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“Cosa nostra non fu sola. E nelle indagini su servizi reticenze istituzionali bestiali”
di Aaron Pettinari
Da Contrada a Scarantino, il magistrato racconta processi e inchieste
“La strage di via d’Amelio? Non credo che sia solo di mafia. Il furto dell’agenda rossa, quello che io considero come l’inizio di un possibile depistaggio, è avvenuto già il 19 luglio. Ed è chiaro che non fu per mano di Biondino, Graviano o altri mafiosi”. Così si è espresso Nino Di Matteo, oggi consigliere togato del Csm e in passato magistrato che indagò, tanto a Caltanissetta come a Palermo, su fatti e misfatti che hanno riguardato gli anni delle stragi, deponendo al processo per il depistaggio delle indagini sull’omicidio di Paolo Borsellino, in corso a Caltanissetta. Sul banco degli imputati, con l’accusa di calunnia aggravata, ci sono i poliziotti Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo, che facevano parte del Gruppo Falcone e Borsellino, che secondo l’accusa avrebbero avuto un ruolo nella costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Così come aveva fatto nella deposizione al processo Borsellino quater, ma anche davanti alla Commissione parlamentare antimafia e al Csm.
L’ennesimo contributo per fare chiarezza su quello che la Corte d’Assise di Caltanissetta, nelle motivazioni del processo Borsellino quater, ha definito come il “più grave depistaggio della storia”. E’ in quella sentenza che si certifica che Scarantino è stato indotto a mentire. Ma Di Matteo, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Gabriele Paci e del sostituto Stefano Luciani, è andato oltre: “Oggi ci si concentra molto su questo piccolo segmento, seppur inizialmente importante, di una storia che già in quegli anni era molto più ampia. Una questione che portò ad altri 26 ergastoli definitivi per strage, mai messi in discussione dopo il pentimento di Spatuzza, e alle indagini su Contrada, Berlusconi e Dell’Utri”.
Il primo impegno
Il magistrato ha ricordato di essere arrivato a Caltanissetta nel 1992 e di essere entrato in Dda a partire dal dicembre 1993. E’ nel novembre 1994, due anni e 4 mesi dopo l’arresto di Scarantino, che è entrato a far parte del pool che si occupò della strage. “Nonostante questo – unico del pool stragi – mi occupavo anche delle indagini ordinarie. Poi della criminalità organizzata gelese, del processo sulla morte del giudice Saetta o quello contro il procuratore Prinzivalli. Non mi sono mai occupato del cosiddetto Borsellino uno e neanche del bis, che seguo solo nella fase del dibattimento. Ho seguito tutto l’iter del Borsellino-ter”.
Il primo incarico gli fu dato in via “ufficiosa” dal Procuratore capo di Caltanissetta, Giovanni Tinebra: “Ricordo perfettamente il primo incarico, non solo per il coinvolgimento professionale ma anche personale ed emotivo – ha ribadito ancora il Consigliere – Tinebra venne da me dicendomi: ‘Sarebbe opportuno, rispetto ai verbali già resi da Scarantino che presentano aspetti di problematicità (lo constatai leggendo i verbali: al quarto o quinto interrogatorio lui aveva aggiunto dei nomi di persone presenti a una riunione a villa Calascibetta, e tre erano collaboratori), che un magistrato che non l’ha mai sentito lo interroghi partendo da capo, come se fosse la prima volta che un magistrato della procura di Caltanissetta raccolga la sua versione’. Così andai ad interrogare Scarantino per circa tre-quattro giorni consecutivi, alla questura di Genova, dove tutto viene messo a verbale”. Così come già aveva fatto al Borsellino quater Di Matteo ha sottolineato che durante gli interrogatori non vi furono pause se non quella per mangiare. “Io non gli consentii nemmeno di uscire dalla stanza e feci portare lì dei panini – ha aggiunto –. Ci portarono dei panini. Lui si mise in un angolo, io in un altro. Ricordo bene quel giorno perché al tempo ebbi la sgradevolissima sensazione di stare mangiando nella stessa stanza con una persona che asseriva di aver partecipato, anche se marginalmente, a quella strage per cui io avevo pianto”.
