SCAFFALE DELLA LEGALITÀ – Giovanni Falcone

Questo volume raccoglie alcune delle più drammatiche audizioni di Falcone e Borsellino: le prime (luglio-agosto 1981) rese nell’ambito delle polemiche dei magistrati con il nuovo capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, Antonino Meli, quanto al “disarmo dell’antimafia”. Le seconde rese in merito alle “accuse mosse da Leoluca Orlando a Falcone sul suo operato” (Falcone, ottobre 1991) e in merito a “Mafia, affari e politica: tra fuga di notizie, ecc.” (Borsellino, dicembre 1991). Queste ultime possono considerarsi una sorta d’inconsapevole testamento, visto che entrambi sarebbero morti solo dopo pochi mesi. Testi ancora inediti nella loro integrità e poco conosciuti. Al di là del valore di documento storico, essi hanno un valore esperienziale – un valore ‘letterario’ in quanto trattano della condizione umana, e quindi sono in qualche modo ‘patrimonio di tutti’. Si tratta infatti del destino di una sorta di Dioscuri moderni, Falcone e Borsellino, coetanei, nati nello stesso quartiere della Kalsa a Palermo, amici sin dall’infanzia durante le tante partite di calcio… Molti gli spunti di riflessione su cui soffermarsi con Ilio Mannucci Pacini, Presidente della Corte d’Assise di Milano, in merito a una storia umana straordinaria


Giovanni Falcone e Paolo Borsellino raccontati dai loro amici più intimi e dai più stretti colleghi e conoscenti. Una lunga serie di aneddoti che risalgono a prima che diventassero famosi. Momenti indimenticabili, istanti divertenti che ci restituiscono il volto inedito dei due magistrati antimafia. Ed ecco, dunque, Giovanni Falcone che colleziona papere e penne stilografiche, con le sue battute di ironia demenziale, con la guerra delle molliche a tavola, ma anche con i suoi amori tormentati e le sue lacrime davanti ai drammi di alcuni dei collaboratori di giustizia che avevano deciso di parlare con lui. Ed ecco Paolo Borsellino, uomo all’antica, dall’umanità travolgente, rilassarsi con la sua piccola barca di vetroresina o a cavallo di una bicicletta, a pesca grossa durante il soggiorno da “recluso” all’Asinara o “in fuga” dalla scorta per una passeggiata notturna a Mondello con un suo “fratello”. È la narrazione del volto ancora poco conosciuto di due uomini che, sotto l’immenso peso dell’ansia e delle responsabilità della missione che li ha portati insieme fino alla morte, sapevano anche sorridere e divertirsi. Ed è anche la storia di una grande amicizia fra due uomini diversi eppure uguali: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.


Sono passati venticinque anni da quando, nelle stragi di Capaci e di Via d’Amelio, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati assassinati dalla mafia insieme agli agenti della scorta. Alberto Melis, attraverso le parole delle loro sorelle, Maria Falcone e Rita Borsellino, ricostruisce l’infanzia dei due magistrati con l’intento di ricordare ai ragazzi il loro esempio ma anche di dare un messaggio di speranza. Perché la mafia si può davvero sconfiggere se tutti noi, anche da piccoli, facciamo il nostro dovere, come diceva Falcone, e scegliamo di stare dalla parte giusta del mondo. Quella dell’onestà.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ancora oggi, i misteri fondamentali che gravano sulle stragi di Capaci e via D’Amelio restano insoluti: chi erano le menti raffinatissime, i cervelli delle stragi, i pupari dei manovali del crimine? Perché in tempi così ridotti e con modalità così clamorose sono caduti, uno dopo l’altro, i due grandi nemici di Cosa Nostra? Questo libro, frutto di anni di ricerca, costituisce il tentativo di tracciare una lista ragionata delle circostanze oscure dei due attentati, formulando, ove possibile, qualche ipotesi di spiegazione. Di fondamentale importanza le fonti utilizzate, documenti sinora non conosciuti o mai pubblicati, che rivelano un quadro di menzogne, reticenze, depistaggi, tradimenti, sparizioni di documenti, diffamazioni, infedeltà istituzionali gravissime e imperdonabili negligenze investigative. «La decisione di includere tanti documenti, soprattutto processuali, e di non romanzare gli eventi è stata presa per offrire ai lettori un panorama di fatti, probabilmente non conosciuti nella loro interezza se non dagli addetti ai lavori, e nell’intento parallelo di rinvigorire il ricordo di coloro che sono morti per noi. Mi ha guidato una frase di Mario Francese, giornalista assassinato da Cosa Nostra: “I fatti sono come domande, prima o poi vengono le risposte”».


