11 aprile 2006 – RENATO CORTESE: “Così catturai Bernardo Provenzano”

 

 
 

L’arresto di Provenzano. Il racconto di Cortese – VIDEO


Renato Cortese: “Così lo catturai Provenzano. Quel giorno finì un incubo”

“Quell’11 aprile del 2006, il giorno in cui abbiamo finalmente arrestato il “fantasma” Bernardo Provenzano, in quella masseria di pastori a Montagna dei Cavalli vicino a Corleone, è stato il giorno più lungo della mia vita ed anche di quella dei miei uomini. Per 43 anni era sfuggito ad ogni ricerca, si era fatto beffa dello Stato. E quando finalmente lo abbiamo ammanettato si è determinato il convincimento che lo Stato potesse vincere quella battaglia. Il mito dell’invincibilità di Cosa Nostra era finalmente crollato “.

Renato Cortese, 51 anni, entrato in Polizia nel 1991, ora a capo del Servizio Centrale della Polizia e che quell’11 aprile del 2006 era capo della Sezione Catturandi della Squadra Mobile di Palermo, ricorda ogni attimo, ogni sensazione di quella storica cattura e degli anni di lavoro che l’hanno preceduta.
Cosa ha provato quando si è visto Provenzano davanti, in carne ed ossa?
“Io ed i miei uomini eravamo certi che si nascondesse lì ma avevamo anche paura di avere fallito come tante altre volte. Quando me lo sono visto davanti, anche se l’ultima foto segnaletica risaliva al 1966, era come se lo conoscessi da tempo. Non c’è stato neanche bisogno di chiedergli se era Bernardo Provenzano, perché ormai, dopo anni ed anni di studio del suo profilo e della sua psicologia, sapevo chi era quell’uomo ormai anziano e che era il capo di Cosa Nostra”.
Come siete arrivati, dopo anni ed anni di ricerche a quel “fantasma”?
“Fu una manina che usciva da una porta di quella masseria e che ritirava un pacco che ci diede la certezza che Bernardo Provenzano si nascondesse proprio li. Da giorni e notti tenevamo d’occhio quella masseria di pastori dove facevano formaggi e ricotta e la casa di Corleone dove abitavano la moglie ed i figli di Provenzano e da quella casa era uscito un pacco consegnato ad un uomo che poi lo ha portato nel rifugio. Quel pacco lo abbiamo seguito per oltre 24 ore, fino a quando era stato consegnato a quella manina, la sua”.
A Provenzano da anni davano tutti la caccia, ed alla fine è stato lei a catturarlo. Una bella soddisfazione.
“Non fu un lavoro facile. Provenzano aveva chiuso i rapporti con la famiglia, con tutto il mondo esterno, non avevamo telefonate, solo qualche pizzino (messaggi di Provenzano sequestrati in altri contesti, ndr), ma avevamo qualche piccolo indizio ed una pista che abbiamo seguito per mesi e mesi senza soluzione di continuità. Ricordo serate e nottate a discutere con l’allora procuratore di Palermo Giuseppe Pignatone e con il pm Michele Prestipino sulla pista più sicura. E finalmente quel giorno, decidemmo di entrare in azione”.
E quando se l’è trovato davanti?
“Finalmente! Abbiamo detto, finalmente è finita. Era lui con accanto la sua macchina da scrivere, con i pizzini che aveva appena scritto ai suoi uomini e quelli che aveva ricevuto. Li abbiamo trovato anche il suo miele particolare e la cicoria, il suo piatto preferito”.
14 Luglio 2016 LA REPUBBLICA 

 


RENATO CORTESE, un poliziotto di razza a Cernobbio

 

BENEDETTO MADONIA – RENATO CORTESE – CLAUDIO RAMACCINI

CENTRO STUDI SOCIALI CONTRO LE MAFIE – PROGETTO SAN FRANCESCO



SERVIZIO di CIAO COMO

 

Il gruppo “Duomo”, così nasce il reparto che catturerà Bernardo Provenzano

È una mattinata piovosa, e dall’aeroporto ci portano direttamente in quella che sarà la base del gruppo di lavoro: un edificio rettangolare a due piani dove una volta aveva sede il Commissariato di polizia “Duomo”.

Si trova tra corso Vittorio Emanuele, dove si arriva percorrendo lo strettissimo vicolo del Lombardo, e il mercato di Ballarò. Il cortile dell’ex Commissariato confina con quello della Caritas, che ospita un asilo multietnico dove giocano bambini multicolori, accomunati da un dialetto palermitano che padroneggiano meglio dei loro genitori.

Che bello, quell’asilo! Mi pare il simbolo stesso della Sicilia, che ha visto passare nel corso dei millenni coloni, conquistatori e migranti, e da ciascuno ha preso una parola, un modo di dire, un’espressione artistica, un’idea, dove tutto si è fuso in un prodotto nuovo e unico che ha tuttavia conservato, ben distinguibili, i caratteri propri e l’identità delle diverse civiltà.

Alle spalle del nostro Duomo, verso il mercato di Ballarò, il Liceo Scientifico Benedetto Croce, e sull’altro lato una scuola elementare e media. Il gruppo occuperà tutto il piano terreno, perché di sopra ci lavorano alcuni colleghi della sezione criminalità organizzata della squadra mobile.

Un piccolo corpo di guardia protegge un lungo corridoio sul quale si aprono, sul lato destro, sette stanze; l’ultima parte del corridoio è chiusa da una porta, ed è diventata a sua volta una stanza, più piccola, da dove si transita per entrare in quella del dirigente.

Renato Cortese e i suoi 

Renato Cortese lo conosco, ma non benissimo: l’ho visto qualche volta a Roma e l’ho incontrato alla Squadra Mobile di Palermo qualche mese prima, al ritorno da una missione nell’interno della Sicilia.

Il gruppo lo dirigerà lui, per continuità nelle indagini, perché le ricerche di Bernardo Provenzano vanno avanti già da qualche anno, con la Catturandi. A fine gennaio loro hanno chiuso l’operazione “Grande Mandamento”, arrestando una cinquantina di persone, mafiosi e favoreggiatori tra Bagheria, Palermo e la provincia.

A Provenzano ci sono andati vicini, anzi vicinissimi, ma ancora una volta “Binnu” aveva fiutato il pericolo e se ne erano perse le tracce. Gli uomini del gruppo sono stati scelti da Cortese e sono tutti della Catturandi, ma non la sezione al completo, e la cosa ha destato qualche malumore tra gli esclusi, com’è naturale, e qualche altro malumore è nato per la presenza, nel gruppo, di personale del Servizio Centrale Operativo, e non gli si può dar torto.

Ancora una volta mi trovo nella situazione di chi arriva in un posto che conosce poco, a lavorare su ambienti criminali che magari un po’ comprende, ma di certo non con la padronanza di chi, invece, professionalmente è cresciuto a pane e latitanti.

È sabato, e il Duomo è pieno di tecnici e di operai: stanno montando scaffalature che ospiteranno i faldoni della vecchia indagine e quelli della nuova, sistemano i cablaggi dei computer per le intercettazioni telefoniche, i monitor per le telecamere e la saletta per i colleghi incaricati di riascoltare le conversazioni intercettate.

