25 giugno 1992 – i GIORNI di GIUDA di Paolo Borsellino

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25 Giugno 1992 Paolo Borsellino interviene alla Biblioteca di Palermo ad una manifestazione promossa da MicroMega .  E’ il suo ultimo intervento pubblico prima di essere ammazzato.

 

Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro.

In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.
Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente – e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi – dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria (non verrà mai sentito)  poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista – in questo momento non mi ricordo come si chiama… – Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone.  
Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione – in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988.
Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte.
Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica.
Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli.
C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.
Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse.
Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto.
Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.
L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. 

La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare.
Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio.
Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa.
Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.
Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario.
Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo.
Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse.
Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva.
Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa – non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque – e l’organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare.
Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.


Quella sera, nell´atrio della biblioteca comunale, il Procuratore aggiunto di Palermo si definisce apertamente un testimone, e rivela di essere a conoscenza di “alcune cose” che riferira´ direttamente “a chi di competenza”, all´autorita´ giudiziaria.
Sono elementi utili a chiarire l´intreccio criminale che in quei giorni minaccia la tenuta delle Istituzioni democratiche in Italia?
Non lo sapremo mai. Oggi Rita Borsellino sottolinea come mai, nella sua lunga carriera di magistrato, il fratello Paolo avesse lanciato “un avvertimento cosi esplicito”.
A chi? E perche´? La moglie Agnese, che da casa segue l´intervento della biblioteca comunale su un´emittente locale, impallidisce e salta sulla sedia: “Ma che dice Paolo?” mormora con un filo di voce: “Se fa cosi´, lo ammazzano…”[59]

Mentre Borsellino parla, il silenzio del pubblico é assoluto. Ma quando il magistrato ricostruisce la vicenda della mancata nomina da parte del CSM a Consigliere Istruttore di Palermo nel 1988 e parla apertamente di un qualche Giuda che si impegnò subito a prendere in giro Falcone un lungo applauso lo interrompe. Il cronista del Corriere della Sera scrive il giorno successivo: “Chi e’ Giuda? La gente, in piedi ad applaudire, lo identifica subito in Vincenzo Geraci, allora componente del Csm”. [60]

Anche il Fbi, come Scotti e al contrario di Charles Rose, crede che la strage sia stata decisa da un grumo di interessi mafiosi non solo siciliani. Lo si apprende nell´ambito della trasferta americana dei pubblici ministeri Carmelo Carrara e Giusto Sciacchitano, volati negli Stati Uniti per interogare il pentito Francesco Marino Mannoia e suo padre Rosario nel quadro dell´indagine in corso per individuare altri forzieri delle cosche siciliane e colombiane, oltre che i loro collegamenti operativi. Gli affari tra mafiosi e colombiani furono disegnati per la prima volta nel 1990 da Giovanni Falcone che raccolse la deposizione di un oriundo siciliano, Joe Cuffaro, di Miami, arrestato dalla Dea e convinto a collaborare. Secondo un´agenzia di stampa, il lavoro di Carrara e Sciacchitano potrebbe avere punti di contatto con le indagini sulla strage di Capaci, che esula pero´ dalle competenze dei giudici palermitani.[61]


 

L’ ATTO D’ ACCUSA DI BORSELLINO CONTRO CSM, CASSAZIONE, MELI E GIAMMANCO

27 giugno 1992 – Paolo Borsellino accusa. Prima il Csm che contrastò la nomina di Falcone a consigliere istruttore, poi il “giuda” che in quell’ occasione lo tradì. 