 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Italia non dimentica Falcone e Borsellino: la celebre foto di Tony Gentile, 20 anni dopo, è affissa in questure, uffici pubblici, scuole, oratori. L’eredità racconta questo e altri miracoli, con le parole di chi ha raccolto il testimone della lotta alla mafia: Antonio Ingroia, Vittorio Teresi, Franca Imbergamo, magistrati a Palermo e Caltanissetta; Rita Borsellino, sorella di Paolo, che ha viaggiato in tutta Italia per raccontare le stragi del 23 maggio e del 19 luglio 1992; Gregorio Porcaro, ex vice-parroco di don Pino Puglisi e molti altri. L’eredità dà voce anche a chi – dopo le stragi – ha cambiato vita, come il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, killer designato per Borsellino. Un libro dedicato a Nino Caponnetto, con la prefazione di Gian Carlo Caselli, procuratore della Repubblica di Torino. Per tutti loro Giovanni e Paolo sono ancora vivi.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era la mattina del 21 giugno 1989 quando, con un ordigno esplosivo collocato vicino all’affollata spiaggia dell’Addaura, a Mondello (Palermo), la mafia attentava alla vita di Giovanni Falcone. L’attentato fallì, ma la mafia continuò nella sua azione di delegittimazione e di avvelenamento dell’informazione ai danni dell’insigne magistrato, che venne poi ucciso, insieme alla moglie e agli agenti della sua scorta, a Capaci il 23 maggio del 1992. Il libro di Tescaroli getta una luce nuova su entrambe le vicende, tra loro legate a doppio filo, ricostruendole grazie alle informazioni emerse da anni di indagini e dalle testimonianze dei collaboratori di giustizia. Su Falcone è stato scritto molto, ma ancora non è stato chiarito tutto, specie i rapporti tra mafia e politica che l’autore indaga con freddezza e lucidità imparziale, forte della sua lunga esperienza in magistratura e della profonda conoscenza dei fatti.

 


L’antimafia è un esercizio quotidiano, fatto di scelte, di memoria, di impegno. Un esercizio che implica anche la narrazione, perché è importante ricordare sempre che ci sono state e ci sono persone che hanno avuto e hanno la forza di sacrificare le proprie vite in nome della giustizia, della legalità e del fresco profumo di libertà. Li chiamano eroi dell’antimafia: uomini e donne che hanno fatto il proprio dovere e che noi, ogni giorno, dobbiamo ricordare e onorare attraverso le nostre scelte e le nostre azioni. Anche raccontando ai più piccoli chi erano, cosa hanno fatto, come hanno tentato quotidianamente di rendere più pulita la Terra sulla quale viviamo. Come farlo con i bambini se non attraverso le favole? Nel libro sono sette le storie narrate, storie nelle quali sí intrecciano altre storie, altri eroi, nell’intento di lasciare a chi legge o ascolta un patrimonio di valori e soprattutto di amore verso l’altro. Ad aprire la narrazione Gaetano Saffioti che, testimone vivo del nostro tempo, diventa la voce narrante delle favole successive in cui si raccontano Don Pino Puglisi, Annalisa Durante, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Giancarlo Siani, Peppino Impastato, Don Peppe Diana. Una agiografia laica, in cui gli eroi diventano trampolieri, stelle nel cielo, sogni da realizzare, alberi di pace e speranza, poeti e innocenti abitanti di “Leucolizia, che fa rima con liquerizia, ma che liquerizia non è”.


 

 

 

 

 

 

 

 

Un libro di narrativa per ragazzi dai 12 anni. A trent’anni dalla loro scomparsa, il ricordo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, eroi e vittime che hanno sacrificato se stessi per combattere la mafia, nel racconto forte e appassionato di Rosario Esposito La Rossa. Una storia che parla di memoria, legalità, scuola.