La giornata è prefestiva, il lavoro investigativo vero e proprio non è ancora iniziato e dei colleghi della Catturandi sono presenti solo quattro o cinque, che conosco di nome e di fama: me ne ha parlato Pippo, che conosco dai tempi delle scorte a Francesco Marino Mannoia e che da parecchi anni è stato trasferito nel mio ufficio, alla mia sezione: lui viene dalla squadra mobile di Palermo e a Palermo conosce tutti: è nel gruppo anche lui.

Renato Cortese fa le presentazioni, che si concludono come di prassi al bar; andiamo al Kaleido, in corso Vittorio.

Ci si arriva percorrendo il vicolo del Lombardo, una viuzza strettissima tra due palazzi vicinissimi tra loro, col risultato che è sempre in ombra: è una specie di camino naturale dove il vento si infila tutto l’anno, e sbuca quasi di fronte alla Cattedrale di Palermo, offrendo un colpo d’occhio che mi lascia senza fiato: un lato della piazza è occupato dal Liceo Classico Vittorio Emanuele II, un’architettura geometrica e austera, seria come la scuola che ospita e come ci si aspetta debba essere un liceo; di fronte, sull’altro lato della piazza, l’Arcivescovado, e a coprire il tutto un cielo sempre azzurro dove spiccano, a dar lavoro agli obiettivi fotografici dei tanti turisti, le sagome di altissime palme e i contorni della Cattedrale. Imparerò a conoscerli bene, quei luoghi intorno al mio nuovo ufficio: i negozi che si affacciano sul corso, il Kaleido, l’ottico Punto di Vista, di cui conservo ancora la tessera fedeltà, la libreria delle Paoline, la farmacia, l’Isola Saporita, l’armeria, il bar Marocco e tutti gli altri, ma per ora è solo uno sguardo di sfuggita.

Per oggi è tutto, mi vado a sistemare provvisoriamente in un alberghetto, a Ballarò, e penso alle difficoltà che mi aspettano. Nei giorni successivi conosco i nuovi colleghi: non è una squadra di centravanti, è una squadra, e in ciascun ruolo Renato Cortese ha scelto quanto di meglio poteva senza spogliare la Catturandi, perché quelli che sono rimasti a lavorare lì, negli uffici della Mobile, hanno le stesse caratteristiche dei prescelti.

Tra noi non ci sono nomi di fantasia, e mi dispiace deludere chi è convinto che chi fa questo lavoro abbia un nome di battaglia; no, ci si chiama per nome: Tommaso, Giuseppe, Alfonso, Paolo, Luigi, Salvatore, Luciano, Fabio, Adriano, Vincenzo, Rosario, Vittorio, Maurizio e così via.

I nomi di battaglia appartengono alle fiction, perché il pubblico li ama, ma questa è una cronaca, e nelle cronache al massimo ci sono i soprannomi, legati a caratteristiche fisiche, caratteriali, dell’abbigliamento: “er Pomata”, “er Caciara”, “il Cammello”, “l’Imperatore”.

Un reparto investigativo d’eccellenza

Ho la qualifica di Sostituto Commissario, che nel gruppo è la più elevata dopo quella di Renato Cortese, ma mi rendo conto che ciascuno degli specialisti della Catturandi ha molto da insegnarmi dal punto di vista tecnico, e allora busso, chiedo permesso, ed entro in punta di piedi.

La squadra mobile di Palermo, nel 2005, è un reparto investigativo d’eccellenza e all’avanguardia: lavorano con microspie e telecamere di ultima generazione, almeno per gli standard della Polizia, e vedo con sollievo che la tecnologia ha fatto sensibili progressi dai tempi in cui, a Corleone, andavamo rubando la Fiat Uno dei Provenzano quasi tutte le notti: avrò molto da studiare per rimettermi in pari, ammesso che ci riesca.

Però posso occuparmi delle carte, di tutto quel lavoro noioso, ripetitivo, sedentario e indispensabile, che di solito non vuol fare nessuno, e nessuno di sicuro si offenderà se intanto me ne prenderò l’appalto, mettendomi a disposizione per il resto.

Il turno di marzo passa in fretta, si pianifica il da farsi e come iniziare: intercettazione dei colloqui in carcere di molti degli arrestati di “Grande Mandamento”, perché se favorivano Provenzano quando si nascondeva a Bagheria potrebbero avere qualche informazione che può ancora tornarci utile.

È un lavoraccio, dal punto di vista anche delle carte: per ciascun colloquio di ogni detenuto bisogna prendere contatto con il carcere dove si trova, interpellare le ditte che forniscono le microspie e le telecamere, farsi mandare i preventivi di spesa e portarli alla procura della Repubblica, che deve valutare e autorizzare caso per caso, recuperare i Cd con le registrazioni dopo i colloqui, occuparsi di chiedere eventuali proroghe, perché le prime autorizzazioni valgono quaranta giorni, le successive venti, e tanto le richieste iniziali quanto quelle per le proroghe vanno tutte e sempre motivate.

Iniziano anche le intercettazioni telefoniche: si discute se lasciare l’incarico di seguire quelle dei familiari del latitante al Commissariato di Corleone; dico che secondo me sarebbe preferibile avere notizie di primissima mano, anche gli altri sono d’accordo, anche perché piste calde da seguire non ce ne sono, per il momento. Nel gruppo funziona così, tutti devono essere a conoscenza di quello che si sta facendo, del perché lo si sta facendo e di come si intende proseguire a farlo; si ascoltano i pareri, poi si decide.

I componenti del gruppo sono intercambiabili tra loro, ma in ciascun settore ci sono i punti di riferimento, per le intercettazioni telefoniche individuo Alfonso: lui ascolta e riascolta tutto all’inizio di ogni turno, fa collegamenti, ricerca nelle vecchie conversazioni elementi che possano far luce su alcuni dialoghi poco comprensibili e, grandissima dote, quello che trova lo mette per iscritto, per futura memoria sua e degli altri. Al riascolto, che forse è il settore dove si nascondono le informazioni più utili, il riferimento è Totò.

Il riascolto è per così dire il cuore di un’indagine: tutto ciò che viene raccolto con le microspie e ascoltato, quando possibile, in diretta, finisce nella sua saletta; lì ogni conversazione viene ripulita da fruscii, scariche e rumori di fondo e viene sentita una, due, dieci, cento volte, al bisogno.

Sono incredulo, mi fanno provare: ascolto dieci secondi di quello che a me sembra il rumore del vento e delle voci indistinte e lontane. Totò mi guarda e chiede: – ’U capisti? – poi, come colto da un improvviso dubbio anche sulla mia competenza linguistica – Hai capito? – si affretta a tradurre. Lo guardo perplesso: mi sta sfottendo? No, è serissimo, manda indietro il cursore della traccia sul monitor e mi fa riascoltare, mi aggiusta le cuffie, rallenta la velocità, regola i toni, ma per me non cambia niente, rumori erano e rumori restano.

Mi aiuta, scandisce lentamente le parole che lui sente, fa ripartire il file audio; ora le colgo, stupito come un bambino.

Non ho passato il primo esame, ma Totò è indulgente, sa che non è facile. Però guai a disturbarlo mentre riascolta: tutti passiamo in punta di piedi davanti al suo minuscolo regno, funzionari compresi, e sono pochi quelli che si azzardano a contraddirlo nell’interpretazione: se nascono dubbi, i riascolti vanno avanti a oltranza, fino a quando tutti non sono convinti.

