Pio La Torre, un combattente che spaventò la mafia

 

 

AUDIO

VIDEO


PIO LA TORRE, padre del 416bis


Perché uccidono Pio La Torre? Probabilmente perché ha capito che la Sicilia sta cambiando padroni.  E’ mafia quella che spara. Ma non è solo mafia quella che fa di Palermo una sconfinata tonnara. <E’ una città dove si fa politica con la pistola>>, dice sempre agli amici Pio La Torre. E’ laboratorio criminale e terra di sperimentazione per accordi di governo da esportare a Roma, è porto franco, capitale mondiale del narcotraffico, regno di latitanti in combutta con questori e prefetti, onorevoli mafiosi e mafiosi onorevoli. Palermo è sospesa in una calma irreale, lontana dalle inquietudini e dalle tensioni che in quegli anni attraversano l’Italia. Un mondo ai confini del mondo dove, all’improvviso, l’incantesimo svanisce. C’è un nuovo patto fra il crimine delle borgate e delle stalle e quell’altro dei salotti e dei palazzi. Un patto per sacrificare qualcuno e salvare qualcun altro. E’ un’ intuizione che porta Pio La Torre verso la morte. Pio La Torre è tenace, intransigente, fiero. E’ uno che non si piega mai. E poi dentro di sé, palermitano di una poverissima borgata, nasconde un gran sapere, ha i codici per decifrare ciò che sta avvenendo. E tutta l’autorevolezza per rappresentare quella Sicilia in tumulto su, a Roma: a Botteghe Oscure, ai dirigenti del suo partito, al parlamento. Pio La Torre è pericoloso. Parla due lingue. Sa tradurre il siciliano in italiano. E’ questo il movente più probabile della sua uccisione. Il suo ritorno nell’isola -è il settembre 1981- agita, dà fastidio. Lo conoscono. Lo temono. Lo fermano a colpi di mitraglia a pochi chilometri da dov’è nato. (Da -UOMINI SOLI- di Attilio Bolzoni)


 

 Pio La Torre  (Palermo, 24 dicembre 1927 – Palermo, 30 aprile 1982) politico e sindacalista  ricordato per il suo impegno contro cosa nostra, venne assassinato per ordine di alcuni capi dell’organizzazione criminale tra cui Totò Riina e Bernardo Provenzano. Sulla base di una proposta di legge da lui presentata, venne promulgata la legge 13 settembre 1982, n. 646. Nacque a Baida, un’antica frazione di Palermo, da padre palermitano e da madre originaria di Muro Lucano (in provincia di Potenza).[1], ambedue contadini molto poveri.[2] Sin da giovane si impegnò, finendo anche in carcere per il suo spendersi a favore dei diritti dei braccianti, prima nella Confederterra, poi nella Cgil (dal 1952 come segretario provinciale di Palermo) e, infine, aderendo al Partito comunista italiano. Lì, nel 1949, conobbe Giuseppina Zacco, dopo un anno la sposò e, da questa unione, nacquero due figli: Filippo e Franco. Nel 1952 si candidò al consiglio comunale di Palermo, e venne eletto. Nel 1959 divenne segretario regionale della CGIL.[3] Nel 1960 entrò nel Comitato centrale del PCI, e nel 1962 fu eletto segretario regionale, succedendo a Emanuele Macaluso. Nel 1963 fu eletto per il PCI deputato all’Assemblea regionale siciliana e rieletto nel 1967, fino al 1971. Nel 1969 si trasferì a Roma per prendere la direzione prima della Commissione agraria e poi di quella meridionale. Messosi in luce per le sue doti politiche, Enrico Berlinguer lo fece entrare nella segreteria nazionale del partito. Nel 1972 venne eletto deputato alla Camera nel collegio Sicilia occidentale, e subito in Parlamento si occupò di agricoltura.[4] Rieletto alla Camera nel 1976, fu componente della Commissione Parlamentare Antimafia fino alla conclusione dei suoi lavori nel 1976; nello stesso anno fu tra i redattori della relazione di minoranza della Commissione antimafia, che accusava duramente Giovanni Gioia, Vito Ciancimino, Salvo Lima e altri uomini politici di avere rapporti con cosa nostra.[5] Eletto nuovamente alla Camera nel 1979, fu componente della commissione Difesa. Nel 1981 chiese ai vertici del PCI di riassumere la carica di segretario regionale del partito in Sicilia. Svolse la sua maggiore battaglia contro la costruzione della base missilistica NATO a Comiso che, secondo La Torre, rappresentava una minaccia per la pace nel Mar Mediterraneo e per la stessa Sicilia; per questo raccolse un milione di firme in calce ad una petizione al governo italiano, ma le sue iniziative erano rivolte anche alla lotta contro la speculazione edilizia. Nel 1980 propose una legge che introduceva il reato di associazione di tipo mafioso.

L’agguato e la morte  Alle 9:20 del 30 aprile 1982, con una Fiat 131 guidata da Rosario Di Salvo, Pio La Torre stava raggiungendo la sede del partito.[2] Quando la macchina si trovava in una strada stretta, una moto di grossa cilindrata obbligò Di Salvo, che guidava, ad uno stop, immediatamente seguito da raffiche di proiettili.[2] Da un’auto scesero altri killer a completare il duplice omicidio.[2] Pio La Torre morì all’istante mentre Di Salvo ebbe il tempo per estrarre una pistola e sparare alcuni colpi, prima di soccombere.[2] associazione mafiosa” e la confisca dei patrimoni mafiosi.[6][7][8] Per il suo assassinio furono condannati all’ergastolo come esecutori dei due omicidi Giuseppe Lucchese, Nino Madonia, Salvatore Cucuzza e Giuseppe Greco. Dopo nove anni di indagini, nel 1995 vennero condannati all’ergastolo i mandanti dell’omicidio La Torre: i boss Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo

 

 

 

 

 


Duecento giorni a Palermo“, contenuta nell’album Storie d’Italia del 1993.

  • Il 10 maggio 2008, a Torino, è stato presentato il libro Pio La Torre – Una Storia Italiana di Giuseppe Bascietto e Claudio Camarca, con la prefazione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Si tratta della prima biografia del politico autorizzata dalla famiglia La Torre.
  • Nel 2012, per Edizioni Flaccovio, esce il volume Pio La Torre di Vito Lo Monaco e Vincenzo Vasile. Dello stesso anno anche il libro Chi ha ucciso Pio La Torre? di Paolo Mondani e Armando Sorrentino, edito da Rx e Perché è stato ucciso Pio La Torre? di Nino Caleca e Elio Sanfilippo, pubblicato da Istituto Poligrafico Europeo Casa Editrice, che nel 2013 pubblica L’antimafia dei comunisti. Pio La Torre e la relazione di minoranza, a cura di Vittorio Cocco e con una nota di Emanuele Macaluso, e nel 2016 «Ecco perché…». Bibliografia degli scritti di pio La Torre, di Francesco Tornatore. Nel 2017 esce il libro Ecco chi sei. Pio La Torre, nostro padre, scritto dai figli Filippo e Franco con Riccardo Ferrigato e con la prefazione del regista Giuseppe Tornatore.
  • Il 14 giugno 2014 gli venne intitolato, il nuovo aeroporto di Comiso, i cui lavori si conclusero l’anno precedente.[12]
  • Appare tra i personaggi del film cento giorni a PalermoLa mafia uccide solo d’estate e della fiction televisiva Il capo dei capi.
  Medaglia d’oro al merito civile
 

«Esponente politico fortemente impegnato nella lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso, promotore della coraggiosa legge che ha determinato una innovativa strategia di contrasto alla mafia, mentre era a bordo di una vettura guidata da un collaboratore, veniva proditoriamente fatto oggetto di numerosi colpi di arma da fuoco da parte di sicari mafiosi, perdendo tragicamente la vita nel vile agguato. Fulgido esempio di elevatissime virtù civiche e di rigore morale fondato sui più alti valori sociali spinti fino all’estremo sacrificio. — 30 aprile 1982 Palermo[13]

 

“La mafia non è un fenomeno di classi subalterne destinate a ricevere e non a dare la legge, e quindi escluse da ogni accordo di potere, ma è un fenomeno di classi dirigenti. L’incessante ricerca del collegamento della mafia con i pubblici poteri presuppone, inoltre, l’ipotesi e l’interpretazione che non ci sia solo nella mafia un bisogno di stabilire collegamenti con i pubblici poteri, ma anche un bisogno dei pubblici poteri a stabilire collegamenti con la mafia. Cioè, tra le due parti vi è un rapporto di reciprocità.”

