La trattativa Stato-mafia non c’è mai stata

“La trattativa Stato-mafia non solo non è più presunta, ma non c’è mai stata – scrive Damiano Aliprandi nel suo articolo su “Il Dubbio” – La Corte di Cassazione ha annullato – senza rinvio – la sentenza d’appello, riformulando l’assoluzione nei confronti degli ex Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. Da “Il fatto non costituisce reato”, gli ermellini li hanno definitivamente assolti con “non hanno commesso il fatto”. Quindi non solo sono innocenti, ma non hanno veicolato alcuna minaccia mafiosa nei confronti dei governi Amato e Ciampi”.

Aliprandi da tanti anni, ormai, segue le vicende legate alle stragi del ’92 e alla cosiddetta Trattativa Stato-mafia, il teorema di una “minaccia al corpo politico dello Stato” che… non c’è mai stata!

“Un teorema che ha fatto acqua da tutte le parti fin dall’inizio – scrive il giornalista – E infatti ha perso i pezzi durante questo decennio di travaglio giudiziario pompato mediaticamente. I politici della Prima Repubblica, quelli che secondo la tesi giudiziaria avrebbero dato l’avvio alla trattativa per garantirsi l’incolumità dalla mafia corleonese, sono stati assolti già dal primo grado. L’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che ha scelto il rito abbreviato, è stato assolto fino in Cassazione per non aver commesso il fatto. Mentre l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino è stato scagionato in primo grado per non aver commesso falsa testimonianza. L’unico politico imputato rimasto è quello della Seconda Repubblica. Parliamo dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, colui che avrebbe proseguito, al posto dei Ros, la trattativa: in quel caso, la vittima sarebbe stato il governo Berlusconi. Assolto con formula piena in secondo grado e confermata dalla Cassazione”.

La Sesta sezione penale della Corte di cassazione ha emesso sentenza definitiva nei confronti di Bagarella ed altri, confermando la decisione della Corte di assise di appello di Palermo nella parte in cui ha riconosciuto che negli anni 1992-1994 i vertici di “cosa nostra” cercarono di condizionare con minacce i Governi della Repubblica italiana (Governi Amato, Ciampi e Berlusconi), prospettando la prosecuzione dell’attività stragista se non fossero intervenute modifiche nel trattamento penitenziario per i condannati per reati di mafia ed altre misure in favore dell’associazione criminosa.

Nei confronti di tutti gli imputati era stato contestato il reato di minaccia ad un corpo politico dello Stato.

La sentenza, riqualificato il reato nella forma tentata, ha dichiarato la prescrizione nei confronti di Leoluca Bagarella e Antonino Cinà in relazione alle minacce ai danni dei Governi Ciampi e Amato, essendo decorsi oltre 22 anni dalla consumazione del reato tentato.

“La corte d’Appello – riporta l’articolo – ha fin da subito dichiarato prescritto il reato di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Sia Brusca che Ciancimino, usciti incolumi dal processo, sono stati i testimoni chiave che hanno permesso di avviare il processo trattativa. Senza di loro, il processo non si sarebbe mai potuto imbastire. E di fatto, le loro tesi sono state già smontate da vari giudici: Ciancimino è risultato contraddittorio, calunnioso e anche fabbricatore di una prova rivelatasi una patacca: il fantomatico “papello di Riina”. Poi c’è Brusca che – come hanno evidenziato i giudici di primo e secondo grado che assolsero Mannino – si è fatto chiaramente suggestionare dalle notizie, dai processi in corso e non per ultimo da chi lo interrogava”.

Anni di processi nelle aule giudiziarie, negli studi televisivi, ai tavoli dei bar e nei saloni dei barbieri, che hanno finito con il creare una cortina fumogena che ha reso invisibile una delle cause reali dell’accelerazione della strage di via D’Amelio, quell’indagine su mafia e appalti voluta da Giovanni Falcone, condotta da Mori e De Donno, e che Paolo Borsellino avrebbe voluto portare avanti.