Accusa la Cassazione che “continua ad ucciderlo”.
Conferma che la “fuga” di Falcone da Palermo avvenne perché in Procura “non poteva più lavorare”. Borsellino parla per venti minuti tra applausi e lacrime di rabbia. E dopo le accuse la conferma: i “cosiddetti diari” pubblicati dal Sole 24 Ore, sono autentici. Scritti da Falcone e letti da Borsellino mentre il magistrato era ancora in vita: “Sono proprio gli appunti di Giovanni”.
L’ occasione dello sfogo di Borsellino è il dibattito organizzato dalla rivista Micromega dal significativo titolo “E’ solo mafia?”. Con Borsellino ci sono anche Leoluca Orlando e Nando Dalla Chiesa. Orlando rivela fatti inediti. Il 3 agosto 1988, mentre era sindaco di Palermo, convocò un’ improvvisa e drammatica conferenza stampa: “Quella mattina Falcone mi aveva chiamato dicendomi che temeva di essere ucciso.  Ai giornalisti dissi che la mafia aveva il volto delle istituzioni ed evitai un funerale di Stato”.
Poi Orlando aggiunge che qualche mese dopo il fallito attentato dell’ Addaura incontrò Giovanni Falcone e quando gli disse che probabilmente non era stata solo la mafia ad organizzarlo, il giudice rispose: “Ma che dici? Che dici? E’ stato Madonia”. “Ma – ha commentato Orlando – non aveva per nulla l’ aria di crederci”.
La parola passa a Borsellino. Parla di “Giovanni” sottolineando di non volersi imbarcare “in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per stabilire chi era più suo amico”. Ma il magistrato non dice tutto quello che sa. Prima vuole parlare con i magistrati che indagano sulla strage. gli unici in grado di valutare quanto queste cose che io so possano essere utili alla ricostruzione dell’ evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone”. Poi parla della lunga “agonia” del suo amico.
Borsellino dà ragione a Caponnetto: Falcone “cominciò a morire nel 1988”, anche se – precisa – “con ciò non intendo dire che la strage sia stata il naturale epilogo di questo processo di morte”. “Oggi tutti ci rendiamo conto di quale sia stata la statura di Falcone e ci accorgiamo – dice – come il paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di chiunque altro, cominciarono a farlo morire proprio nel gennaio ‘ 88, se non addirittura l’ anno prima, quando Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera bollò me come un professionista dell’ antimafia e l’ amico Leoluca Orlando professionista dell’ antimafia nella politica”.
L’ inizio di questo “processo di morte” fu lo scontro tra Falcone e Meli per la carica di consigliere istruttore. “E quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua candidatura alla successione di Antonino Caponnetto, qualche giuda si impegnò subito a prenderlo in giro. E Poi il giorno del mio compleanno – aggiunge Borsellino – il Csm, con motivazioni risibili, il Csm gli preferì Antonino Meli”. 
Ma nonostante “lo schiaffo” del Csm “Giovanni che aveva un altissimo senso delle istituzioni continuò con impegno nel suo lavoro”. Borsellino intuì che “nel giro di pochi mesi Falcone sarebbe stato distrutto, e ciò che più mi addolorava è il fatto che sarebbe morto professionalmente senza che nessuno se ne accorgesse”. Fu proprio per questa ragione che a quell’ epoca Borsellino quella drammatica intervista concessa a Repubblica e all’ Unità lanciò l’ allarme: il pool antimafia era stato smantellato e le indagini antimafia si erano bloccate.
“Per aver denunciato queste verità rischiai conseguenze professionali gravissime ma quel che è peggio intuii – afferma il magistrato – che l’ iniziativa nei miei confronti aveva come obiettivo l’ eliminazione di Giovanni Falcone.allora mi dissi: se deve essere eliminato, l’ opinione pubblica lo deve sapere. Il pool antimafia deve morire davanti a tutti”. Ma la reazione deve sapere. Il pool antimafia deve morire davanti a tutti”. Ma la reazione dell’ opinione pubblica “fece il miracolo”: il pool, “seppur zoppicante”, venne rimesso in piedi. Eppure “la protervia di Antonino Meli e l’ intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e proseguito fino a ieri, continuarono ad uccidere Giovanni Falcone”. L’ ultimo capitolo delle accuse di Borsellino è dedicato alla Superprocura e alla “fuga” da Palermo, a causa del difficile rapporto con Pietro Giammanco. “Falcone approdò in Procura dove a un certo punto ritenne di non poter continuare a lavorare al meglio; andò al ministero di Grazia e giustizia, non per avere un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, di Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne da uomo delle istituzioni di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante. E quando era ad un passo dalla direzione della Superprocura,lla quale anch’ io, a caldo, ho espresso perplessità, la mafia preparò e attuò l’ attentato per impedirgli di continuare a fare il magistrato, perché era questo che faceva paura”. di FRANCESCO VIVIANO La Repubblica 


