La MAFIA

 

La MAFIA  

Complesso di organizzazioni criminali sorte in Sicilia nel 19° sec., diffuse su base territoriale, rette dalla legge dell’omertà e strutturate gerarchicamente
La mafia nacque come braccio armato della nobiltà feudale per la repressione delle rivendicazioni dei contadini. A fine Ottocento si strinsero i legami tra m. e politica, con l’ascesa di mafiosi al potere locale e l’affermarsi della prassi dello scambio di voti e favori, mentre si consolidava un rapporto di dominio-protezione della mafia sul territorio in cui operava.
Il salto di
qualità coincise con l’emigrazione meridionale negli USA agli inizi del 20° secolo.
La mafia assunse allora un ruolo importante nell’immigrazione clandestina, imponendo il proprio controllo sulla forza-lavoro e il racket sulle attività dell’area occupata, e intensificando le pratiche di scambio elettorale. Negli anni 1920 la domanda contadina di terra e le misure governative per la formazione di nuove proprietà permisero alla mafia di porsi come intermediario tra latifondisti e cooperative contadine.
Durante il fascismo C. Mori, prefetto di Palermo (1925-28), fu inviato a stroncare la m., intercettandone i tradizionali legami con la politica locale e rivendicando il monopolio statale della violenza.
Tra il 1943 e il 1945 la mafia a cui gli Alleati si erano appoggiati per preparare lo sbarco, strinse rapporti con il movimento separatista e, dopo il 1945, con esponenti dei partiti al governo, che la legittimarono come forza antisindacale, anticontadina e anticomunista. Mentre le cosche locali si radicavano nel tessuto degli enti regionali, i mafiosi rientrati dagli USA fecero della Sicilia la centrale mediterranea del narcotraffico e del traffico di armi.
La mafia del palermitano si organizzò quindi in ‘cupola’ (Cosa nostra), avviò un processo di controllo della criminalità organizzata e individuò nuovi settori di profitto (edilizia, mercati generali, appalti), configurandosi negli anni 1960 come m. ‘urbano-imprenditoriale’. Negli anni 1970-80 la mafia divenne protagonista del narcotraffico, intrecciando rapporti con organizzazioni straniere.
Nel 1979 iniziò una violenta offensiva volta a rimuovere gli ostacoli alla sua crescita con l’uccisione di uomini politici, poliziotti e magistrati, mentre si verificavano anche grandi conflitti intestini, dai quali emerse vincitore il gruppo detto dei Corleonesi. Vittime della m. sono caduti, tra gli altri, P. Mattarella nel 1980, P. La Torre e il generale C.A. Dalla Chiesa nel 1982 e il giudice R. Chinnici nel 1983. Culmine di tale guerra è stato nel 1992 l’assassinio dei giudici G. Falcone e P. Borsellino, del finanziere N. Salvo e del deputato democristiano S. Lima.
Nel frattempo, però, le rivelazioni di una serie di mafiosi ‘pentiti’ hanno consentito di compiere passi importanti nella lotta antimafia, istituendo fra l’altro un maxiprocesso a più di 400 persone nel 1986: sono stati arrestati i boss corleonesi L. Liggio, S. Riina, nel 2006 B. Provenzano, insieme a moltissimi altri capimafia, e nel 2023, dopo trent’anni di latitanza, M. Messina Denaro.

Il fenomeno mafioso

La parola m. comparve nel 1863 prima in una commedia dialettale e subito dopo in un documento della questura di Palermo.
Tra Otto e Novecento, e fino a oggi, con essa è stata indicata una fenomenologia criminale tipica della parte centro-occidentale della Sicilia, caratterizzata da profondo radicamento nella cultura locale e da connessioni con il potere politico ed economico.
Dagli imprenditori di vari settori dell’economia legale (commercio, edilizia, agricoltura) i mafiosi pretendono tangenti promettendo di ‘proteggerli’ contro la delinquenza, ossia da altri gruppi di m., e spesso per questa via diventano essi stessi imprenditori.
Altra attività è il commercio illegale (stupefacenti, armi, prodotti di contrabbando) anche su larghissima scala. In passato il fenomeno mafioso è stato considerato frutto di strutture economico-sociali particolarmente arretrate, di un universo sociale composto da poveri contadini, grandi latifondisti e grandi affittuari, i cosiddetti gabellotti, dai cui ranghi provenivano molti capimafia.
Altrettanto consolidata è l’interpretazione che chiama in causa una cultura ‘mediterranea’ lontana dai concetti moderni di Stato e legalità, incline a regolare i conflitti facendo ricorso alla legge non scritta della vendetta o faida. Secondo tale lettura, la famiglia più o meno patriarcale sarebbe il fulcro dell’organizzazione mafiosa, e la Sicilia ‘tradizionale’ esprimerebbe quest’unico modello di aggregazione sociale.
La mafia tuttavia è riuscita a impiantarsi o riprodursi anche nell’ambiente ben più progredito degli Stati Uniti, attraverso flussi migratori e traffici di scala transoceanica, e nel suo stesso luogo d’origine è sopravvissuta con grande facilità al mutamento storico-sociale intervenuto con l’avvento della modernità.

Struttura e dinamiche della mafia

La mafia ha le caratteristiche di una società segreta, o di un insieme di società segrete, sia pure collegate al complesso della cultura o della società siciliana, nelle quali si entra attraverso un rito di affiliazione e che restano stabili nel tempo in determinati territori.
Oggi tale organizzazione viene indicata come Cosa nostra ma anche in passato, quando quest’espressione non esisteva, si sapeva che la m. si articolava in gruppi locali, i quali talvolta potevano agire d’accordo tra loro, in altri casi competere e anche confliggere violentemente. Con riferimento all’intrigo che in quei luoghi si consumava, questi gruppi erano detti cosche, nasse, o anche talora partiti.
Non è peraltro vero che nell’Ottocento siciliano la famiglia fosse l’unico modello possibile di aggregazione sociale.
In quei tempi l’isola conosceva un fiorire di confraternite, società di mutuo soccorso, circoli, e nel passaggio al nuovo secolo anche una complessa struttura di partiti locali.
Queste associazioni da un lato rappresentarono modelli disponibili, e dall’altro luoghi all’interno dei quali le fazioni più o meno mafiose poterono occultarsi. Per spiegare i caratteri di segretezza e particolare compattezza riscontrabili nelle ‘fratellanze’ di m., molte fonti ottocentesche chiamarono in causa anche il modello delle logge massoniche, terreno classico degli intrighi dei gruppi dirigenti.

