezza dell’organo giudiziario”, sottolinea il presidente della Repubblica. E ancora: “Se la magistratura perde credibilità, si indebolisce anche la lotta ai boss”.
L’atto d’accusa di Manfredi Borsellino  – Prima ancora che inizino le manifestazioni ufficiali per ricordare le vittime della strage di Capaci, è Manfredi Borsellino, il figlio del giudice Paolo, anche lui ucciso nel 1992, a esprimere tutto il dolore per una ferita che resta aperta. “Le istituzioni non fecero tutto quello che c’era da fare per salvare uno dei suoi figli migliori”, dice in diretta a Uno Mattina. E’ la prima volta che Manfredi parla in Tv di suo padre e di quei giorni. Indossa la divisa di commissario di polizia, dice: “Mi onoro di portare questa divisa, sono grato a tutti gli agenti che in quelle settimane drammatiche accettarono, volontari, di scortare mio padre. Sapevano a cosa andava incontro dopo l’attentato di Capaci”. Manfredi Borsellino fa una pausa e prosegue, pesando le parole, che tornano ad essere pietre: “Questa uniforme che indosso non l’hanno invece onorata alcuni vertici della polizia in quegli anni, prima e dopo la morte di mio padre”. Una ferita ancora aperta, che richiama i misteri di quel 1992. Chi tradì Falcone e Borsellino?  LA REPUBBLICA SALVO PLAZZOLO


7.5.2018 Non possono stare lontani, nemmeno sulle labbra degli altri. Ma com’era questo amore incenerito in via D’Amelio, nella sua porzione visibile? Un’esperienza totalizzante . Non potevano stare lontani”. Ed è dolcemente strano pensare, con rispetto e affetto, che la morte di una madre sia stata una benedizione di tenerezze e ricordi, pure nella sua consistenza luttuosa, per dei ragazzi che avevano già perso un genitore nella modalità più atroce. Rubata, sì, ma nella quasi normalità degli addii. “Mamma  è diventata nonna e credo che i suoi nipoti abbiano avuto il potere di allungarle un po’ la vita”. Una figura silenziosa, incrollabile. Di lei, lo stesso figlio scriveva nel libro ‘Era d’estate’, immaginando un colloquio col padre: E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta”. Noi tre: Manfredi, Fiammetta, Lucia. Una storia d’amore che rivive pure nella memoria di don Cesare Rattoballi, sacerdote e amico di Paolo Borsellino. Fu lui a confessarlo tra le colonne severe del Palazzo di giustizia. “Paolo – rievoca don Cesare – nutriva uno speciale sentimento di protezione nei confronti della sua sposa. Cercava sempre di evitarle problemi, non voleva metterla in agitazione. Soprattutto negli ultimi tempi, quando sapeva che non sarebbe stato risparmiato. Avevano entrambi un tratto umano e accogliente. Ti invitavano a cena senza formalismi, donando il candore della loro amicizia. Sì, rammento quel giorno, come potrei dimenticarlo? A margine della confessione, Paolo mi confidò: ‘Sono pronto, mi preparo’. Avevamo in programma di vederci il lunedì successivo. Domenica lo assassinarono”. Quando Agnese morì fu organizzata una camera ardente familiare nella casa di via Cilea. La signora appariva addormentata in pace, nonostante la violenza del male che aveva subito e coraggiosamente combattuto. Suo marito, il dottore Paolo Borsellino, la guardava, da un ritratto appeso alla parete. . La sigaretta tra le dita e, dal mozzicone, un fumo azzurrino dipinto. La vegliava ancora.   (Roberto Puglisi  La Repubblica Palermo)

 


15.7.2016 Manfredi Borsellino, papa’ ignorava del tutto La Barbera

“Il peggiore giudizio che mio padre poteva avere riguardo una persona, si manifestava in un unico modo, ignorandola.
E Arnaldo La Barbera era totalmente ignorato da mio padre, non aveva rapporti con lui e presumo con l’intera Squadra mobile; del resto in quell’ufficio non si muoveva nulla se La Barbera non voleva.
Mio padre non ha mai fatto alcun commento su lui, anche perche’ se ne avesse fatto anche uno solo, voleva dire che minimamente lo considerava”.
Lo ha detto Manfredi Borsellino, dirigente del commissariato di Cefalu’, figlio del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio, deponendo al ‘Borsellino quater’, a Caltanissetta LA SPIA 


 15 luglio 2016  Manfredi Borsellino, chi doveva non ha cercato verita’