Un professore di una scuola superiore, un caldo giorno di maggio, porta i suoi studenti in giardino e li invita a scavare una buca. Li ferma solo quando la fossa ha raggiunto le dimensioni di quattro metri per cinque, le stesse del cratere formatosi nell’autostrada dopo lo scoppio della bomba che causò la morte di Giovanni Falcone. È il preludio per una gita dal forte impatto emotivo nei luoghi che hanno visto svolgersi la vicenda umana, giudiziaria e civile di Falcone e Borsellino, protagonisti straordinari e fondamentali della lotta alla mafia durante la stagione delle stragi. Un’esperienza che riporterà i ragazzi alla dimensione etica della memoria, e a un ricordo partecipato del sacrificio compiuto dai due magistrati. Per capire, e non dimenticare mai.


I tanti che uccisero Falcone e Borsellino. Le stragi che hanno devastato l’Italia. Il più grande depistaggio dell’Occidente. L’asso nella manica dei misteriosi fratelli Graviano. I nostri anni ignobili e oscuri non sono ancora finiti. Milano, primi anni settanta. A nord-est, vicino al Parco Lambro, sorge Milano 2. Palermo, 1982. Un costruttore edile sconosciuto muore ucciso in un agguato. È uno dei primi di una sanguinosa guerra civile. Dopo di lui muoiono altre diecimila persone. L’uomo aveva investito i suoi soldi nelle banche di Michele Sindona. I suoi figli sono i fratelli Graviano. Il loro capo è Giuseppe, soprannome Madre Natura. A vent’anni prende il comando. Deve gestire un patrimonio enorme, difendere la famiglia nella guerra, guidare il suo esercito. Ce la farà? Può un ragazzo giovane, da solo, tenere testa alla tempesta finanziaria che sta scuotendo l’Italia? Dalla sua parte ha il governo “militare” del più grande quartiere di Palermo, il Brancaccio in cui Cosa Nostra domina incontrastata. Si allea con i corleonesi e con i servizi. Capaci e via D’Amelio, 1992. Giuseppe Graviano schiaccia personalmente il telecomando di via d’Amelio. Curiosamente, nessuno l’aveva mai sospettato, anche perché vive ormai a Milano. E nessuno aveva sospettato che ci fosse lui dietro alla catena di bombe che nel 1993 hanno portato l’Italia sull’orlo della crisi finanziaria e di un possibile colpo di stato. 1994. Berlusconi scende in campo. Nessuno si accorge dell’arresto di Filippo e di Giuseppe Graviano in un ristorante alla moda di Milano. Tutto, come per magia, finisce. In Italia nessuno più verrà ammazzato. La storia è finita. O forse no. A Palermo un membro della banda Graviano – tale Spatuzza – viene arrestato nel ’96 e racconta tutto, smentendo tutta la ricostruzione ufficiale delle stragi. Ma la sua cantata rimane nascosta per dieci anni. I Graviano hanno fatto tutto: Capaci, via D’Amelio, Firenze, Milano, Roma, Maurizio Costanzo, i due carabinieri di Reggio Calabria. E perché? Dal 41 bis, dove sono ormai da trent’anni, i Graviano organizzano i loro affari come se niente fosse. Sono ancora giovani. La stirpe deve continuare. Ma una domanda li tormenta: chi ci ha traditi? Gli stessi che ci hanno ordinato le bombe? Già, chi li ha traditi?


 

 

 

 

 

 

 

 

 

Corredato da una preziosa testimonianza introduttiva di Rita Borsellino, il volume contiene una raccolta di scritti di Luca Tescaroli, pubblicati dall’edizione palermitana di “Repubblica” che consente di far rivivere una pagina di storia del nostro Paese attraverso la rievocazione di una serie di stragi, attentati ed omicidi. Delitti che hanno consentito a Cosa nostra di eliminare in Sicilia, nell’indifferenza della comunità nazionale, alti esponenti delle istituzioni regionali, vertici della Procura della Repubblica e dell’Ufficio Istruzione di Palermo, giudici d’appello, attivi esponenti delle forze dell’ordine, prestigiosi esponenti dei partiti politici, imprenditori, familiari di collaboratori di giustizia, vittime innocenti, donne, bambini, servitori dello Stato. Scritti che danno voce al ricordo di uomini e donne trucidati. Un tributo alla memoria di una mattanza che l’autore ha saputo attualizzare, con attente analisi dell’attuale fase di calo nella lotta al crimine organizzato ed inviti accorati a non dimenticare. Storie di mafia, di collusioni e di delegittimazioni bisognose di verità si intrecciano con vicende giudiziarie ed esperienze professionali del narratore, che consentono di riflettere sulla situazione odierna.

