22.5.1993 MANFREDI BORSELLINO: «Ogni giorno rivedo mio padre morire»

 


«Mi terrorizza il ritorno del caldo Con l’estate riaffiora il ricordo di quei giorni di grande afa Intervista a Manfredi: «Nessuno si preoccupa di avere rispetto di noi, del nostro dolore»  
«Vorrei poter andare sulla sua tomba al cimitero quando ne ho voglia senza essere spiato Ma posso farlo una volta al mese»

«Falcone veniva qualche volta a cena qui da noi. Ma non spessissimo. Fra lui e mio padre esisteva un rapporto profondamente umano, che però finiva con l’esaurirsi quasi esclusivamente sul tavolo da lavoro, nelle loro stanze chiuse di magistrati, nei loro lunghi discorsi durati anni. Io Giovanni Falcone me lo ricordo in maniera più netta, più personale, in una circostanza lontana nel tempo: quando ci trovammo tutti all’Asinara, otto anni fa, all’epoca in cui le nostre famiglie furono trasferite nell’isola, quasi a forza, per motivi di sicurezza…».
dManfredi Borsellino, il figlio del magistrato Paolo, un anno dopo. Anzi, dieci mesi dopo la strage di via D’Amelio in cui fu assassinato suo padre. Manfredi nella sua casa di via Francesco Cilea, la stessa in cui viveva insieme con il papà magistrato e in cui ancora vive con la madre Agnese e le sorelle Lucia e Fiammetta. E’ strano: l’anniversario della morte di Falcone ha coinvolto anche la famiglia Borsellino, come se ci fosse una fretta generale nel riunire e celebrare in un’unica data, in un’unica funzione corale, la morte e il ricordo dei due magistrati uccisi. Si tratta di una tipica forzatura «mediologica» e di questa forzatura Manfredi soffre moltissimo. Insieme con lui soffrono anche i suoi familiari.
Allora, Manfredi, com’era Giovanni Falcone otto anni fa all’Asinara? «Tutto diverso da come sembrava, da come lo si vede nei filmati, da come viene ricordato…». Più simpatico o più antipatico? «Più simpatico. Giocherellone. Io avevo allora tredici anni, ero un ragazzino, un adolescente anche se capivo, avvertivo quello che succedeva intorno a noi. Era un periodo terribile di tensione, mio padre, mia madre, Giovanni e Francesca erano tutti molto tesi anche se con noi ragazzi cercavano di dimostrarsi sereni e soavi. Di fatto, noi tre fratelli Borsellino vivevamo in una dimensione un po’ speciale, che per me era quella di una strana e straordinaria vacanza. In realtà, invece, mia sorella Lucia soffrì moltissimo per quella specie di prigionia, e la si dovette riportare a Palermo».
E dunque come le appariva Giovanni Falcone? «Secondo me Falcone all’Asinara dette il meglio di sé. Era allegro e spensierato, sembrava tornato un ragazzo e lo sentivo più affine alla mia adolescenza che al loro mondo di adulti. Naturalmente questi sono ricordi deformati dall’età e dal tempo. Tuttavia di Giovanni Falcone in quel periodo ricordo un amico-ragazzo, un compagno di giochi e di serate allegro spiritoso, qualche volta esilarante. A Falcone piaceva molto raccontare barzellette…».
Ed era bravo? «Qualche volta sì, qualche volta no. Ma riusciva quasi sempre a far ridere: voglio dire che emana va una rassicurante simpatia».
E di Francesca Morvillo, sua moglie, che cosa ricorda? «Francesca era una grande amica di mia madre. Tra loro si era sta bilita una grande complicità, un affiatamento fra donne… Sa, uscire insieme per le compere, raccontarsi le paure, consolarsi nei momenti più duri… Vede, mia madre, fra i quattro adulti delle nostre due famiglie, era l’unica che non indossava la toga di magistrato. Si può dire che era la so la persona del quartetto che man tenesse sempre gli abiti civili in dosso. E credo che dobbiamo a lei se sono esistiti anche rapporti nella dimensione della pura amicizia. Di fatto, tra lei e Francesca si era stabilito un rapporto veramente solido».
Che cosa provate in questi giorni, mentre la tv trasmette brani in cui si vede vostro padre vivo? «Proviamo un grande piacere, in sieme ad un sottile dolore. Ma il piacere prevale. Riconoscere lo sguardo di mio padre nelle imma gini registrate dà a me e alle mie sorelle e a mia madre una sensa zione forte, talvolta insopporta bile, ma sempre gradevole. Del resto, siamo molto spesso proprio noi a guardare e riguardare le cassette registrate in cui possia mo rivederlo, fermare la sua immagine, riascoltare la sua voce e io mi fermo spesso a meditare su quello sguardo, lo sguardo di mio padre è qualcosa che ci va diritto al cuore, ancora oggi e sarà così per sempre».
E che impressione fa a voi il fatto che tutti gli italiani vedano ciò che voi vedete, assorbano nell’animo le immagini di Falcone e di Borsellino come se fossero dei cari parenti o dei cari amici di tutta la società? «Io e le mie sorelle, in realtà, siamo di una possessività gelosissima della figura paterna. Dunque questo consumo universale e corale della figura di nostro padre ci fa profondamente soffrire e lo dico riconoscendo sùbito quanto si tratti di un sentimento elementare, quasi primitivo, ma appunto per questo ineliminabile e profondissimo. Vederlo così dato in pasto al pubblico, ci fa provare un senso di gelosia irreparabile, una gelosia totalmente ingiusta, dalla quale noi stessi ci difendiamo partecipando al massimo a questa necessità corale dell’intera nazione che ha in mio padre e in Giovanni Falcone i simboli della rinascita di una società civile lungamente offesa».
E tuttavia voi non rifiutate quest’orgia di filmati... «A dire la verità, noi siamo traumatizzati e voglio osservare che c’è un ulteriore motivo di sofferenza per la nostra famiglia. E sta nel fatto che apparentemente nessuno si preoccupa troppo di avere rispetto per noi come persone, come figli, come familiari del magistrato ucciso. Cerco di spiegarmi: vedere il viso di mio padre, è una emozione forte ma bella, come le ho detto. Ma vederci riproporre in maniera ossessiva e feroce le immagini della strage di via D’Amelio, le immagini della strage di Capaci, il sangue sparso, il fumo, l’orrore di quel pomeriggio, mi creda questo costituisce uno choc ripetuto all’infinito in maniera terribile, feroce, quasi sanguinaria. Ogni volta che vediamo quelle immagini, che non sono il volto rassicurante di nostro padre ancora vivo mentre parla sorride e discute, noi proviamo un colpo al cuore terribile. E penso che di questo nessuno si renda conto, di questo nessuno abbia il senso della misura».
Le immagini della bomba in via Fauro han trovato in voi la stessa sensazione? «Sì. Ed è stata atroce». Tuttavia vostro padre, come Giovanni Falcone, viene onorato da quando è morto ogni giorno: la sua memoria è realmente viva nell’animo di tutti gli italiani e non è stata dimenticata od omessa neppure per un giorno.
Non le sembra che questo sia un fatto importante e positivo? «Sì. E anche giusto. Nella sua atrocità, anche bello, esaltante. Tuttavia devo anche aggiungere che tutto ciò non somiglia affatto a ciò che mio padre era».
In che senso? «Nel senso che mio padre non amava affatto tutte queste trombonate. Odiava le cerimonie ufficiali, detestava le trombe e i tamburi, non sopportava le parate, i cortei, tutto ciò che fa parte dell’apparato scenografico esterno. Tutte queste manifestazioni ufficiali e corali io credo che avrebbero provocato in lui un grandissimo imbarazzo, e in qualche caso l’avrebbero fatto scoppiare a ridere. Amava le cose semplici e lineari, in questo del tutto simile al suo amico Giovanni Falcone, ed era una persona che coltivava amicizie sempre estranee all’ambiente di lavoro e che viveva la sua semplice vita totalmente immerso nella sua città».
Chi erano i suoi amici? «Mah, persone sconosciute al grande pubblico, come fratelli ma senza un nome da dare in pasto alle cronache. Il suo amico più caro era un ginecologo e con lui amava fare le conversazioni più lunghe e svagate sulle piccole cose della vita. Non sopportava l’ufficialità in pompa magna».
Voi della famiglia in questi giorni siete tuttavia profondamente coinvolti nel clima delle celebrazioni. «Sì». E le fa piacere? «Piacere no. Fa parte dei doveri e anche del rispetto totale che noi tutti proviamo per il senso civile di queste cerimonie, di queste rievocazioni.
Però se lei mi pone la domanda da un punto di vista strettamente personale io le devo dire che il mio più grande desiderio sarebbe quello di poter andare a trovare mio padre al cimitero quando ne ho voglia, farlo in qualsiasi ora del giorno, farlo senza essere osservato, spiato, scortato, senza dovere limitarmi a rendere questa visita soltanto una volta al mese alle 7,30 del mattino con una macchina che varca il cancello del cimitero e che procede diritta sparata sino alla piccola cappella in cui ci è consentito ritrovarci e chiuderci nella nostra intimità».
Quali sono i sentimenti più privati che provate in queste ore? «Ci sentiamo scossi e preoccupati. Divisi tra la necessità di rendere sempre disponibile la nostra testimonianza a tutti coloro che cela chiedono, e il desiderio di viver^ in modo sereno e privato il nostro dolore e il ricordo intimo e non divulgabile dell’uomo che ci è stato strappato il 19 luglio del 1992».
Lei tuttavia ha tenuto a Roma una sorta di emozionante lezione all’apertura dell’anno giudiziario, nell’aula magna della Sapienza? «Sì, l’ho dovuto fare, altrimenti sarei esploso. Avevo con me la lettera che mio padre aveva scritto il giorno della sua morte, una lettera in cui lui spiegava a una professoressa che lo aveva invitato a parlare nella sua scuola che i suoi impegni non gli consentivano purtroppo di accogliere quell’invito, ma confidava tutte le sue speranze e i suoi timori per la lunga e dura lotta controdfla mafia che lo vedeva in prima linea. Si tratta di un documento di enorme importanza per capire quale uomo deciso e mite, lucido e generoso, fosse mio padre».
Falcone e suo padre erano rimasti sempre in contatto, anche negli ultimi tempi? «Certamente sì. Falcone, lo ripeto, era una persona cara, ma anche un estraneo: nel senso che apparteneva al mondo del lavoro di mio padre e soltanto marginalmente a quello della vita di tutti i giorni». Ma loro due, per quanto lei poteva vedere, mantenevano un rapporto anche di affetto oltre che di semplice cordialità? «Moltissimo. Falcone e Borselhno si amavano profondamente ma non avevano un tempo di concedere margini alla loro amicizia: si vedevano, per lavoro, si parlavano per lavoro, si telefonavano concitatamente e affettuosamente. Ma sempre per parlare di lavoro. Poi promettevano di vedersi, rinviavano il giorno in cui finalmente avrebbero cenato insieme, il giorno in cui Giovanni Falcone sarebbe tornato di nuovo a casa nostra con quel suo sorriso che mi ricordava il periodo strano e felice dei mesi dell’Asinara. Di qui un certo senso di rimpianto, di rinvio continuo in vista di un’epoca migliore in cui avrebbero potuto finalmente vedersi e parlare di cose diverse, di se stessi magari, di noi, del loro passato, dei loro affetti. Tutto ciò è ora impossibile».
Lei seguita ad apparire un ragazzo molto forte e determinato. E’ soltanto un’impressione o lei si sente davvero rafforzato nell’animo? «Devo a tutti i costi essere forte e non cedere ai momenti di debolezza. Del resto anche le mie sorelle sono forti, per non dire della mamma. Come lei ricorda, mia sorella Lucia fu capace di un gesto quasi eroico nel momento terribile del dolore. Sostenne un esame durissimo di farmacologia il giorno successivo a quello della morte di nostro padre. Direi che noi Borsellino siamo fatti così.
Che cosa teme di più adesso? «Che il 19 luglio prossimo, quan do cadrà l’anniversario della morte di mio padre, tutto questo apparato ricomincerà di nuovo a muoversi: celebrazioni, articoli, tv. E interviste».
Lei sta provando sofferenza nel dare questa intervista? «Un po’ sì. Mi fa soffrire. Mi fa soffrire questo rivangare continuo, preferirei se potessi non farne nulla, vorremmo tutti star fuori da questo meccanismo terribile, anche se inevitabile e a suo modo giusto. Ma non è possibile e allora, tanto vale. Però, mi creda, non sono cose che si possono fare con animo lieto. Vede, noi Borsellino siamo soli. Direi che siamo molto soli. Di tanto in tanto, secondo una ciclicità dettata da eventi a noi esterni, veniamo investiti da queste ondate di richieste di apparizione, da questi fiumi di attenzione, alternati a momenti di silenzio assoluto. Questi momenti contengono qualcosa di molto bello, di molto nobile, e civico: molto meglio tutto ciò che non l’oblio, sono d’accordo. Ma in questa forte pressione determinata dalle esigenze della comunicazione, della tv e dei giornali, c’è anche una profonda mancanza di considerazione per i nostri sentimenti».
Qual è il rimprovero che lei sente di fare al mondo dell’informazione? «Nulla, proprio nulla. Ripeto: ci rendiamo conto. Ma credo che pochi o nessuno sia in grado di riflettere sul fatto che certe parole, certe immagini, certi accorgimenti elettronici peremo, cumulano e fanno esplodere i nostri ricordi che finiscono scaraventati così in modo tanto brusco contro la nostra memoria e la nostra sensibilità fino a provocare un dolore lancinante».
«Dopo dieci mesi, la prego: non dopo un anno. Un anno fa fu Giovanni Falcone a morire, non Paolo Borsellino.
Mi perdoni: ma è quasi un’ossessione questo tentativo di racchiuderli tutti e due in una sola bara, in un solo evento, persino in un’unica data.
Dunque, lei mi chiede che tipo di vita facciamo. Beh, la vita di sempre: studiamo, stiamo in casa con la mamma, usciamo con le persone a noi care. La stessa vita che facevamo quando nostro padre era con noi».
C’è qualcos’altro che la turba in questi giorni? «Sì. L’arrivo del caldo. Con l’estate, torna anche il ricordo di quelle giornate. Riaffiora la memoria di quella calura che portò via nostro padre per non restituircelo più. Mio padre lavorava sempre, anche nei mesi più torridi. Anche nei pochi giorni di vacanza in cui -andavamo nella nostra villetta. Adesso l’estate sta tornando. E’ mio padre che non torna più».

LaStampa 22/05/1993 

 

 

 

 

Manfredi Borsellino