(“Critica della relazione Antimafia” sui Quaderni Siciliani del 1975, scritti dell’On. Pio La Torre)

 

Note

  1. ^ Domenico Rizzo, Pio La Torre: una vita per la politica attraverso i documenti, Rubbettino, 2003, p.19
  2. ^ a b c d e f Saverio Lodato, Quel tremendo ’82, in Trent’anni di mafia, Rizzoli, 2008, pp. 81-89, ISBN 978-88-17-01136-5.
  3. ^ Unità Archiviato il 10 ottobre 2016 in Internet Archive.
  4. ^ Antonio Saltini, Intervista all’on. La Torre. PCI all’opposizione: quale politica agraria? Terra e vita, n. 30, 28 lug. 1979
  5. ^ Relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia VI LEGISLATURA (PDF). URL consultato il 26 maggio 2013 (archiviato il 28 settembre 2013).
  6. ^ DELITTI POLITICI, FU SOLO COSA NOSTRA – Repubblica.it, su . URL consultato il 27 febbraio 2013 (archiviato il 28 maggio 2017).
  7. ^ ‘ ERA CONTRO CIANCIMINO E MATTARELLA FU UCCISO’ – Repubblica.it, su . URL consultato il 26 maggio 2013 (archiviato il 6 ottobre 2014).
  8. ^ ‘MATTARELLA, REINA, LA TORRE UN’UNICA REGIA ASSASSINA’ – Repubblica.it
  9. ^ Sportello Scuola e Università della Commissione Parlamentare Antimafia, su . URL consultato il 27 febbraio 2013 (archiviato dall’url originale il 14 dicembre 2007).
  10. ^ Fondo La Torre Pio, su SIUSA Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. URL consultato il 5 dicembre 2018.
  11. ^ Il sito del Centro studi Pio La Torre, su . URL consultato il 15 giugno 2006 (archiviato il 16 giugno 2006).
  12. ^ Aeroporto di Comiso intitolato a Pio La Torre: le immagini, su . URL consultato l’8 giugno 2020 (archiviato il 14 luglio 2014).
  13. ^ La Torre On.le Pio, su . URL consultato il 22 maggio 2012 (archiviato il 19 dicembre 2013).

Bibliografia

  •  
  • Manfredi Giffone, Fabrizio Longo e Alessandro Parodi, Un fatto umano – Storia del pool anfimatia, Einaudi Stile Libero, 2011, ISBN 978-88-06-19863-3
  • Vito Lo Monaco e Vincenzo Vasile Pio La Torre, Flaccovio Editore, 2012, ISBN 978-88-7804-311-4
  • Paolo Mondani e Armando Sorrentino Chi ha ucciso Pio La Torre?, Castelvecchi Editore, 2012, ISBN 978-88-7615-642-7
  • Elio Sanfilippo e Nino Caleca, Perché è stato ucciso Pio La Torre, Istituto Poligrafico Europeo Casa Editrice, 2012, ISBN 978-88-96251-26-3
  • Vittorio Coco (a cura di), con una nota di Emanuele Macaluso, L’antimafia dei comunisti. Pio La Torre e la relazione di minoranza, Istituto Poligrafico Europeo Casa Editrice, 2013, ISBN 978-88-96251-30-0
  • Carlo Ruta (a cura di), Pio La Torre legislatore contro la mafia. Interventi e discorsi parlamentari, Scicli, Edizioni di Storia e Studi Sociali, 2014, ISBN 978-88-908548-8-0
  • Francesco Tornatore, «Ecco perché…». Bibliografia degli scritti di pio La Torre, Istituto Poligrafico Europeo Casa Editrice, 2016, ISBN 978-88-96251-58-4
  • Filippo La Torre, Franco La Torre, Riccardo Ferrigato, “Ecco chi sei. Pio La Torre, nostro padre”, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2017. Prefazione di Giuseppe Tornatore.
  • Parlamento Italiano – Archivio digitale Pio La Torre – raccoglie gli atti e i documenti relativi al procedimento penale relativo agli omicidi Reina, Mattarella, La Torre.

Voci correlate


Deputato della Repubblica Italiana
Durata mandato 25 maggio 1972 –
30 aprile 1982
Legislature VIVIIVIII
Circoscrizione Sicilia 1
Collegio Palermo
Incarichi parlamentari
  • componente della V commissione (bilancio e partecipazioni statali) dal 25 maggio 1972 al 4 luglio 1976
  • componente della commissione parlamentare per l’esercizio dei poteri di controllo sulla programmazione e sull’attuazione degli interventi ordinari e straordinari nel Mezzogiorno dal 20 maggio 1976 al 4 luglio 1976
  • componente della commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia dal 28 luglio 1972 al 23 gennaio 1973 e dal 22 febbraio 1973 al 4 luglio 1976
  • componente della V commissione (bilancio e partecipazioni statali) dal 5 luglio 1976 al 24 gennaio 1977
  • componente della XI commissione (agricoltura e foreste) dal 24 gennaio 1977 al 19 giugno 1979
  • componente della commissione parlamentare per l’esercizio dei poteri di controllo sulla programmazione e sull’attuazione degli interventi ordinari e straordinari nel Mezzogiorno dal 5 agosto 1976 al 23 marzo 1977
  • componente della VII commissione (difesa) dal 20 settembre 1979 al 30 aprile 1982
  • componente della XI commissione (agricolture e foreste) dall’11 luglio 1979 al 20 settembre 1979
 

30 aprile 1982 – OMICIDIO dell’onorevole Pio La Torre e di Rosario Di Salvo.

LA DINAMICA DEL DELITTO

 
Dall’ordinanza sentenza del 9.6.1991 n. 1165/89, paragrafo secondo “dinamica del delitto”:
“Le indagini, svolte nell’immediatezza da Polizia e Carabinieri e nel corso delle quali sono state interrogate molte decine di persone tra cui gran parte degli abitanti della zona (v. rapporto del 2.6.82, Vol. LXXXII, Fot. 620086), hanno consentito di ricostruire la dinamica del gravissimo delitto.
Si accertava, infatti, che verso le 9.30 del 30.4.1982, la FIAT 131 guidata da Rosario DI SALVO e con a bordo l’on. LA TORRE percorreva la Piazza Generale Turba in direzione del Viale Regione Siciliana.
Appena superata la porta carraia della Caserma “Andrea Sole”, l’auto veniva bloccata da una FIAT Ritmo verde, da cui scendevano due individui armati, che iniziavano a sparare contro il parlamentare e il suo autista, subito coadiuvati da altre due persone, sopraggiunte a bordo di una moto HONDA 650.
Il DI SALVO, riusciva ad esplodere a sua volta cinque colpi della rivoltella cal. 38 special di cui era in possesso, ma gli assassini, rimasti incolumi, fuggivano, abbandonando poi, nel vicino Passaggio Gino Marinuzzi, la RITMO che era stata data alle fiamme e la moto HONDA, su cui veniva rinvenuto dalla Polizia Scientifica un frammento di impronta non utile, però, per confronti.
Sia la moto HONDA sia la RITMO erano state rubate, rispettivamente, il 26 aprile e nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1982; sull’autovettura erano poi state applicate targhe contraffatte composte con i numeri delle targhe di un’altra auto RITMO 65, rubata il giorno 4 di quello stesso mese.
Tutti i furti di cui si è detto erano avvenuti nella zona di Resuttana Colli ed erano stati regolarmente denunziati dai derubati.
[…]
Infine, un ultimo elemento di valutazione a proposito della preparazione ed esecuzione del duplice omicidio, emergeva dalle dichiarazioni di P. E., che all’epoca del delitto prestava servizio in qualità di appuntato di P.S. presso la locale Criminalpol.
Il P. riferiva, con una relazione di servizio del 30 aprile 1982, trasmessa all’Autorità Giudiziaria con rapporto del 21 maggio 1983, che il giorno 22 aprile 1982 aveva notato, verso le ore 23.00, un giovane in atteggiamento di attesa all’angolo tra Corso Pisani e via Eduardo Carapelli, dove era sita l’abitazione dell’on. LA TORRE.
Il giovane, di circa 25-28 anni di età, era di carnagione chiara, aveva i capelli biondi e lisci tirati all’indietro e sembrava in compagnia di un altro giovane, fermo accanto ad una moto di grossa cilindrata all’angolo opposto della strada in una zona piuttosto buia.
Il P. aveva notato nuovamente il giovane biondo, da solo, alle ore 16.30 del 29 aprile 1982, nello stesso punto della settimana precedente, rivolto in direzione dell’interno della via Carapelli, che è una stradina privata senza sbocchi.
La Squadra Mobile ed il Nucleo Operativo CC. riferivano, poi, con il citato rapporto del 21.5.1983 (Fot. 620868, Vol. LXXXIV), che fino al dicembre 1982, data in cui aveva lasciato la Criminalpol, il P. aveva avuto l’esclusivo incarico di cercare – nei più vari luoghi della città – il giovane biondo che aveva notato in via Carapelli, ma che la ricerca non aveva avuto alcun esito.
La relazione di servizio del P. era stata presa nuovamente in esame nella primavera del 1983, a seguito delle dichiarazioni del noto “pentito” CALZETTA Stefano ed in particolare in relazione a quanto il CALZETTA aveva riferito di PRESTIFILIPPO Mario, indicato come uno dei killers più abili e spietati delle cosche mafiose palermitane, abituato ad utilizzare moto di grossa cilindrata e che il CALZETTA stesso aveva notato aver cambiato il colore biondo dei suoi capelli, due-tre giorni dopo che la stampa cittadina aveva parlato, a proposito dell’omicidio del Prefetto DALLA CHIESA, “di un giovane biondo a bordo di una moto di grossa cilindrata”.
Al P. era stato, quindi, esibito un album con 56 fotosegnaletiche di pregiudicati e indiziati mafiosi ed egli aveva riconosciuto in quella di PRESTIFILIPPO Mario, “con molta probabilità”, il volto del giovane da lui notato in via Carapelli nell’aprile 1982, con la precisazione che quest’ultimo aveva i capelli di colore biondo e di taglio diverso da quelli riprodotti sulla foto-segnaletica.
Il P. veniva quindi assunto in esame, in data 8 giugno 1983, dal Giudice Istruttore, al quale confermava sia la relazione di servizio sia il riconoscimento
fotografico in termini di notevole probabilità (“somiglia in modo particolare” : Fot. 621439, Vol. LXXXV) effettuato presso la Squadra Mobile.
Precisava che egli abitava in via Carapelli, nello stesso stabile dell’on. LA TORRE, fin dal 1977, che non aveva mai visto prima quei giovani che la sera del 22.4.1982 avevano richiamato la sua attenzione perchè “non discutevano tra loro ma erano distanti l’uno dall’altro una decina di metri ed erano lì fermi come se aspettassero qualcuno”:
Aggiungeva – infine – che subito dopo il delitto i suoi superiori gli avevano mostrato “alcune fotografie”, nelle quali non aveva però riconosciuto il giovane biondo che aveva invece individuato, come si è detto, in una delle numerosissime (circa un settantina) fotografie, fattegli esaminare dalla Squadra Mobile un anno dopo, nel maggio 1983.
A seguito delle dichiarazioni del P., veniva considerato indiziato del reato di duplice omicidio aggravato il PRESTIFILIPPO Mario, che però non poteva essere interrogato né sottoposto a ricognizione personale perché già latitante per altri gravissimi delitti e perchè rimasto, poi, irreperibile fino alla data in cui veniva, a sua volta, assassinato in agro di Bagheria il 29 settembre 1987.
[…]