Per quanto riguarda successivi interrogatori, pur non potendo escludere che non vi furono sospensioni, l’ex pm palermitano ha dichiarato di non aver mai parlato con Scarantino in un momento di interruzione né di aver mai visto colleghi o investigatori farlo.
I dubbi su Scarantino
Di Matteo è poi entrato nel merito dei dubbi che riguardavano le dichiarazioni del picciotto della Guadagna, ricordando che l’attendibilità fu riconosciuta in forma limitata: “Eravamo convinti che da un certo punto in poi Scarantino aveva cominciato a inquinare il quadro probatorio. Ovvero quando inserì come presenti in quella riunione a villa Calascibetta i tre pentiti Di Matteo, La Barbera e Cancemi. Nel processo bis sulla strage, nei confronti degli imputati tirati in ballo solo da lui, abbiamo chiesto l’assoluzione. Valutazione che fu condivisa dai giudici del primo grado. Poi furono condannati in appello ma lì non so cosa accadde. Addirittura nel cosiddetto processo Borsellino ter nemmeno lo abbiamo messo in lista testi”.
Rispetto alle note inviate da Ilda Boccassini alla Procura in cui si faceva riferimento alle perplessità su Scarantino ha detto di non esserne mai venuto a conoscenza: “Ho saputo delle lettere della Boccassini solo successivamente, tra il 2008 e il 2010, quando a Palermo mi occupavo di Gaspare Spatuzza. Le lessi in epoca successiva. Posso dire che fino a novembre 1994 non fui mai informato delle indagini sulle stragi e non partecipai a nessuna riunione in procura in cui fosse presente anche Ilda Boccassini. Con la collega Boccassini non ho mai avuto la possibilità e la fortuna di parlare non solo delle stragi ma di indagini in generale. Per me era ed è un magistrato da stimare moltissimo, ma con la quale la conoscenza si limitava a incontri al bar”.
Pentiti contrastanti
Nel percorso di collaborazione, che poi si è scoperto essere falsa, di Scarantino una data chiave è quella del 6 settembre 1994, ovvero il giorno in cui, interrogato dai pm Palma, Petralia e Boccassini, chiamò in causa nella strage i pentiti Mario Santo Di Matteo, Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barberainserendoli come partecipanti nella riunione a Casa Calascibetta. “In quel momento certo era che elementi di criticità, al tempo, emersero anche nel dichiarato di altri collaboratori. C’erano dubbi su di lui, ma c’erano anche fortissimi dubbi sulla genuinità e sulle dichiarazioni rese fino a quel momento da Mario Santo Di Matteo: su di lui c’era un’intercettazione del colloquio con la moglie Franca Castellese, era la prima volta che i due si vedevano dopo il rapimento del figlio, un momento drammatico. In cui lei non è che invita il marito a ritrattare quello che aveva già detto sulle sue conoscenze sulla strage di Capaci, ma lo invita a non parlare di via d’Amelio alludendo a infiltrati esterni, anche della polizia. Non l’abbiamo incriminata perché in quel momento non avevamo la forza di andare avanti in un processo… Non è che ci siamo impietositi perché si trattava di una signora che aveva subito il sequestro e la morte di un figlio, ma abbiamo valutato che in quel momento non avevamo elementi sufficienti a sostenere un’accusa di giudizio”. Ma i dubbi riguardavano anche l’ex boss di Porta Nuova, Totò Cancemi: “Lui fino al ’93 dice che i mandamenti coinvolti erano quelli di Guadagna e Brancaccio, ma sapevamo che non sapeva solo questo, era reticente. Era una questione di logica. Razionalmente non si poteva accettare che lui non sapesse nulla in quanto era un componente della Commissione”.
I confronti tra i pentiti si svolsero il 13 gennaio 1995. Il verbale di quell’atto, all’epoca, fu al centro di una forte polemica scaturita dalla richiesta degli avvocati Di Gregorio, Marasà e Scozzola di poterli leggere. Come è noto il deposito posticipato di quegli atti al processo “Borsellino bis” era costata una denuncia da parte dei tre legali nei confronti dei pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Nino Di Matteo per “comportamento omissivo”. A loro volta i magistrati avevano denunciato per calunnia i tre avvocati. Il 25 febbraio 1998 il Gip di Catania aveva definitivamente archiviato l’inchiesta sui sostituti procuratori di Caltanissetta in quanto priva di alcun “comportamento omissivo”.
