Salvatore Borsellino: “La giustizia italiana si sta privando delle leggi che Falcone e Borsellino hanno lasciato”

 

Palermo – Il 19 luglio di 31 anni fa me lo ricordo come fosse ieri. Avevo 8 anni, era una calda tipica domenica d’estate. Durante quel lungo pomeriggio afoso mia madre sul divano accese la TV. Dopo poco meno di due mesi, si riproponeva la stessa scena: macchine esplose e voragini per strada, ma soprattutto morte e sangue. Sono passati tutti questi anni dalla strage di Via d’Amelio, il giorno in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta.

Come me sono in tanti ad avere impresso nella propria memoria quell’istante. Una fotografia amara e crudele, con chiaroscuri e troppe ombre. Ombre che, ancora oggi, non hanno avuto modo di schiarirsi. Se giornate di memoria come il 19 luglio sono l’occasione per parlare di verità e giustizia, ben lontana ancora dall’essere raggiunta, si assiste intanto al tentativo di cancellare il patrimonio di leggi che proprio Paolo Borsellino e Giovanni Falcone hanno lasciato per poter combattere davvero la criminalità organizzata. 

QUALE FUTURO PER LA  GIUSTIZIA ITALIANA?

«É anche questa ipocrisia che mi fa stare molto male. Da 31 anni sono alla disperata ricerca di una giustizia che ancora non vedo. Le varie sentenze di processi per la lotta alle mafie sono la dimostrazione della rinuncia dello Stato a essere uno Stato di giustizia. Anche la riforma della giustizia voluta da Marta Cartabia, con l’introduzione dell’improcedibilità di un processo, va in questa direzione», mi racconta Salvatore Borsellino, fratello di Paolo.

A differenza della prescrizione che si risolve in una causa di non punibilità per estinzione del reato, l’improcedibilità si limita a troncare il processo, senza affrontare il tema della punibilità. L’ipotetico reato, infatti, non si estingue. Lo Stato rinuncia a esercitare le sue prerogative e tronca il processo per superamento di durata massima, senza dare giustizia a chi è vittima di quel reato e a chi è imputato di colpevolezza. 

«Con la riforma Nordio, che vuole privare la magistratura di quelle armi che Borsellino e Falcone avevano disposto per combattere la criminalità organizzata, si parla anche di abolizione del reato di concorso esterno per associazione mafiosa. Siamo alla fine di tutto. Si vogliono limitare le intercettazioni che sono state determinanti per scoperchiare reati di mafia e si è ritornato a parlare di separazione delle carriere, un programma tra le altre cose presente nel disegno del piano di Rinascita Democratica di Licio Gelli, i cui punti, quasi tutti attuati, sono stati perseguiti senza alcuna distinzione da governi di destra e di sinistra», continua Borsellino.

Era un sogno d’amore e per fortuna non hanno ancora inventato nessuna bomba che distrugge questo sentimento

Dal suo punto di vista la giustizia italiana giudicante è in stato confusionale. Un esempio su tutti? Il processo della trattativa Stato-Mafia concluso proprio ad aprile scorso. In tre gradi di giudizio, tre diverse sentenze completamente discordanti tra loro: una di colpevolezza, una di assoluzione perché il fatto non costituisce reato e la terza per non aver commesso il fatto.

«La trattativa può essere anche ammissibile, i servizi di intelligence di tutto il mondo le avviano quando ci sono degli ostaggi in mano ai terroristi. Una trattativa, ad esempio, sarebbe stata auspicabile quando l’onorevole Moro venne rapito, avrebbe potuto salvargli la vita, ma la politica non volle farlo. Mio fratello Paolo, parlando con sua moglie, le raccontò dei contatti tra mafia e pezzi dello stato. Il problema è che eticamente questa trattativa non è ammissibile, lo è solo se è volta a salvare le vite umane. Qui ha solo provocato stragi, morti e sangue.

«Dopo via D’Amelio ce ne furono delle altre, anche oltre lo Stretto. Stragi compiute non più nei confronti dei magistrati, ma verso il patrimonio artistico dello Stato. Se si uccide un giudice, infatti, ce ne saranno degli altri che prenderanno il suo posto – vedi Di Matteo, Gratteri, Scarpinato ma se si distrugge il patrimonio artistico di uno Stato diventa complicato ricostruirlo. Se, come disse Riina, era lo Stato che andava a bussare alla porta della mafia, servivano stragi di volta in volta sempre più minacciose» continua Borsellino.

Ascoltarlo è per me una grande emozione. Una voce ferma, priva di tentennamenti, mi racconta una pagina drammatica della nostra storia che ha segnato profondamente anche la politica dell’ultimo trentennio con l’inizio della seconda Repubblica. Mi sento privilegiata e allo stesso tempo mortificata. Provo a immedesimarmi e non posso che provare rabbia, commozione, frustrazione e dolore. Il suo racconto lucido, a tratti spietato, mi fa pensare alla infima bassezza di cui noi esseri umani siamo capaci. Ma per fortuna non è sempre e solo così.