“Non dovevo essere io a dover cercare la verita’ sulla morte di mio padre. C’erano altre persone demandate a farlo, ma non lo hanno fatto o lo hanno fatto malamente. Mio padre ci ha sempre detto che qualora fosse accaduto, cio’ che purtroppo poi e’ successo, non dovevamo occuparci di nulla e proseguire la nostra vita”.
Ad affermarlo e’ stato Manfredi Borsellino, figlio di Paolo Borsellino, dirigente del commissariato di Cefalu’, deponendo a Caltanissetta al quarto processo per la strage di via d’Amelio.*
Manfredi Borsellino, pur non entrando nel merito dei rapporti che intercorrevano fra suo padre e l’allora dirigente della Squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, ha detto che “le persone di cui non parlava erano quelle che lui disistimava.
Il peggiore giudizio che mio padre poteva formulare nei confronti di una persona che non gli garbava era quello di ignorarla. Non mi risulta abbia mai avviato rapporti professionali, in quell’anno trascorso a Palermo come procuratore aggiunto, con la Barbera e probabilmente neanche con la Squadra Mobile”.
Il figlio del giudice Borsellino ha anche spiegato di non sapere nulla sui rapporti che intercorrevano fra La Barbera e i suoi uomini ma dopo essere entrato in polizia ha appreso che alcuni dei poliziotti che facevano parte del pool che indagava sulle stragi del ’92, avevano lasciato il gruppo perche’ in disaccordo con il capo della Mobile. Il processo sulla strage di via d’Amelio riprendera’ il 20 settembre con la requisitoria dei pubblici ministeri che proseguira’ fino al 23 settembre. La parola poi, dal 17 al 20 ottobre passera’ alle parti civili e infine dal 7 al 10 novembre al collegio difensivo.

 


8.11.2015 Maxi processo alla mafia, quei giudici isolati all’Asinara.  Manfredi Borsellino racconta la storia del trasferimento forzato nell’isola dove il padre e Giovanni Falcone istruirono il maxi processo ai capi di Cosa Nostra  Ricordo di avere trascorso quasi un mese in una sorta di paradiso terrestre e di essermi sentito protetto come poche volte nella vita. Credo che questa sensazione fosse comune anche ai miei genitori e alle mie sorelle. Non avevo ancora compiuto 14 anni per cui, rispetto a Lucia, avvertii meno il peso di quella vacanza forzata, direi quasi di deportazione. É una esperienza che già allora segnò indelebilmente oltre a mia sorella Lucia anche il sottoscritto e la più piccola Fiammetta. No, non era tanto la presenza sulla stessa isola di pericolosi criminali (comunque rinchiusi in strutture inaccessibili) a turbarci, bensì l’assoluto isolamento in cui eravamo costretti».

Qual’era lo stato d’animo? «Ci adattammo presto all’isolamento e capimmo che (allora) le istituzioni, soprattutto quelle romane, ci erano vicine. Mi piace ricordare la figura di Nino Caponnetto (il capo del pool antimafia, ndc), senza il quale quello che passerà alla storia come il maxiprocesso non si sarebbe mai celebrato. Ma soprattutto nostro padre e Giovanni Falcone avrebbero perso la vita già allora. Fu lui, infatti, a volere (e organizzare) fortemente quel tempestivo trasferimento sull’isola, proteggendo i due giudici come fossero suoi figli. Questa figura non è più esistita e chi nell’estate del 1992 avrebbe potuto – oltre che dovuto – adottare decisioni drastiche per salvare la vita a nostro padre e non solo, non le adottò ma non fece nulla perché altri le adottassero».

Accadde tutto in fretta, vi trovaste nell’insolita situazione di convivere in un’isola-carcere popolata anche di mafiosi… «É una esperienza che già allora segnò indelebilmente oltre a mia sorella Lucia anche il sottoscritto e la più piccola Fiammetta. No, non era tanto la presenza sulla stessa isola di pericolosi criminali (comunque rinchiusi in strutture inaccessibili) a turbarci, bensì l’assoluto isolamento in cui eravamo costretti».