Oggi il Consigliere del Csm è tornato sul punto: “Anche se ero l’ultimo venuto lì, sono stato il primo a pretendere che si facessero dei confronti, che non abbiamo depositato subito nel Borsellino bis, ma dopo, in coincidenza dell’udienza dibattimentale del bis in cui viene sentito Cancemi e il rinvio per il ter. Quindi comunque prima che l’istruttoria dibattimentale finisse. Su questa storia siamo stati denunciati a Catania, c’è stata l’archiviazione, ma le date sono importanti. Non depositarli subito fu una decisione dell’intera Dda stabilita in una riunione”.
Durante l’esame ha dunque ricordato che nella requisitoria del bis “fu dato dai pm un giudizio di attendibilità assai, ma assai, limitata mentre nel processo ter non lo abbiamo neppure inserito nella lista dei testimoni. E nei confronti di chi era accusato esclusivamente da Scarantino abbiamo chiesto l’assoluzione di tre dei revisionati. Questo non viene detto da nessuno”.
Le telefonate di Scarantino
Rivolgendosi alla Corte ha poi aggiunto: “Ci tengo a dire che sono stato il primo a dire che Vincenzo Scarantino aveva il mio numero di telefono cellulare e mi chiamava. Mi telefonava perché qualcuno gli aveva dato il mio telefono. Ricordo un episodio particolare, quando mi mandò una sequenza di messaggi telefonici in cui sosteneva che il dottor Arnaldo La Barbera e Gabrielli lo avevano tradito nelle aspettative. E che voleva tornare in carcere, disse ‘nell’inferno di Pianosa’. Ricordo di avere detto ‘ma chi glielo ha dato il mio numero?’ e seppi che glielo aveva dato il procuratore Giovanni Tinebra. Io non do spiegazioni ma mi preme dire una cosa: in quel momento, siamo nel ’93-’94, era un momento nel quale i collaboratori di giustizia scontavano dei problemi e vedevano nell’ufficio del Procuratore la speranza di una risoluzione di quelle problematiche. Poteva capitare, dunque, che in ufficio telefonassero. A me è accaduto con Cancemi, Mutolo o Di Carlo, ma certo non per parlare di indagini, ma per dire ‘io qui sto scoppiando, datemi una soluzione dignitosa per me e la famiglia’. Mentre per me è stato un dato eccezionale, e mi ha fatto incavolare, che qualcuno gli avesse dato il mio numero”.
E’ a quel punto che Di Matteo, anche anticipando le domande sul tema delle intercettazioni del telefono di Scarantino quando si trovava in località protetta, ha aggiunto: “Dopo il verbale dell’ottobre ’94 pensavamo che avesse l’obiettivo di essere smentito, fu uno scrupolo per monitorarlo”. E poi ancora: “Mai nessuno con me si è permesso di dire che volevano aggiustare qualche dichiarazione. Quando si parla di preparazione di un pentito bisogna dire che è un’attività normale, seguita da tutti. Io ho preparato Cancemi, Ferrante, Onorato, tutti quelli che smentivano Scarantino. Preparare significava semplicemente dire ‘giorno tot comparirà davanti alla corte d’Assise, gli argomenti saranno questo, questo e quest’altro, dica la verità, né una cosa in più né una meno, esponga i fatti con chiarezza’. Si chiedeva al collaboratore di essere chiaro, sincero, lineare”.
Il Gruppo Falcone e Borsellino e la gestione Scarantino
Rispetto ai tre poliziotti imputati ha ricordato che quello con cui si confontava di più sulle indagini era Mario Bo, ma che un confronto vi era anche con gli ispettori Maniscaldi e Ricerca. Per poi aggiungere: “Ribaudo e Mattei avevano un ruolo marginale. Quest’ultimo lo ritrovai a Palermo in uno dei primi processi di cui mi occupai a carico di un funzionario dei Servizi che aveva fatto carriera con Contrada, D’Antone. Lo rividi perché era testimone di una situazione che pesò molto poi nella condanna definitiva per concorso in associazione mafiosa. Quella di Mattei fu una delle testimonianze più importanti. Raccontò due episodi: la sua presenza al battesimo del nipote di Pietro Vernengo alla chiesa della Magione, e il mancato blitz all’hotel Costa Verde di Cefalù. La sua testimonianza pesò molto in termini di accusa per la condanna definitiva di D’Antone”.