A volte succede che qualcuno nutra qualche dubbio, ma se lo va a chiarire a tarda sera, quando Totò non c’è. Nel gruppo ci sono due ispettori superiori della Catturandi, esperti e carismatici: uno più diretto, l’altro più diplomatico; tutti e due provengono dai gradi iniziali della Polizia e hanno fatto carriera a suon di promozioni ottenute sul campo, a differenza di quanto è successo a me, entrato nell’Amministrazione già con la qualifica di “ispettore”.

Fare carriera partendo dal basso comporta più tempo, ma impari a fare di tutto, a capire meglio le difficoltà di un lavoro e i problemi di chi lo deve svolgere, sei in grado di spiegare come si fa e come vuoi che venga fatto, e poi la strada maestra per imparare a comandare è iniziare obbedendo.

Mi accompagnano in procura e mi presentano ai magistrati che dirigono l’indagine, Giuseppe Pignatone è il Procuratore Aggiunto, che già conoscevo da altre vecchie attività, Michele Prestipino e Marzia Sabella. Conosco anche il personale della segreteria, Mariangela, Rita, Sandro, Giuseppe; non è solo personale del Ministero della Giustizia, ma anche della polizia e della “municipale” e anche loro sono una “squadra”; l’impressione che ricevo mi spinge all’ottimismo: se ognuno fa il suo e se si rema tutti a tempo e nella stessa direzione, strada se ne può fare. Alla fine del primo turno, risalgo a Roma più sereno di quando sono partito. […].


Appostamenti e telecamere, il cerchio si stringe a Montagna dei Cavalli

Sono in auto con uno degli ispettori della Catturandi, su una delle Fiat Stilo a gasolio che abbiamo in noleggio a lungo termine e dobbiamo stare “in zona” senza compiti particolari, se non quello d’essere in grado di raggiungere rapidamente Corleone nel caso ci fosse necessità di un pedinamento.

Le macchine a gasolio non le sopporto e non le ho mai sopportate fin da bambino, mi fanno venire la nausea; ho pure un inizio di mal di gola, fa freddo e il collega che è con me, alla guida, fuma il sigaro, il cui odore si mescola e si sovrappone a quello del gasolio bruciato.

Sono frullato dalle curve: stare in zona significa che non puoi stare fermo, perché fermarsi da qualche parte è il miglior modo per farsi notare, anche se stai su una Stilo grigia, che da quelle parti pare sia il mezzo di trasporto più diffuso.

Piove alla assuppa viddanu, passiamo il tempo andando da un paese a un altro, esplorando trazzere sconnesse e fangose; due soste in qualche bar fuori mano, dove non parlo neppure: che ci fa un romano, a metà gennaio, nelle campagne della provincia palermitana? Il tempo non vuole passare, fa buio presto, prestissimo, ma dobbiamo comunque restare fuori.

Ci si racconta la vita, le esperienze e le aspettative, poi si ricomincia, e poi di nuovo e ancora, ma alla fine si tace. Ho già scritto dell’importanza della pazienza? In certe occasioni il tempo non passa davvero mai. A sera torniamo, non abbiamo ricevuto nessuna telefonata per tutto il giorno: scendiamo a valle accompagnati da un senso di inutilità, scandisco ogni tornante con ripetuti colpi di tosse.

Per una sera anche una piccola stanza d’albergo ha il sapore di casa. Il giorno 20 torno a Roma, e arrivo in ospedale giusto in tempo: sta nascendo il mio primo nipote, che ha avuto la pazienza di aspettare e sapermi presente nei dintorni prima di affacciarsi al mondo. Quand’è che succede? Non lo ricordo con precisione, e per una volta non posso indicare il giorno preciso, ma è a cavallo tra gennaio e febbraio. Siamo alle telecamere, come sempre, in una serata di routine: Giuseppe è andato a trovare Angelo Provenzano a casa, si trattiene all’interno pochi minuti poi esce.

In mano ha un sacchetto da supermercato abbastanza grande, con i manici legati a fiocco. Passa davanti ai contenitori della spazzatura, raggiunge la sua macchina parcheggiata poco più avanti, apre il cofano e ripone il sacchetto all’interno, mette in moto e va via.

È qui che succede, qui qualcuno si pone la domanda: perché non ha gettato il sacchetto nella spazzatura quando è passato davanti al contenitore? In qualsiasi indagine le microspie registrano conversazioni, le telecamere riprendono e documentano tutto ciò che accade, i server memorizzano ogni suono e ogni immagine, ma non servono a niente fino a quando un umano non si pone una domanda, anzi la domanda. Accade tutto in fretta: riprendiamo in mano le registrazioni precedenti e vediamo che anche altre volte Giuseppe, quando ha un sacchetto con sé, lo mette in macchina, e sempre nel cofano.

Perché? Dove va? Recuperiamo le localizzazioni del Gps, che ci dicono che va a casa. Cerchiamo analogie: cosa fa il giorno successivo a quando esce dalla casa di Provenzano con i sacchetti? Non emergono coincidenze, né comportamenti ripetuti. Beh, se porta i sacchetti a casa magari restano a casa, e la traccia che ci serve è lì che la dobbiamo cercare.

Serve un posto idoneo, lo troviamo in un edificio in costruzione che guarda la casa dei Lo Bue: ma è lontano, ci vuole una telecamera buona, che costa di più. La Procura ci autorizza, la installiamo. Aspettiamo. Siamo fortunati: già al primo sacchetto vediamo Giuseppe arrivare e infilare l’auto nel box che si apre sulla strada; prende il sacchetto, apre il baule della macchina del padre accanto alla sua e lo ripone all’interno.

La cosa si ripete nelle settimane seguenti, ma le telecamere non ci possono dare altro. Bisogna rischiare qualcosa in più: è il turno del poliziotto cacciatore. La sera del 17 marzo da casa Provenzano esce un sacchetto che viene messo da Giuseppe Lo Bue nell’auto del padre.

Dalla prima mattina del 18 noi abbiamo due auto a Corleone; nel pomeriggio Calogero esce in macchina, gira un po’ in paese, poi incontra per pochissimi secondi un uomo che viaggia a bordo di un’altra vettura; riusciamo a prendere la targa: è di Bernardo Riina; i due si dirigono fuori paese con le rispettive automobili, ma è impossibile seguirli senza farsi scoprire.

Abbiamo, netta, l’impressione di essere vicini, anzi vicinissimi. I nostri sospetti sono confermati da quello che ascoltiamo al telefono: quando Bernardo Riina e Calogero Lo Bue si devono incontrare, gli accordi vengono presi dai rispettivi figli, come se si trattasse di un incontro tra i due ragazzi, e invece a incontrarsi sono i genitori. Pensiamo tutti che Bernardo Riina sia l’ultimo tramite, preparo una richiesta per intercettare i telefoni della famiglia; Renato Cortese la porta in procura, ma me la riporta indietro. – Tienila in sospeso – dice. – Pignatone e Prestipino non la vogliono fare, quest’intercettazione. Almeno per ora – aggiunge. Stento a crederlo, ma Cortese, paziente, mi spiega. – Troppe volte siamo stati vicini a prenderlo, e troppe volte, quando eravamo vicini come ora, è successo qualcosa. Dopo tutto dei telefoni di Riina non abbiamo bisogno, se è davvero lui l’ultimo anello… L’intercettazione di un telefono è una faccenda riservata, sulla carta, ma in pratica lo viene a sapere un sacco di gente, oltre a noi che ascoltiamo e ai magistrati che la dispongono o la autorizzano. Lo sanno all’ufficio intercettazioni, lo sa la Telecom, lo sanno tutti i gestori delle compagnie telefoniche, lo sa la società che fornisce i server, il software e l’hardware che ci consentono di ascoltare, registrare e riascoltare.

