di BIANCA STANCANELLI
Il 28 maggio 1992, nella sede romana della Mondadori, in via Sicilia, a pochi metri dall’ambasciata americana e dalle belle vetrine dei bar di via Veneto, il giudice Paolo Borsellino fu l’ospite più atteso alla presentazione di un libro. S’intitolava Gli uomini del disonore e ne era autore il sociologo Pino Arlacchi, che in quel volume aveva raccolto le confessioni di un mafioso di prima grandezza, il catanese Antonino Calderone.
Cinque giorni appena erano trascorsi dalla strage di Capaci; Borsellino avrebbe avuto ottime ragioni per rinunciare a un appuntamento preso da lungo tempo, prima che Cosa Nostra precipitasse l’intero Paese nel lutto e nell’orrore. Ma era persona seria e onorò l’impegno.
C’era con lui, al tavolo dei relatori, con il direttore della Mondadori e con il capo della polizia, anche il ministro dell’Interno, il democristiano Vincenzo Scotti.
C’erano, anche, decine e decine di giornalisti che facevano ressa nell’elegante sala rettangolare al pianterreno dove la Mondadori ospitava le presentazioni.
Tanta era la folla che una seconda sala, contigua, venne aperta e attrezzata con uno schermo per trasmettere in diretta l’evento. Non bastava neanche quello: il pubblico tracimava nel corridoio, nella strada, stretto nelle maglie fitte del cordone di agenti chiamati a proteggere il giudice più esposto, dopo la morte di Falcone, nella sfida a una Cosa nostra che aveva mostrato di voler imporre con 500 chili di tritolo il proprio potere.
C’erano, anche, decine e decine di giornalisti che facevano ressa nell’elegante sala rettangolare al pianterreno dove la Mondadori ospitava le presentazioni.
Tanta era la folla che una seconda sala, contigua, venne aperta e attrezzata con uno schermo per trasmettere in diretta l’evento. Non bastava neanche quello: il pubblico tracimava nel corridoio, nella strada, stretto nelle maglie fitte del cordone di agenti chiamati a proteggere il giudice più esposto, dopo la morte di Falcone, nella sfida a una Cosa nostra che aveva mostrato di voler imporre con 500 chili di tritolo il proprio potere.
Lavoravo allora nella redazione romana di Panorama, che aveva i suoi uffici al secondo piano di quella palazzina liberty in via Sicilia (che Marina Mondadori avrebbe disinvoltamente venduto anni dopo per far cassa).
Quel 28 maggio era un giovedì, giorno di “chiusura” in redazione; non ricordo più quale pezzo dovessi consegnare, di certo riuscii a scendere tardi, quando la presentazione volgeva ormai al termine.
Quel 28 maggio era un giovedì, giorno di “chiusura” in redazione; non ricordo più quale pezzo dovessi consegnare, di certo riuscii a scendere tardi, quando la presentazione volgeva ormai al termine.
Mi ritagliai un angolo tra la folla stipata in corridoio; dei discorsi fatti in sala, era impossibile sentire anche soltanto una parola.
Così solo più tardi venni a sapere che quel pomeriggio il ministro Scotti si era rivolto a Paolo Borsellino offrendogli platealmente la nomina a capo della Procura nazionale antimafia, la Superprocura come allora si diceva, organismo pensato e voluto proprio da Giovanni Falcone e non ancora entrato in funzione.
Offerta impropria (la nomina spettava al Consiglio superiore della magistratura, non certo a un ministro) e intempestiva, che nell’angoscia e nello sgomento di quei giorni aveva perfino il torto di apparire un modo goffo e involontario per esporre a un pericolo mortale un uomo, un magistrato che tutti consideravano il secondo nella lista dei nemici di Cosa Nostra.
Sull’esito dell’offerta si può leggere, sul sito di Rai Televideo, una cronaca della giornalista Paola Scaramozzino: «Nella sala scende il gelo. Occhi puntati sul giudice che tradisce con il rossore la rabbia […] Accenna un sorriso ma subito si adombra: Non so, risponde».
Pochi minuti più tardi Paolo Borsellino uscì dalla sala.
È l’ultima immagine che ho di lui, indimenticabile.
Lo vidi passare lungo il corridoio come una statua in processione; il suo viso galleggiava sulle teste delle persone addossate alle pareti in una lentissima progressione verso l’uscita.Ebbi l’impressione che gli uomini della scorta, al massimo della tensione, lo avessero sollevato e lo portassero via così. Ma fu il suo sguardo a colpirmi: uno sguardo che andava oltre, al di là della folla, al di là di quel momento.
Uno sguardo intenso, concentrato, fisso, infinitamente lontano.
Anni dopo un fotografo americano pubblicò le foto di decine di detenuti reclusi nel braccio della morte, in attesa – anche da anni – di finire sulla sedia elettrica.
Guardandole, mi ricordai di Paolo Borsellino, dell’espressione dei suoi occhi. Gli occhi di un uomo che guarda la propria morte.
Guardandole, mi ricordai di Paolo Borsellino, dell’espressione dei suoi occhi. Gli occhi di un uomo che guarda la propria morte.