Guerre di mafia e guerra alla mafia

Nel passato le istituzioni oscillarono tra lunghi periodi di tolleranza e tentativi più o meno fortunati di repressione, come l’operazione condotta alla fine degli anni 1920 dal prefetto Mori.
Quanto ai movimenti antimafia, un preconcetto piuttosto diffuso vuole che prima degli anni 1970 non ne esistessero affatto. È vero invece che i movimenti contadini, in particolare nel secondo dopoguerra, si sono mobilitati contro il latifondo e appunto contro i gabellotti mafiosi; che si sono avute grandi mobilitazioni di piazza e di stampa in occasione di eventi traumatici precedenti, come gli assassini dell’ex direttore del Banco di Sicilia, E. Notarbartolo, e del poliziotto italoamericano J. Petrosino.
Troppo spesso la stampa (e talora le forze politiche e la magistratura) descrive la m. come un nemico onnipotente capace di controllare tutto e tutti.
Si tratta di una semplificazione comprensibile, alla luce della lunga durata del fenomeno e del raggio delle complicità di cui esso ha goduto e tuttora gode, ma che in questa forma estrema risulta erronea sotto il profilo fattuale, nonché controproducente sotto quello etico-politico. Infatti la tesi secondo la quale l’avversario non è stato mai contrastato può comportare l’idea che esso non sia contrastabile, inducendo nell’opinione pubblica o nelle stesse autorità sconforto e passività.
La mafia può essere efficacemente combattuta, ed è stata in particolare combattuta con buon successo sia in Italia sia negli Stati Uniti a partire dall’inizio degli anni 1980, grazie a nuove leggi, nuove istituzioni specializzate nel contrasto alla criminalità organizzata, e agli stessi drammatici conflitti interni all’universo mafioso che hanno visto molti affiliati (i pentiti) collaborare con le autorità e rivelare i segreti dell’organizzazione. TRECCANI


Mafia

Con il termine mafia si designa un particolare tipo di criminalità organizzata non soltanto siciliana, operante sia sul territorio italiano che all’estero. Attraverso l’uso di intimidazione e violenza ottiene benefici economici per sé e soprattutto il controllo del territorio in cui opera.

La mafia italiana è nata in Sicilia nel 19° secolo, come braccio armato della nobiltà feudale latifondista e poi suo sostituto e intermediario nei rapporti col ceto contadino. A metà ‘800, con l’unificazione territoriale dello Stato italiano, il governo italiano si mostra incapace di sottomettere tutti i poteri locali e a fine ‘800 la mafia stringe forti legami col ceto politico e struttura la prassi dello scambio di voti e di favori. L’emigrazione meridionale negli USA, all’inizio del ‘900, offre alla mafia una grande opportunità di espansione. Tra il 1943 e il 1945 gli americani riconoscono alla mafia il controllo del territorio per sbarcare in Sicilia. Negli anni ’60 del ‘900 la mafia, approfittando del boom economico, passa dalle campagne alla città, ampliando così il suo potere. Il vero salto di qualità avviene, però, col traffico di droga, che procura enormi profitti alle cosche. L’associazione mafiosa è definita nel nostro codice penale dall’art. 416 bis: ”…L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in maniera diretta o indiretta la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri…”.
In Italia rispondono a questa definizione numerose associazioni mafiose, tra cui le più note sono Cosa Nostra e la Stidda siciliane, la ‘Ndrangheta calabrese, la Sacra Corona Unita pugliese, la Camorra napoletana. Molte sono le associazioni mafiose analoghe, nate e operanti in altri Paesi: Cina (Triadi), Giappone (Yakuza), Russia, Albania, Cecenia, Turchia, Colombia. Tutte prevedono dei riti di iniziazione per entrare a far parte dell’organizzazione, millantando un presunto codice d’onore criminale, al cui centro starebbe la difesa dei poveri e degli indifesi contro i ricchi e i potenti. In realtà tutte iniziano estorcendo denaro alla gente comune, taglieggiando le attività legali, per poi reinvestire il denaro così accumulato in attività illegali e traffici illeciti.
L’associazione mafiosa ha come caratteristica principale la ricerca di un assoluto controllo del territorio, che la porta a volersi sostituire allo Stato di diritto nelle sue prerogative (monopolio della violenza, della legislazione e del giudizio), fino a costituirsi come controstato.
Per realizzare i suoi scopi la criminalità mafiosa, a differenza di altre forme di criminalità organizzata, tende a mescolarsi con la società civile e ad intrattenere rapporti corruttivi col mondo politico, imprenditoriale, finanziario. La mafia si comporta come un potere politico totalitario, che persegue ricchezza, potere, impunità.
L’associazione mafiosa ha una struttura interna di tipo gerarchico; mantiene la segretezza sui rapporti interni all’associazione; ha una programmazione permanente delle azioni delittuose; si avvale dell’intimidazione, della corruzione e della violenza per mantenere il controllo del territorio; reinveste gli utili tratti dalla sua attività; ha un rapporto stabile con uno o più studi legali che lavorano esclusivamente per il gruppo criminale e sono in grado di difenderne costantemente gli associati
Le attività che caratterizzano le organizzazioni mafiose (principalmente armi, droga, traffico di capitali e di esseri umani, scommesse e gioco d’azzardo, usura, intermediazione commerciale soprattutto in campo agricolo, smaltimento di rifiuti) le portano ad allargare costantemente la loro sfera d’azione, ben oltre i confini nazionali. Il fatturato complessivo annuo delle attività mafiose è stimato in 130 miliardi di euro.