È vero che conoscono solo il numero di utenza e non l’intestatario, però… Per un momento mi sembra un eccesso di prudenza e di diffidenza, ma mi viene subito in mente Falcone, quando nel 1989, nel teatro dell’Istituto Superiore di Polizia ci invitava a non parlare neanche per radio. E aveva ragione lui, allora, come adesso hanno ragione i magistrati che vogliono andare avanti con decisione, sì, ma anche con la massima cautela.

Chi si guardò, si salvò, si dice, e in effetti per rimanere latitante 43 anni magari non basta solo la furbizia da viddano. Chiudiamo Corleone in un cerchio di telecamere, vediamo verso quale trazzera si dirige Bernardo Riina quando esce dal paese dopo essersi incontrato con Lo Bue, mettiamo un’ulteriore telecamera che guarda tutta la zona dall’alto. Qualche giorno e sappiamo dove va: nella masseria di Giovanni Marino, in Contrada Montagna dei Cavalli.

Dal libro “Io, Sbirro a Palermo”, di Maurizio Ortolan


 

 

La cittadinanza onoraria di Palermo all’ex questore Renato Cortese. I commercianti del Cassaro organizzano una festa

di Salvo Palazzolo
La cerimonia si terrà martedì. Il ritorno in città dell’investigatore che ha segnato un pezzo importante della storia dell’antimafia dopo le stragi del 1992
Quando partì, due anni fa, scrisse una lettera dai toni appassionati. “Ciao Palermo… con il cuore spezzato vado via da una città che mi ha accolto con affetto, che mi ha visto crescere ed invecchiare, che mi ha visto soffrire e gioire e che con me ha sofferto e gioito”. L’avevano appena condannato per il caso Shalabayeva, ma era solo la sentenza di primo grado di un processo alquanto controverso. Renato Cortese è stato poi assolto in appello, il 9 giugno scorso. E, adesso, torna per un giorno a Palermo: martedì, il sindaco Roberto Lagalla gli conferirà la cittadinanza onoraria. Poi, dopo la cerimonia, ci sarà una festa davanti alla Cattedrale, voluta dall’associazione “Cassaro Alto”. Dice uno degli organizzatori: “Un piccolo gesto per dire grazie a un uomo che ha reso più libera questa città”. Così scriveva ancora Renato Cortese nella sua lettera di saluto alla città: “Ho visto una Palermo distrutta, schiacciata e disorientata dalla ferocia e dalla barbarie della mafia, e ho lottato con lei e per lei…Sono stati anni duri, difficili, costellati di morti, ma ognuno di essi è stato un seme… Il seme della coscienza civile, del riscatto, della legalità, della giustizia… E oggi vedo una Palermo sempre straordinariamente bella, affascinante e testarda, che si è ripresa quello che credevano di poterle strappare: il futuro”. Arrivò a Palermo nell’estate del 1992, dieci giorni dopo la strage Borsellino: il suo primo incarico dopo aver vinto il concorso in polizia fu all’ufficio Volanti della questura. Qualche anno dopo, iniziò ad occuparsi di indagini antimafia e della cattura dei latitanti. Nel 1996, Renato Cortese faceva parte della squadra che arrestò Giovanni Brusca, il boss che aveva azionato il telecomando della strage di Capaci. “Quella sera del 20 maggio, ero nella sala intercettazioni della Mobile – raccontò in un’intervista a Repubblica – da lì seguivo i miei uomini ad Agrigento. Un ispettore ebbe l’idea di fare passare una moto smarmittata proprio mentre Brusca era al telefono. In questo modo, individuammo il suo covo. Quando facemmo irruzione, stava vedendo un film su Giovanni Falcone”.
Dopo Brusca, arrivarono le catture di altri superlatitanti: da Pietro Aglieri a Salvatore Grigoli, a Gaspare Spatuzza. L’11 aprile 2006, Cortese ammanettò Bernardo Provenzano dopo una latitanza che durava da 43 anni. Di sicuro, martedì, ad accompagnarlo saranno i suoi “ragazzi” del Gruppo Duomo, i poliziotti della squadra mobile che hanno segnato un pezzo di storia di Palermo. Ci saranno anche i ragazzi di alcune associazioni che operano nelle periferie di Palermo, con cui Renato Cortese questore di Palermo per tre anni e mezzo ha intessuto un dialogo e un percorso intenso. “Certo, adesso, sarebbe bello riavere il dottore Cortese a Palermo, come prefetto”, sorride il titolare del bar Marocco, alle prese con gli ultimi dettagli della festa di martedì. “Speriamo che presto gli venga riaffidato un incarico di rilievo, so che per adesso sta al ministero. Questo nostro Paese ha bisogno del suo coraggio”. La Repubblica 1.10.2022

 


Il neo questore di Palermo Cortese: “Che emozione. Un desiderio? Catturare Messina Denaro”

Vi trasmetto la mia gioia nel tornare a Palermo. Per chi è cresciuto in questi uffici, in queste strade, dopo l’esperienza professionale degli anni delle stragi, è un’emozione difficile da tradurre a parole. Considero Palermo casa mia e sono felice di potere, con la struttura di professionisti straordinari che ho intorno, di contribuire ad aumentare la percezione della sicurezza ai cittadini”. Lo ha detto il nuovo questore di Palermo, Renato Cortese, incontrando la stampa nel giorno del suo insediamento.

Cortese, che arrestò Bernardo Provenzano nel 2006, ha preso il posto di Guido Longo, diventato prefetto di Vibo Valentia. “Il mio primo pensiero quando mi hanno detto che sarei venuto qua è stato di grande emozione. Non sono favorevole ai ritorni, ma – ha aggiunto Cortese – Palermo ha un ruolo particolare nel mio percorsoprofessionale e ha sfide quotidiane. Da giovane funzionario uno ha dei sogni, tornare da questore a Palermo mi ha riempito di grande orgoglio e non finirò mai di ringraziare il capo della Polizia per l’opportunità che mi ha dato”.

Cortese l’11 aprile 2006, da capo della Squadra Catturandi, arrestò il superboss corleonese Bernardo Provenzano. E’ stato anche capo del Servizio centrale operativo della polizia.

