Il Fatto Quotidiano – 9 agosto 2016
Al vaglio dei magistrati – Nino Lo Giudice, “il Nano”, capomafia di Reggio: “Fu il poliziotto Giovanni Aiello a schiacciare il pulsante, me lo ha rivelato lui stesso”
“È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias Faccia da mostro, a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Fu lui a schiacciare il pulsante in via D’Amelio. Me lo confidò Pietro Scotto quando eravamo in carcere all’Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona. Aggiunse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui l’omicidio Agostino. Ma quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi”. I magistrati che indagano sulle stragi del ’92-’93 passano al vaglio le nuove – importanti, ma tutte da riscontrare – dichiarazioni del pentito Nino Lo Giudice, detto il Nano, a capo di uno dei clan più potenti di Reggio Calabria. Le sue rivelazioni – verbalizzate dai pm di Reggio Calabria e Catanzaro, condivise con le Procure siciliane e di cui vi diamo conto in esclusiva – piantano un cuneo nel muro dei segreti di Stato che mai come adesso, dopo un quarto di secolo, mostra segni di cedimento.
Tutti i segreti del Nano
Ma il racconto di Nino Lo Giudice, le sue confessioni, le minacce per farlo tacere, dimostrano che ancora oggi nel nostro Paese operano forze occulte che quei segreti li hanno ereditati, li condividono e intendono difenderli ad ogni costo. Lavorando di fioretto o, all’occorrenza, impugnando la spada.
Nino Lo Giudice è il boss che si è pentito due volte. La prima nel 2010, quando diventa testimone nelle più importanti inchieste sui rapporti tra pezzi delle istituzioni e la ’ndrangheta. Tre anni dopo però, fa perdere le sue tracce. Lascia due memoriali e un video in cui accusa gli inquirenti di avergli estorto le confessioni. Stanato sei mesi dopo dalla Polizia in una villetta alla periferia di Reggio, si chiude a lungo in un ostinato silenzio. Fino a quando, quasi un anno dopo, riprende a collaborare con la giustizia. Ma perché Lo Giudice nei primi giorni di giugno del 2013 decide di sparire? Il mistero è racchiuso in un colloquio investigativo che il Nano ha sostenuto con l’ex procuratore aggiunto della Dna Gianfranco Donadio. Quel giorno, è il 14 dicembre 2012, Lo Giudice ammette di conoscere e frequentare “Faccia da mostro”, l’ex agente di Polizia col volto deturpato, sospettato di essere il più feroce dei killer di Stato. Racconta anche di averlo fatto pedinare e fotografare insieme ad “Antonella”, nome di battaglia della bionda calabrese affiliata a Gladio con cui Aiello è solito accompagnarsi. Il verbale con Donadio si chiude con una promessa: “Domani stesso le farò avere quelle foto”. La promessa non sarà mantenuta, anzi: sei mesi dopo il Nano si dilegua e diffonde i memoriali. Lo Giudice ha paura, per sé e per la propria famiglia. Lo conferma, pochi giorni dopo la sua scomparsa, il figlio Giuseppe ai pm reggini: “Mio padre era sconvolto, piangeva e diceva che poteva solo suicidarsi. Mi ha detto che dovevamo stare attenti ai carabinieri”. I memoriali, con le accuse ai magistrati Pignatone, Ronchi e Prestipino, si riveleranno completamente farlocchi. Ma il video in cui accusa Donadio di avergli messo in bocca false accuse nei confronti di Faccia da mostro, provocherà pesantissime conseguenze. Il magistrato che ha indagato per sette anni sul “fuori scena” delle stragi, è tagliato fuori dal nuovo capo della Dna Franco Roberti. Il suo lavoro finisce in fumo a causa di una misteriosa fuga di notizie da un ufficio della stessa procura nazionale. Gli ex procuratori capo di Catania e Caltanissetta, Giovanni Salvi e Sergio Lari, sposano la tesi di Lo Giudice e accusano Donadio di averne manipolato i verbali e di aver condotto indagini parallele al limite del depistaggio, compromettendo il lavoro delle procure antimafia. I contenuti della denuncia piombano immediatamente sulla prima pagina del Corriere della Sera, ma le indagini riposano da oltre un anno alla Procura generale della Cassazione.
“Non parlare di Giovanni Aiello”
Ma perché dopo quel colloquio investigativo un boss come Lo Giudice precipita in una spirale di terrore? Lo racconta per la prima volta a settembre del 2014 ai magistrati calabresi. In quattro ore di drammatico interrogatorio nel carcere di Alessandria, Lo Giudice conferma che a Donadio ha detto tutta la verità. E svela il motivo della sua retromarcia: “Ho iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l’incontro con Donadio, mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi. Mi fecero salire su una Punto e notai che erano armati di Beretta. Mi portarono fuori città. La Punto si fermò vicino a una Bravo marrone e mi fecero salire a bordo. C’erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro. Io risposi che avevo una registrazione in cui smentivo tutto. Loro vennero a casa e gliele consegnai”.