 

 

Quel Giovedì 25 giugno 1992

  • Gianpaolo Pansa incontra Vito Ciancimino nella casa romana di quest´ultimo. Ciancimino comunica a Pansa di aver iniziato a scrivere un libro con le sue memorie: “Quando hanno ucciso Falcone, volevo interromperlo. Ma poi ho visto alla tivú il dottore Borsellino che, in una chiesa di Palermo, diceva: chi ha criticato Falcone, oggi non ha piú diritto di parola. Allora mi sono infuriato. Io non avrei piú il diritto di parola? Cosí  ho deciso di continuare.” Ciancimino durante il dialogo con Pansa parla degli omicidi di Salvo Lima e Giovanni Falcone e cerca di allontanare le responsabilitá da Cosa Nostra: “Chi ha ucciso l´uno e l´altro si é opposto in qualche modo al progetto dei due padroni d´Italia (Giulio Andreotti e Bettino Craxi ndr). Quei due delitti possono essere stati fatti entrambi dalla mafia. Ma io non credo che sia stata la mafia ad uccidere Lima e Falcone.” Ciancimino passa poi a diffamare Giovanni Falcone: “Il dottore Falcone era soprattutto un uomo di potere. Intelligentissimo, furbissimo, sapeva tutto. E arrivava lá dove nessuno sapeva arrivare. Era un giudice che voleva comandare. Se fosse stato soltanto un magistrato, non si sarebbe fermato a me ed ai cugini Salvo, gli esattori. Sarebbe andato avnti. Invece, quando ha visto che la DC faceva quadrato attorno a Rosario Nicoletti, il segretario regionale, che dopo di noi era il suo obiettivo, allora lui si é fermato. Il dottor Di Pietro, che é solo un magistrato, mica si ferma, no? Falcone voleva il potere. E s´era trasferito a Roma per conquistarlo. Se fosse riuscito a realizzare la superprocura, sarebbe stato anche lui un padrone d´Italia, perché diventava il capo vero di tutti i giudici, piú importante del ministro della giustizia. I ministri passano, ma il superprocuratore resta in carica per quattro anni, quattro anni! E puó essere riconfermato per altri quattro. Adesso la superprocura non la faranno piú. Non avrebbe senso farla, visto che il dottor Falcone é morto.” Ciancimino mostra poi tutto il suo livore contro i rappresentanti dello Stato che hanno affrontato e che combattono Cosa Nostra a viso aperto: “Falcone mi ha martirizzato. Ha fatto di me un capo espiatorio. Lui spasimava di interrogarmi. E, dopo lunghe trattative, alla fine mi trovai di fronte a lui. Falcone mi chiese: “E allora, signor Ciancimino?” Lo fissai e gli dissi: “Non intendo risponderle, dottor Falcone.” Quasi gli venne un colpo.”
    “Ed il dottor Borsellino?” prosegue Pansa. “Lui vale meno del dottor Falcone”, borbottó Ciancimino. “Ed il dottor Ayala?”, chiede nuovamente Pansa. “Intelligente, ma debole. Sapeva molte cose. E capiva. Peró non aveva la forza per essere un protagonista.” “E Giammanco?” Ciancimino fece un gesto come per dire: non merita neanche parlarne! “E Caponnetto?” incalza Pansa. “Non contava nulla. Il vero capo é sempre stato Falcone” ribatte il Ciancimino. Infine Ciancimino attacca Tommaso Buscetta: “Gli hanno messo in bocca quello che volevano. È sempre stato soltanto uno degli ultimi, non un capo. Come poteva sapere tutte quelle cose?” Quando Giampaolo Pansa chiede: “Ci saranno altri delitti dopo Lima e Falcone?”, Ciancimino risponde: “E chi puó dirlo? Certo ai due padroni d´Italia gli hanno tagliato le dita, peró…”
    Borsellino convoca[51] in una sede segreta (caserma Carini, Palermo) due ufficiali dei carabinieri, il capitano Giuseppe De Donno ed il colonnello Mario Mori, autori di un voluminoso rapporto sul tema mafia-appalti in Sicilia. Questo rapporto essi lo avevano già consegnato al procuratore Giammanco il 20 febbraio 1991, ma gli sviluppi investigativi erano stati scarsi. “La convocazione segreta– ricorda il PM Luca Tescaroli – era dovuta al fatto che il magistrato voleva mantenere il massimo riserbo, ad ulteriore dimostrazione della situazione di disagio e tensione che già caratterizzava i suoi rapporti con Giammanco. Ai due ufficiali Borsellino propose la costituzione presso il ROS di un gruppo coordinato da De Donno, che avrebbe dovuto riferire unicamente a lui.”[52]