Sulla gestione di Vincenzo Scarantino da parte del gruppo Falcone e Borsellino Di Matteo ha dichiarato che in base a quel che è il suo ricordo lo stesso “si recava sul posto in cui Scarantino era con la famiglia saltuariamente. Non ho un ricordo di loro che per tutto l’arco della collaborazione si stabilisce lì dove si trova, 365 giorni l’anno, 24 ore al giorno. C’era una protezione locale, non c’era esclusività da parte del gruppo Falcone-Borsellino, loro andavano in supporto, a dare il cambio”. Quella presenza, però, stando ai documenti, era continuativa.
Il fatto che fosse assegnata al Gruppo Falcone e Borsellino la tutela del collaboratore di giustizia non doveva però sorprendere. “C’erano anche altri pentiti che, prima di essere assegnati all’ufficio centrale di protezione, erano gestiti dagli stessi organi che si occupavano delle indagini. Penso alla Dia con Mutolo o Cancemi con il Ros dei carabinieri. Personalmente ricordo che gli uomini del gruppo Falcone-Borsellino non è che la vivessero con molto entusiasmo la gestione di Scarantino”.
La doppia ritrattazione
Altro argomento affrontato durante esame e controesame è quello delle due ritrattazioni del picciotto della Guadagna. Rispetto alla prima, quella televisiva del luglio 1995, Di Matteo ha spiegato che si trovava in ferie e di aver saputo al suo rientro che “la situazione era rientrata. Così mi dissero i colleghi. L’indagine sui giornalisti Mediaset ed il sequestro? Non ho saputo nulla. Ricordo sicuro di aver letto le trascrizioni di quel che era andato in onda ma non so se corrisponde a quello che fu acquisito integralmente o meno. Ma non ricordo se fui edotto o meno di questa indagine. Tendo a dire che non fui edotto”.
Di seguito ha spiegato quel che avvenne nel 1998, a Como, quando Scarantino in aula accusò investigatori e magistrati. “Per me la ritrattazione di Scarantino era scontata – ha ricordato-, non mi ha sorpreso per niente quando l’ha fatta a dibattimento. Non abbiamo indagato sulla sua ritrattazione, ma su una possibile induzione a ritrattare: perché c’era un dato di fatto grande quanto una casa. Cosima D’Amore, moglie di Gaetano Scotto allora latitante, diceva che c’erano gli avvocati che stavano raccogliendo soldi per la ritrattazione di Scarantino. Dunque il problema non fu ritrattazione veritiera o meno, ma spontanea o coadiuvata da altri. Comunque nel momento in cui Scarantino ci aveva accusato non potevamo più proseguire e chiedemmo di non occuparci dell’indagine”.
Contrada i Servizi e l’agenda rossa
Che vi fosse un coinvolgimento dei servizi di sicurezza nelle indagini sulle stragi è un dato ormai riscontrato processualmente sia dalle agende di Contrada che nel ritrovamento di alcune informative in cui si parlava di Scarantino come parente di boss mafiosi del calibro dei Madonia di Resuttana. “Mi accorsi per la prima volta di quell’informativa nel 1995 quando mi occupai della riapertura dell’indagine per concorso in strage su Bruno Contrada. Ma io non ho mai visto o constatato, né mi fu detto di rapporti di uomini del Sisde con la polizia giudiziaria” ha detto Di Matteo. Quindi ha aggiunto: “Una cosa che mi diede fastidio all’epoca era vedere spesso in Procura un soggetto, Rosario Piraino, che si presentava come capocentro Sisde a Caltanissetta. Questa persona frequentava costantemente le stanze dei pm, ma anche una collega giudicante, seppur come supplente, del Borsellino Uno. Dalle agende di Contrada scoprii che due giorni dopo la strage aveva accompagnato Contrada da Tinebra”.
Proprio nelle scorse udienze il pm Carmelo Petralia aveva detto di aver visto Contrada, nel 1992, negli uffici del Procuratore capo di Caltanissetta e di aver partecipato anche ad un pranzo, a cui erano presenti 007 e magistrati, all’Hotel San Michele di Caltanissetta.
Ed è in quel momento che il consigliere ha riferito di quelle indagini aperte nei confronti dell’ex numero tre del Sisde: “Fu aperta una indagine molto spinta sui Servizi Segreti. Fui io a riaprire le indagini su di lui sulla base delle dichiarazioni del pentito Elmo che ci aveva detto di averlo visto allontanarsi dal teatro dell’attentato con una borsa, o dei documenti in mano. A quel punto lessi tutto il vecchio fascicolo, acquisii le sue agende”. “Vedendo quegli atti mi accorsi che c’era stato un ufficiale del Ros, Sinico, che era andato in procura a Palermo e aveva riferito ad alcuni magistrati di aver saputo che la prima volante accorsa dopo l’esplosione aveva constatato la presenza di Contrada. E raccontava anche di una relazione di servizio che attestava la presenza di Contrada in via d’Amelio e che poi sarebbe stata strappata in Questura – ha spiegato ancora -.Quel che mi fece trasalire è che quando fu sentito dalla collega Boccassini, nel 1992, mise a verbale quella circostanza dicendo di averlo saputo da un suo amico carissimo, non un confidente, di cui voleva tutelare l’identità. Andai a interrogarlo e ribadì le medesime parole. Quando io stavo per chiedere il rinvio a giudizio del carabiniere lui venne in Procura e depositò una memoria della quale avrebbe parlato con il colonnello Mori, facendo il nome della sua fonte: il funzionario di polizia Roberto Di Legami. Ricordo anche il momento dei confronti che fu drammatico. Di Legami negò tutto, fu anche rinviato a giudizio perché avevamo due militari contro uno. Dell’esito di quel processo appresi successivamente, quando già ero a Palermo e seppi che il funzionario fu assolto”.
Quelle indagini, di fatto, aprivano il filone investigativo sull’agenda rossa prima ancora del rinvenimento della fotografia del capitano Arcangioli: “Il mio impegno era finalizzato a capire per mano di chi fosse sparita. Abbiamo fatto il possibile per accertarlo, anche scontrandoci con reticenze bestiali sulla presenza di esponenti delle istituzioni nel luogo dell’attentato. Da qui sarei voluto ripartire per tante altre cose”. Tornando a parlare delle dichiarazioni di Elmo ha ricordato che questi “disse di aver visto in via d’Amelio, assieme a Contrada, anche Narracci, il Capo centro Sisde di Palermo. Per noi non era un nome qualsiasi perché il suo numero di telefono personale era stato trovato anche in un bigliettino rinvenuto a poche centinaia di metri dal luogo della strage di Capaci. Quando procedemmo con l’individuazione di persona Elmo non lo riconobbe. Quando andai a Palermo seppi che Elmo aveva rilasciato una dichiarazione in cui diceva che in realtà lo aveva riconosciuto ma di non aver verbalizzato il riconoscimento perché indotto da un ufficiale di polizia giudiziaria che era presente in quel giorno”.
Alfa e Beta (Berlusconi e Dell’Utri)
Nel lungo controesame l’ex pm Di Matteo è tornato sull’argomento dell’iscrizione nel registro degli indagati di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, come mandanti esterni alle stragi. Un’inchiesta che traeva origine dalle dichiarazioni di Cancemi e che incontrò delle opposizioni. “Resistenze o no, io e i colleghi siamo andati avanti per la nostra strada – ha detto in aula Di Matteo – Sulle indagini su Contrada e la eventuale presenza di personaggi dei servizi nessuno mi disse mai nulla. Le indagini le facevamo noi e nessuno mi pose mai un freno. Per quanto riguarda invece i mandanti esterni alle stragi e il coinvolgimento di Berlusconi e Dell’Utri fu diverso: ci fu una riunione della Dda e fu imbarazzante. Già si sapeva che la riunione era stata convocata per valutare l’eventuale iscrizione di Berlusconi e Dell’Utri nel registro degli indagati. Il procuratore di allora Giovanni Tinebra dopo una lunga e animata discussione diede l’ok anche se non era d’accordo, ma disse anche che dovevamo procedere con nomi di fantasia e che lui non avrebbe sottoscritto nessun atto. Certamente nelle indagini sui mandanti esterni non ci fu vicino. Posso dire che può essere questo un modo di non sostenere e non partecipare, prendendo le distanze all’interno e all’esterno. Quando chiedevamo accertamenti alla Dia di Roma e alle altre Procure partivano le deleghe ma le sole firme erano la mia e quella del collega Tescaroli, ovvero di due sostituti. E questo certo non deponeva bene a favore dell’indagine”.