“Il nostro desiderio è quello di porre fine alla latitanza diMessina Denaro, è un obiettivo importante. Chi sta lavorando per questo obiettivo non perde un giorno senza dedicarvi attenzione. La cattura non è di per sé la fine di un’organizzazione, perché bisogna assicurarli tutti alla giustizia, specie quelli storici come lui, ma – ha aggiunto Cortese – dovremo andare al di là del latitante e capire le dinamiche mafiose oggi. Cosa nostra non è quella di una volta, quando voleva attaccare il cuore dello Stato. Non manifesta più un carattere eversivo, ma ci sono dei segnali da parte di Cosa nostra: la mafia è una organizzazione particolare. Vi sono personaggi importanti che sono stati scarcerati, dinamiche e fenomeni che rappresentano nel loro insieme segnali che stiamo studiando complessivamente. Senza trascurare il mondo carcerario considerando che i capi storici sono tuttora detenuti”, ha aggiunto.

A chi gli chiedeva se ci fosse un rischio di riorganizzazione della mafia Cortese ha risposto così: “Cosa nostra è un’organizzazione particolare che vive di messaggi e dinamiche particolari. Vanno prese in considerazione alcune cose importanti che stiamo monitorando come alcuni personaggi di un certo calibro che sono stati scarcerati, ma al momento non abbiamo rischi concreti.Possono esserci messaggi trasversali come un’auto bruciata, ma – ha aggiunto – ci sono fenomeni che, nell’insieme, formano un’analisi di un certo livello che va fatta”.

Considero Palermo casa mia. Oggi – ha poi detto il neo questore – Palermo è cambiata rispetto agli anni in cui l’ho lasciata. L’attenzione è sempre alta, la mafia è un obiettivo importante ma non è l’unico della Polizia di stato. C’è l’ordine pubblico, l’immigrazione, il terrorismo, la sicurezza urbana. Se prendiamo il superlatitante il cittadino sarà sicuramente contento, ma vuole anche pulizia, polizia presente e attiva sul territorio, nelle strade”. Poi rivolge un accorato appello ai cittadini: “Devono sentirsi consapevoli che per noi il cittadino è importante ed è al centro dei nostri obiettivi. Chiediamo al cittadino di essere protagonista, che collabora, non solo con le denunce ma partecipe alla sicurezza che è un bene comune di tutti noi”.

“Palermo può sembrare fuori dal circuito del terrorismo, ma teniamo presente che la Sicilia e Palermo sono approdo di migliaia di migranti che non per forza sono legati al terrorismo. Ma è un fenomeno che monitoriamo”.

“Colpiscono positivamente i toni pacati e ricchi di emozione, ma determinati, del nuovo Questore di Palermo, Renato Cortese, nel presentarsi stamani agli organi di stampa”. Così a commentare la nomina a caldo è Filippo Virzì, portavoce dell’Ugl Sicilia, che aggiunge: “L’elevato profilo di Cortese, l’ottima conoscenza del territorio palermitano, e l’alta professionalità dallo stesso acquisita sul campo, costituiscono per noi tutti una garanzia e per i cittadini in particolare, che lui stesso ha più volte citato nel corso del suo intervento alla base del suo futuro operato, che ha anticipato, si baserà sulla sicurezza integrata, quindi su un rapporto sinergico fra le forze dell’ordine e il cittadino, in una città che come Palermo, ha tanto bisogno di sicurezza e stabilità”.


Palermo, il questore Renato Cortese lascia la città dopo la condanna: «Ho il cuore spezzato»

L’alto funzionario, che arrestò Bernardo Provenzano, paga la sentenza per la vicenda dell’espatrio di Alma Shalabayeva. La lettera alla città

 Se ne va dalla Sicilia «con il cuore spezzato» Renato Cortese, il questore costretto a lasciare Palermo perché non è bastata la sua storia cristallina nella lotta alla mafia, non è bastata la cattura di feroci latitanti e di padrini come Bernardo Provenzano ad evitargli una pesantissima condanna a 5 anni e quattro mesi per la vicenda dell’espatrio di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako, Mukhtar Ablyazov, assieme alla figlioletta di sei anni.
Le proteste dei funzionari La condanna in primo grado, emessa dai giudici di Perugia che hanno pure disposto l’interdizione perpetua dai pubblici uffici con l’accusa di sequestro di persona, ha costretto il capo della polizia Franco Gabrielli ad adottare una misura di opportunità. Accolta da un coro di contenute proteste a Palermo dove oggi va via questo storico ex capo della «catturandi» e arriva un nuovo questore, Leopoldo Laricchia, spostato da Brescia, livornese di nascita, già impegnato da questore di Imperia e Lecce sul fronte dell’immigrazione.
«È il momento di andare» «Ciao Palermo», scrive Cortese nel suo messaggio alla città. «È arrivato il momento di andare, di partire, di lasciarti… con il cuore spezzato vado via da una città che mi ha accolto con affetto (…) che con me ha sofferto e gioito…». C’è una grande amarezza in chi ripensa a lutti, stragi, dolore alternati ai successi ottenuti sul fronte investigativo. Da «sbirro» capace di mettere le mani su boss come Giovanni ed Enzo Brusca, Leoluca Bagarella, fino all’arresto di Provenzano nelle campagne vicino a Corleone. Ecco alcuni titoli che lo davano candidato a una grande carriera. A cominciare dalla direzione nazionale della Dia dove, invece, al generale Giuseppe Governale è appena subentrato un alto funzionario come Maurizio Vallone. Per la stessa vicenda, travolto dalla sentenza e anch’egli rimosso il capo della polizia ferroviaria Maurizio Improta.
Espulsione e rimpatrio I fatti risalgono alla notte tra il 28 e 29 maggio 2013, quando Alma Shalabayeva e la figlia furono prelevate dalla polizia nella loro abitazione di Casalpalocco. Era ricercato il marito, il dissidente kazako Muktar Ablyazov. Ma alla donna fu contestato il possesso di un passaporto falso. Due giorni dopo, l’espulsione e il rimpatrio. Scattarono polemiche seguite due mesi dopo dalle dimissioni del capo di gabinetto del ministero dell’Interno Giuseppe Procaccini. Non passò invece la mozione di sfiducia per l’allora capo del Viminale Angelino Alfano. Donna e figlia sono poi rientrate in Italia, con il riconoscimento dell’asilo politico. Ma, usciti di scena quanti possono avere dato l’input ministeriale, l’inchiesta è proseguita solo a carico di Cortese, allora capo della Squadra Mobile a Roma, e di Improta, all’epoca capo dell’ufficio immigrazione.
Tristezza e rimpianto Va via Cortese, lasciando una Palermo diversa, come ha detto a Leoluca Orlando in un incontro affettuoso, come scrive nella lettera alla città: «Oggi tutti i sacrifici, le speranze, e i comuni desideri si stanno realizzando…». Rimpianto e tristezza calano però come una coltre sull’intera questura. Lo dicono i funzionari di Palermo con la loro associazione nazionale: «Grazie signor questore Renato Cortese. I tuoi funzionari e dirigenti della polizia di Stato ti dicono grazie per avere avuto l’onore di avere lavorato assieme a te per la nostra città di Palermo, grazie per la tua professionalità, per le tue doti morali e personali…». «Ingiustizia è fatta» Ultima occasione pubblica di Cortese a Palermo la cerimonia per ricordare lo scorso 25 settembre l’agguato del 1979 al giudice Cesare Terranova e al maresciallo Lenin Mancuso. Attorno alla lapide anche Vincenzo D’Agostino, il padre di un poliziotto ucciso con la moglie, ancora in attesa di giustizia dopo 35 anni, come prova la barba che da allora non s’è più tagliata: «E ci morirò con questa barba signor questore perché vedo che l’ingiustizia continua, anche sulla sua pelle…». Commentava così la richiesta a due anni appena avanzata dal pubblico ministero, poi più che raddoppiata con una sentenza che sarà comunque appellata da un numero uno adesso «a disposizione dell’amministrazione». 21.10.2020 di Felice Cavallaro CORRIERE DELLA SERA