Vita e morte di Pio La Torre, un nemico di tutte le ingiustizie

Il dolore e la fatica di scrivere su un padre

Ho compiuto 55 anni il 25 giugno del 2011. L’età che mio padre non ha raggiunto. Mio padre, nato il 24 dicembre del 1927, è stato ucciso il 30 aprile del 1982; ne aveva, da pochi mesi, compiuti 54.

Non c’è tragedia peggiore, per i genitori, di quella di seppellire le creature alle quali hanno dato la vita. Lo considerano un evento innaturale. Spesso è un’esperienza lacerante, che apre una ferita che può non rimarginarsi mai.

I figli devono fare i conti con l’idea della morte dei loro genitori ed è naturale che chi li ha messi al mondo muoia prima di loro. Non sempre ci si arriva preparati.

Eppure, che la vita di mio padre fosse in pericolo – da quando era tornato a Palermo, nell’autunno del 1981 – era evidente, a lui per primo.

Questa evidenza non gli aveva impedito di respingere tutti gli affettuosi o autorevoli tentativi opposti alla sua decisione di tornare in Sicilia a combattere, in prima linea, la battaglia politica per il riscatto della sua terra.

L’occasione fu il congresso regionale del Pci, nel quale era candidato alla segreteria. Era stato eletto dopo un confronto congressuale molto serrato: si doveva scegliere tra lui, un uomo dell’ala riformista, che veniva considerata la destra del partito, e un giovane, Luigi Colajanni, della sinistra.

Mia madre non l’aveva presa affatto bene. Sapeva che non avrebbe potuto fargli cambiare idea. Si sarebbe divisa tra Roma e Palermo, per stare il più possibile accanto a lui.

Così avevo iniziato a scrivere, circa tre anni fa, era l’autunno del 2011, sotto la spinta dell’approssimarsi del trentesimo anniversario dell’omicidio di Rosario Di Salvo e di mio padre.

In genere, gli anniversari cosiddetti tondi stimolano i sentimenti e la voglia di ricordare. Per me si trattava di vincere le mie stesse resistenze, alimentate da un senso di riservatezza, che mi avevano impedito, per lungo tempo, di prendere carta e penna e raccontare come avevo vissuto l’omicidio, elaborato il lutto, vissuto l’assenza e cercato di raccogliere l’eredità di mio padre.

Un’eredità pari alla sua storia, al suo impegno e a quanto questo impegno avesse prodotto in termini politici e, per quanto mi riguarda, si fosse riflesso nella mia educazione.

Ero attratto dall’idea di mettere alla prova la mia capacità di ricostruire una presenza, di misurarmi con l’immagine di mio padre e, cosa più importante, di rendere evidente il senso della sua esistenza, dal mio punto di vista. Obiettivi ambiziosi, che farebbero tremare le vene e i polsi, ma a me bastava molto meno per rendermi conto che passione ed entusiasmo non sarebbero stati sufficienti. Dovevo essere in grado di guardare, senza cadere nell’illusione degli specchi, e per riuscirci dovevo sapere dove guardare.

Pur conscio che ogni paragone con mio padre sarebbe stato, oltre che fuorviante, sicuramente fuori luogo, in trent’anni non ero riuscito a trovare la chiave di lettura che mi avrebbe consentito di scrivere di lui.

Ogni volta che ho provato, mi rendevo conto di volerci, soltanto, provare ma non mi sentivo pronto e, dopo aver abbozzato un indice, annotato qualche spunto, cancellato un’idea che non mi convinceva più, insoddisfatto, mi bloccavo. 2

Non credo fosse la paura di riaprire vecchie ferite, di rinnovare il dolore, visto che ogni volta ero felice di ricominciare, convinto che fosse la volta buona e che quella che volevo raccontare era una bella storia, anche se conclusasi tragicamente.

Ma come lo chiamerò in questo libro? Papà o Pio La Torre?

Ho imparato da quell’esercizio che la bontà di una tesi sta nella qualità di ciò che la determina e nei risultati che produce.

Una tesi può apparire affascinante, sinché non crolla, precipitando nel vuoto che la sostiene. In politica, nella migliore delle ipotesi, quel che resta è la velleità di uno slogan, buono per le vendite di fine stagione.

Il processo di formulazione, accompagnato da approfondimento, analisi e sintesi, era quello che lo interessava di più. Mi chiedeva sempre come fossi giunto a quella conclusione, se conoscessi questo autore o quei fatti, o se avessi considerato quell’aspetto e tenuto conto di ipotesi alternative. Non mancava, poi, la parte dedicata agli effetti, che potevano scaturire da affermazioni e scelte conseguenti. Ero sicuro che quanto andassi affermando potesse essere di qualche interesse oltre

il mio ristretto gruppo di riferimento? Le conclusioni cui ero giunto avrebbero risolto i problemi di qualcuno? Perché, se volevo affrontare le questioni, oltre il mio orizzonte, dovevo spingermi sino a dove potessi vedere e comprendere cosa ci fosse al di là. Perché se il mio intento è di capovolgere una tesi, ne devo conoscere storia e contenuti, per arrivare a individuarne le criticità o ciò che non condivido, e costruirci sopra la scelta in grado di cambiare la prospettiva, di aprire gli occhi verso nuovi orizzonti. La dialettica, che bellezza!

Il suo stile era asciutto, senza sacrificare gli elementi utili a sostenere quanto intendeva affermare, e non rinunciava a denunciare responsabilità, cause di guasti e comportamenti esecrabili, come si sforzava, sempre, di formulare proposte e rimedi. La concretezza era il suo limite per gli appassionati di articolati ragionamenti, che scavavano nel profondo dei problemi. Era il primo ad esserne consapevole ma era altrettanto convinto che, dopo aver scavato, bisognasse riportare qualcosa in superficie.

Conosceva il fascino esercitato dalla passione per lo studio, il piacere derivato dalla conoscenza, la soddisfazione guadagnata dalla padronanza degli argomenti, la soddisfazione dell’andare sino alla radice dove nascono le visioni.

La cosa che continuava a nutrire, al meglio, la sua brama di sapere era la familiarità nel maneggiare quegli strumenti che fanno nascere i fatti dalle idee, quali la concretezza dell’analisi, rivolta a fornire indirizzi, suggerire strategie, produrre azioni.

Se non c’è risultato, se l’analisi, per quanto approfondita possa essere, non contribuisce alle “future sorti e progressive”, rimane un esercizio, sicuramente utile all’intelletto ma sterile politicamente.

Questa, che sto provando a raccontare, è tutta un’altra storia o, almeno, io non la considero un esercizio ordinario di scrittura. Non voglio pormi su un piano superiore, rispetto a chi legge. Non voglio affrontare questa storia, quella della sua vita e del suo impegno politico esprimendo giudizi e tirando conclusioni.

Sin dall’inizio di questo mio tentativo, il ruolo mi suonava stonato e non lo volevo assumere. Insomma, anche io ho dovuto prendere atto che continuavo ad aprire e chiudere gli occhi, con il risultato che non riuscivo a vedere.

Tra le tante, una difficoltà che non sono riuscito a risolvere: scrivo mio padre, papà o Pio La Torre? Per cui, li troverete tutti.

Una foto in bianco e nero di fine Anni Cinquanta, la prima immagine insieme

Nella nostra prima immagine insieme, mio padre mi tiene in braccio. Sorridiamo, siamo entrambi contenti. Sono felice di osservare la realtà stretto a lui e mio padre è felice di mostrarmi la realtà. In genere, non si conservano ricordi nitidi dei primissimi anni di vita.

Le esperienze, le emozioni, le cose che ci accadono in quel periodo diventano, in maniera naturale, fisiologica, parti di noi, vengono assimilate e modellano il nostro carattere, definiscono le basi della personalità. Se hai paura di qualcosa a quell’età, è probabile che ne avrai per tutta l’esistenza, senza un lavoro specifico di rielaborazione della paura stessa e delle sue cause.