Suo padre e Falcone non presero bene quel trasferimento. Lo considerarono una perdita di tempo che poteva mettere a rischio il maxiprocesso. É vero? «Mio padre all’inizio subì maggiormente quello spostamento improvviso, sapeva delle ripercussioni negative che avrebbe esercitato sulla primogenita e non avrebbe mai voluto strapparci ai nostri giochi e ai nostri amichetti. Con il passare dei giorni però si creò un clima speciale, ci sentivamo come a casa. Il luogo d’improvviso ci sembrò familiare e accogliente. E questo grazie all’allora direttore del carcere Francesco Massidda e a un agente di custodia, un ragazzo allora, Gianmaria Deriu, che non smetteremo mai di ringraziare per l’amore, la spontaneità e la professionalità con cui si prese cura di tutti noi. Nascondendo i suoi stessi disagi derivanti dalla lontananza dalla famiglia».

Alla fine il meno triste fu proprio lei? «Gianmaria mi fece conoscere il mondo delle motociclette, ci salii sopra per la prima volta, abbozzai qualche percorso. Ero un bambino (lo sono ancora oggi per certi versi) molto curioso, ogni giorno che trascorrevo su quell’isola per me era un giorno nuovo, mai uguale agli altri. Ero affascinato dalla natura, dagli animali e dalla poca gente che l’abitava: persone semplici, schiette, che sul continente è difficile incrociare».

Non furono facili però quei giorni sull’isola-carcere, anche con Falcone… «É vero, ma con Giovanni Falcone a parte qualche screzio iniziale vi fu un rapporto di complicità, tanto che mio padre si assentò per qualche giorno rientrando con Lucia a Palermo e lui sentì quasi di farne le veci. Giovanni forse non era abituato per così tanti giorni a dividere lo stesso tetto e convivere con dei bambini, penso che poche volte nella vita si sentì di fare parte di una famiglia allargata come in quell’estate».

Lo Stato presentò il conto del soggiorno, 415.800 lire , lo ricorda? «Nostro padre ci scherzava sù, raccontava l’episodio con ironia. Non mi meraviglia se non chiese il rimborso. D’altra parte era solito pagare di tasca propria il carburante delle autovetture blindate di Stato che, tra l’altro, sovente guidava di persona non avvalendosi di autisti».

Due ricordi su tutti, il più bello e il più brutto che si porta dietro a distanza di trent’anni… «Il più bello quando eravamo riuniti intorno ad un tavolo per pranzo e cena, regnava una grande armonia e pareva veramente che ci si fosse dati appuntamento in un paradiso terrestre. Un paradiso dei giusti. Il più brutto lo anticipo al momento in cui fummo prelevati dalla villa dei nonni materni per essere portati in aeroporto e partire poi per l’Asinara. Eravamo frastornati, i vicini di casa piangevano come se non ci dovessero mai più vedere. Mio padre stesso, che pareva tenere sempre ogni situazione sotto controllo, lo vedevamo per la prima volta non padroneggiare l’evento. Insomma, brutti momenti, solo in parte compensati dai giorni che seguirono sull’isola». La Nuova Sardegna Gianni Bazzoni

 


4.4.2014 [IL RICORDO DI UN FIGLIO]
Manfredi Borsellino: «Vi racconto mio padre Paolo che amava la vita e le tante sorprese»