Antimafia

La società civile inquinata dalla mafia perde a poco a poco i propri diritti fondamentali: il diritto di voto, il diritto alla proprietà, alla libertà, alla democrazia. Ciò che non si ottiene con l’intimidazione e la corruzione si ottiene con la violenza. La mafia ha ucciso politici, magistrati, poliziotti, giornalisti, negozianti, braccianti agricoli, sindacalisti, sacerdoti.
Il Parlamento italiano istituisce per la prima volta nel 1962 una Commissione parlamentare antimafia, composta da 25 deputati e 25 senatori, per monitorare lo status dei rapporti tra mafia e società civile e l’adeguatezza delle misure di contrasto. La Commissione verrà rinnovata ad ogni legislatura. Dal 1991 un’analoga Commissione d’inchiesta e di vigilanza viene istituita in Sicilia dall’Assemblea regionale siciliana, composta da 15 deputati regionali e rinnovata ad ogni legislatura. I poteri di queste commissioni sono simili a quelli della magistratura. Vista la diffusione a livello nazionale del fenomeno mafioso, anche altre regioni italiane si sono dotate di strutture analoghe.
La magistratura si organizza inizialmente attraverso pool di magistrati dedicati al fenomeno. Il primo pool è ideato da Rocco Chinnici e portato avanti da Antonino Caponnetto. Nel 1984 era composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Chinnici, Falcone e Borsellino pagheranno con la vita il loro impegno: il primo nel 1983 e gli altri nel 1992. Grazie a questo primo pool si potè celebrare a Palermo il primo maxiprocesso ai criminali appartenenti a Cosa Nostra (1986 – 1992). Oltre ai pool viene istituita una Procura nazionale antimafia e una Direzione nazionale antimafia come coordinamento delle procure.
Molto vivace appare la società civile, che con le sue associazioni sostiene l’operato della magistratura e l’azione di contrasto alla mafia dei singoli cittadini. A partire dai movimenti di studenti e insegnanti, animati dal professor Nando Benigno, alle organizzazioni antiracket, nate sull’onda dell’emozione per l’uccisione, nel 1991, dell’imprenditore Libero Grassi. Perché la mafia, per quanti affari illeciti porti avanti, non abbandona mai l’estorsione, il pizzo, primo mattone dell’edificio mafioso.
In seguito all’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, inviato come prefetto a Palermo per il contrasto alla mafia e ucciso lì insieme alla moglie nel 1982, il figlio Nando decide di dedicare la propria attività intellettuale e lavorativa all’impegno antimafia. Fonda la prima cattedra universitaria dedicata al contrasto alla criminalità organizzata, con tre corsi: “Sociologia della criminalità organizzata”, “Sociologia e metodi dell’educazione alla legalità”, “Organizzazioni criminali globali”. Dal 2004 fonda la casa editrice Melampo, per sostenere le attività antimafia.
Libera, l’associazione che raccoglie le associazioni contro la mafia, presieduta da don Luigi Ciotti, ha proclamato il 21 marzo, primo giorno di primavera, “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafie”. E dal 1996, ogni anno, il 21 marzo, viene data lettura pubblica di un lungo elenco, che è oggi di quasi mille vittime.
Nelle società inquinate dal potere mafioso non ci sono più cittadini, ma sudditi. Quel che si perde è il diritto di avere diritti. Combattere le infiltrazioni mafiose non è soltanto una battaglia per la legalità, ma per i diritti fondamentali. Il comportamento totalitario del potere mafioso, che nega i diritti fondamentali dell’individuo e sgretola la società civile nei suoi meccanismi di convivenza, ha portato ad equiparare la resistenza allo strapotere mafioso all’opposizione dei Giusti nei contesti totalitari.
Coloro che vivono quotidianamente la pressione del potere mafioso e vi si oppongono meritano a pieno titolo il nome di Giusti. La presenza di Giardini dedicati ai Giusti per mafia dimostra che nel sentire collettivo questi valori sono stati largamente recepiti.  – Garivo.net


La mafia come fenomeno organizzativo

1 Tradizionalmente la criminalità organizzata di tipo mafioso è stata oggetto di studio da parte di diverse discipline: sociologia, politica, storia, antropologia, economia, criminologia, diritto. Scarsa attenzione è stata dedicata, fino ad oggi, da queste discipline ed approcci agli aspetti più propriamente organizzativi del fenomeno criminale; ed anche la sociologia dell’organizzazione e le altre discipline organizzative, non hanno dedicato sufficiente attenzione a questo fenomeno. In questo articolo si sostiene che:

  • la mafia è un fenomeno criminale che ha anche una natura organizzativa. Va considerata quindi come una vera e propria organizzazione formale articolata in modi diversi con fenomenologie organizzative differenti a seconda delle varie tipologie criminali. La molteplicità delle azioni e comportamenti criminali può avere senso solo se collocata in un’opportuna cornice di senso coerente con la natura del fenomeno indagato;

  • la natura organizzativa dell’organizzazione criminale contribuisce a determinare le azioni e i comportamenti criminali. Conoscere le diverse fenomenologie organizzative quindi contribuisce a spiegare i differenti comportamenti criminali.

2 Attraverso l’analisi delle ricerche, inchieste e studi sul fenomeno si delineerà un profilo di due delle più importanti associazioni criminali: cosa nostra e la camorra. Successivamente si tenterà di spiegarne le differenti strategie e comportamenti alla luce dei differenti modelli organizzativi. Fine non secondario di questo articolo è quello di introdurre un punto di vista e di analisi che possa generare riflessioni, nuove ricerche e studi sulla criminalità organizzata con prospettive ed approcci di tipo organizzativo. Consideriamo quindi la mafia come «organizzazione formale», autonoma rispetto ai suoi singoli componenti, che tende ad assumere i connotati di una istituzione con un proprio ordinamento normativo, con propri valori e ideologie che forgiano i comportamenti dei militanti e non solo quindi un particolare tipo di comportamento criminale più o meno diffuso. Non sarà qui approfondito, il fondamentale rapporto di reciprocità tra sistema organizzativo (cosa nostra e camorra) e sistema sociale, attentamente studiato dall’analisi istituzionale. Secondo questa prospettiva tutte le organizzazioni (e quindi anche quelle criminali) sono soggette a pressioni istituzionali e tendono ad incorporare gli elementi istituzionali presenti nell’ambiente sociale in cui operano. Allo stesso tempo esse sono delle istituzioni e agenti di istituzionalizzazione (Selznick, 1957; Zucker, 1977; Scott, 1987). Le organizzazioni criminali sono quindi embedded (Granovetter, 1985) in contesti istituzionali (insieme di regole, principi, criteri di legittimità) che ne definiscono le modalità di funzionamento. Secondo questa prospettiva inoltre si potrebbe sostenere che le differenze organizzative tra cosa nostra e la camorra sarebbero riconducibili, secondo un criterio di isomorfismo (Di Maggio e Powell, 1983), ai differenti ambienti istituzionali nei quali le organizzazioni vivono. Questa prospettiva di analisi è cruciale per una attenta e completa analisi del fenomeno, ma non sarà analizzata in questo saggio che focalizzerà l’attenzione sugli aspetti più propriamente organizzativi del fenomeno criminale. All’interno di questa prospettiva ne evidenzierà in particolare gli aspetti e le caratteristiche della struttura organizzativa, sostenendo che le differenze esistenti tra le strutture e i modelli organizzativi di cosa nostra e della camorra contribuiscono a spiegare le diversità di comportamento criminale e di strategie d’azione.

3 Nella letteratura sul fenomeno si è alluso spesso alla mafia come un determinato comportamento, individuale e/o collettivo, mafioso appunto. Una parte consistente degli studiosi ha per lungo tempo ritenuto che la mafia fosse sostanzialmente una «pratica sociale» e non un’organizzazione segreta: «esiste il mafioso non la mafia» (Lestingi, 1880). Lo storico Pasquale Villari affermava che «questa mafia non ha statuti scritti, non è una società segreta» (1878); ed ancora Nicolò Turisi Colonna sosteneva «l’esistenza della setta che dà e riceve protezione e che dà e riceve soccorso e che poco o nulla teme la forza pubblica» (1854). Tra gli studiosi più autorevoli, sostenitori dell’ipotesi comportamentistica del fenomeno, ricordiamo Henner Hess (1970) che con un suo saggio dette un importante contributo al sostegno di questa tesi. Anche Arlacchi (1983) se ne è fatto sostenitore, negando quindi in un primo momento il carattere organizzativo ed unitario del fenomeno. In alternativa a questa tesi si sono posti di recente alcuni studiosi (Lupo, 1993) che invece evidenziano gli aspetti organizzativi del fenomeno, sostenendo che esistono forme di coordinamento tra le famiglie e di governo delle attività; che esistono delle norme condivise che ne regolano il funzionamento; che esistono particolari meccanismi premianti, che l’organizzazione ha dei confini che la distinguono da altre forme di criminalità ed organizzazioni criminali, etc.