Quell’immagine di mio padre che mi tiene in braccio è racchiusa in una foto in bianco e nero, scattata all’inaugurazione di una sezione del PCI di Palermo alla fine degli anni Cinquanta.

Avrò avuto, più o meno, due anni e quella foto fa riemergere, dalle pieghe dei ricordi, altre immagini, non saprei dire quanto veritiere, di me che giro tra le gambe degli adulti, in un clima festoso, in un ambiente che avverto familiare, proprio perché è mio padre a farmelo sentire tale portandomi con sé, tra le sue braccia, nel suo mondo, tra la sua gente.

Tegher, vieni che ti racconto una storia!

Così mio padre, seduto su una sedia nella cucina della nostra casa di Palermo, mi esortava ad arrampicarmi sulle sue gambe. Poteva accadere al suo ritorno da Roma, dove era stato per impegni sindacali, prima, o di partito, dopo.

Rispondevo felice al suo invito e saltavo sulle sue ginocchia. Lui simulava i movimenti del cavallo e ne imitava i nitriti, e iniziavano così lunghe galoppate, il cui rumore riproduceva, efficacemente, battendo la lingua sulle labbra, attraverso storie avventurose, ambientate in contrade a me sconosciute, note come Tiburtine o Laurentine e popolate da eroi.

Tiburzio, Tiburtino IV, Tegherzio, da cui il diminutivo Tegher, che avevo guadagnato, insieme ad altri di cui non serbo più traccia negli archivi della memoria, erano i protagonisti dei suoi racconti, ambientati nell’antica Roma, ispirati ai nomi delle strade consolari romane.

Qualche anno dopo, mio padre mi disse che le aveva concepite durante il periodo di studio alle Frattocchie e che le aggiornava successivamente, quando era a Roma per le riunioni di lavoro. Storie che non mi stancavo mai di ascoltare. Narravano imprese di personaggi coraggiosi, quasi eroi che si muovevano tra il mito e l’epica.

Di solito, uno di loro che aveva subito una prevaricazione, o era stato vittima di un’ingiustizia, trovava conforto e solidarietà negli amici, che lo aiutavano a sconfiggere l’arroganza del più forte e a ottenere il giusto risarcimento. In sostanza, rifacendosi alla tecnica dei cantastorie siciliani, che lo avevano appassionato in gioventù, mio padre mi raccontava di battaglie e scontri tra buoni e cattivi, dove nessuno moriva e i buoni vincevano e Tegherzio/Tegher, che ve lo dico a fare, era tra questi ultimi.

Mio padre si appassionava, e sempre aveva storie nuove. E c’era una particolarità: il racconto era condiviso.

I protagonisti li sceglievamo, di volta in volta, insieme. Il mio preferito era Tegher e lui approvava, ovviamente, anche se non sempre gli affidava il ruolo principale. Aveva un suo modo speciale di stimolare la mia fantasia: ogni tanto interrompeva il racconto per domandarmi come pensassi potesse evolvere la situazione, e se la mia risposta gli sembrava “congrua”, la adottava nel prosieguo della narrazione.

Tra un’inaugurazione di sezione di partito e una storia, mio padre proseguiva la sua battaglia.

Così gli piaceva definire il suo lavoro, o meglio, il suo impegno contro quel grumo di interessi politici, economici e criminali che stava pervadendo il tessuto sociale della Sicilia.

La borgata di Altarello, i contadini, Palermo che sembrava un altro mondo

Ecco i primi nitidi ricordi, che risalgono dal fondo della mia memoria. Avevo quattro o cinque anni.

Mia madre deve essere da qualche parte in cucina e mio fratello Filippo forse è giù in giardino, a giocare con la nonna o la zia.

Abitavamo l’appartamento al piano di sopra della casa dei nonni materni, una villetta del quartiere Matteotti, costruita negli anni Trenta, nel bel mezzo di agrumeti, nell’allora periferia orientale di Palermo. Nonna Carmelina ha avuto un ruolo importante nell’educazione mia e di mio fratello. Papà e mamma lavoravano e lei era l’adulto di riferimento a casa, dato che abitavamo al piano di sopra di casa sua. Zia Agata era la più giovane dei figli Zacco, dodici anni meno di mia madre ed undici in più di Filippo. Ancora non sposata, viveva con la nonna.

Un paio d’anni dopo, la stessa cucina fu teatro di uno di quegli ordinari contrasti tra genitori e figli. Era pomeriggio e stavo con mia madre e mia nonna e la scena mi vedeva, al centro, protestare perché era stato opposto un no ad una mia richiesta o, se preferite, un capriccio. Come reazione minacciai di andarmene da mio padre a raccontargli del torto subito.

Nella scena successiva sono sul marciapiede, deciso a raggiungere lo scopo.

Sapevo, più o meno, dove lavorasse mio padre, ma preferii fermarmi al negozio di frutta e verdura a due passi da casa, per chiedere se mi potessero accompagnare da lui. Il fruttivendolo, che conoscevo, mi invitò a sedermi e ad aspettare il ritorno del garzone, non più giovane né troppo svelto, e mi rassicurò dicendomi che ci avrebbe pensato lui, dopo averlo seguito nel giro delle consegne, ad accompagnarmi da papà. Fatto sta che, alla fine del pomeriggio, il garzone mi riportò a casa. Mamma, accortasi della fuga, aveva telefonato a mio padre, che non vedendomi arrivare era tornato dal lavoro, nella speranza di incontrarmi per strada. Nel frattempo, erano stati avvertiti carabinieri e polizia, che mi stavano cercando. Corsi verso mio padre che mi accolse sollevandomi e abbracciandomi, insieme a mia madre. Disse che avevo fatto una cosa pericolosa e che era servita solo a far prendere un grosso spavento a tutti quanti. Mi fece promettere che non l’avrei mai più fatto, per poi concludere, ridendo, che non era stata una grande idea, quella di rivolgermi al fruttivendolo.

La decisione di mio padre di tornare in Sicilia affondava le sue ragioni nell’origine del suo impegno a fianco del popolo siciliano nella lotta per liberarsi dalla condizione di sottosviluppo e subalternità quando, giovane studente universitario, aveva deciso di aderire al PCI.

Così racconta nel suo libro Comunisti e movimento contadino in Sicilia quegli anni in cui matura il suo interesse per la giustizia sociale e combatte per i diritti dei più deboli e bisognosi, contro lo sfruttamento dei ricchissimi proprietari terrieri.

Al partito mi ero iscritto nell’autunno del ’45, negli stessi giorni in cui mi ero iscritto all’università. La scelta fu certamente influenzata dal tipo di famiglia nella quale ero cresciuto. Provenivo da una borgata di Palermo che a quell’epoca sembrava un paese lontano; si pensi che nel piccolo villaggio dove io sono nato, fino all’età di otto anni, non avevamo la luce elettrica, si studiava a lume di candela o a petrolio, e l’acqua da bere dovevamo andare a prenderla quasi a un chilometro di distanza. I braccianti di quella borgata, la domenica mattina, quando si ripulivano e andavano in città dicevano: “Vaiu a Palermu”, come se andassero in una città lontana.

Avevo cominciato la mia attività politica nella borgata dove sono nato. Dopo aver costituito la sezione del partito e contribuito a crearne altre attorno, avevo scoperto che c’era bisogno dell’organizzazione sindacale dei braccianti e, quindi, mi ero rivolto alla Federterra.

Quando si era iscritto alla facoltà di Ingegneria, mio padre non aveva ancora compiuto 18 anni. Era stato uno studente precoce e amava molto lo studio. Non so se immaginasse, quando varcò l’ingresso della sede della Federterra, che quel giorno avrebbe impresso una svolta alla sua vita.

Non sarebbe stato più soltanto un attivista, avrebbe cominciato ad assumersi impegni e responsabilità. Non so se lo avesse previsto, certo era quello che voleva. Diventò funzionario della Federterra, poi responsabile giovanile della CGIL e quindi responsabile della commissione giovanile regionale del PCI, in quel periodo non esisteva un’organizzazione giovanile di partito. Successivamente, Pancrazio De Pasquale, segretario della federazione comunista di Palermo, col quale strinse un rapporto umano e politico molto profondo e duraturo, gli chiese di lavorare con lui in una segreteria formata da cinque giovani che, messi insieme, superavano di poco il secolo di vita.

In una Sicilia feudale, la strage infinita e impunita dei sindacalisti

In quegli anni, i comunisti erano impegnati per l’effettiva applicazione dei decreti Gullo, provvedimenti legislativi emanati dall’allora ministro dell’Agricoltura del governo Badoglio, che garantivano ai contadini maggiori diritti e più terre da coltivare.

Lo svuotamento delle norme, operato dal successivo ministro, e l’opposizione dei proprietari terrieri alla loro applicazione scatenarono, soprattutto nel Mezzogiorno, la richiesta di una effettiva riforma agraria e un’ondata di proteste popolari, che ebbero la loro concretizzazione nelle occupazioni delle terre incolte da parte dei braccianti agricoli esasperati, che dovettero fare i conti con la reazione, altrettanto esasperata, da parte del governo e con quella, dura e intransigente, dei proprietari terrieri, che non esitarono a fare ricorso al braccio armato della mafia.