    De Donno ha nel frattempo avviato un contatto con Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. [53] Lo scopo è quello di indurre Vito Ciancimino a collaborare con la giustizia. Vito Ciancimino é libero ma in attesa di giudizio per associazione a delinquere, abuso d´uffico e truffa.
    Mario Mori ha collocato temporalmente il primo contatto tra il cap. Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino nel periodo tra il 23 maggio ed il 25 giugno, cioé prima dell´incontro alla caserma Carini di Palermo con Paolo Borsellino. Dopo il 25 giugno sarebbe arrivata la risposta da parte di Vito Ciancimino che si sarebbe detto disponibile ad aprire un canale di comunicazione. Successivamente il cap. Giuseppe De Donno avrebbe incontrato Vito Ciancimino 2-3 volte nel mese di luglio 1992 nella casa romana di proprietá del Ciancimino.[54]
    Il cap. Giuseppe De Donno ha confermato la ricostruzione fatta dal suo superiore Mori, ma ha collocato i 2-3 incontri con Vito Ciancimino nella casa romana di quest´ultimo in un periodo di tempo piú largo, cioé quello compreso fra la strage di Capaci e quella di via D´Amelio.[55]
    Di questi colloqui il De Donno parlerà solo con il suo diretto superiore colonnello Mori e questi con il generale Antonio Subranni, non con Paolo Borsellino.
    L´incontro alla caserma Carini di Palermo verrá descritto dagli ufficiali Mori e De Donno il 27 marzo 1999 durante un´udienza del processo BORSELLINO TER.
    Il magistrato Antonio Ingroia riguardo a tale incontro ha espresso alcune perplessitá.
    Il 28 febbraio 1999 Ingroia ha dichiarato al settimanale AVVENIMENTI: “So che Borsellino aveva buoni rapporti investigativi con i carabinieri, ma non mi risulta che attorno a quel rapporto (il rapporto mafia-appalti del ROS di Palermo ndr) sia andato mai oltre incontri ricognitivi e per capire. Non ebbe sul punto, per quanto ne so, incontri investigativi.” “Dunque Borsellino non si occupava di quel rapporto?” chiede l´intervistatore. “Per quanto ne so é cosí. E dunque mi pare improprio che Borsellino si sia convinto di quella pista come del movente della bomba di Capaci. Lo dico per cognizione diretta: negli ultimi giorni prima di morire Borsellino si occupava di altro… Se si fosse occupato di quel rapporto del ROS me lo avrebbe detto. Ed invece quel rapporto e quella veritá sul movente di via D´Aemlio esce fuori adesso. Mi chiedo: perché, se c´era quella veritá giá nel 1992 si é atteso tanto tempo per tirarla fuori? E le mie diffidenze su questa storia aumentano.”
    Anche alla luce di un dato inedito: nella pagina dell´agenda grigia di Borsellino, relativa al 25 giugno 1992, quell´incontro non é segnato. C´é su quell´agenda, la radiografia di ogni sua giornata, di ogni suo spostamento e di ogni suo incontro, ma su quella pagina il magistrato annotó un normale pomeriggio in procura, iniziato alle 16 e concluso alle 20 con il rientro a casa. [56]
    Gli ufficiali Sinico e Baudo dei carabinieri di Palermo si recano con il collega maresciallo Lombardo al carcere di Fossombrone per interrogare Girolamo D’Adda sulle circostanze inerenti la strage di Capaci ed i possibili sviluppi futuri. Sinico e Baudo non partecipano al colloquio, ma apprendono dal maresciallo Lombardo che negli ambienti carcerari si dà il Dott. Borsellino per morto”.Non appena rientrato a Palermo il Cap. Sinico riferisce la notizia a Borsellino il quale afferma di essere a conoscenza del progetto di attentato ai suoi danni, ma fa capire che preferisce accentrare su di sé i pericoli per risparmiarli alla propria famiglia.[57]