Rispondendo ad una domanda dell’avvocato Fabio Repici ha ricordato che Tinebra cambiò la sua opinione sulla collaborazione di Cancemi proprio quando fece i nomi di Dell’Utri e Berlusconi: “Non c’è dubbio che fino a quando Cancemi non fece quel riferimento e su quanto si disse nella riunione a casa di Guddo il Procuratore aveva una valutazione positiva. Da quel momento in poi colsi un cambio. Che vi fu un atteggiamento che, rappresentava lui anche essere l’atteggiamento di Mori, ma non so se sia vero, di scaricare Cancemi. E una volta fece anche la battuta dicendo che: ‘questo si era messo a calunniare’. Ma noi volevamo prima fare gli accertamenti necessari”.
Sempre riferendosi alle indagini sui mandanti esterni ha poi aggiunto: “Era chiaro che rispetto al programma originario di Cosa nostra fosse intervenuto un fattore improvviso di accelerazione – ha detto in aula Di Matteo – Furono aperti più filoni. Uno portava alla trattativa Stato-mafia. Un altro possibile era quello di mafia-appalti, però ci concentrammo anche su alcune esternazioni del dottor Borsellino come l’intervista resa ai giornalisti francesi (quella in cui parlò di indagini su Dell’Utri, ndr); una rilasciata al giornalista D’Avanzo in cui affermava che sarebbe andato a Caltanissetta a riferire una serie di circostanze utili per capire chi, e perché, aveva ucciso Falcone, facendo riferimento a fatti; e poi la considerazione su Provenzano e Riina che ‘come due pugili si fronteggiano all’interno di uno stesso ring’ in un momento in cui molti pensavano che Provenzano fosse morto e non risultava un’eventuale contrapposizione tra i due”.
Relazioni ignote
Nel corso dell’esame Di Matteo ha anche detto di non aver mai visto alcune note e relazioni, del settembre 1994, firmate dai suoi colleghi. La prima è quella del 16 settembre 1994, firmata dalla dottoressa Palma ed inviata al Procuratore della Repubblica in cui si fa riferimento ad un interrogatorio di Andriotta in cui avrebbe parlato di Scarantino e della riunione a casa Calascibetta.
Il secondo documento è quello di una relazione di servizio del 9 settembre 1994, firmata da Petralia, in cui riferisce che in un colloquio investigativo con Mario Santo Di Matteo, in cui era presente Arnaldo La Barbera, il collaboratore aveva dichiarato di conoscere Scarantino e che avrebbe parlato della strage di via d’Amelio. Un dato “anomalo” tenuto conto che il pentito, padre del piccolo Giuseppe Di Matteo, non parlerà mai dell’attentato del 19 luglio 1992 e nei confronti negherà di aver mai visto in vita sua il falso pentito.
“Non ho mai conosciuto questa relazione di servizio. Lo affermo con maggiore certezza perché altrimenti in occasione dei confronti e soprattutto quando cercammo di approfondire il contenuto di quelle intercettazioni con la moglie in cui si parlava dei poliziotti infiltrati nella strage di via d’Amelio, ci saremmo tornati. Questo elemento conforterebbe il dato che il sequestro del bambino e l’uccisione fu finalizzato proprio per non farlo parlare di via d’Amelio. Ma non ricordo proprio che Petralia mi abbia parlato di questa relazione. Per me è un dato significativo e se lo avessi saputo lo avrei scolpito nella memoria”.
Il processo è stato rinviato al 7 febbraio, quando verranno sentiti alcuni funzionari Dia. Nelle prossime udienze il tribunale sarà chiamato a decidere anche sulla deposizione del magistrato Ilda Boccassini che, per motivi di salute, non potrà venire a Caltanissetta. Per questo motivo la Procura ha chiesto di sentirla in videoconferenza o in trasferta a Milano, dove risiede.
Foto di copertina © Fotogramma
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