 


RENATO CORTESE a capo dell’ufficio ispettivo del Viminale
La nomina decisa dal Consiglio dei ministri segna un risarcimento morale dopo che la sua carriera si è interrotta per il processo sul presunto sequestro di Alma Shalabayeva da cui è stato assolto

Prima ancora che con la nomina – decisa ieri dal Consiglio dei ministri – di direttore dell’Ufficio centrale ispettivo del ministero dell’Interno, il riscatto era arrivato con il conferimento della cittadinanza onoraria di Palermo.
Per Renato Cortese, il poliziotto che aveva visto la carriera interrotta per una brutta pagina di storia giudiziaria, è stato quello il vero risarcimento morale ricevuto direttamente dalla città dove ha speso gran parte della carriera, e di cui era diventato questore, rimosso nel 2020 dopo una sentenza di condanna. Considerata da quasi tutti (a cominciare dagli stessi vertici della polizia) un po’ surreale; ma sempre di sentenza si trattava, sia pure di primo grado, e andava rispettata.
A giugno di quest’anno è arrivata il verdetto d’appello: assolto «perché il fatto non sussiste» dal presunto sequestro di persona nei confronti di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako espulsa dall’Italia nel 2013 dopo un controllo della polizia che cercava (e non trovò) il marito per eseguire un mandato di cattura internazionale. Cortese e gli altri imputati – tra cui Maurizio Improta, anche lui rimosso dal precedente incarico dopo il primo verdetto e in seguito all’assoluzione nominato questore di Trento – hanno visto così riconosciuta l’innocenza sempre reclamata in una vicenda dove la ricostruzione dei fatti era malferma e il possibile movente mai acclarato.
Ora anche l’amministrazione di competenza ha «rimesso in carreggiata» il percorso del poliziotto che non solo nel 2006 ha catturato Bernardo Provenzano, il boss mafioso dalla latitanza record durata 43 anni, ma ha dedicato gran parte della sua attività al contrasto alla criminalità organizzata. Cominciando proprio dalla Sicilia e da Palermo dove arrivò nel 1992, appena ventottenne, all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Con i capimafia tutti in libertà, in una città paralizzata dalla paura e dalla convinzione che – trucidati Falcone e Borsellino – nessuno sarebbe stato in grado di liberarla dal giogo di Cosa nostra. Cominciò dall’impiego sulle Volanti, il lavoro di Cortese, ma ben presto fu dirottato sulle caccia ai ricercati, con indagini sempre più complesse e “tecnologiche”, sfociate in arresti importanti: da Giovanni Brusca (il «boia di Capaci») a Pietro Aglieri, il «padrino» che in casa aveva allestito un piccolo altare per celebrare messa; da Gaspare Spatuzza, il «colonello» dei fratelli Graviano che da pentito riscriverà la storia delle stragi, fino – appunto – a Provenzano. Successi che hanno contribuito a sconfiggere quanto meno il mito dell’incrollabilità della mafia, e che hanno portato Cortese a dirigere la Squadra mobile di Reggio Calabria, in un periodo in cui il contrasto alla ‘ndrangheta ha ripreso vigore dopo la strage di Duisburg (2007) che aveva mostrato al mondo intero il potere raggiunto da quell’organizzazione criminale.
Da lì, seguendo una ideale «linea della palma» simile a quella evocata daLeonardo Sciascia, Cortese è sbarcato a Roma, prima dirigente della Mobile (con indagini che hanno svelato le diramazioni ‘ndranghetiste e mafiose nella capitale) e poi al vertice del Servizio centrale operativo, l’ufficio che coordina le più importanti indagini della polizia in tutta Italia.
In seguito è arrivata la nomina a questore di Palermo, che era per lui la chiusura di un cerchio. Spezzata da quell’accusa di sequestro di persona che avrebbe organizzato nel 2013 (quando guidava la Mobile di Roma), senza però che né l’inchiesta né il processo di primo grado avessero individuato i mandanti né le ragioni di un simile reato. Per il quale l’accusa, nel corso del dibattimento svolto a Perugia a causa del coinvolgimento di una giudice di pace romana (anche lei condannata in primo grado e assolta in appello) chiese una pena minima e quasi incongrua per un rapimento. Il tribunale invece andò oltre, con la condanna a cinque anni di reclusione che però non ha retto al dibattimento di appello, dove sono stati ascoltati i testimoni citati dalla difesa che in primo grado erano stati rifiutati. Adesso, dopo due anni di «limbo» e dopo che Palermo l’ha inserito ufficialmente tra i suoi “ì«cittadini onorari», la carriera di Renato Cortese ricomincia il corso. Aprendo un altro cerchio.  22 novembre 2022  Corriere della Sera


RENATO CORTESE, l’ostaggio

 

Una vita contro la mafia, intrappolata nella ragnatela di una spy story molto italiana. Renato Cortese, il superpoliziotto che arrestò Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza, è finito suo malgrado al centro dell’intrigo internazionale che ruota intorno alla figura dell’oligarca kazako Mukhtar Ablyazov. Un ricercato da catturare, fuggito all’estero con una borsa piena di miliardi di euro o un sedicente oppositore che manovra per deporre il regime nell’ex Repubblica sovietica? O, come è più probabile, entrambe le cose. Nel gorgo di una bufera politica, nella tempesta di una campagna mediatica, in una giostra di paradossi diplomatico-giudiziari, la vicenda kafkiana che ha sconvolto la vita dell’investigatore più famoso d’Italia. Fermato da un’accusa infamante a un passo dal raccogliere i frutti di una carriera in prima linea.

Venerdì 25 novembre, ore 18, presso la libreria Mondadori in via Mariano Stabile, 233, a Palermo
Enrico Bellavia, giornalista de L’Espresso, presenta “L’Ostaggio. Renato Cortese, da cacciatore a preda, storia surreale di un poliziotto”, Zolfo
Intervengono:
Giovanni Fiandaca, giurista e docente di diritto penale
Romina Marceca, giornalista di Repubblica
Tina Montinaro, presidente dell’associazione Quarto Savona 15
Coordina, Elvira Terranova, giornalista dell’Adnkronos

La lettera di saluto a Palermo del dottor Cortese


Shalabayeva, sentenza ribaltata in appello: Renato Cortese assolto

 
 
 
 

Cortese Presidente Onorario del Parlamento della Legalità. “In questo clima di impegno non accettare è impossibile”