     Il quotidiano L’Unità prendendo spunto da una nota dei diari di Falcone pubblica un’inchiesta sulla mancata cattura di Riina nel 1990 in seguito ad un contrasto nelle indagini tra polizia e carabinieri: questi ultimi stavano raccogliendo notizie sulla rete di favoreggiatori della latitanza di Riina quando la polizia si sarebbe intromessa con un’improvvida indagine patrimoniale che avrebbe allertato il boss di Cosa Nostra, vanificando i risultati raggiunti.
  • Il maggiore Umberto Sinico e il maresciallo Antonio Lombardo si recano nel carcere di Fossombrone per ascoltare Gerolamo D’Anna, capomafia di Terrasini, storico contatto del maresciallo, suo concittadino e capostazione dei carabinieri locali. Questi, che è “in confidenza” con il maresciallo, gli annuncia che “è arrivato il tritolo per Borsellino”. Sinico riferisce immediatamente la notizia al magistrato che così commenta: “Lasciamogli questo spiraglio, almeno lasciano stare la mia famiglia”.Questa rivelazione è stata fatta nel 2011 nel corso del processo contro il generale Mario Mori e il maggiore Obinu, nel quale Umberto Sinico, oggi colonnello, era testimone per la difesa. Sono state fornite alcune informazioni supplementari. Per esempio che Girolamo D’Anna è un uomo d’onore della vecchia guardia di Cosa nostra, “posato” perché vicino a Tano Badalamenti (caduto in disgrazia dopo l’avvento dei corleonesi), ma ancora di grande carisma e messo al corrente delle decisioni importanti. Si evince quindi che Cosa nostra avviò una vasta consultazione sull’opportunità o meno di uccidere Borsellino, e che D’Anna non si tenne la cosa per sé, anzi mandò a chiamare dal carcere chi poteva impedire l’azione. (Il tutto getta una luce nuova sui rapporti tra stato e mafia, e sul loro funzionamento pratico.) La reazione fatalista di Borsellino, che Sinico apprese con sorpresa dolorosa, viene portata a riprova dell’assoluta fiducia che il giudice aveva nei carabinieri. Con due particolari non spiegati, però: in che cosa consisteva lo spiraglio che il giudice voleva lasciare a Cosa nostra? Voleva forse, in qualche modo, facilitare i suo compito? E, secondo, se la sua angoscia principale non era la propria morte, ma un attentato contro la sua famiglia, perché non vennero prese, a maggior ragione, iniziative di protezione, a partire dall’elementare istituzione della zona di rimozione in via D’Amelio?
  • Vito Ciancimino, mentre tratta con mafiosi e carabinieri, svolge anche attività di pubbliche relazioni. Riceve nella sua dimora romana il giornalista Gianpaolo Pansa cui dà la sua interpretazione dei fatti. La principale è: “Adesso la superprocura non la faranno più. Non avrebbe senso farla, visto che il dottor Falcone è morto”.
  • Paolo Borsellino chiede un incontro informale con il colonnello del Ros Mario Mori e con il capitano Giuseppe De Donno. L’incontro avviene in via riservata nei locali della caserma Carini. Borsellino ha chiesto di vederli «fuori dalla procura» per ragioni di riservatezza, stando a quanto essi stessi hanno dichiarato ai magistrati, sei anni dopo l’incontro. Che cosa vuole il procuratore aggiunto di Palermo dai due alti ufficiali del Ros? È già stato messo al corrente della trattativa? Vuole chiedere a Mori e De Donno i dettagli degli abboccamenti di Vito Ciancimino di cui sanno già tutto la Ferraro e Martelli? Mori dice di no. Spiega il generale: «La risposta di Ciancimino [alla richiesta di un primo contatto formulata dal Ros, nda] arrivò dopo l’incontro alla caserma Carini perché altrimenti ne avrei parlato con il procuratore Borsellino. Cosa che invece assolutamente non si è verificata». Secondo Mori, Borsellino lo convoca per parlare di mafia e appalti. Il magistrato è a conoscenza dello scontro