Tra il marzo e l’aprile del 1948, alla vigilia delle elezioni politiche, erano stati uccisi vari segretari di Camere del Lavoro del palermitano, Placido Rizzotto a Corleone, Calogero Cangelosi a Camporeale, Epifanio Leonardo Li Puma a Petralia.

Pio La Torre, nel luglio del 1949, era membro del Consiglio Federale del Pci, che diede l’inizio ufficiale all’occupazione delle terre, lanciando lo slogan: “la terra a tutti”.

La protesta prevedeva il censimento delle terre giudicate incolte o mal coltivate e l’assegnazione, in parti uguali, a tutti i braccianti che ne avessero bisogno. Parallelamente partì anche la campagna per la raccolta del grano, che sarebbe servito per seminare le terre occupate. Il 23 ottobre 1949 fu organizzato il primo Festival provinciale dell’Unità a Palermo, al Giardino Inglese, per sensibilizzare l’opinione pubblica.

Il clima di festa fu però presto interrotto dalle notizie, che giunsero pochi giorni dopo, il 29 ottobre, dalla Calabria, da Melissa per la precisione, dove le proteste dei contadini erano sfociate in tragedia con l’uccisione da parte delle forze dell’ordine di tre persone, tra cui un bambino e una donna, e

il ferimento di altre quindici, oltre a numerosi arresti. Quella strage convinse i dirigenti del Pci palermitano ad anticipare la data dell’occupazione delle terre, fissandola al 13 novembre successivo.

Giuseppina Zacco, mia madre, lo aveva conosciuto proprio in quegli anni, la fine dei Quaranta. Il 29 ottobre 1949, giorno della strage di Melissa, annota mio padre, lo aveva sposato e con lui aveva condiviso le lotte contadine: il loro autentico viaggio di nozze, durato una stagione, durante la quale, ma potrei sbagliarmi, concepirono mio fratello, e non quei pochi giorni trascorsi a Capri, dopo il matrimonio, interrotti proprio dalla necessità di rientrare a Palermo per preparare l’imminente mobilitazione, che avrebbe coinvolto migliaia di braccianti poveri della Sicilia nord-occidentale.

Mia madre sapeva chi era quell’uomo che, arrestato durante una delle manifestazioni, dove i contadini occupavano e seminavano simbolicamente le terre incolte, aveva scontato ingiustamente 17 mesi all’hotel Ucciardone, il carcere di Palermo, accusato di tentato omicidio e poi prosciolto per non aver commesso il fatto.

Mio padre e mia madre erano orgogliosi di quel periodo della loro vita; si capiva, da come ne parlavano, che non era stato facile e aveva richiesto capacità di misurarsi con prove impegnative, grandi sforzi e sacrifici per due giovani, poco più che ventenni, che stavano mettendo su famiglia proprio mentre partecipavano attivamente al movimento di liberazione dall’oppressione semifeudale e per l’affrancamento dalle condizioni di sottosviluppo delle masse povere siciliane.

Raccontavano della dignità della gente che li accoglieva, anche per settimane, nelle loro misere abitazioni, che non si potevano definire case. Non era raro che dormissimo sulla paglia nelle stalle, insieme agli animali – ricordava mia madre.

Ma la stalla era, comunque, un lusso che non tutti si potevano permettere – aggiungeva mio padre – E capitava che dormissimo nell’unica stanza, insieme alla famiglia che ci ospitava e alla loro capra – concludeva mia madre – Il partito non aveva a disposizione tutti i mezzi necessari.

Si partiva da Palermo, sapendo che si sarebbe stati fuori per giorni. Venivamo lasciati nei paesi, dove avremmo incontrato i contadini e organizzato con loro le manifestazioni, spostandoci a piedi o con i mezzi disponibili in loco, carretti, muli, biciclette e qualche rara motocicletta.

L’occupazione delle terre, i campieri, le cariche della polizia

La mattina di quella domenica 13 novembre del 1949, i contadini di Corleone, Campofiorito, Contessa Entellina, Valledolmo, Castellana Sicula, Polizzi, alcune borgate di Petralia Soprana e di Petralia Sottana, Alia, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Piana degli Albanesi, in tutto dodici paesi in provincia di Palermo sulle Madonie, si erano mossi insieme, dando vita ad una serie di cortei, snodandosi per le campagne circostanti, dove avrebbero occupato e preso possesso delle terre censite come incolte e mal coltivate. Diverse migliaia di persone si misero in marcia all’alba verso i feudi, tra questi quello di Strasatto, dove Luciano Leggio, boss mafioso di prim’ordine e tra i protagonisti della trasformazione della mafia da fenomeno agricolo ad urbano, era gabellotto. Dopo la tragedia avvenuta a Melissa, alla polizia era stato ordinato di non reprimere le manifestazioni, così l’occupazione continuò per molti giorni, sviluppandosi anche nei comuni fuori Palermo.

Il governo, viste le dimensioni che la lotta aveva assunto, decise di riprendere l’azione repressiva. Così scattò l’arresto di alcuni dirigenti sindacali e braccianti agricoli e ricominciarono gli scontri tra polizia e manifestanti. A San Cipirello vennero arrestate diciotto persone.

L’occupazione aveva avuto successo, con il risultato che circa tremila ettari di terreno erano stati arati e il grano seminato.

Mio padre, in quell’inverno del ’49, in attesa dei frutti della semina, era impegnato nell’organizzazione della ripresa delle lotte in primavera. L’obiettivo era conservare il diritto di raccolta sui terreni seminati, nella consapevolezza che il vero ostacolo era l’opposizione dei proprietari agrari.

Alle prime luci del giorno del 10 marzo 1950, a Bisacquino, centro agricolo della provincia di Palermo, un corteo di contadini, lungo tra i quattro e i cinque chilometri, stava lasciando il paese e mio padre era con loro. Cinque – seimila contadini andavano a misurare i terreni incolti e li lottizzavano: un ettaro a testa. Uomini e donne. Tante donne, alcune a cavallo, in testa al corteo, e tante bandiere: quelle rosse del PCI, le bianche della Dc e quelle della Cgil. Doveva rientrare a Palermo con la corriera delle tre del pomeriggio ma la perse. Allora decise di andare incontro ai contadini che rientravano dal fondo occupato. Giunse in vista del corteo, si scorgevano le bandiere e si udivano i cori delle donne, ma vide, anche, arrivare una colonna di automezzi carichi di poliziotti e carabinieri. Si rese conto che Vicari, il prefetto di Palermo, aveva messo in atto le minacce di repressione e aveva dato ordine di organizzare una vera e propria imboscata. Era già successo nei giorni addietro.

Mio padre decise di andare a parlare con i dirigenti della colonna. Riconobbe, tra questi, il tenente Panzuti dei carabinieri di Bisacquino, una persona ragionevole, con cui aveva trovato un’intesa nei giorni precedenti, ma questi, con lo sguardo chino, lo indirizzò al commissario capo dottor Panico.

Mio padre ricordava il commissario Panico in evidente stato di agitazione mentre, senza dargli il tempo di parlare, stava ordinando a uno degli ufficiali di togliere quello “sconcio di bandiere”.

Pio La Torre rinchiuso all’Ucciardone, dimenticato anche dal suo partito

Un gruppo di carabinieri si avvicinò alla testa del corteo e tentò di strappare le bandiere dalle mani delle donne.

Queste reagirono con vigore e ne nacque un tafferuglio. Partì una sassaiola verso i carabinieri e il commissario Panico diede ordine di sparare. I contadini si dispersero e rimase a terra il bracciante Salvatore Catalano. Un proiettile lo aveva colpito alla spina dorsale, rendendolo invalido per tutta la vita. Mio padre andava a trovarlo ogni volta che poteva e finché ha potuto. Gli scontri ripresero e si svilupparono con violenza.

Mio padre raccontava di aver impedito ad un gruppo di contadini di uccidere a colpi di pala un carabiniere. Un maresciallo di polizia era stato catturato, gli era stata tolta la pistola e stava per essere denudato, se mio padre non fosse intervenuto e avesse convinto i contadini a restituirgli la divisa e a liberarlo. Mantenendo la necessaria lucidità, si rivolgeva con autorità ai contadini dicendo loro che carabinieri e poliziotti non erano i loro nemici; mentre lo erano i grandi proprietari terrieri, i nobili latifondisti, che volevano la repressione e lo scontro.

Il suo comportamento fu fondamentale per evitare che i contadini uccidessero o mutilassero gli agenti. Le cariche della polizia continuavano. Mio padre venne fermato, insieme a centinaia di contadini, e fatto salire su un camion. Giunse ammanettato nella piazza di Bisacquino, quando su quel camion salì un tenente di polizia, che fece accendere le luci e, puntandogli il dito contro, lo accusò di averlo colpito con un bastone.

Alla smentita di mio padre, il tenente gli sputò addosso e ordinò che gli venissero strette le manette. L’accusa era tentato omicidio.

All’alba dell’undici marzo 1950 Pio La Torre fece il suo ingresso nel carcere dell’Ucciardone e, dopo le perquisizioni di rito, venne scortato in cella. Sarebbe uscito il ventitré agosto 1951.