4 Si  è posta quindi l’esigenza di distinguere il fenomeno organizzativo dal contesto-ambiente nel quale vive e si riproduce.

5 Va  precisato che se è necessario distinguere, è altrettanto necessario non isolare il fenomeno dal contesto sociale di riferimento e che dà senso ed identità all’organizzazione stessa. Anche alcuni criminologi hanno posto la necessità di una prospettiva di tipo organizzativo (seppur ancora in nuce) nell’analizzare la criminalità organizzata: «se si vuole realmente capire la criminalità organizzata bisogna evitare la distorsione percettiva causata dagli aspetti folkloristici e formali, legati ad una concezione mitica e superficiale del fenomeno mafioso, per andare viceversa alle radici ed alla sostanza dell’associazione organizzata vera e propria» (Ferracuti e Bruno, 1988).

6 A  sostegno di questa tesi, Lamberti a proposito della camorra, afferma che «la prima operazione da compiere è, probabilmente, quella di sgombrare il campo dagli equivoci che comporta l’utilizzazione del termine camorra per indicare un fenomeno – quello della criminalità organizzata – che non ha alcuna somiglianza né sul piano della struttura organizzativa, né su quello della legittimazione sociale, con l’organizzazione malavitosa che, da quasi un secolo, sopravvive solo nella letteratura d’appendice. L’assunzione della radicale diversità del fenomeno criminalità organizzata rispetto alla camorra ha la funzione di recidere alla base la stessa possibilità di far riferimento a presunte matrici storiche e culturali del fenomeno; e di ricondurlo, tutto intero, all’interno della dinamica sociale originata da un recente sviluppo contraddittorio e distorto» (Lamberti, 1983). Sempre evidenziando gli aspetti organizzativi, Zincani (1989) sostiene che l’organizzazione criminale si pone come una istituzione, con un proprio ordinamento giuridico. L’organizzazione si dota di proprie leggi, codici di comportamento, ruoli e gerarchie. L’organizzazione diventa quindi un soggetto autonomo dai propri appartenenti. Di recente un criminologo come Ruggiero ha sottolineato come le teorie dell’organizzazione nell’analisi del crimine organizzato abbiano permesso di elaborare diversi temi di analisi. Riprendendo le definizioni di Burns (1963), Ruggiero sostiene che «le imprese criminali possono essere definite come aziende organismiche, in quanto devono costantemente adattarsi a condizioni di cambiamento e rispondere a problemi, con i quali hanno poca familiarità, che non finiscono di emergere» (Ruggiero, 1996). Inoltre Ruggiero, riprendendo alcune conclusioni di studiosi (Sales, 1992; Marino, 1993; et al.) afferma che il crimine organizzato richiede una cooperazione di tipo fordista tra chi ne fa parte, dove programmazione ed esecuzione sono rigidamente separate. Ad una visione comportamentistica si sostituisce quindi negli ultimi anni una prospettiva organizzativa; tra una visione frammentata della criminalità organizzata (in particolare per cosa nostra) ed una unitaria rigidamente gerarchizzata, si preferisce una posizione intermedia, in base alla quale l’autonomia delle famiglie e dei clan ed il coordinamento tra questi si strutturano all’interno di una complessa rete di rapporti e strutture territoriali.

7  Normalmente il termine mafia è usato per denotare indistintamente le organizzazioni criminali di una certa rilevanza. In particolare: «cosa nostra» diffusa in Sicilia; la «camorra» che ha i suoi natali e il suo epicentro di azione in Campania; la «‘ndrangheta» che opera in Calabria; e infine la «sacra corona unita» in Puglia: tutte queste «organizzazioni possono essere definite in generale come mafiose o di tipo mafioso, in quanto operano secondo metodi che sono tipici della mafia: violenza e intimidazione, attraverso cui producono tra la popolazione una condizione generale di omertà» (Falcone, 1991). A parte questi elementi comuni le quattro organizzazioni presentano modelli organizzativi diversi, strategie di azione differenti e comportamenti criminali solo in parte comuni. Tutte e tre però sono un:

sistema di organizzazioni criminali segrete volte al controllo e governo del territorio ed all’accumulazione di risorse economiche, i cui beneficiari sono i membri stessi dell’organizzazione e che operano attraverso mercati (nazionali ed internazionali) di varia natura: criminali, illegali, legali.

  • 1 Max Weber, Economia e Società, 1922, Vol 1 (paragrafo su Gruppo Politico e Gruppo ierocratico).

8 Le  organizzazioni mafiose sono anche organizzazioni politiche in senso weberiano1 in quanto hanno un proprio ordinamento articolato; un territorio di riferimento; utilizzano la coercizione fisica con un apparato amministrativo per far rispettare le norme.

9 Delineamo di seguito le principali caratteristiche organizzative delle due organizzazioni criminali più importanti: la camorra e cosa nostra. Bisogna precisare che queste organizzazioni nella loro attuale fenomenologia, sono frutto più della storia recente che di quella passata.

10 Si presenta come una popolazione di organizzazioni (clan) criminali in competizione/conflitto tra loro per il potere-governo del territorio ed il controllo delle attività economiche presenti. Non esiste un unico organismo sovraordinato (famiglia o aggregato di famiglie) in grado di governare l’intero sistema criminale. Questa configurazione organizzativa, che possiamo definire pulviscolare-conflittuale, è determinata dal fatto che il potere è frantumato e le diverse organizzazioni criminali sono in lotta fra loro. Gli unici tentativi di organizzare la camorra con modalità gerarchiche e verticistiche si sono realizzati nella seconda metà degli anni settanta con la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, poi con la Nuova Famiglia (Bardellino, Nuvoletta, Alfieri) ed infine con la Nuova mafia campana tentata da Alfieri nel 1992. Tutti tentativi tragicamente naufragati: la camorra non ha saputo dotarsi di livelli sovraordinati di coordinamento e governo e sembra strutturalmente incapace di dirimere i conflitti e di passare da logiche di competizione-conflitto a logiche di integrazione e cooperazione. Il fenomeno più significativo dell’evoluzione della camorra è la moltiplicazione dei clan e delle famiglie (Lamberti, 1994). La camorra presenta a differenza di cosa nostra confini più labili e maggiore interpenetrazione con la società. Come evidenzia il grafico seguente, all’interno dell’organizzazione camorristica sono possibili alleanze tra clan, patti di non belligeranza, coesistenza all’interno di uno stesso territorio di clan diversi, segmentando il territorio per attività e settore economico. Ma, come detto, è assente un livello di coordinamento superiore.

