Per un debito di 20mila euro perde 6 milioni. «Il direttore di banca mi disse: devi rientrare di 700mila euro, e mi suggerì a chi chiedere “aiuto”»
Per un debito di 20 mila euro ha perso tutto e si è ritrovato con un campo di patate.
Persa la casa, perso l’attico a Caorle. Perse le sei ditte che fatturavano milioni di euro all’anno. Ridotto alla fame, costretto a vivere con il campo di patate dietro casa sua.
Quei 20 mila euro, infatti, al sandonatese Luigino Finotto, 59 anni, sono costati la bellezza di 6 milioni di euro. E la sua storia, mai raccontata prima in Tribunale, è andata in scena solo a spizzichi e bocconi nell’aula bunker di Mestre dove si celebra il processo ai casalesi di Eraclea.
Gli avvocati difensori del boss dei casalesi, Luciano Donadio, e cioè Renato Alberini e Giovanni Gentilini, infatti sono riusciti con grande abilità a circoscrivere e quindi ad annacquare di molto la testimonianza di Finotto che invece è la prova provata dell’utilizzo dei metodi mafiosi da parte dei casalesi.
LE MINACCE
«Donadio metteva la pistola o il coltello sulla scrivania, quando andavo a trovarlo nel suo ufficio di Eraclea perchè non ero in regola con i pagamenti. Ma sono anche venuti a casa a minacciarmi e una volta uno di loro mi ha fermato per strada e, davanti a mia moglie, mi ha tirato uno schiaffo che mi ha fatto venire una guancia così. Insomma mi terrorizzavano, non vivevo più». Ma tutto questo Finotto lo racconta in corridoio perchè in aula invece deve limitarsi al minimo indispensabile visto che Luciano Donadio nel 2005 ha patteggiato 1 anno e 8 mesi per usura e quindi, essendo la sentenza passata in giudicato, di quella vicenda non si può riparlare perchè altrimenti sarebbe come celebrare di nuovo il processo. Resta il fatto che la storia di Finotto è semplicemente agghiacciante e va conosciuta nel dettaglio.
LA CHIAMATA
«Tutto è partito da quei 20 mila euro. Era il 2003 e io lavoravo alla grande. Ho studiato dai salesiani a San Donà come l’elettricista, ma a quel tempo avevo 6 ditte che si occupavano di edilizia e di impiantistica. Guadagnavo tanto perchè lavoravo tanto e avevo da sempre il conto corrente in una banca di San Donà.
Un giorno il direttore mi ha chiamato e mi ha chiesto il rientro di 700 mila euro. In quel periodo lavoravo all’ospedale di Mestre e a quello di Padova, stavo trasformando un albergo di Caorle in un residence e avevo più di 40 dipendenti.
Tra l’altro i 700 mila euro erano garantiti dalle fatture che la banca mi scontava.
Ma una mattina mi chiama questo direttore e mi dice che devo rientrare di tutti gli scoperti.
Io quasi ce la faccio, ma mi mancano 20 mila euro dei 700 mila e gli chiedo aiuto.
Il direttore mi suggerisce di andare a chiedere aiuto a una persona, che a sua volta mi presenta un altro che mi presta i 20 mila euro.
Da lì inizia la mia discesa all’inferno. Del resto con interessi del 200 per cento all’anno non ce la fai a ripagare nessun debito e infatti ogni volta che mi avvicinavo alla soluzione mi mancava sempre qualche migliaio di euro e c’era un altro strozzino pronto a prestarmi i soldi. E non bastava mai.
Ho fatto lavori nella casa di uno dei Casalesi per 140 mila euro, gratis.
Andavano a scomputo dei miei debiti. Quanto ho perso alla fine? Sei milioni di euro perchè il resto del danno lo ha fatto lo Stato quando mi ha fatto fallire. Sono riuscito a salvare solo un campo di patate. Vivevamo con quello io, mia moglie e le mie due figlie».
LA RABBIA
E Finotto ce l’ha con i casalesi, ma anche con lo Stato. «Non mi hanno mai aiutato. Il Tribunale fallimentare mi ha fatto fallire per poco meno di 50 mila euro che avanzava un mio fornitore.
La Procura di Venezia aveva mandato tutte le carte al Tribunale fallimentare avvertendo che ero fallito perchè usurato, ma non c’è stato verso.
Anzi, quando nel gennaio 2007 la Prefettura di Venezia inoltra la domanda per il fondo usurati, non mi ammettono perchè c’era il parere negativo proprio del Tribunale fallimentare.
Non so quante volte sono andato in Prefettura a Venezia a chiedere aiuto.
Ero disperato e una volta ho fatto finta di volermi buttare dalla finestra perchè non mi davano ascolto e così dopo quel giorno mi hanno sempre ricevuto a piano terra perchè avevano paura che mi buttassi.
Solo poco tempo fa ho ottenuto la garanzia dello Stato per un mutuo a tasso zero, in quanto usurato.
È la prima volta che mi viene riconosciuto, dopo 15 anni, questo status». Martedì 24 Novembre 2020 di Maurizio Dianese IL GAZZETTINO
«Mi hanno portato via tutto e rovinato la vita»
La drammatica testimonianza di Luigino Finotto, imprenditore di San Donà, nell’udienza contro il clan di Luciano Donadio
Alla fine, l’imprenditore Luigino Finotto di San Donà è sbottato: «Mi hanno rovinato la vita, sono stato vittima… si vada a leggere i testi di quello che ho detto.
Psicologicamente mi hanno distrutto: venivano con la pistola, con i coltelli, mi bloccavano in macchina quando stavo guidando mi hanno portato via tutto.
Tra Luciano Donadio, Raffaele Buonanno (e altre persone, non a giudizio, ndr) se non passava uno passava l’altro. Mi hanno rovinato l’esistenza e l’ho ancora rovinata».
Si susseguono i testi dell’accusa, al processo ai “casalesi di Eraclea”, in aula bunker. Vittime di episodi di estorsione e minacce talvolta prescritti, altre volte archiviati, altre ancora con sentenze definitive a carico degli imputati, tanto che – nel caso della testimonianza di Finotto, – l’avvocato Gentilini, legale di Luciano Donadio si oppone, in quanto fatto già giudicato: «Ne bis in idem». Anche l’avvocato Brollo, legale di Raffaele Buonanno.
I pm Baccaglini e Terzo replicano che non si vuole rifare il processo sul singolo caso, ma che ora al gruppo si contesta l’associazione per delinquere di stampo mafioso e che Finotto non è mai stato ascoltato prima, perché gli imputati avevano patteggiato. Così dopo l’ennesima camera di consiglio, il presidente Stefano Manduzio ha autorizzato la testimonianza, mantenendosi però sul “clima” più che sui singoli episodi. È la prima volta che racconta la sua storia a dei giudici, chiede il pm Terzo a Finotto? «Nessuno ha voluto sentire la mia storia e sono 15 anni che cerco di farlo».
Rispondendo alla pm Baccaglini l’imprenditore ricorda: «Avevo varie società, facevamo impianti elettrici, anche per gli ospedali di Mestre, Padova, Treviso.
I primi problemi arrivano nel giugno 2003: con l’arrivo di Banca Intesa al posto della Cassa di Risparmio, ci venne richiesto rientro dei fidi, io ho pagato con soldi personali e la parte mancante l’ho chiesta».
Un dipendente presenta un amico, arrivano i primi prestiti, ma l’imprenditore non riesce a onorarli: «Mi rimpallavano dall’uno all’altro, per ultimo da Donadio e Buonanno.
Io ho venduto un appartamento a Donadio».
L’avvocato Gentilini si oppone: «…è area interdetta».
La testimonianza va verso la conclusione, Finotto si toglie l’ultimo sasso: «Ho una percentuale di invalidità del 30% da stress estorsivo». Mai sentito parlare di mafia da questi creditori? «No, di questo non mi hanno mai detto… una volta mi hanno detto che veniva a cena il padrino, mi sembra l’avesse detto Buonanno» . —