«Ucciso perché non diventasse Superprocurotore o ministro» Sembra invecchiato improvvisamente, il procuratore aggiunto Paolo Borsellino, uno dei pochi magistrati palermitani verso cui Giovanni Falcone provasse un autentico sentimento d’amicizia.
Rimugina pensieri e ricordi, cerca lucidità per capire.
Perché hanno ucciso Giovanni? Il procuratore sembra rispondere più a se stesso che alla domanda secca. Non può offrire diagnosi certe, e allora ragiona: «C’è un’osservazione elementare che non posso ignorare: la coincidenza temporale tra l’attentato e la improvvisa ed imprevista sensazione generale che Falcone avesse ormai raggiunto al Csm la maggioranza per essere designato procuratore nazionale antimafia». Ma nessuno lo sapeva ancora. Lo avevo detto a Giovanni, che queste condizioni ormai c’erano. Me ne ero reso conto parlando con alcuni colleghi, durante un convegno a Napoli. Avevo capito che, malgrado la fortissima opposizione di una parte della magistratura, la candidatura di Falcone poteva passare. Ed è anche vero che questa sensazione si era diffusa in questo palazzo. Non so, però, se la notizia fosse trapelata anche fuori. C’è una seconda circostanza da non sottovalutare: ad un certo momento si era fatta strada la convinzione che Giovanni, in un eventuale nuovo governo, potesse diventare ministro dell’Interno. Ne ha mai parlato con Falcone? Con lui direttamente no.
Ma ci sono colleghi che lo hanno fatto e possono testimoniare che l’ipotesi era meno fantasiosa di quanto potesse sembrare. Come proposta dell’on. La Malfa, l’ipotesi era finita persino sui giornali. Anche di ciò si parlava molto in questo palazzo.
So inoltre, e questa è una terza circostanza che osservo, che la sua reiterata abitudine di venire a Palermo pressoché ogni settimana, sempre durante il weekend, si sarebbe interrotta perché Francesca, la moglie, aveva finalmente ottenuto di stare a Roma per un lungo periodo. Questo avrebbe diradato le visite di Giovanni nella sua città. Non so quanto la circostanza fosse conosciuta, fuori. Qui dentro la conoscevano tutti e se ne parlava. Non so se in queste osservazioni, e vi prego prendetele come tali e niente altro, vi sia il perché della morte di Giovanni. Ma sono le uniche cose che sono riuscito a pensare.
Le sembrano trascurabili? Confesso di non aver avuto molto tempo per riflettere. Ciò che è avvenuto mi tocca personalmente.
Conoscevo Giovanni da quando avevamo entrambi i pantaloni corti, siamo entrati insieme in magistratura ed abbiamo lavorato sempre gomito a gomito. Conoscevo Francesca Morvillo che era una ragazzina. Ho imparato a fare il magistrato nell’ufficio del padre. Ricordo che insieme andavamo a prenderla a scuola, dopo il lavoro. E’ comprensibile che, seppure con un semplice ragionamento, metta a disposizione le poche cose che so.
Ho un solo cruccio: quello di non poter partecipare alle indagini. Avevo chiesto di essere applicato a Caltanissetta, sede dell’inchiesta, ma in quella procura, purtroppo, non è previsto il ruolo dell’aggiunto. Dico purtroppo perché se avessi potuto occuparmi dell’indagine avrei trovato una ragione. Altre volte ho dovuto superare momenti difficili aggrappandomi al lavoro. Accadde dopo l’omicidio del capitano Emanuele Basile. La morte dell’ufficiale incise parecchio sulla mia personalità, la responsabilità delle indagini mi ha aiutato a superare l’enorme paura e a vincere il blocco emotivo. Mi ha consentito di riprendere a svolgere il mio lavoro di magistrato.
Che ne farà di queste sue «sensazioni»: le terrà per sé? Andrò a Caltanissetta per raccontarle al procuratore Celesti. Feci lo stesso per la morte del consigliere istruttore Rocco Chinnici. Servì a chiarire una polemica che riguardava i rapporti con un uomo politico. Ma a Celesti non farò un ragionamento: i ragionamenti non fanno parte di una testimonianza, possono esserne il retroterra, tutt’al più materiale per un’intervista. No, a Celesti racconterò le ultime chiacchierate con Giovanni e poi fatti, episodi e circostanze.
Senta procuratore Borsellino, ma perché Falcone l’hanno ucciso a Palermo e non, per esempio, a Roma? Sarebbe stato più facile altrove, visto che le sue condizioni di protezione erano migliori a Palermo. Invece hanno agito qui. Mi sono dato una spiegazione semplice: hanno colpito a Palermo perché l’assassinio di Falcone è un omicidio di mafia e tutti i delitti eccellenti sono stati compiuti a Palermo. Questo non perché sia proibito eseguire attentati fuori, ma per il semplice fatto che la mafia uccide dove comanda e controlla il territorio. Una regola fissa? Guardi che il problema non è se un omicidio si possa fare o no. Tutti i delitti sono possibili. E’ relativamente facile, per questa gente, uccidere anche un capo di Stato. Per killer e mandanti di mafia il problema essenziale è un altro: assicurarsi l’impunità. Nessun mafioso è disposto a rischiare un solo giorno di carcere per un delitto. Questa certezza, Cosa Nostra ritiene di raggiungerla solo se opera in Sicilia e in luoghi dove il controllo del territorio è pressoché totale. Eppure sono stati sollevati tanti dubbi sulla matrice mafiosa dell’agguato. Si è parlato di congegni sofisti- cati… Per le notizie che ho non si è trattato di un attentato compiuto con tecniche raffinatissime. Per quanto ne so non si è trattato di nulla di complicato. Bestiale sì, perché pensato senza nessuna considerazione per la vita di innocenti.
Si poteva fare di più per prevenire la strage? Non mi sento di remminare sulla protezione offerta a Giovanni Falcone. I magistrati lavorano in condizioni di sicurezza carenti, quasi che la scorta sia una cosa che si debba fare solo per scrupolo. Lo stesso non si può dire per Giovanni. Sì, non c’era l’elicottero e mancava la macchina «cerca-esplosivo». Ma mi chiedo come sarebbe stato possibile scoprire la bomba a tre metri sotto.il manto stradale. Il problema è semmai cercar di capire perché la mafia sia così potente.
Già, perché? Lascio da parte tutte le questioni sociologiche, politiche e dico: si può affrontare la superpotenza mafiosa se le si fa un regalo come quello di adottare strumenti processuali buoni per un Paese che non è l’Italia e meno che mai può essere la Sicilia? Ogni volta dobbiamo dimostrare che la mafia esiste, che uccide, che corrompe. Falcone, però, difendeva questo codice. Peccava di ottimismo. Aveva un modello di magistrato che era se stesso, una capacità di lavoro incredibile, un incrollabile spirito di sacrificio. Un uomo che ci aveva cambiati tutti, che dalla struttura giuridica pigra ed evanescente degli Anni 80 era riuscito a tirar fuori quel monumento di indagine che fu il maxiprocesso. Aveva torto: la media delle capacità di impegno dei magistrati non è quella di Giovanni. La media è rappresentata anche da me, che mi scoraggio, che non so se domani riuscirò a fare la stessa quantità di lavoro che ho fatto oggi.
Francesco La Licata La Stampa 27 maggio 1992