 

 


Quella di Falcone e Borsellino è senz’altro una moderna leggenda popolare. Le due stragi, la terra che si solleva a Capaci come per un terremoto, il fuoco che in via D’Amelio si leva fino al cielo. Sullo sfondo l’Italia corrotta, da Milano a Palermo, e una lunga catena di martiri che si materializza in quei due scenari da inferno. Ma quando torniamo ai fatti di trent’anni fa occorre anzitutto chiedersi se siano scomparse o almeno diminuite le ragioni di quel senso di tradimento che portò i due giudici a denunciare la latitanza dello Stato nella lotta contro la mafia. E il modo migliore per farlo è rileggere le loro parole, gli interventi che ci hanno lasciato, pronunciati quando ancora erano enunciazioni isolate, tra la reazione degli ambienti vicini a Cosa Nostra, la diffidenza del Csm e l’indifferenza di molti. Impressiona purtroppo la loro attualità: i ritardi, le colpe e i silenzi di una Sicilia e soprattutto di una nazione che, forse, non sono cambiati abbastanza, il rapporto tra mafia ed economia, le responsabilità della politica, i temporeggiamenti della magistratura, i tratti etici, culturali e organizzativi necessari per affrontare seriamente la criminalità organizzata. Ostinati e contrari è il manifesto di due uomini ostinatamente contrari alla banalità del male. Una lettura indispensabile per ogni cittadino di questo Paese.


“Falcone e Borsellino. Storia di amicizia e coraggio” il libro di Fabio Iadeluca. Il libro ricorda quanto indelebile sia il segno che hanno lasciato Falcone e Borsellino e che a distanza di 30 anni noi tutti abbiamo il dovere di continuare a onorare A trent’anni dalla strage di Capaci, il 23 maggio 2022 ricorre l’anniversario in cui la mafia uccise con un terribile attentato il giudice Giovanni Falcone, la moglie e magistrato Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Fabio Iadeluca sociologo e criminologo affermato, regala al pubblico un libro illustrato che racconta la Storia straordinaria di due uomini: “Falcone e Borsellino


Uno diverso approccio verso uno dei temi più affrontati nell’editoria. La Mafia. «Un giorno, parlando della mia attività di scrittore sulle vicende di mafia, un mio amico mi chiese: “Ma per quale motivo ti stai occupando di cose da adulti?”». Stefano Baudino, classe 1994, si occupa di mafia sin dai tempi del liceo. Oggi va lui nelle scuole, a parlarne ai giovani delle ultime generazioni. Per Baudino la mafia non è una cosa da adulti. Al contrario. La mafia la devono, la possono capire anche i ragazzi e le ragazze di oggi. La storia di Cosa nostra, le sue strutture, i suoi codici. Falcone e Borsellino (il libro contiene un’intervista toccante al fratello di quest’ultimo, Salvatore); il maxi-processo, le stragi del ’92. Fino alla trattativa Stato-mafia, che questo libro affronta senza reticenze: perché è ai giovani prima di tutto che bisogna dire la verità, se si vuole che questo Paese diventi migliore, un Paese finalmente adulto.


“Giovanni Falcone era il più importante, il più capace, il più famoso tra i giudici che hanno combattuto la mafia. Per questo nello stesso giorno in cui fui nominato ministro della Giustizia lo chiamai e gli affidai l’incarico più importante del ministero, quello di direttore degli Affari Penali. Insieme, abbiamo pensato e organizzato la più organica, determinata ed efficace strategia di contrasto a Cosa Nostra. La mafia reagì uccidendo prima Falcone poi Borsellino con una violenza terroristica più efferata e rabbiosa di quella armata in precedenza contro i molti giudici, poliziotti, uomini politici che l’avevano contrastata. Pur tra tante affinità, la storia di Falcone è diversa da quella degli altri uomini dello Stato che hanno combattuto la mafia perché solo a Falcone è capitato di essere perseguitato in vita non solo da Cosa Nostra, ma anche di essere avversato da colleghi magistrati, dalle loro istituzioni come il CSM e dall’Associazione Nazionale Magistrati, nonché da politici e da giornalisti di varie fazioni. Ancora oggi di quest’altra faccia della luna poco si sa perché poco è stato detto. Fece eccezione l’amico più caro di Falcone, Paolo Borsellino: ‘La magistratura che forse ha più responsabilità di tutti cominciò a far morire Giovanni Falcone ben prima che la mafia lo assassinasse a Capaci’. Da allora sono passati trent’anni. Per rispetto di Falcone, dei ragazzi che non hanno vissuto quel tempo, degli adulti che non lo hanno capito o lo hanno dimenticato, sento il dovere di tornare a riflettere per raccontare le verità di allora e quelle più recenti che ho appreso insieme al ruolo di chi, nel bene e nel male, ne fu protagonista dentro le istituzioni dello Stato, nella società e nel mondo dell’informazione.” (Claudio Martelli).