Anni di processi sui quali si sono costruite carriere di magistrati, si sono scritti libri e articoli, prodotti  programmi televisivi che hanno dato notorietà a giornalisti che forse avrebbero fatto bene a curare la rubrica culinaria o quella sportiva, provando di contro a zittire quei pochi che invece hanno avuto il coraggio e l’onestà intellettuale di fare informazione basandola sui fatti e non sulle veline o i desideri di questo o quel magistrato.

Per non parlare della censura applicata ai famigliari del giudice Borsellino e al loro legale, l’avvocato Fabio Trizzino, dando invece ampio spazio a presunti esperti, personaggi equivoci e magistrati, questi ultimi pronti a sentenziare mediaticamente su un processo non ancora concluso nei gradi di giudizio, al quale avevano preso parte.

Cosa faranno e diranno questi magistrati e questi “giornalisti togati” dopo che i loro processi si sono rivelati fallimentari?

 “Tra le due stragi inaudite ordite dai corleonesi (Capaci e via D’Amelio – ndr), l’allora generale Mario Mori decise di fare un salto di qualità nelle indagini antimafia – scrive Aliprandi – Di fatto lui era il responsabile a livello nazionale del reparto criminalità organizzata dei Ros. Decise, quindi, una strategia in due tempi: sensibilizzare i suoi ufficiali per avere fonti confidenziali di maggiore qualità e creare una struttura per la cattura dei latitanti, tra cui in particolare Totò Riina.

Quest’ultimo non solo perché era il capo di Cosa nostra, ma anche perché l’allora maresciallo Antonino Lombardo gestiva una fonte che aveva riferito una buona strada per arrivare a Riina, dicendo che “tutte le strade per catturarlo passavano per la Noce, i Ganci e i fratelli Sansone, clan dell’Uditore”. Mori dette l’incarico all’allora capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, per il primo gruppo. Cosa che poi, grazie anche al coordinamento di altri elementi sopravvenuti come la cattura in Piemonte dell’ex autista Di Maggio (utile solo per il riconoscimento del capo dei capi) da parte dell’allora generale Delpino, si arrivò alla cattura di Riina. Ogni tassello è stato fondamentale per concludere l’operazione dei Ros.

Per quanto attiene alla ricerca di nuove e più qualificate fonti, l’allora capitano Giuseppe De Donno disse a Mori di aver già indagato su Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, per due indagini che portarono all’arresto dello stesso, e alla condanna in via definitiva per associazione semplice. Sempre all’inizio del 1992 Ciancimino fu condannato per associazione mafiosa. Si trovava, dunque, in una situazione in cui i Ros pensavano che potesse diventare una buona fonte, anche per i suoi rapporti sia con la politica che con Cosa nostra. Così De Donno fu autorizzato da Mori nel tentare di contattare Vito Ciancimino. Ribadiamo un concetto: gli ex Ros non hanno mai negato che ci sia stato un contatto preliminare tra loro e Ciancimino. La procura di Palermo è stata avvisata – compreso del contenuto dell’interlocuzione – subito dopo che è andato via Giammanco e si è insediato Caselli come nuovo capo procuratore. Nulla di scandaloso o inedito.

D’altronde, per capire bene di che cosa si sta parlando, bisogna premettere che i pentiti non nascono dal nulla. Lo ha spiegato molto bene l’allora magistrato Guido Lo Forte al Csm nel 1992, quando si riferì alla gestione di Mutolo: “Un collaboratore non viene fuori dal nulla, ma c’è tutta una fase preliminare di contatti, di trattative, che normalmente non sono dei magistrati ma di altri organi”. Ed è esattamente quello che hanno tentato di fare Mori e De Donno con Ciancimino, con l’aggiunta di volerlo in qualche modo “reclutare” per entrare nel sistema degli appalti. Operazione fallita, perché subito dopo – per ordine dell’allora ministro della giustizia Claudio Martelli (lo testimonia lui stesso) – Ciancimino è stato sbattuto al carcere romano di Rebibbia. Punto. Dopodiché tutto è stato stravolto, tra pentiti come Brusca che ritrattano la loro memoria a seconda di quello che apprende nei notiziari e nei processi, e il figlio di don Vito che collaborava con la procura calunniando e fornendo prove farlocche, mentre nel contempo riciclava il “tesoro” di suo padre”.