tra il procuratore di Palermo Pietro Giammanco e il Ros sul dossier mafia-appalti dei carabinieri, nella parte che individua una serie di politici coinvolti nella spartizione dei lavori in accordo con la mafia. Sul summit alla caserma Carini, Mori è fecondo di dettagli. «L’incontro avvenne nel primo pomeriggio del 25 giugno 1992» racconta l’ufficiale il 29 gennaio 1998 al pm della Procura di Caltanissetta Nino Di Matteo. «Portavoce della volontà di incontrarmi del dottor Borsellino fu il maresciallo Canale, che si è messo in contatto con il maggiore Obinu. Borsellino desiderava incontrarsi con me e desiderava altresì che fosse presente il capitano De Donno. Mi venne detto che desiderava incontrarci in una struttura dei carabinieri e non in procura. Rimasi a parlare quindici-venti minuti a quattr’occhi con il dottor Borsellino, introducendo successivamente, per una decina di minuti, il capitano De Donno. Mi chiese se c’erano novità investigative sull’omicidio di Falcone, subito dopo portò l’argomento su quello che compresi essere il vero oggetto dell’incontro, e cioè la sua volontà di prospettare nuove ipotesi di lavoro in relazione alla vicenda mafia-appalti. Borsellino mi assicurò che delle indagini voleva occuparsi in prima persona, cosa che per lo sviluppo che la vicenda aveva avuto in precedenza costituiva per me un presupposto irrinunciabile per un nuovo impegno operativo del Ros [Mori si riferisce alle polemiche sorte in procura a Palermo dopo la presentazione del suo rapporto su mafia e appalti, nda]. Di questo incontro non parlai con nessuno, non escludo di avere fatto qualche accenno al generale Subranni, solo dopo la strage di via D’Amelio e comunque escludo di avergli anticipato le prospettive operative.» Nove giorni prima, il 20 gennaio 1998, a Caltanissetta, ai pm Di Matteo, Anna Palma e Carmelo Petralia, il capitano De Donno aveva sostanzialmente fornito la stessa versione, aggiungendo un particolare: «Non so, né chiedemmo a Borsellino in che modo pensasse di gestire il tutto, stante la ben nota assegnazione ad altri magistrati. Noi parlavamo con il procuratore aggiunto e non ci ponemmo il problema. Ci chiese di affiancarlo con grande riservatezza e direttamente alle sue dipendenze in questa attività che si prefiggeva di svolgere». Borsellino viene informato della trattativa in corso? Mori dice di no, sostiene di non aver detto nulla a Borsellino di quegli incontri in corso con Ciancimino. Ma se la risposta di don Vito, stando a quanto dice il generale, il 25 giugno non è ancora arrivata, com’è possibile che De Donno due giorni prima sia andato a chiedere alla Ferraro «garanzie» per conto dell’ex sindaco che si è detto disponibile a collaborare? Per questo motivo, gli inquirenti ritengono importante riuscire a datare con certezza l’incontro a Palermo tra il capitano e la direttrice degli Affari penali. Ma l’iniziale sicurezza di Martelli sul 23 giugno, data del trigesimo della strage Falcone, successivamente è sfumata. Incerti sui propri ricordi, l’ex guardasigilli e la Ferraro, dopo un confronto davanti ai pm, hanno concordato che l’incontro tra il capitano del Ros e la direttrice degli Affari penali è avvenuto con certezza tra il 21 e il 28 giugno 1992, ma non sono più riusciti a fissare il giorno preciso. 1 Intervenendo a un convegno promosso dalla rivista «MicroMega» la sera del 25 giugno, solo qualche ora dopo aver incontrato Mori e De Donno, Borsellino, nell’atrio della biblioteca comunale a Palermo, dice apertamente di considerarsi un «testimone» edi attendere una convocazione formale da parte dell’autorità giudiziaria di Caltanissetta, per riferire «tutti gli elementi» in suo possesso sull’uccisione di Falcone. Nei giorni successivi, nessuno da Caltanissetta lo convoca per un interrogatorio formale.