Penso che mio padre debba essere ricordato soprattutto per la sua bontà d’animo, essendo egli una persona fondamentalmente buona e carica di una sconfinata umanità. La sua generosità era senza limiti: avevo quindici anni quando mi chiese di regalare il mio motorino al figlio di una vedova il cui marito era morto in una strage di mafia in quanto gli necessitava per recarsi in una borgata di Palermo ove svolgeva l’attività di panettiere. A un collaboratore di giustizia, lo stesso che tra il ’91 e il ’92 gli rivelò di essere stato incaricato dalle famiglie del Trapanese di organizzare ed eseguire il suo assassinio, forniva personalmente le lamette, la schiuma da barba e le sigarette, in un periodo storico in cui, è importante evidenziarlo, mancavano del tutto le agevolazioni di cui oggi essi fruiscono. nonostante gli impegni di lavoro trovava sempre il tempo di stare in famiglia, di seguire personalmente le nostre attività, fossero esse di studio o ludiche. E’ indelebile il ricordo dell’amore e del trasporto con cui mi fece ripetere le mie prime due materie universitarie – analogamente accadde con mia sorella Fiammetta – dedicandomi intere serate prima degli esami. era premuroso, sempre presente non solo per i familiari, ma anche per i tanti cugini e parenti collaterali.
Di fatto egli cresceva e seguiva come fossero suoi i sette figli della sorella più grande, rimasta vedova prematuramente e non economicamente in grado di sostenere una così numerosa famiglia. Io e le mie due sorelle non siamo stati mai né viziati né agevolati, piuttosto “responsabilizzati” di fronte a situazioni molto più grandi di noi, sì che al momento della sua morte può dirsi che eravamo a nostro modo “preparati”, preparati da un padre che tutto avrebbe potuto desiderare fuorché lasciarci orfani così giovani. Sin dai primi giorni successivi alla sua morte, infatti, circolava la voce che egli fosse andato incontro “rassegnato” a questo infausto destino. Bene, ciò non corrispondeva affatto a verità: mio padre amava in modo viscerale la vita e le tante piccole o grandi sorprese che questa riserva, sì da apparirmi inverosimile che egli andasse incontro alla morte ritenendola in quel momento un evento ineluttabile. In verità abbiamo assistito alla morte di un uomo lasciato solo in un momento storico in cui occorreva massima coesione e distribuzione della responsabilità, anche all’interno degli uffici giudiziari.
Tuttavia noi non abbiamo alcun rammarico, poiché se la morte di mio padre, unitamente a quella di tanti altri servitori dello Stato, è servita a svegliare dal torpore tante coscienze, ciò ci ripaga della sua assenza. dopo tutti questi anni ciò che forse manca maggiormente del Paolo Borsellino uomo, padre e marito sono la bontà d’animo e generosità di spirito che lo contraddistinguevano. ci ha lasciato un grandissimo patrimonio morale e ci ha insegnato ad essere umili: i meriti erano sempre degli altri, non si atteggiava mai a protagonista ed era privo di qualsiasi ambizione, a tal punto da non manifestare alcun interesse a ricoprire quell’incarico di super procuratore antimafia che, subdolamente, rappresentanti del governo di allora gli avevano proposto, rimanendo prioritaria per lui la vicinanza alla sua famiglia e alla sua Palermo
E’ evidente quanto sia stato forte il desiderio di avere un padre così al nostro fianco nei momenti in cui ci siamo trovati a fronteggiare situazioni molto più grandi di noi, nel momento in cui abbiamo scelto ciascuno di servire, seppur in amministrazioni diverse, lo Stato, quello Stato che non seppe essere in grado di difendere e proteggere uno dei suoi figli migliori ma che mio padre ha sempre rispettato e onorato e ci ha sempre insegnato a rispettare e onorare, nel momento in cui avremmo avuto bisogno di uno suo consiglio o anche solo di uno sguardo. Sono tuttavia convinto che io, le mie sorelle e mia madre, abbiamo seguito la strada che lui ci aveva tracciato. La nostra fede ci rende sicuri del fatto che un giorno lo rivedremo, bello e sorridente, come lo ricordiamo sempre.  Manfredi Borsellino per il quindicinale “Condividere”


30 OTTOBRE 2015 – L’INTERVISTA AL DR MANFREDI BORSELLINO 

 Dottore Borsellino, in occasione del ventitreesimo anniversario della strage di via d’Amelio, i bambini della 5^ B dell’Istituto Comprensivo di San Giovanni Suergiu (CA) hanno donato alla Famiglia Borsellino, tramite sua cugina Roberta che ve lo ha, poi, consegnato, un libro. In esso vi erano i lavori che gli stessi alunni hanno prodotto a fine anno scolastico dopo aver seguito in classe lezioni sulla legalità grazie alla loro insegnante Luciana Ursillo e in collaborazione con Fraterno Sostegno ad Agnese borsellino.

Vorremmo chiederle che impressioni, riflessioni o emozioni ha suscitato in lei l’aver visionato questi disegni.  I disegni spesso, se non sempre, trasmettono molto più delle parole, e questi ne sono un fulgido esempio, denotano un percorso molto importante che questi bambini hanno fatto condotti per mano dalla loro insegnante, alla quale pertanto va tutto il mio apprezzamento; è proprio vero la mafia e il malaffare si combattono prima di tutto con un esercito di maestri.