“Mi sono fatto le ossa a Trapani come sostituto procuratore. La mafia è entrata subito nel raggio dei miei interessi professionali con uno dei grandi processi del dopoguerra. Dieci assassinii e la mafia di Marsala dietro le sbarre. Era il novembre del1967” raccontò Giovanni Falcone a Marcello Padovani. Il nostro volume ricostruisce, in modo puntuale proprio l’intenso e pressoché sconosciuto tirocinio di giudice antimafia di Giovanni Falcone a Trapani (1967-1978), attraverso i processi da lui istruiti. Racconta, al contempo, grazie alle molteplici testimonianze di amici, colleghi e cronisti di quel tempo, la spumeggiante sfera sociale e l’interessante coté privato della sua vita. Pagina dopo pagina emerge che gran parte degli “uomini d’onore” e delle “famiglie” mafiose del Trapanese di un certo rilievo finirono, in qualche misura, nel suo raggio d’osservazione: da Mariano Licari a Salvatore Zizzo, dai Rimi al giovanissimo Francesco Messina Denaro. Il libro racconta anche taluni singolari processi di natura diversa di cui il magistrato ebbe ad occuparsi


 

Questa è la storia di un uomo che resiste, che prova a fare la differenza, che non voleva essere un martire né un eroe.

Prima ti infangano, poi ti isolano, poi ti ammazzano.

Un’esplosione squarcia la quiete della campagna corleonese. Il giovanissimo Totò Riina assiste allo sterminio dei suoi familiari intenti a disinnescare una bomba degli Alleati per ricavarne esplosivo. È un boato che distrugge e che genera. La piaga che molti, con timidi bisbigli, chiamano mafia, ma che d’ora in poi si rivelerà a tutti come Cosa nostra, s’incarna da qui in avanti nella sua forma più diabolica. Ma con potenza uguale e contraria, per fronteggiare l’onda di quella deflagrazione scaturisce anche il suo antidoto più puro. È il coraggio, quello che sorregge l’ingegno e l’intraprendenza, che sopperisce ai mezzi spesso insufficienti: il coraggio che scorre in Giovanni Falcone, negli uomini e nelle donne che insieme a lui sono pronti a lanciarsi in una battaglia furiosa dove la vita vale il prezzo di una pallottola


 

Ci sono l’amore e l’intesa. L’impegno e il sacrificio in un Paese in tempo di guerra. Ci sono gli amici’9 e i nemici, le battaglie e i processi, la vita quotidiana e una parte importante della nostra storia, interrotta improvvisamente quel tragico giorno di maggio del 1992, oscurato dalla strage di Capaci. Al centro della scena è una donna, Francesca Morvillo, insieme all’uomo cui ha scelto di stare accanto fino all’ultimo, consapevole del pericolo: Giovanni Falcone. Le loro vite si intrecciano nella stagione più difficile del conflitto tra lo Stato e Cosa Nostra. Francesca è figlia, sorella, moglie di giudici e magistrato a sua volta. Giovanni lancia la sfida più ambiziosa alla mafia insieme ai giudici del Pool. Felice Cavallaro ne rievoca in queste pagine i caratteri e la complicità, la forza e le debolezze. E ripercorre come in un romanzo le tappe della loro vita, dall’adolescenza al primo matrimonio di lei, dal loro incontro agli anni più felici, dal comune impegno civile alla diffidenza dei colleghi, dall’esilio forzato all’Asinara con il giudice Paolo Borsellino e sua moglie Agnese all’attentato scongiurato nella villa dell’Addaura. Fino agli intrighi più odiosi. Sullo sfondo uno Stato assente, distratto, forse anche colluso. Poi le polemiche per il trasferimento di Falcone a Roma e quel rientro a Palermo per una vacanza che non faranno mai. Dopo l’esplosione a Capaci Francesca sembra ancora in vita. I suoi occhi si aprono per l’ultimo istante. Il tempo di sussurrare poche parole: «Dov’è Giovanni?».


 


Trent’anni dopo capaci, uno straordinario faccia a faccia con Giovanni Falcone. Il racconto esclusivo di una grande amicizia e di una lunga collaborazione nella lotta contro la mafia. 
Com’era collaborare con Giovanni Falcone? Quali erano le sue riflessioni più private? Come si svolgeva il suo lavoro investigativo? In un crescendo appassionato e pieno di dettagli inediti, Pino Arlacchi racconta per la prima volta la storia della sua amicizia con Falcone dal 1980 fino a Capaci, gli incontri privati nella casa del giudice in via Notarbartolo a Palermo, l’eccezionale impresa conoscitiva e giudiziaria che porterà al maxiprocesso, i viaggi comuni negli Usa per decifrare con gli inquirenti americani le trafile del grande traffico di eroina tra la Sicilia e gli Stati Uniti, la scoperta del riciclaggio nei paradisi fiscali, i retroscena dell’incontro con Tommaso Buscetta e quelli dell’arrivo di Falcone a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia, e del mancato pentimento di Tano Badalamenti. Il tutto all’ombra della grande sfida con Giulio Andreotti e la mafia di Stato. Sono tante le storie mai raccontate prima, che restituiscono con nettezza il profilo di un professionista e di un lavoratore instancabile, ben diverso da quello dell’eroe solitario e votato alla sconfitta depositatosi nella memoria collettiva dopo la sua tragica morte. Falcone non è morto solo e non è morto invano. Queste pagine colpiscono perché mostrano in presa diretta il lavoro sul campo di un grande magistrato, in costante intesa con un ricercatore sociale “che fabbrica cartucce che gli consentono di sparare più lontano”. Un amico fraterno che lo aiuta a valorizzare la sua intelligenza, la sua determinazione, il suo ineguagliabile senso della giustizia. Sullo sfondo c’è l’Italia degli ultimi tre decenni del secolo scorso, tratteggiata con maestria dall’autore: la strategia della tensione, la Guerra fredda e l’alleanza asimmetrica con gli Stati Uniti. Una parte importante è dedicata al racconto dell’influenza degli apparati d’intelligence americani nelle storie italiane, compresa la grande stagione della lotta alla mafia. Questo libro riempie un vuoto e rappresenta un contributo essenziale per conoscere le opere e i giorni di Giovanni Falcone.


“Papere contro la mafia: una storia di Giovanni Falcone”, raccontato ai più piccoli da Antonio Ferrara. In occasione del trentennale della strage di Capaci, il volume sarà presentato in anteprima al Salone del Libro di Torino il 21 maggio.

 


1992-2022. Sono trascorsi trent’anni dalla strage di Capaci nella quale persero la vita Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Quel crimine – insieme all’uccisione di Paolo Borsellino, avvenuta meno di due mesi dopo – rappresentò una cesura storica destinata a imprimersi in modo indelebile nella memoria collettiva di un Paese e obbligò uomini e donne a una presa di coscienza nei confronti della lotta alla mafia. Bisognava dire «basta», perché da quel momento Cosa nostra sarebbe diventata una «cosa» di tutti, nessuno escluso. Negli anni a seguire, la figura di Giovanni Falcone è stata più volte celebrata in occasione di anniversari che hanno contribuito a tenerne vivo il ricordo e a consegnarlo alle nuove generazioni. Con intenti sempre nobili, ma con esiti spesso discutibili, ammantati di cliché e messaggi privi di sostanza.
E dunque, al di là del semplice esercizio della memoria, ci sono alcune domande che dovremmo porci per dare senso al tempo e permettere all’esperienza passata di rivivere attivamente nel presente: che cosa resta oggi dell’insegnamento di Giovanni Falcone? In quale modo il suo esempio, il suo «metodo» e la sua idea di Antimafia possono trovare applicazione nel contesto attuale della lotta al crimine organizzato?
Marcelle Padovani – che nel corso della sua carriera giornalistica conobbe e lavorò con Giovanni Falcone – tenta in queste pagine di «attualizzare» il pensiero del grande magistrato e di comprendere l’influenza esercitata dalla sua eredità. Tessendo ricordi, aneddoti e colloqui con alcuni uomini di giustizia, l’autrice riesce a intrecciare passato, presente e futuro, a «celebrare l’Antimafia di oggi senza dimenticare di rendere omaggio a quella del passato». Il risultato è un libro che va oltre le facili celebrazioni e che ha il merito di fare «il punto sull’acquisito, l’immutabile, il positivo» della giustizia. Sempre in compagnia di Giovanni Falcone. Del suo ricordo, ma anche del suo esempio concreto, presente, vivissimo.