11 L’equilibrio naturalmente è precario in quanto le leadership dei diversi clan possono entrare in conflitto per motivi di dominio e di potere. La sua storia criminale è stata caratterizzata da un «andamento carsico» (Sales, 1988): «sembra scomparire nei periodi di forte repressione, per riapparire, più forte e determinata nelle fasi di debolezza delle istituzioni e di crisi economica. La visibilità dell’organizzazione sembra essere un indicatore negativo dello stato di sviluppo di un sistema sociale». Ogni clan (holding criminale) possiede una propria articolazione organizzativa che è in funzione di molteplici fattori come le attività illegali controllate, il radicamento sociale, la presenza nell’economia, ecc. (Lamberti, 1994). Questo impedisce di pensare alla camorra come dotata di un unico modello organizzativo, unitario, che si riproduce nel tempo in modo eguale. Secondo Lamberti l’organizzazione dei clan della camorra negli ultimi anni è profondamente mutata, passando «dalle famiglie alle holding di imprese produttive che riuniscono in un unico cartello società finanziarie, società immobiliari, società e cooperative per il movimento terra, imprese edilizie, imprese per la fornitura di calcestruzzo, imprese per la fornitura di laterizi… Si formano così gruppi imprenditoriali capaci di condizionare fortemente il mercato e di attirare anche imprese non camorriste» (Lamberti, 1994).

  • 2 Gli affiliati devono essere nati in Sicilia, non possono simpatizzare per formazioni di sinistra

12 Bisogna distinguere la mafia da Cosa nostra. Questa è un’organizzazione formale e occulta di mafiosi, con proprie regole, procedure di selezione, strategie, ecc. Esistono altri clan criminali non affiliati a cosa nostra, ed in concorrenza con questa, denominate «stidde» (le stelle) e gli «stiddari», i partecipanti di queste organizzazioni criminali, sono in parte ex uomini d’onore. I clan appartenenti a cosa nostra si distinguono dagli altri clan mafiosi per diversi elementi. La selezione dei propri affiliati è rigorosa2 a differenza dei meccanismi di selezione e reclutamento della camorra (in particolare quella cutoliana), caratterizzata da livelli di «tolleranza» e di apertura sociale molto ampi. Le analisi e le riflessioni di tipo organizzativo sulla mafia sono piuttosto rare e imprecise. Solo dopo le dichiarazioni di Buscetta e la ricostruzione operata da Falcone e dal pool antimafia si è arrivati ad una prima descrizione della struttura organizzativa di cosa nostra. Da tali analisi si evidenzia il cambiamento di modello organizzativo di riferimento: da un modello policentrico, senza vertice gerarchico sovraordinato, ad una struttura unitaria e verticistica in grado di regolare un sistema mutevole di alleanze e di conflitti e di elaborare strategie unitarie d’azione.

13 Sin dalle origini l’ossatura di cosa nostra non era costituita da organi centrali di governo e coordinamento; a tal proposito Gaetano Mosca affermava che non esiste «un’organizzazione qualsiasi che riunisca in un solo fascio e disciplini tutte le forze della mafia» (Mosca, 1949, cit. in Catanzaro, 1993). Fino al 1975 circa, cosa nostra si presenta come un insieme di cosche mafiose senza una forte struttura sovraordinata a livello regionale. Questa assenza «di organizzazione centralizzata a livello regionale dipendeva da quella stessa carenza di comunicazioni che fa sì che i mafiosi si possano collocare sulle giunture decisive nei rapporti tra società locale e società nazionale» (Block 1974).

14 Nel 1975 la struttura organizzativa di cosa nostra diventa più articolata e complessa. Viene inoltre formalizzato anche uno statuto per mettere ordine in una situazione che appariva piuttosto caotica.

15 In virtù di queste innovazioni organizzative cosa nostra viene a configurarsi come la più pericolosa tra le organizzazioni criminali, non solo per la numerosità dei suoi membri ma perché è l’unica organizzazione ad attuare strategie di azione unitarie, se si esclude la breve parentesi cutoliana della camorra, ed è l’unica ad esser caratterizzata da un modello organizzativo riproducibile.

16 L’unitarietà dell’organizzazione non va confusa con l’unicità. Esistono diverse famiglie mafiose-clan che presidiano porzioni di territorio. Queste famiglie sono organizzate secondo un modello piramidale, gerarchico con una elevata verticalizzazione e suddivisione dei poteri (dal picciotto al capofamiglia). Esiste cioè un vertice all’interno della famiglia costituito dal rappresentante che è il capo della famiglia e la rappresenta verso cosa nostra. Al di sotto di lui vi sono i capidecina e infine gli uomini d’onore che variano complessivamente da un minimo di 50 a un massimo di 300. Ogni rappresentante di una famiglia partecipa all’elezione di un «capo provincia» che a sua volta è un componente della «commissione regionale», organo supremo dell’organizzazione. Il modello proposto è valido per tutte le famiglie affiliate a cosa nostra tranne per quelle della provincia di Palermo. In questo caso alcune famiglie contigue (in genere almeno tre) sono controllate da un «capo mandamento» che è anche membro della «commissione» o «cupola provinciale».

17Nell’organizzazione operano diverse tipologie di ruoli:

  • uomini d’onore: detti anche picciotti o soldati sono gli esecutivi dell’organizzazione. Il loro numero varia a seconda della grandezza delle famiglie da 50 a 300;
  • capidecina: rappresentano il livello gerarchico superiore ai picciotti. Ogni capodecina comanda da 5 a 10, 20, 30 soldati a seconda delle dimensioni della famiglia;
  • vicerappresentante: è una carica formale con basso livello di decisionalità. Può decidere in assenza del rappresentante, anche se tale situazione non si verifica quasi mai;
  • rappresentante: è il capo supremo dell’organizzazione. Viene eletto democraticamente (una testa un voto) dai picciotti in riunioni della famiglia appositamente organizzate. Per famiglie di dimensioni elevate i capidecina raccolgono le votazioni degli uomini d’onore, data l’elevata pericolosità nel riunire un centinaio di persone;
  • consigliere: collabora direttamente con il rappresentante, lo affianca nella sua attività decisionale e ha funzioni di controllo;
  • affiliati: sono coloro che non hanno ancora prestato giuramento, ma che sono stati scelti come futuri uomini d’onore. Vengono attentamente studiati, mentre compiono reati di modesta gravità (telefonate estorsive, autista di uomini d’onore, rapine, incendi, mai omicidi) per conto dell’organizzazione, da un uomo d’onore che fa da tramite e garante verso cosa nostra.