Si tratta di un video registrato la sera stessa del colloquio con Donadio. Si vede Lo Giudice, palesemente alterato, che sigilla una busta con l’indirizzo della Dna. Poi guarda in camera e dice: “Donadio vuole le foto di Aiello e di Antonella, ma io non li conosco e dentro la busta non c’è niente”. Cosa è successo in quelle poche ore? Perché il Nano ha cambiato idea così repentinamente? E poi: è davvero sua l’idea o dietro la videocamera c’è un regista che dirige il set? È evidente che dopo il colloquio investigativo è scattato immediatamente un dispositivo di sicurezza per neutralizzare le sue dichiarazioni su Faccia da mostro. E questo farebbe pensare alla presenza di una talpa. Chi era a conoscenza dell’incontro con Donadio? Quando ricomincia a collaborare, Lo Giudice rivela molti particolari inediti. “Aiello lo sentii nominare la prima volta all’Asinara. Ero stato detenuto lì tra il ’92 e il ’95 e in quel periodo c’era anche Pietro Scotto, imputato per la strage di via D’Amelio”. Pietro è il fratello di Gaetano Scotto, sotto processo per l’omicidio Agostino, tornato in libertà da pochi mesi e sospettato di essere il nuovo capo della Cosa nostra palermitana. Pietro, invece, lavorava per la società telefonica Sielte. Arrestato alla fine del ’93 e condannato in primo grado per aver intercettato i telefoni di casa Borsellino, è stato assolto in appello quando è crollato parte dell’impianto accusatorio di Scarantino.
La misteriosa Antonella
“Pietro Scotto mi parlò di Aiello come di un calabrese con la faccia bruciata, coinvolto nella strage di via D’Amelio. Disse che era stato mandato dai servizi deviati per far saltare Borsellino. Anche Scotto e suo fratello avevano partecipato alla strage ma il pulsante, a suo dire, venne premuto da Aiello. Io lo conobbi personalmente anni dopo. Mi fu presentato dal capitano Saverio Spadaro Tracuzzi che ne parlava come di un collega. Mi disse che era uno dei servizi, che si erano conosciuti in Sicilia perché Aiello aveva contatti con Cosa nostra. Io, pensando al racconto di Pietro Scotto, lo riconobbi dalla faccia bruciata”. Il capitano dei carabinieri Spadaro Tracuzzi è stato condannato in appello a 10 di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa: in forze alla Dia, era a disposizione del clan Lo Giudice. “La seconda volta Aiello venne a trovarmi nel 2007. Era insieme a una donna bionda, con accento calabrese, che mi presentò come Antonella. Fu dopo questo incontro che ordinai a Antonio Cortese di seguirli e fotografarli”. Cortese è l’armiere del clan Lo Giudice. Gestisce insieme alla moglie una profumeria, ma è una copertura. Lì dentro, tra il 2007 e il 2008, Aiello e Lo Giudice si incontrano spesso. “A Reggio Calabria c’era in atto una guerra, mi servivano informazioni e Aiello aveva ottimi agganci. Gli regalai un Rolex d’oro perché insegnasse a Cortese a utilizzare l’esplosivo C4”. Due anni dopo Cortese sarà l’esecutore materiale degli attentati dinamitardi contro il procuratore generale Salvatore Di Landro. “Aiello mi confermò quello che avevo saputo su di lui all’Asinara. Disse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui aver ucciso l’agente Agostino”. Per questo Lo Giudice è stato ascoltato di recente anche da Nino Di Matteo.
Il delitto di Ninni Cassarà
Tra le altre cose che Aiello avrebbe confidato a Lo Giudice ci sarebbe anche il delitto del commissario Ninni Cassarà, il 6 agosto 1985. Un’azione militare in piena regola, un fuoco incrociato con 200 colpi di mitra e kalashnikov. E la spietata esecuzione, con un solo colpo di pistola alla testa, di Claudio Domino, un bambino di 11 anni freddato in pieno giorno nel quartiere San Lorenzo il 7 ottobre 1986, in pieno maxiprocesso. E poi i misteri dell’Addaura e l’ipotesi della doppia bomba di Capaci. Azioni di guerra e istinto da killer. Forse per questo perfino uno cresciuto a pane e ’ndrangheta come Lo Giudice continua a tremare. È l’unico testimone, tra i tanti che hanno parlato di Faccia da mostro, ad aver raccolto personalmente le sue confidenze. “Aiello mi faceva paura e mi fa ancora paura. Mi è rimasta impressa la sua freddezza, sembrava non avesse emozioni. Lo temo perché fa parte di un mondo che non conosco, non so chi può esserci dietro di lui. Magari mi ammazzano in carcere”.
di Walter Molino
Il Fatto Quotidiano | 9 agosto 2016