Questo libro parla di Giovanni Falcone come persona anche negli anni in cui non era ancora il giudice più famoso del mondo. Sono ricordi privati, ma sobri, che lo descrivono come uomo. Il testo parla anche del suo metodo e della ricerca sulla psicologia mafiosa collegabile al suo pensiero. Il libro è arricchito dalla prefazione di Francesco La Licata e dalla postfazione di Roberto Di Bella


 

La storia di un’amicizia speciale tra un cane randagio e il magistrato palermitano. Un romanzo edificante sul valore del coraggio e la forza delle idee che sopravvivono alla morte. Un libro sulla mafia e la figura di Falcone, viste però con gli occhi di un cane.
 Un cucciolo orfano di madre viene raccolto e accudito da un uomo. Quell’uomo è Giovanni Falcone, magistrato impegnato a contrastare la mafia nella Palermo insanguinata degli anni Ottanta. Uccio, più volte scampato alla morte, ha maturato un senso di giustizia che lo spinge a impegnarsi contro la malavita. Ma una notte, mentre si esercita ad affinare il suo latrato, da un palazzo lì vicino scende Giovanni Falcone, che lo accarezza e che, malgrado non possa portarlo a casa, lo accoglie amorevolmente nell’atrio del tribunale di Palermo, dove opera con il suo pool antimafia. Da quel momento, mentre si susseguono i tristi delitti di mafia, tra cane e padrone si instaura un’intensa amicizia, che verrà stroncata solo dal brutale omicidio del magistrato. Alla fine, vecchio e con le ultime forze, Uccio prende dimora nell’atrio del tribunale di Palermo per vegliare la statua del giudice presa di mira dai teppisti, mettendo in atto così la lezione più importante appresa da Falcone: il coraggio.
Nel trentennale della strage di Capaci, un racconto commovente e delicato che, con leggerezza e senza toni retorici, affronta un tema difficile e una delle pagine più buie della nostra Storia dimostrando che l’amore e il senso di giustizia possono trionfare su qualsiasi forma di violenza e sopraffazione.


 

 

 

 

 

 

 

 

Cosa è stata e cosa è la mafia, chi sono i mostri che hanno trasformato il paradiso siciliano in un girone infernale, chi sono gli eroi che combattono il crimine e i martiri che si sono sacrificati per la causa nobile della liberazione. Questo libro racconta un secolo di orrori a partire dall’omicidio dell’ex sindaco di Palermo Emanuele Notarbartolo, il primo delitto eccellente. E poi curiosità, retroscena, le lunghe latitanze, le stragi, i processi, gli intrighi, i misteri. Fino ai recenti successi dell’antimafia, gli arresti e la cattura dei grandi boss che sembravano inafferrabili. Il colpo di grazia sembra vicino, ma c’è da fare con l’ultimo capomafia superstite, Matteo Messina Denaro, tutt’ora in libertà, e con i picciotti che si affacciano sulla scena criminale smaniosi di conquistare spazi e potere per la scalata ai massimi vertici dell’organizzazione. Sono giorni di speranza ma la partita fra Stato e mafia resta aperta.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono passati quindici anni dalla terribile estate che, con i due attentati di Punta Raisi e di via d’Amelio, segnò forse il momento più drammatico della lotta contro la mafia in Sicilia. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino restano due simboli, non solo dell’antimafia, ma anche di uno Stato italiano che, grazie a loro, seppe ritrovare una serietà e un’onestà senza compromessi. Ma per Giuseppe Ayala, che di entrambi fu grande amico, oltre che collega, i due magistrati siciliani sono anche il ricordo commosso di dieci anni di vita professionale e privata, e un rabbioso e mai sopito rimpianto. Ayala rappresentò in aula la pubblica accusa nel primo maxi-processo, sostenendo le tesi di Falcone e del pool antimafia di fronte ai boss e ai loro avvocati, interrogando i primi pentiti (tra cui Tommaso Buscetta), ottenendo una strepitosa serie di condanne che fecero epoca. E fu vicino ai due magistrati in prima linea quando, dopo questi primi, grandi successi, la reazione degli ambienti politico-mediatici vicini a Cosa Nostra, la diffidenza del Csm e l’indifferenza di molti iniziarono a danneggiarli, isolarli. Per la prima volta, Ayala racconta la sua verità, non solo su Falcone e Borsellino, che in queste pagine ci vengono restituiti alla loro appassionata e ironica umanità, ma anche su quegli anni, sulle vittorie e i fallimenti della lotta alla mafia, sui ritardi e le complicità dello Stato, sulle colpe e i silenzi di una Sicilia che, forse, non è molto cambiata da allora.