18 Dalla descrizione si evince una forte divisione del lavoro; come per il «taylorismo», le attività di programmazione e le attività di esecuzione sono realizzate da persone differenti. Il rappresentante decide, il capodecina fa eseguire e l’uomo d’onore esegue. Questa struttura fa di cosa nostra una organizzazione «unica ed unitaria».

19 I vari livelli dell’organizzazione sono:

  • la famiglia: costituisce la cellula base dell’organizzazione. Si tratta di una struttura verticistica che controlla un determinato territorio (quartiere o centro abitato);
  • il mandamento: viene così denominato ogni territorio che comprende tre (o più) famiglie confinanti. Ogni mandamento ha un capomandamento eletto dalle famiglie. A Palermo a differenza delle altre città, il capomandamento deve essere anche il rappresentante di una famiglia;
  • capo provincia: rappresenta le famiglie di una determinata provincia. È un componente della cupola;
  • la commissione provinciale di Palermo: rappresenta le famiglie dell’intera provincia di Palermo;
  • la commissione regionale: detta la regione o cupola formata da sei persone ciascuna rappresentante una provincia mafiosa della Sicilia (eccetto Messina, Siracusa e Ragusa). Quest’organismo si riunisce una volta al mese (dovrebbe) in una provincia diversa, allo scopo di mantenere la segretezza e mostrare che ogni provincia conta allo stesso modo all’interno dell’organizzazione. Di fatto i clan palermitani hanno sempre avuto un’importanza maggiore. La regione è presieduta da un segretario.

20 Alcune delle funzioni di quest’organismo sono di:

  • coordinare e controllare l’attività complessiva di cosa nostra;
  • dirimere e ricomporre i conflitti tra le famiglie;
  • fissare le norme riguardanti il reclutamento e supervisionare il reclutamento degli uomini d’onore da parte delle singole famiglie;
  • decidere l’eliminazione di persone pericolose per la vita dell’organizzazione (omicidi politici);
  • stabilire e mantenere i legami con il sistema politico nazionale e locale;
  • organizzare e dividere i principali flussi di risorse pubbliche;
  • regolare la divisione territoriale tra le singole famiglie che in Sicilia è la forma prevalente di suddivisione degli affari.

21Fino agli anni ’60 esisteva solo un livello provinciale. Come si evince dalle testimonianze dei pentiti, la nascita della cupola risale all’ultimo ventennio. Non si tratta quindi di una sola organizzazione con un unico capo, un tesoriere, e così via ma di più organizzazioni – «nodi» – sostanzialmente articolate al loro interno in modo simile e il cui coordinamento è assicurato da una specie di agenzia strategica chiamata in gergo cupola.

22 Diversi autori ritengono che il crimine organizzato non possieda un apparato centrale preciso e definito (anche se fanno riferimento a casi non italiani), ma che si tratti in realtà di un aggregazione di gruppi criminali indipendenti e debolmente coordinati (Albini, 1971), senza una gerarchia definita (Haller 1992). Sul carattere formale di cosa nostra e sul suo apparire come un’organizzazione unica, alcuni studiosi oppongono diverse riserve. La nuova struttura organizzativa di cosa nostra sarebbe: «una soluzione (con un certo grado di formalizzazione delle procedure) che serve a regolare un sistema sempre mutevole di alleanze tra le famiglie le quali costituiscono la struttura fondamentale e l’asse portante dell’intero sistema di potere economico e politico della mafia. I rapporti tra le famiglie non sono quindi assolutamente paragonabili per analogia a quelli fra uffici o articolazioni organizzative di un’azienda il cui vertice dirigenziale sarebbe costituito dalla Commissione. Al contrario hanno più analogie con quelli fra stati. Si tratta infatti di un vero e proprio sistema di sovranità concorrenti tra loro» (Catanzaro, 1988).

23 La cupola non sarebbe quindi un’organizzazione centralizzata e la mafia un’organizzazione unica, ma la commissione servirebbe, quando possibile, a dirimere i conflitti e rinsaldare le alleanze. «È dunque alle famiglie che bisogna guardare per comprendere i meccanismi elementari di funzionamento del sistema mafioso» (Catanzaro, 1993).

24 Un  altro autorevole studioso che assume posizioni piuttosto scettiche sull’esistenza di un’unitaria organizzazione mafiosa in Sicilia è Gambetta (1994), che afferma che «il carattere più radicato della mafia non consiste in un’organizzazione centralizzata. Ciò che le famiglie mafiose hanno in comune è piuttosto un patrimonio di reputazione assimilabile a un marchio di fabbrica, a una garanzia di qualità della protezione». La mafia sarebbe un’industria della protezione privata. Sostenere che l’organizzazione mafiosa graviti attorno all’offerta di protezione privata è a mio avviso una tesi che non rende conto della complessità del fenomeno criminale e soprattutto della sua attuale fenomenologia. Casomai alle origini il controllo-offerta del bene «protezione» può essere stato un fattore fondante. L’offerta di protezione è probabilmente uno degli ingredienti all’origine della diffusione del «metodo» mafioso; ma oggi dopo la «scoperta» del business della droga (negli anni ’70) e degli appalti pubblici (negli anni ’80) e della finanza nazionale ed internazionale (dagli anni ’80 in poi) le vere attività redditizie per le organizzazioni mafiose sono legate a questi grandi traffici internazionali (droga e danaro).

25 Le cause che in qualche misura hanno indotto e reso necessari i mutamenti organizzativi prima esposti, vanno rintracciate nell’espandersi dei principali mercati di riferimento, e in primo luogo la droga. Lo sviluppo di attività mafiose che trascendono dai singoli contesti locali (come invece ad es. l’estorsione o l’industria della protezione privata citata da Gambetta) pone l’esigenza di un elevato coordinamento tra gli attori in gioco per la distribuzione e commercio delle sostanze stupefacenti. Si può ipotizzare che quindi siano le opportunità dei mercati ad indirizzare e richiedere alle singole famiglie mafiose di dotarsi di forme sovraordinate di organizzazione e collegamento, più che una non spiegata solidarietà inter-familiare; come è sempre il business della droga che spinge le varie mafie mondiali a stringere alleanze transnazionali per la produzione (terzo e quarto mondo) e distribuzione-commercio (primo e secondo mondo) delle sostanze stupefacenti.

26 In sintesi, ad una visione frammentata della mafia «come composta da una miriade di piccoli gruppi indipendenti e una lettura che invece supponeva una struttura monolitica e unitaria di tutte le famiglie all’interno di un’unica organizzazione, si è affermata una visione intermedia, secondo cui autonomie delle singole famiglie e coordinamento tra esse si combinavano all’interno di una complessa rete di strutture territoriali» (Fondazione Rosselli, 1995).