I GIOVANI, LA SPERANZA E IL MESSAGGIO DI PAOLO 

«Se non avessi speranza nei giovani avrei smesso di parlare da tempo. Paolo ha sacrificato la sua vita per loro, è morto non disperato – nonostante sapesse di essere il prossimo obiettivo da eliminare – ma dichiarandosi ottimista, con la speranza nel cuore e confidando nelle giovani generazioni. C’è ancora indifferenza, ma c’è anche tanta partecipazione. Io fino alla morte di Paolo facevo parte degli indifferenti».

«Mi ero trasferito al nord e pensavo di aver lasciato lontano certi problemi. C’è voluto l’omicidio di mio fratello per capire che ognuno di noi deve fare la propria parte, anche se piccola. Io cerco di tenere viva la sua memoria, l’ho promesso a mia madre 31 anni fa, anche se il sogno di Paolo era così grande che non avrebbe bisogno del mio contributo. Era un sogno d’amore e per fortuna non hanno ancora inventato nessuna bomba che distrugge questo sentimento», prosegue Salvatore. 

Mi racconta che le ultime parole di Paolo sono state parole di ottimismo. In una lettera rivolta ai giovani che scrisse proprio il 19 luglio, quasi come presagio di quello che gli sarebbe accaduto da lì a poche ore, scriveva: “Sono ottimista perché i giovani siciliani non hanno oggi un’attenzione ben diversa rispetto alla criminalità organizzata da quella colpevole indifferenza che io mantenni fino ai 40 anni”.

Il giudice Borsellino accusava sé stesso di indifferenza perché fino ai 40 anni si era occupato di diritto civile, la sua grande passione che lo aveva spinto a intraprendere questi studi. Fu Rocco Chinnici, a seguito dell’omicidio del capitano Basile, ad affidargli il primo processo per mafia. Il resto è storia e la conosciamo tutti. 

«Paolo sperava e credeva tanto nei giovani, in un ricambio generazionale che non penso avverrà nei tempi che aveva previsto lui. Ci sarà, ma non a breve. I giovani sono anche frastornati dai tanti messaggi distorti. La stampa e la televisione mostrano un mondo simile a una gara a premi dove ciascuno è in corsa per sopraffare l’altro.

Per fortuna c’è una società civile – anche se ultimamente silenziosa, che non va a votare permettendo così a chi non rappresenta la maggioranza del paese di poter assumere il potere – che crede ancora nei valori giusti, gli stessi per cui Paolo ha sacrificato la sua vita. Spesso entro in contatto con loro, ricevo tanti messaggi e questo mi dà molta forza», continua Salvatore. 

Il MOVIMENTO DELLE AGENDE ROSSE E IL 19 LUGLIO

Oggi più che mai Salvatore, nonostante l’età e l’amaro in bocca, porta avanti la sua missione. Dopo la morte della madre, per lunghi anni ha preferito stare in silenzio. Mentre lo Stato “cominciava a pagare le cambiali” della trattativa che era costata la vita a suo fratello e agli uomini della scorta, non riusciva a parlare ai giovani se non poteva parlare di speranza. Dopo anni di riflessioni ha ripreso a farlo e ha fondato il sito www.19luglio1992.com che si esplica anche nella Marcia delle Agende Rosse a cui aderiscono anche tanti giovani.

Quei giovani che oggi, come ogni 19 luglio, sono in Via D’Amelio a ricordare Paolo Borsellino. Un giorno di memoria e di speranza, nonostante le polemiche, l’ultima da parte dell’avvocato Trizzino, rappresentante dei figli di Paolo e marito di Lucia, la primogenita del giudice, che dissente dalla posizione processuale di Salvatore relativamente alla famosa “agenda rossa” scomparsa nei momenti successivi all’esplosione. Trizzino proprio pochi giorni fa ha attaccato il movimento e il pensiero di Salvatore considerandolo dogmatico.

«Via D’Amelio è di tutti, anche se qui non sono graditi gli ipocriti. Spero che coloro che hanno ripreso potere a Palermo senza rifiutare l’appoggio di Dell’Utri e Cuffaro abbiano il buongusto di non presentarsi. In caso contrario, la nostra sarà una contestazione silenziosa, alzeremo le nostre agende rosse e gli gireremo le spalle. Le istituzioni devono darmi verità e giustizia, non corone di fiori. Io continuerò a chiederla fino all’ultimo giorno della mia vita», conclude Salvatore.

“Meglio un giorno da Borsellino che cento anni da Ciancimino!” è uno dei tanti cori che si sente a Via D’Amelio ogni 19 luglio; una frase che racchiude pagine di storia che ci riguardano tutti, siciliani e non, e che se vogliamo possiamo contribuire a svelare. È proprio l’indifferenza che consente alle mafie di uccidere vite come quella di Borsellino. Ecco perché le nostre azioni quotidiane possono avere un importante valore politico, nel senso più nobile del termine. Ecco perché servono fatti e non più parole. 

ITALIA CHE CAMBIA 19 luglio 2023