E’ toccato di nuovo a un giudice del vecchio “pool antimafia”  Giuseppe Di Lello violare un ennesimo tabù

 

 

24.5.2023 Piero Melati

E così è toccato di nuovo a un giudice del vecchio “pool antimafia” di Palermo, Giuseppe Di Lello, uno dei quattro “originari” della squadra di Rocco Chinnici, e poi di Antonino Caponnetto, violare un ennesimo tabù.
“Sbaglia Maria Falcone a sentirsi l’unica detentrice dell’eredità di Giovanni” ha detto.
Questo all’indomani delle cariche di polizia al corteo “non ufficiale” per ricordare la strage di Capaci; all’indomani dell’intervento, l’ennesimo, di Alfredo Morvillo, fratello di Francesca, moglie di Falcone; all’indomani del (come definirlo?) “rifiuto” da parte di alcuni alti magistrati di salire sul palco delle autorità.
Marcare la differenza non è una novità. Per esempio, da anni i figli di Paolo Borsellino non vanno alle celebrazioni ufficiali, da anni in via D’Amelio sono poco gradite le autorità di Stato.
E inoltre, è da circa quarant’anni che la città ha l’abitudine di “delegare” a certe “figure simboliche” (che però sono anche persone reali) il coraggio di esporsi e fare delle scelte. In questo caso, è toccato di nuovo a Di Lello.
Ha detto qualcosa che a Palermo pensano tutti ma che nessuno vuole dire.
Eppure la misura era talmente colma che la stessa Maria Falcone, si pensi un po’, alla vigilia delle celebrazioni, aveva rilasciato dichiarazioni contro “la retorica” (salvo avermi una volta accusato, su “Repubblica Palermo”, come suo diritto per carità, di usare “la retorica dell’antiretorica”; da qui il mio post di ieri sulle “categorie”, che ho visto in un anno aumentare a dismisura).
C’è un problema “centrodestra-memoria”, ovvero la presenza alle cerimonie sulle stragi di personaggi in passato compromessi. Ma non è l’unica questione. C’è anche il nodo di chi detiene o pretende di detenere il monopolio della “memoria”, cosa che è accaduta ben prima dell’avvento del centrodestra. Su questo punto, il gioco si sta facendo e si farà in futuro molto duro, perché in ballo non ci sono solo ideali.
Quando il gioco si fa duro, quale antichissima abitudine sicilianista, Palermo preferisce “delegare”, al fine di non esporsi.
Lo stesso Di Lello, dopo Capaci e via D’Amelio, venne tanto invocato a furor di popolo come l’erede dei due “simboli” precedentemente sacrificatisi per il “bene comune”, che gli venne caldamente consigliato, e con molta insistenza, di lasciare la città.
La logica del “sacrificatevi per tutti noi” (nella città dove in quegli anni altri “simboli”, il cardinale Pappalardo su tutti, all’improvviso scelsero il silenzio) consentirebbe anche una diversa lettura (finalmente) del famoso raduno di Casa Professa, dove Borsellino tenne il suo ultimo discorso prima della strage. Allora, più che gli uomini “compromessi” di oggi, c’erano addirittura talpe, collusi e traditori, doppiogiochisti e ombre, c’era chi voleva fermare Borsellino, c’erano enormi interessi economici da tutelare (prova ne sia il successivo depistaggio delle indagini).
Ma poi c’era anche una città, spesso accusata genericamente di “omertà”, che era invece o indifferente al destino di “agnello sacrificale” del giudice Borsellino o, peggio, che sotto sotto flirtava inconsciamente con i sacrifici umani, sentendo il bisogno di una ulteriore catarsi dopo quella di Capaci. Infatti, cosa diciamo sempre? Dopo le stragi, la Sicilia è cambiata, lo Stato è cambiato e ha arrestato i grandi latitanti. E se le stragi non vi fossero mai state? E perché, si dovevano aspettare le stragi, per cambiare?
Dunque, oggi ci sarà anche un problema di persone “compromesse”, ci sarà stata e c’è ancora la presenza della mafia (ma o ridicola, rispetto a quella di ieri, o talmente potente da essere invisibile). Ma poi, nel consueto meccanismo della “delega” e del silenzio da parte di tutti noi, ci sono altri “orrori” dell’essere siciliani.
Questo nodo irrisolto e forse irredimibile si ripropone ancora (per fortuna in scala più piccola, poiché non si spara più e non muore più nessuno). Parla tu per tutti noi, esponiti tu, prenditi tu le randellate (o le bombe).
L’abitudine reiterata della “delega” fa ancora più specie in questa circostanza, perché – nel caso di Di Lello – non si sono lesinate in questi anni le accuse (sempre sussurrate, per carità) a questo stesso magistrato, accuse di “derive garantiste”, per avere apertamente criticato il processo Trattativa, il protagonismo di alcuni suoi ex colleghi, la logica dei processi senza prove.
Invece di riflettere sul fatto che esse critiche non venivano, per una volta, dal professor Fiandaca o dallo studioso Salvatore Lupo, bensì da un membro dello storico “pool dei giudici antimafia”, si è preferito additarlo come un qualsiasi “azzeccagarbugli”.
Essendo però Di Lello uomo di spiazzante leggerezza, nonostante ne abbia viste tante, commenta: “Non capisco a quale categoria appartengo, e comunque hai ragione tu, qualsiasi cosa volessi dire, come diceva Flajano della sua nonna.
 
 

Dapprima c’era il silenzio. Poi venne la denuncia. Infine arrivò la retorica. Presto giunse poi l’antiretorica. Poco dopo venne coniata l’etichetta della retorica dell’antiretorica. Ora esplode l’antiretorica della retorica dell’antiretorica, anche da parte degli stessi che avevano accusato l’esistenza di una retorica dell’antiretorica.
Ma si registra anche, nello stesso tempo una retorica dell’antiretorica della retorica dell’antiretorica.
Al pari, un tempo ci fu la mafia. Poi venne l’antimafia.
Poco dopo la mafia dell’antimafia. Ora l’antimafia della mafia dell’antimafia.
Ma anche la mafia dell’antimafia della mafia dell’antimafia.
Se prima alla domanda “Come si può essere siciliani?” si propose di rispondere “Sempre con difficoltà”, al giorno d’oggi, invece, a domanda, andrebbe replicato che è impossibile dirsi o essere siciliani. I siciliani non esistono più. Sono scomparsi dentro i loro labirinti.
 

 

PAOLO BORSELLINO, per amore della verità di Piero Melati