  • 3 Gli unici delitti di un certo rilievo commessi dalla Camorra sono stati quattro: il giornalista de (…)

27 Le differenze organizzative tra cosa nostra e la camorra delineate nei paragrafi precedenti, comportano differenze nel perseguimento delle azioni criminali. Possiamo individuare e distinguere le attività ed azioni criminali in tre grandi gruppi. In primo luogo le attività primarie dell’organizzazione, di tipo acquisitivo (con finalità di lucro) e che sono il fine dell’organizzazione criminale odierna; le attività di regolazione, coordinamento e controllo della organizzazione; ed infine le attività di relazione dell’organizzazione con l’esterno e con le altre istituzioni ed organizzazioni. Ebbene cosa nostra e la camorra differiscono in tutte e tre le tipologie di attività, ma le diversità più significative le ritroviamo riguardo al secondo e terzo tipo di attività. La camorra ad esempio svolge attività criminali che cosa nostra non persegue come ad esempio lo sfruttamento della prostituzione, ma non sembrano esservi differenze radicali o significative dal punto di vista del perseguimento delle attività primarie. Esistono e sono invece significative le differenze d’azione relative alle attività di regolazione, coordinamento e controllo. Ad esempio l’assenza di meccanismi di coordinamento sovraordinati alle unità operative (i clan camorristici) impedisce che i conflitti possano essere negoziati e gestiti in maniera non violenta all’interno della camorra. E come conseguenza dei diversi modelli organizzativi anche le attività di relazione con l’esterno sono diverse. Innanzitutto, e questo credo è la diversità più visibile ed importante, la camorra non ha quasi mai, a differenza di cosa nostra, compiuto omicidi «politici» o comunque di alto profilo3.

28 Si sostiene che ciò non è avvenuto poiché l’organizzazione pulviscolare della camorra ostacola l’elaborazione di strategie unitarie e non consente di individuare i nemici comuni dell’intera organizzazione criminale.

29 Il principale nemico di un clan camorrista resta sempre e comunque il clan rivale.

Alcune differenze tra Cosa Nostra e la Camorra

DIMENSIONI

 

TIPO DI ORGANIZZAZIONE

   

Cosa Nostra

Camorra

Struttura Organizzativa

 

verticale-gerarchica

piatta-orizzontale

Potere

 

monocentrico

policentrico

Criteri di selez. affiliati

 

rigidi

aperti

Cupola

 

presente

assente

Conflitti interni

 

bassi

alti

Omicidi politici

 

numerosi

assenti

30 Cosa nostra invece è riuscita, in virtù del suo modello organizzativo, ad unificare gli interessi e quindi di conseguenza ad individuare all’esterno del sistema criminale il suo avversario, nello Stato, o meglio in quella parte di Stato o di società civile che non scende a patti con essa (magistrati, politici, amministratori, etc.). La struttura organizzativa della camorra è quindi di tipo «orizzontale» mentre quella di cosa nostra è «verticale». La camorra si presenta come un sistema policefalo e policentrico sotto il profilo del potere mentre cosa nostra tende ad essere più monocentrica.

  • 4 Nel 1983 si contavano 12 famiglie oltre alla Nuova camorra organizzata di Cutolo, considerata come (…)
  • 5 I dati degli omicidi sono indicativi: 62 nel 1978; 85 nel 1979; 148 nel 1980; 235 nel 1981; 265 nel (…)

31 Ciò che manca all’organizzazione camorristica è quindi un baricentro di governo unitario, un’agenzia strategica che coordini e decida strategie unitarie e soprattutto dirima i conflitti che normalmente insorgono. La caratteristica principale della camorra dell’ultimo decennio è la sua frantumazione in una moltitudine di clan4. Questo rappresenta un punto di debolezza rispetto a cosa nostra ma anche di forza. Punto di debolezza in quanto i clan sono in perenne lotta tra di loro, e questo spiega l’elevato tasso di violenza e conflitti all’interno del sistema criminale camorristico5. Punto di forza poiché riesce particolarmente difficile aggredire l’intera organizzazione, frantumata in molteplici clan; addirittura possono realizzarsi alcuni effetti non voluti nel perseguimento dell’azione repressiva. In primo luogo le forze dell’ordine sono strenuamente impegnate nel contrastare la conflittualità interna (tra clan) della camorra e non riescono a contrastare invece la penetrazione dell’organizzazione all’interno della società; in secondo luogo la sconfitta di un clan da parte delle forze dell’ordine, crea automaticamente un nuovo territorio e nuove opportunità di affari da parte dei clan contigui. La sconfitta di Cutolo costituisce un esempio illuminante di come il sistema giuridico-repressivo diventi esso stesso elemento di regolazione del sistema. Le cosche Cutoliane sconfitte dallo stato, oltre che dalla pressione dei concorrenti, hanno lasciato il posto a quelle della «nuova famiglia»: lo Stato pur avendo sconfitto intenzionalmente la camorra cutoliana non ha eliminato il fenomeno criminale, ma inintenzionalmente ha favorito il cambio di guardia. La repressione può diventare quindi un effetto di composizione (Boudon, 1992) favorendo l’innovazione e mutamento del sistema. Si è detto che l’organizzazione cosa nostra a differenza delle sue consimili (camorra e ‘ndrangheta) presenta una situazione di equilibrio interno maggiore grazie all’esistenza di una organizzazione sovraordinata quale la cupola che dirime eventuali conflitti. Ovviamente questo non vuol dire che non esistano faide all’interno di cosa nostra ma queste sono temporanee (anche se cruente: 321 morti nel 1983) e comunque conducono a nuovi equilibri. A differenza della camorra le interazioni tra le varie famiglie (nel rispetto dei reciproci spazi) tendono ad essere di tipo cooperativo, coordinate tra loro e basate sul rispetto reciproco. C’è maggior scambio di informazioni e comunicazione tra le varie famiglie, come hanno confermato le testimonianze dei pentiti. Le strategie del reticolo organizzativo criminale sono strategie di cooperazione nel caso di cosa nostra; di rottura (conflittuale) nel caso della camorra. Un indicatore di stabilità dell’organizzazione è costituito dall’età media dei capifamiglia, che nel caso dei clan di cosa nostra si aggira sui 57 anni mentre nel caso dei clan camorristici è intorno ai 35 anni. Questo indica che in Sicilia «i capi sono più vecchi perché le posizioni di potere si conquistano mediante un meccanismo di selezione più ordinato che scoraggia i più giovani a sfidare le gerarchie interne; in altre parole, le differenze nell’età dei capi sono dovute al fatto che le imprese di protezione sono meglio organizzata… la strada maestra per la promozione professionale passa quindi per vie interne, non attraverso la concorrenza diretta sul mercato» (Gambetta 1992), la selezione dei vertici avvieni quindi secondo logiche gerarchiche e non di mercato violento.