Prove farlocche, pentiti “suggestionati” e un processo infinito che ha rovinato la vita e l’immagine di chi realmente ha combattuto la mafia, dando adito a teoremi e fantasie sulla mancata cattura di Provenzano e la mancata perquisizione del covo di Riina.

“Assolti su tutto – conclude Aliprandi – E ci mancherebbe visto che sono tesi pieni di congetture, utili magari per le prossime serie su Netflix. Speriamo non più per un’aula giudiziaria”.

“Bisognerà leggere le motivazioni della sentenza per cogliere fino in fondo la portata della pronuncia della cassazione – afferma l’avvocato Salvatore Ferrara – Ma un primo dato è possibile ricavarlo dal dispositivo della sentenza ed anche dalle parole del PG. Mori, Subranni e De Donno, secondo la Suprema Corte il fatto non l’hanno commesso.

Sembra quindi che la Corte intenda sottolineare nell’accertamento della responsabilità penale il necessario primato del fatto, dell’accertamento rigoroso delle condotte rispetto ai collegamenti, alle verosimiglianze, al criterio inferenziale adoperato più o meno logicamente.

Non c’è dubbio che il processo trattativa è stato al contempo un caso giudiziario e  mediatico che ha alimentato trasmissioni televisive foraggiate da ingenti investimenti in  pubblicità, libri e relative presentazioni, spettacoli teatrali (E’ stato la mafia n.d.r.) a pagamento.

Due aspetti andranno nel tempo approfonditi dagli esperti.  Quale è stato il rapporto tra caso mediatico e il caso giudiziario? Se il fatto non c’è perchè ci sono voluti tanti anni per capirlo? Quanto può avere inciso la pressione mediatica nella serenità che dovrebbe presiedere alla funzione giudiziaria? E’ possibile che l’accusa abbia ceduto, magari in buona fede, alla tentazione della ricerca del consenso più che delle prove celebrando pseudoprocessi sui media ? Quanto questo può incidere nella credibilità della magistratura e delle forze dell’ordine e quindi nella fiducia dei cittadini nelle istiituzioni?

Per capire quanto una certa deriva  ha inciso nella mentalità comune basti pensare che subito dopo la cattura di un importante latitante, per molti  il primo pensiero non è stato quello di complimentarsi con i magistrati e le forze dell’ordine che hanno guidato l’operazione ma quello di vedere gli albori di un sequel della trattativa, in cui la cattura del latitante  costituiva un motivo di sospetto piuttosto che un merito.. Ricordo che Mori guidò la cattura di Riina ma secondo alcuni questo sembra essere una conferma di loschi intrighi piuttosto che un merito.

 Una seconda considerazione. Chi risanerà le vite degli imputati, molti in età avanzata,  degli anni perduti a difendersi da accuse infamanti? Può esistere una responsabilità dello Stato da processo anche nel caso di un esito assolutorio? Credo che, al di là del processo trattativa – conclude l’avvocato Ferrara – un meccanismo di responsabilità pubblica, oltre a quello della responsabilità civile, che preveda anche un indennizzo per il danno da processo potrebbe indurre ad una maggiore oculatezza nella gestione delle risorse della macchina giudiziaria privilegiando le ipotesi supportate da riscontri affidabili in grado quindi di arrivare ad una probabile condanna giudiziaria più che mediatica”.