Del periodo del carcere, mia madre ricordava l’angoscia del distacco improvviso, la tristezza del non sapere quando avrebbe riabbracciato suo marito, padre del figlio che aveva in grembo. Aveva dovuto attendere diverse settimane prima di ottenere un colloquio. Ricordava la vergogna, per sé e per mio padre, di dover piegarsi a quei piccoli ricatti del coraggioso e generoso agente di custodia, che chiudeva un occhio sui libri censurabili e su altre piccolezze, da questi ritenuti rischiosissimi favori da ricompensare adeguatamente.

Le lettere che ci scrivevamo, venivano previamente lette e anche censurate – raccontava mia madre – per cui, io e papà, ci accordammo che alla fine avremmo aggiunto la parte più intima, scritta col limone, illeggibile se non si passa una fiammella sotto al foglio.

Quando riassaporava questi particolari, mia madre rivolgeva a mio padre uno sguardo complice, da lui corrisposto, e sorridevano, come fanno i bambini quando custodiscono segreti condivisi.

Seppur mitigata negli anni, restava l’amarezza per un partito che, nei primi mesi, lo aveva dimenticato in carcere, considerandolo colpevole di mancato rispetto delle posizioni espresse dagli organi dirigenti regionali, che ritenevano che il partito non fosse preparato, che non fossero maturi i tempi per lanciare la mobilitazione.

La battaglia di Bufalini e l’assoluzione dopo diciotto lunghi mesi

Il Pci siciliano era guidato da Girolamo Li Causi, mitico dirigente comunista, capace di affascinare e di suscitare rispetto e grande ammirazione.

Ho conosciuto Li Causi, un pomeriggio all’inizio degli anni Sessanta, nel giardino di casa dei nonni a Palermo, dove chiacchierava con mio padre. La sua faccia mi ispirava simpatia e il suo aspetto mi dava fiducia. Giocavo intorno a loro, che mi prendevano in braccio a turno, dicendomi cose che mi facevano ridere.

La sua biografia esprime la personalità e le doti di questo grande uomo politico siciliano, meglio di quanto possa fare io.

Li Causi, prima dirigente socialista e poi comunista, scontò 15 anni di carcere sotto il regime di Mussolini. Era stato condannato a 21 anni ma fu liberato nel 1943, quando si tuffò nella lotta partigiana e divenne membro del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia. Terminata la Resistenza, tornò in Sicilia, dove fu il primo segretario regionale del Pci.

Il 16 settembre del 1944, nel corso di un comizio a Villalba, mentre denunciava la mafia locale, fu ferito gravemente da un gruppo di mafiosi, guidati dal noto boss Calogero Vizzini, nativo proprio di Villalba. Deputato all’Assemblea Costituente, poi alla Camera, dove fu il protagonista della denuncia della Strage di Portella della Ginestra, quindi senatore, fino alla vicepresidenza della prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso.

In verità, i giovani dirigenti palermitani erano di diverso avviso. Convinti che vi fossero le condizioni, dopo averle preparate meticolosamente, avevano deciso di anticipare i tempi delle manifestazioni per le occupazioni delle terre nella provincia di Palermo. Era questa la loro colpa, anche se la mobilitazione in provincia di Palermo ebbe successo. Pancrazio De Pasquale – accusato di frazionismo, e con lui i giovani dirigenti palermitani – venne destituito da segretario della federazione e inviato alla scuola di partito; e a mio padre, tramite mia madre, venne suggerito di approfittare del periodo in carcere per prepararsi alla laurea, visto che la sua prospettiva nel partito era incerta.

Accadde che, a Roma, Pietro Secchia, responsabile nazionale dell’organizzazione del Pci, si fosse persuaso che i metodi e le decisioni assunte a Palermo avessero nociuto al partito e, conseguentemente, andasse a Palermo a presiedere la riunione del Comitato regionale che, con l’accordo di Li Causi, approvò una mozione che ridimensionava analisi e decisioni e, in una certa misura, riabilitava i giovani.

Questa svolta fu accompagnata dall’arrivo a Palermo di Paolo Bufalini – dirigente autorevole inviato dal centro del partito, come si diceva allora, venuto ad assumere la responsabilità di vice segretario regionale, a fianco di Li Causi – che risvegliò l’interesse del partito verso mio padre in carcere. Bufalini promosse la costituzione di un comitato di solidarietà e un collegio di difesa che ottenne, in pochi mesi, l’assoluzione e la successiva scarcerazione del compagno La Torre.

Racconti di famiglia, il figlio visto per la prima volta in carcere

Di quell’anno e mezzo trascorso in carcere mia madre e mio padre condividevano il ricordo della tristezza che avvolgeva le visite dei familiari ai carcerati all’Ucciardone.

Venivamo condotti in uno stanzone dove, per vedere i detenuti e potergli parlare, dovevamo infilare la testa in uno dei buchi nella porta di ferro di fronte a noi – ecco che il tono di voce di mia madre tradiva un attimo di commozione – Sembrava un girone dell’inferno dantesco: dall’altra parte, un’altra porta di ferro con altrettanti buchi, da dove si affacciavano i detenuti, in mezzo un corridoio con un agente di custodia che faceva su e giù. L’unico modo per farsi sentire era urlare a squarciagola.

Papà rimase praticamente muto e io piansi così tanto, che non sarei voluta più tornare a vederlo in quel posto. Visto che ero incinta, richiesi un colloquio più umano. Le mie condizioni lo prevedevano. Non fu concesso, perché il processo aveva carattere politico.

E mio padre aggiungeva, con un sorriso agrodolce:

Avevo seguito con emozione e apprensione la maternità di mamma, anche se non ero accanto a lei – lasciando intendere che la lontananza non gli impediva di cogliere pienamente il senso di quanto stava accadendo – e quando, appena partorito, venne a dirmi che Filippo era nato, fui l’uomo più felice del mondo.

Proprio così – a questo punto, ho ascoltato la storia più volte, mia madre prendeva la parola – e la sua prima reazione fu quella di dirmi che era doppiamente felice, per la nascita del figlio e per l’approvazione della legge di riforma agraria all’Assemblea Regionale Siciliana.

Non c’era polemica in quelle parole, piuttosto un’affettuosa consapevolezza del carattere e della natura dell’uomo.

Dai loro ricordi affiorava, nettamente, l’amarezza per il divieto opposto a mio padre di visitare sua madre morente e per quello opposto a mia madre di consegnargli tra le braccia il figlio appena nato e vivere insieme quell’attimo di felicità.

Lo fece al posto suo una guardia carceraria. Portò a mio padre, in attesa nel cortile, mio fratello Filippo avvolto in una specie di sacchetto.

Fu una scena per me un po’ patetica – rammentava mio padre – ero confuso e, forse, questo è stato uno dei momenti della mia vita di maggiore commozione, la presa di coscienza che in quelle condizioni ero diventato padre.

L’incontro con Giuseppina, l’amore , il barone e lo zio prete

Dei suoi giorni in carcere, mio padre ricordava il primo periodo in isolamento, poi in cella con altri detenuti. Ad un certo punto, fu accusato persino di aver aggirato la censura: una sua lettera inviata a Bufalini, da quest’ultimo fatta pubblicare su l’Unità, ne era la prova: ...In questi ultimi anni il popolo siciliano ha dato prova di sapersi battere generosamente per conquistarsi un regime di libertà, di progresso e di pace. Ha dato la vita di alcuni dei suoi figli migliori nella lotta contro la mafia che si opponeva allo sviluppo delle organizzazioni democratiche dei comuni della nostra isola: da Miraglia a Li Puma, a Rizzotto a Cangelosi…

Questa lettera gli costò il trasferimento in una cella con due detenuti condannati per reati gravi, uno dei quali per omicidio, con i quali trascorse una notte insonne, subendo sfottò e minacce. La punizione durò, fortunatamente, ventiquattro ore.

Mi immergevo nella lettura, studiavo e scrivevo tanto – raccontava – e presi l’abitudine a fare un po’ di ginnastica a corpo libero, tutte le mattine, appena sveglio. Abitudine che ha mantenuto dopo il carcere. Mio padre era salutista, a modo suo. Amava fare lunghe passeggiate, gli piaceva nuotare, anche se il suo stile libero non era raffinato, e si divertiva a giocare a pallone, senza gran controllo di palla e irruento nei contrasti. Quando se l’era sposato, mia madre era consapevole di chi si stesse mettendo in casa. Nel vero senso della parola, perché mio padre aveva lasciato la casa paterna dopo l’incendio della porta della stalla, un avvertimento mafioso. Mio padre era colpevole non solo di essere comunista, ma anche, e soprattutto, di aver voluto aprire una sezione del PCI nella sua borgata e poi un’altra ancora ed un’altra ancora, cosa che aveva notevolmente infastidito i mafiosi locali.

Mio nonno fu avvertito dei cattivi sentimenti che i mafiosi nutrivano nei confronti del figlio comunista e cercò di metterlo in guardia, senza nessun risultato, anzi. Gli disse che avrebbe fatto meglio a concentrarsi sullo studio. Mio padre, dopo il brutto episodio della stalla, consapevole anche dei rischi derivanti dalla sua presenza decise di trasferirsi a casa di compagni di partito. Confermò, così, la scelta di dedicarsi completamente alla politica, sacrificando la cosa che aveva amato di più e senza la quale non sarebbe giunto sino a dove era arrivato.