32 In,sintesi, le differenze di comportamento criminale vanno ricondotte alle specifiche forme che assume nel tempo l’organizzazione criminale. Comprendere le azioni ed i comportamenti, ed il senso ad esse connesso è possibile solo se è ben delineato il modello organizzativo che genera quelle azioni e quei comportamenti.  https://journals.openedition.org/qds/1533


Cos’è il crimine organizzato? Come e quando è nata la mafia che ancora oggi attanaglia molte zone del nostro Paese (e non solo)? Scoprilo con noi.

Capire la mafia può sembrare complesso e non sempre è facile spiegarlo. Anche gli adulti, chi ha studiato, se non hanno approfondito l’argomento potrebbero avere difficoltà nel dare una definizione precisa di cosa è la mafia. Proviamoci quindi insieme, per provare a capire questo “sistema” tutto italiano, diffusosi poi in tutto il mondo.
La mafia è un’organizzazione criminale con radici in Sicilia, Calabria e Campania sviluppata poi anche nel Nord Italia, in Europa e nel mondo. Ciò che interessa ai mafiosi è il potere economico, e cioè i soldi che riescono a ottenere grazie al traffico di armi, di uomini, di droga. I mafiosi fanno anche affari con i politici in modo da ottenere favori in cambio di voti e protezione. O ancora, la mafia può arricchirsi e diventare sempre più potere col cosiddetto “pizzo”, una sorta di “tassa” che i mafiosi chiedono ai commercianti in cambio di protezione. Chi non paga il pizzo, per esempio, può subire anche danni gravi alla propria attività.

La mafia ha un nome diverso a seconda della regione di appartenenza:

  • in Sicilia è Cosa Nostra
  • in Campania è la Camorra
  • in Puglia è la Sacra Corona Unita
  • in Calabria è la ‘Ndrangheta

Come dicevamo, la mafia prende nomi diversi a seconda della regione di appartenenza dei clan. La mafia in Italia è diffusa in tutta la nazione, ma fuori dalle regioni di appartenenza si tratta di “cellule”, di “distaccamenti” che si scontrano tra loro per contendersi il controllo dei territori. Ecco qualche informazione in più sulle mafie italiane:

  • Cosa Nostra è molto organizzata: ha dei “soldati” o “uomini d’onore” che si occupano di compiere omicidi o di chiedere il “pizzo” e dei capi che fanno parte della “cupola”, una specie di commissione che regola tutti gli affari (leggi anche: chi era Totò Riina?). Negli anni Novanta lo Stato, grazie al lavoro di magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inferse durissimi colpi alle cosche di Cosa Nostra, ridimensionandone la forza criminale.
  • La Camorra è nata in Campania e resta molto radicata, sviluppata in quella regione dove ha creato dei veri e propri “sistemi” criminali che sfruttano soprattutto la povertà delle persone nelle periferie della città più importanti come Napoli. In particolare si occupa dello spaccio della droga, del traffico d’armi e di rapine ma anche di traffico di rifiuti illeciti.
  • La ‘Ndrangheta è calabrese anche se oggi è ormai diffusa anche in Emilia Romagna, Lombardia e all’estero. Si è organizzata in ‘ndrine che sono presenti in ogni comune e sono formate da famiglie che prevedono un vero e proprio rito per entrarne a far parte. Oggi è la più ricca delle mafie soprattutto grazie al traffico di droga ma anche alla conquista del potere in alcuni comuni.
  • In Puglia, nel Salento, dove andiamo tutti in vacanza, è nata la Sacra Corona Unita. Per entrare a farne parte serve un “giuramento”

Come e quando è nata la mafia?

Ma quando e dove nasce la mafia? Sì, la mafia è nata in Italia: più precisamente, pare che già nell’Ottocento ce ne fosse traccia, perché il termine “mafiusu” era comparso in un dramma teatrale del 1863 in scena a Palermo. Cosa Nostra esisteva quindi già nel diciannovesimo secolo, si pensa agli inizi. Originariamente il fenomeno era nato come un’organizzazione di proprietari terrieri locali che aveva esteso il proprio controllo a qualsiasi ambito della società. Questi padroni, servendosi di uomini violenti e pronti a tutti, decidevano chi doveva essere eletto, chi doveva lavorare e chi, avendo mancato di rispetto doveva essere punito. Alla fine del XIX secolo molti italiani emigrarono, a causa della povertà, verso l’America e alcuni migranti “esportarono” mentalità e metodi criminali nel Nuovo Mondo. Negli Stati Uniti si svilupparono così potenti organizzazioni criminali con dei capimafia, come il conosciutissimo Al Capone.
Era italiano (campano, per l’esattezza) anche Joe Petrosino, un eroico poliziotto di New York che con una squadra speciale di agenti riuscì a combattere la mafia italoamericana e a rispedire in Italia circa 500 criminali.
In Sicilia, intanto, questi criminali si organizzarono e nel dopoguerra i gruppi mafiosi furono usati per fermare le rivolte dei contadini che chiedevano la proprietà delle terre che coltivavano.
Il primo maggio 1947, a Portella della Ginestra, vicino a un paese che si chiama Piana degli Albanesi (provincia di Palermo), avvenne la prima strage di mafia: furono uccisi giovani contadini, donne e persino bambini.

Come agisce la mafia?

Le organizzazioni di stampo mafioso non si limitano a commettere reati, ma creano un sistema, un vero mondo parallelo e alternativo alla società legale, in cui interi territori finiscono sotto il loro controllo, condizionando direttamente o indirettamente la vita della comunità. Nelle zone controllate dalla mafia, infatti, sono i clan della malavita a decidere chi lavora, chi può costruire un palazzo, chi può avviare un’impresa, chi viene protetto o chi, viceversa, va punito.
La mafia, insomma, si sostituisce allo Stato, e quindi finisce per essere appoggiata non solo dai suoi membri o dai soci in affari, ma anche da gente comune che, trovandosi in difficoltà, vede nella malavita un modo per guadagnarsi da vivere.
I principali ricavi della mafia provengono dallo spaccio di droga, dal traffico d’armi, dalla gestione degli appalti e, in certe zone, dallo smaltimento illecito di rifiuti tossici, un giro d’affari milionario con cui molte famiglie mafiose si sono arricchite risparmiando sui costi e rilasciando nell’ambiente tonnellate di rifiuti nocivi e altamente inquinanti.
La mafia indica organizzazioni criminali. È nata in Italia, probabilmente in Sicilia, per poi diffondersi a macchia d’olio in tutto il mondo.