 Inoltre ha partecipato all’incontro avvenuto all’istituto superiore “Francesco Ferrara ” di Palermo dove abbiamo attivato il Parlamento della Legalità internazionale e Multietnico. Infine ha partecipato al Convitto Nazionale Giovanni Falcone alla presentazione del libro “Peccatori si corrotti mai” scritto da me e da Salvatore Sardisco. Questo ricordo che la prefazione venne curata da Lia Sava all’epoca Procuratore Generale della Repubblica di Caltanissetta con l’introduzione di Mons. Carmelo Ferraro, Arcivescovo emerito, Arcidiocesi di Agrigento. E le conclusioni sono state affidate al Dott. Renato Cortese. Il testo che comprende anche una lettera di Papa Francesco è stato pubblicato con Edizioni Ex Libris “.Un cammino di crescita culturale, legati ai valori della legalità che crede nella condivisione con i giovani e con tutti coloro che credono nei valori della giustizia. Il Parlamento della Legalità internazionale in tutti questi anni ne ha fatto di strada.
 “Ci tengo a sottolineare, racconta il professore Mannino, che questo è un movimento culturale interconfessionale, apartitico che nasce dal forte grido di “Verità e giustizia” soprattutto dopo quanto avvenuto nelle stragi del 92′. Il punto di svolta racconta Mannino è il 18 marzo 1989 quando il giudice Borsellino venne accolto da me all’Istituto Marco Polo insieme a Antonino Caponnetto e decisi di fondare il Parlamento di cui il coordinatore del pool antimafia è stato il primo presidente onorario. E oggi siamo contenti che sia il Dott. Cortese”.
Tra le tante iniziative imminenti il fondatore e presidente ci confida: “Presto sarà inaugurata la “Panchina della pace” dinanzi la sede del Parlamento a Monreale. Abbiamo già parlato con il sindaco, estenderemo l’invito al neo Presidente onorario augurandoci che possa partecipare e vivere con noi questo ulteriore momento culturale”. SICILIAUNONEWS  13.9.2022

L’ostaggio, il poliziotto Renato Cortese nella trappola del caso Shalabayeva

Anticipiamo qui brani de “L’ostaggio” di Enrico Bellavia (Zolfo editore,), sul caso Alma Shalabayeva. Il processo ha assolto Renato Cortese , condannato in primo grado a 5 anni per sequestro di persona. Il 4 ottobre il superpoliziotto riceverà la cittadinanza onoraria di Palermo.

Si può annientare un uomo tenendolo in vita? È sufficiente rovesciargli addosso un’accusa infamante. Basta contraddire con un tratto di penna un’intera esistenza. Lasciare che lo spettro di una carriera finita, bollata con marchio di ignominia offuschi meriti e successi e agiti giorni e notti. Basta il confino in un limbo indefinito a sprecare le proprie ore. Questa è la storia di un cacciatore diventato preda. Il capro espiatorio di una ir-ragion di Stato. È la storia del miglior poliziotto italiano passato per il calvario di una condanna per sequestro di persona. Reo di un crimine aberrante: «Lesa umanità mediante deportazione». Un’enormità punita con cinque anni di carcere, tanto quanto basta a precludere il ritorno in attività. Ma è soprattutto la storia esemplare di un testacoda politico-giudiziario nel quale la gogna non è il mezzo ma il fine ultimo. La cronaca di un’impostura. La partitura di un teorema basato sul nulla. O quantomeno su nulla che sia stato dimostrato. L’ordito di una trama che restituisce un sacrificio, per giunta inutile. Questa è la storia di Renato Cortese, calabrese, classe 1964, entrato in polizia da funzionario nel 1991 e diventato dirigente generale dopo cinque lustri in prima linea. Capo della Catturandi della gloriosa Squadra mobile di Palermo, anima del gruppo Duomo che ha arrestato il superboss Bernardo Provenzano, alla guida della Mobile di Reggio Calabria e di Roma, al vertice del Servizio centrale operativo, quindi questore a Palermo. E chissà cos’altro gli avrebbe riservato il futuro: forse capo della Dia, la Direzione investigativa antimafia, trampolino di lancio, probabilmente, per l’empireo del Viminale. Curriculum invidiabile e invidiato, titoli in abbondanza per puntare legittimamente ancora in alto. Lungo un percorso, certo, più accidentato della strada. Tra quei corridoi ministeriali dove i sussurri sono più minacciosi delle urla, la moquette più infida dell’asfalto e le ragioni di opportunità più subdole di un agguato. (…) Il 21 ottobre 2020 Renato Cortese lascia Palermo «con il cuore spezzato», come scrive in una lettera aperta alla città che questo calabrese di Santa Severina sente come sua. (…) Poche ore prima, quella che era una carriera lanciata al massimo si è infranta sull’incredibile sentenza del Tribunale di Perugia che ha ritoccato al raddoppio le pur dure richieste, 2 anni e 4 mesi, dell’accusa. E invece sono cinque anni per sequestro di persona, la macchia di una presunta macchinazione risoltasi con una extraordinary rendition. Cinque anni che valgono l’interdizione dai pubblici uffici e lo spettro del carcere. (…) Casal Palocco, Roma, martedì 28 maggio 2013, ore 24. Ventisei agenti, un nucleo congiunto formato da poliziotti della Squadra mobile diretta da Renato Cortese e della Digos, diretta da Lamberto Giannini, futuro capo della polizia, entra nel parco di una villa elegante alla periferia Sud di Roma. Quartiere residenziale per l’alta borghesia, verde, abitazioni più che confortevoli, riparate oltre la cortina di muri e alberi, lascito dell’esercizio di stile della pianificazione razionalista, è oggi la naturale estensione della città che tende verso il mare e si ritrova in pineta. Lì abita Alma Shalabayeva (si pronuncia con l’accento sulla terza a: Shalabàyeva), nata in Kazakistan nel 1966. Nessuno la conosce però con il suo vero nome. Per tutti è Alma Ayan, nata in Centrafrica nello stesso anno. E così si presenta ai poliziotti, esibendo un passaporto dell’ex colonia francese, teatro delle crudeltà dell’autoproclamatosi imperatore Bokassa diventata un’incerta Repubblica, esposta ai venti cangianti delle pulsioni popolari e militari e al centro di un intenso traffico di documenti falsi. (…) La notte dell’irruzione a Casal Palocco i poliziotti però non sono interessati ad Alma Ayan e alle sue bugie. Cercano un latitante. Risponde al nome di Mukhtar Ablyazov, classe 1963. È un oligarca kazako, banchiere e sedicente oppositore del regime filorusso di Nursultan Nazarbaev, passato tempo dopo, nel 2019, nelle mani del delfino, il presidente Qasym-Jomart Tokayev, che dopo un po’ ha rotto con il suo padrino, estromettendolo nel 2022 da presidente del Consiglio di sicurezza. (…) Alma, dunque, non ha alcun titolo valido per rimanere in Italia. E poiché i kazaki dicono che è una loro cittadina, è lì che deve tornare. (…) Quando il carrello dell’aereo si stacca da terra, Renato Cortese non può sapere ancora che un pezzo della sua vita se ne va via verso un Paese del quale sapeva molto poco. Da quel momento sarà lui l’ostaggio. Incatenato a una storia surreale. Da poliziotto impavido diventerà un codardo che non ha esitato a sbarazzarsi di una povera donna e della figlia per compiacenza verso i kazaki. (…) Perugia, 9 giugno 2022, 20.17. «Assolti perché il fatto non sussiste». Il silenzio è rotto da un brusio che si fa ovazione, dall’abbraccio e dal pianto che è gioia. Scaccia dieci ore di tensione, due anni di purgatorio e nove di scartoffie e amarezze. Dissolve le ombre e libera da un peso. Il fatto non sussiste. Non c’è nulla, non c’è mai stato. E neppure questo processo d’Appello avrebbe dovuto esistere. Se non ci fosse stato quell’altro, il primo grado, nato da un’inchiesta che ha puntato sui poliziotti, sperando di dimostrare che avessero obbedito a ordini infami, rendendosi complici di un crimine odioso. E invece? Funzionari e agenti hanno agito secondo la legge, nessuna violazione, nessuna compiacenza, nessuna sudditanza a despoti stranieri. Alma Shalabayeva ha mentito sulla sua identità e esibito un passaporto falso, poi ha amministrato con sapienza e astuzia il ritorno di immagine che ne è derivato. Con un giorno al Cie è riuscita nell’intento di smacchiare la biografia ufficiale del marito. L’immagine di dissidente di Mukhtar Ablyazov è una sagoma che è servita a distrarre dalle vere ragioni che l’avevano indotto a fuggire dal Kazakistan: il tesoro portato via da un Paese, il suo, ricco di materie prime da cui discendono fortune in mano a pochi. Un malloppo ora ben al sicuro nei paradisi fiscali. Chi è stato tenuto in ostaggio in questa storia sono solo gli imputati, spinti giù nel girone dell’assurdo, lungo la rupe su cui rotolano le macerie del nostro sistema giudiziario, della politica e di certa informazione.  La giustizia, in questo caso, con la lentezza che le è propria, ha riparato all’errore, il che non cancella il danno prodotto. Anzi, lo fa risaltare. Difficilmente, politica e informazione faranno altrettanto. Confideranno sulla memoria labile di un Paese che metabolizza tutto in fretta. Invece bisogna dire e ripetere che tutto questo è accaduto davvero. E non si può dimenticare. Non si deve.