Più che una casa, per la verità, era la stanza, affittata da Pancrazio De Pasquale ed un altro compagno, col quale mio padre condivideva il letto. Quando chiese a mio nonno materno l’assenso a sposare mia madre e il nonno gli chiese dove pensassero di andare a vivere dopo sposati, la sua risposta fu: a casa sua, dottore Zacco.

Il nonno Francesco Zacco, barone e repubblicano, che aveva fatto la guerra come medico militare. Il nonno era, anche, amico dei comunisti che, nel dopoguerra, ospitava nella sua casa per le riunioni e non solo per le riunioni, anche a vivere con le loro famiglie. Come successe a Pompeo Colajanni, mitico comandante partigiano, che aveva partecipato alla liberazione di Torino, una volta tornato a Palermo ad assumere un ruolo dirigente nel PCI siciliano. Colajanni fu ospite a casa dei nonni per diversi mesi, con moglie e tre figli piccoli, uno di questi era Luigi, trent’anni dopo l’altro candidato alla segreteria del PCI siciliano. Fu mio nonno che parlò a Bufalini di mio padre in carcere e denunciò l’atteggiamento assunto dal partito, ottenendo le scuse e l’impegno che ne derivò immediatamente.

Comunista fu la scintilla, o meglio la federazione del partito, dove mia madre, la baronessina, educata da tate tedesche, era stata portata da suo padre, che aveva fatto esplodere l’amore per colui che, dopo pochi mesi, avrebbe sposato.

Per la scelta di sposare un comunista fu scomunicata e diseredata dallo zio prete.

Mio padre se l’era ritrovata davanti, nella sua stanza in federazione. Lei gli disse che voleva iscriversi al partito, lui le suggerì di leggere il testo di Lenin sull’emancipazione della donna e poi ne avrebbero riparlato. Non saprei dire se mio padre fosse consapevole che avrebbe discusso con quella donna per i successivi trentaquattro anni.

Erano diversi: lei bionda, lui bruno, lei cresciuta nell’agiatezza, lui figlio di contadini poveri. Li accomunava una straordinaria forza di carattere e una profonda generosità d’animo.

Il comunismo e il partito di massa, le rivendicazioni e le autocritiche

Una trentina d’anni dopo, ragionando sul movimento contadino in Sicilia, mio padre scrive:

I risultati sono calcolabili dal punto di vista sociale e politico. Credo che si possano fare molte considerazioni, se guardiamo all’insieme del movimento e ai risultati che si sono raggiunti.

Il primo risultato è che, dopo la Liberazione, negli anni dal ’44 in poi, in Sicilia e in tutto il Mezzogiorno, per la prima volta furono costruite organizzazioni di classe nelle campagne con una struttura unitaria e collegate con il movimento nazionale; e questa è la grande portata della costruzione della Confederterra nel sud… Possiamo dire che il PCI in Sicilia è figlio, in larga misura, di quel grande movimento; in decine di comuni della Sicilia noi non esistevamo prima.

Siamo diventati partito di massa nel fuoco di quel combattimento: decine e decine di quadri, la maggior parte ragazzi, giovani studenti e anche qualche intellettuale più maturo, professionisti, operai, ragazze, che venivano mandati avanti a dirigere; io ricordo il vice segretario regionale del PCI, nel periodo ’47 e ’48, il compagno Mazzetti, un militante bolognese del periodo clandestino, che era stato mandato in Sicilia per aiutare Li Causi nella formazione di quadri. Il suo ufficio sembrava un ufficio matricole, perché convocava ragazzotti di diciotto, venti anni e gli dava il gallone di ufficiale e li mandava a fare i dirigenti di un’organizzazione di partito, sindacale o cooperativa, perché si trattava di costruire ex novo tutto questo e lui puntava moltissimo su questi ragazzi.

Nel suo ragionamento non mancano le note di autocritica, quando sottolinea:

Cominciamo con il valutare lo schieramento delle forze sociali che noi mettevamo in campo allora. La nostra strategia si rivolgeva al bracciante e al contadino povero, ai senza terra, e lasciava fuori la massa importante dei coltivatori diretti, quelli che già la terra la possedevano, i piccoli proprietari, i grossi fittavoli, cioè lo strato più ricco di capacità imprenditoriali dell’agricoltura siciliana e meridionale. C’era qui, una manifestazione di estremismo, di settarismo, presente in quel periodo nel nostro movimento.

Restò, questa, la sua più grande preoccupazione. Ovvero che anche il più giusto dei movimenti, restando chiuso all’interno delle sue rivendicazioni, non riuscisse a cogliere la necessità di aprirsi e comprendere quelle di altri che potevano contribuire a raggiungere obiettivi di interesse più generale. Di questo atteggiamento, di cui anch’egli era stato vittima agli inizi, intuiva i rischi derivanti dalle scelte minoritarie e i pericoli dell’irrilevanza dell’azione politica.

Nel ’51, uscito dal carcere e riabbracciata la famiglia, papà riprese da dove era stato interrotto. Dopo poco chiese al partito di potersi impegnare nel sindacato, convinto che bisognasse liberare il movimento sindacale da vizi di corporativismo e burocratismo.

Ricordi di infanzia e un padre sempre intento a “leggere e a scrivere”

Era una serata di primavera del ’60 e, davanti al cancello di casa, mamma e papà stavano salutando zio Giuseppe, fratello maggiore di mamma, e sua moglie, zia Melina, che erano stati a cena da noi, con Franco e Roberto, i nostri cugini. Franco aveva un anno in meno di mio fratello Filippo e Roberto un anno in più di me, con la particolarità che quest’ultimo ed io eravamo nati, entrambi, il 25 giugno. Una coincidenza che, quando si è ragazzi, stimola a costruire fantasie e cercare affinità. In ogni caso, non so se sia dipeso da questa coincidenza ma Roberto ed io, anche se siamo stati lontani a lungo e pur vivendo in città diverse, conserviamo affetto e confidenza, come se non avessimo mai smesso di frequentarci.

Mio fratello e Franco si sfidarono ad una gara di corsa: un circuito lungo duecento metri di marciapiede, che si stendeva intorno a casa dei nonni e alle altre due villette, che costituivano un isolato unico. La gara sarebbe stata a coppie: io avrei corso con Franco e Roberto con mio fratello. Al termine del primo giro, non mi ricordo chi fosse in testa, decisero di farne un secondo, che non completai. Infatti, a metà percorso, inciampai e feci una sorta di spaccata, procurandomi una brutta lesione al femore della gamba sinistra. Per fortuna che zio Giuseppe aveva studiato Medicina e sapeva come fare una fasciatura a doccia, che mi bloccò la gamba, contenendo la lesione ed evitando la frattura che, a quell’epoca, avrebbe richiesto l’inserimento di un chiodo e mi avrebbe certamente reso zoppo. Il professor Buzzanca, ortopedico al Traumatologico, m’ingessò dal tallone della gamba sinistra fino al torace, e così dovetti restare per novanta lunghissimi giorni.

A tre anni, obbligato a restare, praticamente immobile, a letto per tre mesi. Immaginate quanta energia compressa dalla mancanza di sfogo. La pelle prudeva, privata del necessario ossigeno, soffocata dall’ingessatura; unica consolazione uno spray al mentolo, spruzzato per alleviare la sofferenza. Poi seguì un’ingessatura “semplice” alla gamba sinistra, per un altro mese, e quindi, a quattro anni, dovetti imparare nuovamente a camminare. Usavo un girello per sorreggermi: si trattava di un aggeggio di legno, alto mezzo metro e di forma quadrata, aperto su un lato, che grazie alle rotelle mi permetteva di deambulare in equilibrio.

Ricordo che una mattina, quando ormai stavo riacquistando sicurezza e, per mettermi alla prova, lasciavo il girello e saltellavo sulla gamba destra nel giardino di casa, urlai a Nicola Cipolla, che era venuto a trovare mio padre e si era affacciato in giardino: “Guarda come sono bravo!” E lui rispose: “Sembri uscito dalla novella di Chichibio”.

Io, che non avevo ancora letto il Decameron di Boccaccio, rimasi interdetto, e Nicola ne approfittò per raccontarmi la storia di Chichibio e la gru, che riposava su una gamba sola. Nel frattempo, si erano aggiunte la mamma, nonna Carmelina e zia Agata, e quel giorno fu coniato il mio nomignolo Chichì, usato ancora oggi con affetto da alcuni dei miei parenti e da qualche ex compagno di classe. Mio padre preferiva Tegher, il diminutivo di Tegherzio, che era compagno di Tiburzio, ed io pure.

Nicola Cipolla era segretario della Federterra e, insieme a mio padre, aveva organizzato le lotte contadine del 1949-1950 nel corleonese. Parlamentare prima dell’Assemblea Regionale Siciliana e poi del Senato e del Parlamento europeo. Sostenuto da papà, nel 1981 fondò il Centro studi di Politica Economica in Sicilia, di cui è attualmente Presidente.

Così scorreva la mia infanzia, ignaro di quale fosse il mestiere di mio padre. Infatti, all’inizio della primina, destino che tocca a quelli, come me, nati in giugno e che i genitori ritengono in grado di cominciare le scuole elementari un anno prima, mi capitò che la maestra mi chiedesse che lavoro facesse mio padre. Dopo qualche esitazione, risposi che leggeva e scriveva. Almeno, era quello che gli vedevo fare quando stava a casa ed era quello che mia madre ripeteva, quando non voleva che fosse disturbato: non fate confusione… sta leggendo… sta scrivendo. La maestra ne dedusse che papà facesse il giornalista.

Il disordine che regnava sulla sua scrivania faceva impazzire mamma e la capivo. Anche per me sarebbe stato pressoché impossibile ritrovarmi in mezzo a quella confusione.

Pile di fogli, di cartelle di documenti, di giornali, tra i quali, invece, lui si sentiva a proprio agio e ritrovava sempre quello

che cercava. Mio padre era un buon giocatore di briscola, tresette, scopa e scopone. Capitava che, prima di sederci a pranzo, facessimo una partitina, in piedi, generalmente a briscola. I primi tempi vinceva sempre lui. Poi ho imparato. Era divertente quando perdeva, perché non accettava la sconfitta e mi proponeva di giocare un’altra partita. Oltre a quello per il gioco delle carte, ho condiviso il suo amore della natura, dell’attaccamento alla terra, la toccava e sceglieva i frutti per assaporarli con gusto, spesso offrendoli agli altri, e strofinando erbe e foglie, per poi portarsele con le mani sotto il naso e godere degli aromi di cui erano intrise.

Durante le nostre passeggiate, giunti in uno spazio aperto, capitava che lanciasse la sfida di una breve corsa a mio fratello Filippo e presto mi aggiunsi anch’io. Uno scatto fino ad un immaginario traguardo, dove si fermava a respirare l’aria fina che apprezzava a pieni polmoni. Non aveva praticato sport in gioventù, almeno come intendiamo oggi. Gli piaceva giocare a calcio o a pallavolo, per stare insieme agli altri, non certo per dare dimostrazione di tecnica. Aveva imparato a tenersi a galla tuffandosi, insieme a fratelli e amici, nella “gebbia”, la grande cisterna di cemento che serviva a irrigare i giardini di agrumi di Altarello, e nuotava, senza stile né timore, come esercizio fisico per tenersi in forma, come la ginnastica nel periodo del carcere.

 

L’ “incontro” con la politica, le feste dell’Unità, la guerra in Vietnam

Nel nuoto, come in altre circostanze sportive, sia mio fratello che io ci siamo misurati con lui sulla breve distanza, con risultati alterni, senza sapere se fossimo realmente più veloci o se ci facesse vincere. Sin da piccolo era stato abituato ad alzarsi presto al mattino per aiutare il padre nei lavori in giardino (così chiamavano quel piccolo terreno di proprietà davanti alla casa, destinato ad agrumeto, con una piccola stalla), abitudine che avrebbe mantenuto da adulto, insieme a quella della ginnastica, appena sveglio, che non abbandonò mai. Essere in forma era la condizione per affrontare gli impegni. Nulla di estetico, anche se non trascurava il suo aspetto e gradiva, a questo riguardo, i suggerimenti di mamma e di noi figli.

Né mio fratello né io, da buoni figli di comunisti, siamo stati battezzati alla nascita, di conseguenza non abbiamo ricevuto un’educazione religiosa. Filippo fu battezzato a dieci anni dal suo maestro elementare. Alla sua stessa età, frequentavo la parrocchia dietro casa, ero diventato chierichetto e servivo messa, finché, confessata la colpa originaria a Padre Mario, non fui, da lui stesso, allontanato. In verità, me lo mandò a dire, tramite un amichetto, col quale frequentavo la sacrestia di Regina Pacis, la parrocchia del quartiere Matteotti: Padre Mario ha detto di non farti più vedere. 

Non ho mai ricevuto alcun divieto a questo riguardo e nessun plauso quando ho smesso di frequentare la chiesa. I nostri genitori non avevano ritenuto di doverci educare secondo precetti religiosi. L’insegnamento era che la scelta, in questo caso, spettasse a noi e non potesse essere trasmessa, ispirandosi, quindi, ai principi di laicità e responsabilità. Negli anni, entrambi gli episodi sono stati oggetto di commenti. Le chiacchiere familiari, tra il serio e il faceto, ci davano lo spunto per ragionare insieme sul libero arbitrio, sulla presunzione di certi insegnanti e la miopia di alcuni sacerdoti.

Sin dalla mia infanzia mi sono sentito autonomo. Diciamo che godevo di una certa libertà di movimento, nei limiti imposti dall’età e, dentro quei confini, mi sentivo consapevole delle scelte e delle decisioni che assumevo. Crescevo respirando questi principi che si sono dimostrati molto utili nell’affrontare le cose della vita, anche nei suoi passaggi impegnativi.

La domenica mattina accompagnavo mio padre a comprare i giornali all’edicola vicino casa. Era un piccolo rito, si scambiavano due chiacchiere con il giornalaio e si tornava a casa. Anche in quella circostanza, mio padre non perdeva l’occasione per informarsi e ascoltare. Lui, con la sua mazzetta di giornali, e io con Topolino, il mio fumetto preferito, ci mettevamo a leggere insieme. In genere, preferivo conservare il fumetto per dopo e leggere prima i suoi giornali. Questa consuetudine ha stimolato la voglia di conoscere quanto accadeva attorno a me, ha nutrito il gusto della scoperta, mi ha fatto capire l’importanza di confrontarmi con opinioni diverse dalle mie e ha stimolato la curiosità per le cose del mondo. Passioni che sono oggi parte fondante del mio carattere e hanno contribuito a molte scelte rilevanti. Certe volte, sapendo che mi faceva sentir grande, mi proponeva di andare da solo dal giornalaio, e prima che fosse lui a chiedermelo, di mia iniziativa, gli ripetevo la lista dei quotidiani da acquistare, una decina, per dimostrare di essere all’altezza del compito ed evitare di dimenticarne qualcuno, e non mi sembra che sia mai successo. Un’abitudine mantenuta negli anni trascorsi a Palermo. Mi piaceva molto sfogliare l’Espresso – mi attraeva per il formato fuori misura e per le grandi foto, caratteristiche che lo rendevano differente dagli altri giornali – e fare domande su quello che non mi era chiaro.

Iniziavo, con naturalezza, ad aprire gli occhi e mi aspettavo, altrettanto naturalmente, che mio padre mi aiutasse a orientarmi, e lui era lì, vicino a me, a fornirmi gli elementi per venirne a capo e a stuzzicare nuove curiosità.

Contro la guerra

Negli anni in cui frequentavo la scuola media, parliamo del 1966-1969, senza che me lo chiedesse espressamente, forse per emulazione e un po’ per gioco, ho incontrato la politica. Da ragazzino quale ero e senza un calcolo preciso, condividevo questa scoperta con un gruppo di coetanei. Mio padre non poteva che apprezzare ma non forzava, non sollecitava, non chiedeva conto, al massimo suggeriva spunti e offriva occasioni, questo sì, ma lasciava che fossi io a prendere l’iniziativa.

Come quando, dopo aver fondato con gli amici il Club dell’Amicizia, gli chiedemmo se ci fosse uno spazio in federazione, dove poterci ritrovare, e lui mise a disposizione una stanza in soffitta, rendendoci felici e avendo anche la delicatezza di non domandarci perché avessimo scelto un nome così banale per il nostro club. Raccoglievamo piccole donazioni, in cambio di omaggi che offrivamo ai visitatori della Festa dell’Unità, con cui finanziavamo il nostro giornalino.

Accanto a questi primi vagiti di una coscienza adolescenziale, conviveva il ragazzino cui piacevano i giochi della sua età. Avevo visto sui banchi del reparto giocattoli dell’Upim, il primo grande magazzino aperto a Palermo, un elmetto militare diverso dal solito. Era di quelli mimetici e mi avevano colpito i colori e le foglie di plastica, di diverse sfumature di verde, che lo ricoprivano. Dopo qualche giorno, raccolte le duecentocinquanta lire necessarie, lo comprai e, tornato a casa a mostrare felice e soddisfatto il mio acquisto, ebbi il mio primo confronto dialettico. 

Mio padre mi accolse con una domanda:

– Ti piace la guerra?

– Quella vera no, mi piace giocare alla guerra coi miei amici.

– E dimmi una cosa: perché hai scelto questo elmetto?

– Mi è piaciuto perché era diverso dagli altri e non costava

tanto, come fucili, pistole e cose simili.

– Ma tu lo sai chi indossa questo elmetto?

– I soldati – risposi sicuro.

– Certo, i soldati, forse non mi sono spiegato bene, inten-

devo: quale esercito?

– Non lo so, dimmelo tu.

– L’esercito degli Stati Uniti. E sai in quale guerra viene

indossato?

– Veramente no, a scuola non l’abbiamo ancora studiato.

– Nella guerra del Vietnam contro i Viet Cong, che lottano per la riunificazione e l’indipendenza del loro Paese. Infatti è ricoperto di foglie, perché così i soldati americani si possono mimetizzare nella giungla, dove combattono.

Non un caso, quindi, se la prima manifestazione alla quale io abbia partecipato fosse per la pace e contro la guerra in Vietnam. Avevo dodici anni ed ero andato con mia madre a protestare davanti al Consolato USA di Palermo.

 

 

Brani tratti dal  libro “Sulle mie ginocchia” di Franco La Torre a cura di Attilio Bolzoni e Francesco Trotta in collaborazione con l’associazione Cosa vostra