 


 
 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
Angelo Corbo, racconta la sua vicenda umana e professionale, di agente di scorta di Giovanni Falcone e sopravvissuto alla strage di Capaci. Lo fa a distanza di tempo per riprendere quel filo della memoria che sbiadiva fino a perdersi e porre dinanzi a noi squarci improvvisi su alcuni aspetti ancora oscuri della strage di Capaci e della protezione di Giovanni Falcone. Angelo è riuscito ad emergere dal suo nascondiglio, dallo spazio protetto del suo lavoro e dei legami forti della sua famiglia che lo hanno sostenuto in tutti questi anni. Vi si era rifugiato pagando il caro prezzo degli incubi e delle paure e confidando nella smemoratezza degli uomini, anche e soprattutto di quelli delle Istituzioni che, prima, si erano scordati del suo trasferimento a Firenze e, poi, della sua stessa esistenza. Leggere la sua testimonianza aiuta a decifrare il lavoro faticoso degli agenti di scorta, la necessità di una preparazione professionale sempre al passo con i tempi, proprio per garantire al meglio l’incolumità di chi è sottoposto quotidianamente al rischio per il semplice motivo di compiere il proprio dovere, e offre un contributo prezioso a fare chiarezza sulle modalità con cui le grandi scelte si riverberano sulle vicende quotidiane di chi opera in contesti mafiosi. Scorrendo il testo, è molto forte l’impressione che l’esperienza di ogni giorno potrebbe essere molto utile per comprendere e contrastare meglio le organizzazioni criminali, mentre chi decide sembra muoversi secondo altre logiche, legate molto spesso, negli ultimi tempi, alle cosiddette economie, termine con cui si mascherano semplicemente dei tagli alle risorse per opporsi alla mafia. Le sue parole restituiscono alcuni tratti della vicenda con una luce nuova. Ne indichiamo solo due perché sono quelli più ricorrenti nel racconto: se vi era la convinzione che il pericolo per Giovanni Falcone fosse attenuato tanto da rinunciare alla scorta specifica per lui, dopo l’attentato di Capaci possiamo legittimamente chiederci su quali elementi era fondata tale convinzione, chi ne erano gli autori e come giudicarli? Ancora: mentre si sottolinea quanto sia importante, oltre la preparazione e la professionalità degli uomini della scorta, il loro affiatamento, come si giustifica la composizione di quella del 23 maggio? A questi interrogativi che ci suggerisce il racconto di Angelo e che mantengono intatta la loro forza e urgenza, perché non hanno avuto risposta plausibile a distanza di anni, si aggiunge, ad inquietarci, il ricordo del primo soccorritore. Dopo essere arrivato sul luogo dell’attentato e aver scattato alcune foto gli è stato sottratto il rullino da due “agenti di Polizia”. Dei due sorprende innanzitutto la celerità con cui sono giunti sul teatro dell’attentato, molto prima dell’intervento di Polizia e Carabinieri, e sorprende che la loro preoccupazione di entrare in possesso di un documento utile alle indagini non abbia avuto seguito con la consegna agli investigatori. I modi bruschi per appropriarsene e la scomparsa del rullino accrescono ombre e ipotesi che gravano anche questo passaggio cruciale della nostra storia. I mafiosi autori della strage e i complici fuggono dopo il terribile boato, come ci ricordano i pentiti, e quindi occorre cercare in altre direzioni per dare un volto ai due e tornano in mente le parole del pentito Gioacchino La Barbera, che vi erano uomini estranei alla mafia nei preparativi all’attentato. Qualcuno che era sul luogo e cercava qualcosa fra le rovine dell’esplosione e non gradiva essere ripreso!