A nome della città di Palermo esprimo profonda stima e ammirazione nei confronti di Renato Cortese, al quale ho avuto il piacere di conferire la Cittadinanza onoraria.
La sua figura sarà legata per sempre alla storia della nostra terra. Renato Cortese ha dato tanto a questa città e a tutta la Sicilia, andando sempre oltre quell’antimafia di facciata fatta di slogan e intenti. Lo dimostrano gli arresti di Bernardo Provenzano e di altri latitanti di Cosa nostra, quando era a capo della sezione Catturandi e lo dimostra il suo operato nel periodo in cui è stato questore a Palermo che, oltre a mirare alla prevenzione e al contrasto alla criminalità e alla mafia, ha posto grande attenzione ai quartieri più in difficoltà, con importanti ricadute sociali e pedagogiche.
Ritengo quindi di parlare a nome di ogni cittadino di questa città, nell’esprimere profondo ringraziamento per l’inestimabile contributo ad un percorso di maturazione culturale e sociale avviato nel nostro territorio. ROBERTO LAGALLA Sindaco di Palermo 4.10.2022
 

Un Uomo Cortese


17.5.2017 – Renato Cortese, l’uomo che catturò Provenzano, questore di Palermo

Dal primo marzo cambio di questore a Palermo. Al posto di Guido Longo, promosso prefetto (andrà a Vibo Valentia), nel capoluogo siciliano arriverà Renato Cortese, 52 anni. Un nome da anni legato a doppio filo con la Sicilia: c’era lui a capo della sezione catturandi l’11 aprile 2006, quando fu catturato il superboss Bernando Provenzano.  La nomina di Cortese arriva dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’interno Marco Minniti. Una laurea in Giurisprudenza alla Sapienza di Roma e una carriera in Polizia, dove è entrato nel 1991, sempre in prima linea: prima di dirigere la squadra mobile di Reggio Calabria, Cortese e’ passato per il Servizio centrale operativo e ha guidato la sezione catturandi della Mobile di Palermo.  In Sicilia, coi suoi uomini, ha scovato ricercati del calibro di Gaspare Spatuzza, Enzo e Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Benedetto Spera e Salvatore Grigoli. Ma la preda più ambita  resta senza dubbio il padrino di cosa nostra Bernardo Provenzano, catturato a Corleone l’11 aprile 2006, dopo 43 anni di latitanza e dopo  42 giorni e notti d’appostamenti e otto anni di indagini massacranti. Nel 2012 è diventato capo della mobile di Roma, poi è stato messo a capo del Servizio Centrale della polizia. GIORNALE DI SICILIA 


28.5.2012 – Cambio alla Mobile: lascia Rizzi e arriva Cortese, il cattura latitanti

Nominato il nuovo capo della squadra Mobile: Renato Cortese prende il posto di Vittorio Rizzi che, dopo cinque anni, lascia

Cambia il comandante della squadra mobile di Roma: arriva a San vitale Renato Cortese che prende il posto di Vittorio Rizzi che lascia dopo cinque anni.

Renato Cortese approda nella capitale con un curriculum di tutto rispetto: è considerato l’esperto nella cattura dei latitanti e suo fu l’arresto di Bernardo Provenzano, allora fu il primo a entrare nel casolare di ‘Montagna dei cavalli’ nei pressi di Corleone, dove si trovava Bernardo Povenzano, latitante da 46 anni.

Oltre alla cattura del secolo che gli è valsa, insieme ad altri successi, una promozione a primo dirigente, Cortese ha scovato latitanti di primissimo piano.
A Reggio Calabria arriva il 15 giugno del 2007, due mesi prima della strage di Duisburg, in cui vengono uccise sei persone. Due anni di indagini e la mobile calabrese mette a segno un importantissimo risultato: l’arresto di Giovanni Strangio, considerato l’ideatore e uno degli autori della strage in Germania. Durissimo colpo alla ‘ndrangheta, che mette un punto alla sanguinosa faida di San Luca. Ma questi sono solo due degli innumerevoli successi che Cortese ha alle spalle. Il 6 febbraio scorso ha lasciato la guida della Squadra Mobile nella citta’ dello Stretto per un nuovo incarico allo Servizio Centrale Operativo della polizia. A Roma Cortese ritrova il procuratore Giuseppe Pignatone, con cui ha gia’ lavorato a Palermo e a Reggio. Una coppia vincente, a giudicare dai risultati, nella lotta contro la criminalita’.

“Dopo quattro anni di lavoro quotidiano in comune, posso dire che è stato per me un onore poter incontrare un uomo come Vittorio Rizzi, capo della Mobile romana. Una persona integerrima e trasparente ma, soprattutto, un investigatore straordinario”. Lo afferma il sindaco di Roma, Gianni Alemanno. “Il suo impegno per migliorare i livelli di sicurezza a Roma – aggiunge – è stato costante, giornaliero, profondo e non poteva non conseguire quei successi che sono solo il frutto di questo lavoro duro. Il mio non è un ringraziamento di routine ma l’attestazione di una stima che Rizzi si è conquistato sul campo. A lui, quindi, va il mio grazie sentito e il grazie, soprattutto, della città. Rivolgo anche i miei auguri di buon lavoro a Renato Cortese, nuovo dirigente della Mobile, insieme al quale sono certo che proseguirà il lavoro comune quotidiano” ROMA TODAY

 


 

a cura di Claudio Ramaccini – Direttore  Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF