Morte di BORSELLINO Un «affaire» di Stato

17.7.2002 LA STAMPA

NON sono bastati dieci anni di indagini, non sembrano sufficienti tre processi, sette sentenze (seppure una definitiva ma solo per due imputati) e una montagna di carte per strappare la tragica vicenda del procuratore Paolo Borsellino alla cortina fumogena che l’avvolge e che non si riesce a diradare. Il 19 luglio del 1992, 56 giorni dopo la strage di Capaci, il giudice saltò in aria insieme coi cinque agenti della scorta.
Era sul portone di casa della madre, in via Mariano D’Amelio, e attendeva che la donna gli rispondesse al citofono. Una carica di tritolo, centinaia di chili, travolse ed annientò uomini e cose: i resti delle vittime furono sparsi per metri e metri, fino ai piani alti.
Impossibile ricomporre quei cadaveri: erano Paolo Borsellino, Walter Eddie Cusina, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano ed Emanuela Loi, una delle prime donne poliziotto adibite al servizio scorte.
La strage, quasi per riflesso condizionato, fu messa in relazione con la precedente: come se l’amicizia tra Falcone e Borsellino, nati e cresciuti nella Palermo popolare della Magione, fosse il filo che univa due storie accomunate dallo stesso crudele destino. E invece il corso delle inchieste non pare aver; preso lo stesso approccio fortunato. E’-trascorso abbastanza- tempo, sono stati raccolti tanti di quegli indizi, da poter far concludere che mentre  la strage di Capaci rè stata vivisezionata fino a raggiungere più d’una certezza (almeno per quel che riguarda il ruolo di Totò Riina e Leoluca Bagarella, la fase esecutiva e i macellai che vi presero parte) la storia della morte di Paolo Borsellino, invece, si va «avvitando» sempre più e si sposta più sul terreno dell’affaire di Stato che su quello della «bassa macelleria».
Forse l’inchiesta di via D’Amelio risulta inficiata dalla presenza contraddittoria di Enzo Scarantino, un pentito che soffre troppo di sbalzi d’umore ed ha tradito una qualche vocazione alla facile influenzabilità. Ma forse l’indagine contiene in sé il virus che genera incomprensioni, quando non addirittura veri e propri depistaggi.
Per afferrare il filo della morte di Paolo Borsellino bisogna inseguire più rivoli di uno stesso fiume, rivoli dispersi su fascicoli disseminati nei tribunali di mezza Italia (Palermo, Caltanissetta e Firenze soprattutto) ed anche negli archivi della Commissione parlamentare antimafia. Dov’è individuabile il virus? Prendiamo la «svolta» recente del «processo bis»: la deposizione di Gioacchino Genchi, esperto informatico della Polizia di Stato, chiamato a spiegare come il telefono della mamma di Borsellino potesse essere stato messo sotto controllo. Il funzionario si è detto dubbioso sull’avvenuta intercettazione attraverso l’infedeltà di qualche tecnico Telecom ed ha spostato l’attenzione su una struttura del servizio segreto civile che vanta una sede di copertura sul Castello Utveggio, in una posizione ideale per azionare il telecomando senza doverne subire il contraccolpo. Così, a prima vista, può sembrare la solita, inconcludente boutade sui «cattivi» agenti segreti.
Ma la presenza di qualche agente esterno alla mafia, nell’affaire Borsellino si è sempre avvertita, anche se nessuno ha mai approfondito. Ed è una presenza che si ritrova ripercorrendo gli avvenimenti tragici che vanno dal 1992 alla fine del 1994: una catena che ha camminato parallela all’azzardo di Cosa Nostra di tentare il condizionamento dello Stato italiano attraverso lo stragismo. Fantasie? Non esattamente, se è vero che di questi accadimenti si occupa il Parlamento, che ha già avviato le audizioni dei magistrati della Procura Nazionale, dei pm di Caltanissetta e di Palermo.
Ecco, se si potesse dare un movente alla fine di Borsellino, si dovrebbe trovare spiegazione alla definizione che della morte del giudice è stata offerta dai magistrati che si occupano delle stragi: da Vigna a Gabriele Chelazzi, a Luca Tescaroli, a Paolo Giordano, allo stesso Tinebra. Secondo una ricostruzione conclamata, la strage Borsellino è stata una «accelerazione» alla strategia di Cosa Nostra che, già dal 1991, pensava a come uscire dalla trappola degli ergastoli del primo maxi¬ processo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, appunto. Accelerazione? Già, proprio così.
Ma cosa si doveva accelerare nel 1992, a meno di due mesi dal disastro di Capaci, proprio mentre Cosa Nostra si vedeva già confinata al carcere duro di Pianosa e dell’Asinara (il decreto esisteva già) e cominciava a prendere coscienza del «pessimo affare» concluso col tritolo? Forse Totò Riina e i suoi fedelissimi – costretti all’isolamento dall’opposizione dell’ala meno oltranzista della «cupola» (Provenzano, Aglieri e praticamente la vecchia mafia palermitana) – si sentivano al centro dell’attenzione, dopo Capaci.
Perché, mentre da un lato lo Stato mostrava la faccia dura della repressione agitando lo spettro del doppio regime processuale e «inventando» il «41 bis», che sarebbe poi diventato il ritornello degli anni cosiddetti della «trattativa», dall’altro mandava i carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno – due dei migliori ufficiali della più prestigiosa istituzione militare – a cercare un modo per far cessare le stragi ricorrendo alla mediazione di personaggi come l’ex sindaco Vito Ciancimino e i suoi tramiti col vertice «corleonese».
La storia la conosciamo, il papello descritto dal pentito Giovanni Brusca con le richieste allo Stato: in testa ci stavano il problema dell’ergastolo e la revoca del carcere duro. Prima ancora Riina e soci ci avevano provato offrendo il recupero di qualche opera d’arte in cambio di scarcerazioni, magari per motivi di salute, per un gruppo della «cupola».
A che si riferiva, Borsellino, quando disse che aveva deciso di andare a Caltanissetta per farsi interrogare dai colleghi che indagavano sulla strage di Capaci? Già, il «41 bis»: un tormentone che non è ancora finito.
Un tormentone che sembra aver condizionato le scelte cruente di Cosa Nostra, quasi costretta – dopo la famosa «accelerazione» – a buttarsi a capofitto in una guerra senza quartiere: via Fauro, Firenze, San Giovanni e il Velabro con l’inquietante black-out di palazzo Chigi del 28 luglio 1993, Milano, il tentativo di uccidere col tritolo il pentito Salvatore Contorno, fino alla mancata strage dell’Olimpico che, il 31 ottobre 1993, avrebbe dovuto mietere vittime tra i carabinieri del servizio d’ordine allo stadio.
Se bisogna dar credito a quanto emerge dalle prime audizioni della Commissione antimafia (il 2 luglio sono stati sentiti Vigna e Chelazzi) c’è un movente politico a tutto ciò.
Una sorta di colloquio a distanza tra mafiosi e vari soggetti politici, quasi una vera e propria «trattativa» che si è via via modificata. Dall’accelerazione, si è passati ai discorsi più diretti. Con chi? Non sembra che la magistratura – e questo il senso delle archiviazioni eccellenti (Berlusconi e Dell’Utri) di Firenze e Caltanissetta – abbia trovato il bandolo «giudiziario».
Di sicuro c’è l’aspirazione dei giudici inquirenti, sottolineata ai membri del Parlamento, di consegnare ai «rappresentanti del popolo» – ha detto il pm Gabriele Chelazzi – il quadro di una situazione che, al di là delle rigide e forse improvabili esigenze processuali, va chiarita, rispondendo a domande fondamentali: Perché le stragi?
A chi erano rivolti i messaggi a colpi di tritolo? E soprattutto: perché cessarono senza che Cosa Nostra avesse ottenuto quanto chiedeva? Perché gli obiettivi cambiano nel corso della «campagna»? Il discorso sembra ruotare tutto attorno al problema del carcere. D’altra parte già Falcone, mentre era agli Affari penali, aveva fatto intendere che «bisognava far in modo che anche dal carcere i boss non continuassero a comandare». Poi, dopo Capaci, stanno per spalancarsi le porte di Pianosa e dell’Asinara.
L’avvertimento non aveva sortito l’effetto desiderato. Quindi l’altro «colpetto»: Borsellino, per alzare il prezzo e prevenire ulteriori inasprimenti del carcere, già duro. E quando parte, la «campagna» del ’93, viene anticipata da una rivendicazione che fa esplicito riferimento a Pianosa e all’Asinara. Per sottolineare la rivendicazione la mafia lascia un proiettile nel giardino di Boboli. A Firenze, capoluogo della regione nella quale ricade Pianosa. Un vero chiodo fisso di Cosa Nostra, questo maledetto «41 bis».
Mentre l’inchiesta di Capaci dove morì Falcone ha raggiunto più di una certezza quella di via D’Amelio si sta «avvitando» sempre di più forse perché inficiata da un pentito con sbalzi d’umore Il «41 bis» ha condizionato le scelte cruente di Cosa Nostra quasi costretta dopo la famosa accelerazione a buttarsi a capofitto in una guerra di stragi da Firenze fino al mancato attentato dell’Olimpico
La strage di via D’Amelio nella quale morirono II giudice Borsellino e la scorta, a Palermo nel luglio ’92. Nella foto piccola Giovanni Falcone, sotto Paolo Borsellino.