Sua madre, rivolgendosi ai giovani, ci scrisse “Io non perdo la speranza in una società più giusta ed onesta, sono anzi convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia” Questa fu una delle frasi che hanno spinto il nostro gruppo a studiare un progetto sulla legalità nelle scuole. Cosa ne pensa? Vorrebbe dire qualcosa ai docenti e ragazzi che seguono questo tipo di percorso scolastico?  Mia madre era una inguaribile ottimista, al pari in fondo di mio padre. Confidava nelle giovani generazioni perchè negli ultimi anni della sua esistenza aveva toccato con mano quanto in moltissimi giovani fosse forte la coscienza civile, la voglia di cambiamento e il desiderio di non stare più a guardare gli altri ma di impegnarsi in prima persona. Se quelle parole pronunciate da una donna segnata dal dolore e dalla malattia sono state sufficienti a spingere il vostro come altri gruppi a studiare un progetto sulla legalità nelle scuole, mia madre da lassù dove ci guarda e ci segue ogni giorno non potrà che compiacersene. A lei, com’è noto, non piacevano le commemorazioni sterili o i ricordi fini a se stessi del marito e delle altre vittime della mafia, ma si adoperava affinchè all’interno della società civile – e quindi in primis delle scuole – nascesse quel movimento culturale in grado di generare “quel fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, alla contiguità e alla complicità tra le organizzazioni criminali e pezzi infedeli delle Istituzioni.”

Suo padre amava parlare ai ragazzi, credeva nei giovani, era convinto che contro la mafia sarebbero stati più consapevoli di quanto non lo fosse stata la sua generazione, secondo lei ciò è avvenuto veramente? E se non è avvenuto cosa possiamo fare noi adulti per preparare i nostri figli ad un futuro in cui possano sentire, come lei stesso ha citato, “quel fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale”?  Noi adulti, meglio noi genitori, dobbiamo costantemente dare l’esempio ai nostri figli perchè è evidente che da genitori che conducono una vita disonesta, non conforme alle regole e volta solo ad accumulare, con metodi leciti od illeciti importa relativamente, ricchezze di ogni tipo, aumenta esponenzialmente la probabilità che vengano fuori figli privi di quei principi etici che possano consentire loro di discernere cosa è bene e cosa è male. Io e mia moglie sotto questo aspetto ci chiediamo ogni giorno se stiamo offrendo ai nostri figli l’esempio migliore, se non siamo talvolta a loro di cattivo esempio anche solo disinteressandoci di chi sta economicamente peggio di noi e necessità non solo di un sostegno morale ma soprattutto materiale. Ecco, il nostro compito di adulti passa anche da questo, dal trasmettere ai nostri bambini valori come la solidarietà che pare quasi siano scontati oggi tra i giovani ma che invece non lo sono. La mafia, e Cosa Nostra in particolare, infatti si alligna proprio tra quelle sacche della popolazione che soffrono il disagio sociale ed economico. E’ a chi soffre, a chi è tentato di delinquere e di offrirsi alla criminalità organizzata per sfamare i propri figli, che dobbiamo indirizzare prevalentemente il nostro impegno di educatori.”  Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino


5.5.2013  IL FIGLIO DI AGNESE BORSELLINO  “LEI E PAPÀ CHE COPPIA” 

Manfredi è stato raggiunto dalla notizia della morte della madre a Bologna dove si era recato per un problema personale. “Senza la mamma, mio padre non sarebbe stato l’uomo che è stato”  Le aveva detto: “Mamma voglio stare con te”, ma lei aveva deciso che doveva partire e non perdere più tempo. Agnese Borsellino aveva espresso un desiderio e il suo unico figlio maschio lo ha esaudito anche se controvoglia: “Stai tranquillo, ti aspetto”, gli aveva detto. E così tre giorni fa Manfredi ha preso l’aereo per risolvere un problema personale fuori città. Sarebbe tornato oggi pomeriggio, ma non ce l’ha fatta a dare l’ultimo saluto a mamma Agnese morta alle 8,30. Adesso è sull’aereo che lo sta riportando a Palermo, prenotato d’urgenza appena appresa la notizia.

“Sono stato con lei per dieci giorni, perché avevo preso un periodo di malattia dal lavoro  –  racconta Manfredi, vice questore aggiunto della polizia, a capo del commissariato di Cefalù  –  e mamma è stata lucida fino alla mia partenza. Ho dei ricordi vivi di mamma, belli e indimenticabili. Voglio ricordarla così, pensando al tempo trascorso insieme fino alla mia partenza. La sua forza e la sua tenacia sono stati un esempio per tutti noi”. Manfredi piange, non ha avuto il coraggio di aprire il computer per leggere tutti gli articoli che da stamattina parlano della morte di sua mamma.
Le parole gli si strozzano in gola quando pensa a suo padre e a sua madre insieme. “Una bella coppia  –  dice  –  ma è importante che tutti sappiano che papà non sarebbe stato quello che è stato, il giudice che tutti ricordiamo, se accanto non avesse avuto quella donna straordinaria che è stata la mamma”. ROMINA MARCECA LA REPUBBLICA