LA STORIA DI VINCENZO SCARANTINO, IL FALSO “PENTITO” CREDUTO DA TROPPI MAGISTRATI. SOLO UN INCREDIBILE ERRORE?

 

Dopo 11 processi sarà inevitabile un processo di revisione per assicurare una verità giudiziaria alla strage di via Mariano D’Amelio. E questo per l’approssimazione, l’imperizia, i gravi errori e forse il dolo con cui le indagini sulla vicenda sono state condotte. L’intera vicenda giudiziaria, cominciata poche ore dopo il massacro, si è sviluppata attorno a tre dibattimenti con i relativi gradi di giudizio (il primo, il bis e il ter), ma non si è ancora conclusa per i filoni d’inchiesta aperti dopo le dichiarazioni di nuovi “pentiti” e del dichiarante Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo. Le nuove indagini potrebbero portare a processi di revisione per imputati innocenti già condannati, oltre a processi per nuovi indagati. Nel primo processo erano imputati, quali esecutori, Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino, Pietro Scotto e Vincenzo Scarantino. In primo grado i primi tre furono condannati all’ergastolo e Scarantino, falso “pentito” e accusatore degli altri, a 18 anni. In appello l’ergastolo è stato confermato solo per Profeta, la condanna di Orofino è stata portata a 9 anni per favoreggiamento e Scotto è stato assolto. Confermati i 18 anni a Scarantino. Le condanne sono diventate definitive dopo la sentenza della Cassazione. Il processo bis, nel quale erano imputati gli uomini della cupola e i capi mandamento di Cosa nostra, si è concluso il 18 marzo del 2004 con 13 ergastoli. Il carcere a vita è stato confermato anche in Cassazione per Totò Riina, Salvatore Biondino, Pietro Aglieri, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Gaetano Scotto, Francesco Tagliavia. Ergastolo anche per Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Lorenzo Tinnirello, Giuseppe Urso e Gaetano Murana che in primo grado erano stati invece assolti. Il processo Borsellino ter, accorpato a uno dei filoni processuali della strage di Capaci, si è concluso nel 2006, dopo che la Cassazione aveva parzialmente annullato la sentenza del 2003 della Corte d’Appello di Caltanissetta, trasferendo il fascicolo a Catania. Inflitte condanne a vita a Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele e Domenico Ganci, Francesco e Giuseppe Madonia, Giuseppe e Salvatore Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo Cannella, Salvatore Biondo il “corto” e Salvatore Biondo il “lungo’”, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi, Benedetto ”Nitto” Santapaola, Mariano Agate, Benedetto Spera. I due “collaboratori di giustizia” Antonino Giuffré e Stefano Ganci sono stati condannati rispettivamente a 20 e 26 anni di reclusione. Condannati anche altri tre “pentiti”: Salvatore Cancemi (18 anni e 10 mesi), Giovanni Brusca (13 anni e 10 mesi), Giovambattista Ferrante (16 anni e 10 mesi).


IL FALSO “PENTITO”

L’aspetto più scabroso di questa vicenda giudiziaria riguarda un falso “pentito”, a lungo utilizzato dalla procura di Caltanissetta, anche attraverso delle forzature, e creduto da più di una corte. Il falso “pentito” è Vincenzo Scarantino, 27 anni al momento dell’arresto avvenuto il 29 settembre 1992, a poco più di due mesi dalla strage.  Scarantino viene accusato di concorso in strage e di furto aggravato. La prima accusa è collegata a quella di concorso nel furto aggravato della Fiat 126 che gli artificieri di Cosa nostra imbottirono con 80 chili di plastico. Questa autobomba venne fatta esplodere domenica 19 luglio con un radiocomando ed è l’ordigno che uccise il procuratore aggiunto di Palermo e cinque dei sei agenti di polizia della sua scorta. Che la cattura di Scarantino sia una cattura anomala lo dimostra la mobilitazione che si crea attorno al suo caso. Il 2 ottobre una manifestazione in suo favore si svolge nel rione palermitano della Guadagna dove abita la famiglia del giovane. Un centinaio di persone, tra cui numerosi parenti di Scarantino, si radunano nella piazza principale e attraversano in corteo le strade del quartiere. Sui cartelli di protesta, affidati a un gruppo di bambini, spiccano le scritte: “Enzo è innocente”; “Ridate Enzo alla sua famiglia”; “Non si può credere a violentatori infami e vili”. Quest’ultima affermazione si riferisce a Salvatore Candura, 31 anni, Luciano e Roberto Valenti, 28 e 21, arrestati per un caso di violenza carnale e accusati in seguito di essere gli autori materiali del furto della Fiat 126 utilizzata per l’attentato. I tre avrebbero confessato di avere rubato l’utilitaria a Pietrina Valenti, parente di Luciano e Roberto, su commissione di Vincenzo Scarantino. Il 3 novembre 1993 Vincenzo Scarantino compare davanti ai giudici della quarta sezione del Tribunale di Palermo per rispondere dell’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti assieme al fratello Umberto. Venti giorni dopo Scarantino, viene condannato a nove anni di carcere per detenzione di droga. E’ forse proprio questa pesante condanna a trasformare il piccolo delinquente di borgata Vincenzo Scarantino nel “superpentito”, testimone della strage di via D’Amelio. Il 20 dicembre Scarantino, già in carcere da più di un anno, comincia uno sciopero della fame. Il 3 gennaio 1994 la procura di Caltanissetta chiede il rinvio a giudizio delle quattro persone a suo dire responsabili di avere partecipato alla strage di via D’Amelio: il presunto boss Salvatore Profeta, suo cognato Vincenzo Scarantino, Pietro Scotto e Vincenzo Orofino. A condurre l’indagine è stato Arnaldo La Barbera del Servizio Centrale Operativo della polizia, coordinata dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra e dai sostituti Paolo Giordano, Ilda Boccassini, Carmelo Petralia e Fausto Cardella. Quest’ultimo è il pm che una volta trasferito a Perugia chiederà il rinvio a giudizio del senatore a vita Giulio Andreotti – accusato dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli – che poi sarà assolto con formula piena. Al momento l’inchiesta della procura di Caltanissetta ha in mano solo un balordo come Vincenzo Scarantino, accusato da altri delinquenti di quartiere di aver fatto rubare la Fiat 126 utilizzata per la strage. Dall’arresto di Scarantino gli investigatori sono risaliti al cognato Salvatore Profeta, (arrestato il 9 ottobre 1993, indicato come vice capo della famiglia di Santa Maria di Gesù), a Pietro Scotto e a Vincenzo Orofino. Profeta, secondo l’accusa, sarebbe stato il “coordinatore” della strage; Scotto, impiegato in una azienda telefonica, avrebbe allestito una “sala d’ascolto” in un appartamento vicino all’abitazione della madre del magistrato ucciso, intercettando una telefonata del giudice Borsellino che quel giorno preannunciava una sua visita; Giuseppe Orofino avrebbe invece tenuto in custodia la Fiat 126 nella sua officina dove venne imbottita di esplosivo. Siamo solo alle prime battute dell’inchiesta eppure, incredibilmente, il procuratore Tenebra si sbilancia fino a dire: “Questa parte dell’inchiesta ci sembra definita ed a nostro giudizio è abbastanza solida da reggere al dibattimento”. L’11 febbraio i familiari di Scarantino rinnovano la loro protesta, questa volta davanti al palazzo di Giustizia di Palermo. Secondo loro, le dure condizioni carcerarie cui è sottoposto a Pianosa il loro congiunto (che ha già tentato il suicidio) servirebbero ad indurlo a “pentirsi”. Puntuale, sei mesi dopo, arriva la notizia del “pentimento” di Vincenzo Scarantino che è possibile datare al 24 giugno 1994. Uno dei legali del neo “pentito”, l’avv. Paolo Petronio, denuncia: “L’atteggiamento a dir poco ambiguo, nonché di scarsa considerazione del ruolo del difensore”. E aggiunge: “I difensori di Scarantino non sono stati né avvisati né revocati in relazione all’inizio di una collaborazione del loro assistito ed il ricorso ad escamotage sleali ci danno la misura dell’esercizio di uno strapotere da parte degli organi inquirenti assolutamente inconcepibile in uno stato di diritto dove viene di fatto ipocritamente strombazzata una parità tra accusa e difesa in concreto inesistente. In tal senso eloquente è la circostanza che il difensore di Scarantino, giunto a Piombino sabato 9 luglio scorso per raggiungere Pianosa, si è visto negato l’imbarco per andare a conferire con il detenuto Scarantino, con la scusa che lo stesso era ‘applicato ad altra attività’ e pertanto non poteva incontrare il difensore. Ed ancora ieri l’altro difensore, avv. Mario Zito, ha potuto conferire regolarmente con Scarantino affrontando addirittura argomenti difensivi”. La nota del difensore così conclude: “La copertura dell’inizio dell’attività di collaborazione di Scarantino ci dà l’impressione di una strumentalizzazione della stessa nella misura in cui la si vuol rivelare soltanto in coincidenza con la data del 19 luglio, secondo anniversario della strage”. Il 23 luglio, a seguito delle polemiche sorte su un “pentimento” troppo annunciato, il procuratore di Caltanissetta Tinebra è costretto a precisare che “Scarantino non ha subito nessun tipo di violenza o di imposizione. Si è autonomamente deciso a collaborare e ciò ha fatto in maniera che ci ha pienamente convinti”. Intanto le dichiarazioni di Scarantino consentono l’emissione di 16 nuovi ordini di custodia cautelare per la strage di via D’Amelio. Il 9 agosto nuovo intervento pubblico della procura di Caltanissetta, questa volta affidata al sostituto Carmelo Petralia che, sempre a proposito del “pentimento” di Scarantino, dice: “E’ una decisione che è andata maturando… di tanto in tanto tramite canali assolutamente legittimi ed istituzionali Scarantino chiedeva, per esempio, di essere interrogato dai magistrati della procura di Caltanissetta. Grazie all’uso dell’istituto del colloquio investigativo (…) Scarantino ha avuto un contatto con un ufficiale di polizia giudiziaria, Arnaldo La Barbera, ed ha potuto probabilmente maturare in modo più sereno il suo proposito di collaborare con la giustizia”. Il 30 settembre, l’avv. Luigi Ligotti, meglio noto come “l’avvocato dei pentiti” dal momento che nella sua carriera ne ha assistiti decine, rinuncia alla difesa di Scarantino. Il motivo: non meglio precisate “ragioni di ordine processuale”. Il 20 ottobre cominciano a filtrare le prime dichiarazioni del neo “pentito” al sostituto Ilda Boccassini. “Mi sono macchiato di crimini orrendi e di orrendi omicidi…”, dice Scarantino. Nel ricostruire la sua storia criminale, Scarantino liquida l’immagine del piccolo malavitoso di borgata, dedito a furti d’auto ed al piccolo spaccio di droga, ma tuttavia buono d’animo, tanto da indossare il saio di una confraternita religiosa per seguire la statua del santo portato in processione. Al magistrato Scarantino dice di essere stato un “uomo d’onore riservato”, presenti suo cognato Salvatore Profeta, Pietro Aglieri e Carlo Greco. “Al termine della cerimonia – ricorda Scarantino – abbiamo mangiato e poi ci siamo baciati tutti, ed io diventai uomo d’onore riservato per non essere a occhio della polizia e degli altri uomini d’onore, tranne quelli della mia famiglia”. Invitato a parlare delle sue vittime, il “pentito” cita Benedetto Bonanno, 22 anni, ucciso con colpi di pistola il 24 marzo del 1988, del cui cadavere si disfece dandolo alle fiamme e poi i fratelli Santo e Luigi Lucera, di 54 e 44 anni: dice di averli sgozzati in una casa di campagna, a Santa Maria di Gesù. Ma anche i magistrati si accorgono che alcune “rivelazioni” di Scarantino sono in rotta di collisione con quelle di altri due “pentiti” di rango, Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera, i quali hanno per altro ammesso le loro responsabilità per la strage di Capaci. Scarantino, ad esempio, sostiene, come testimone oculare, che la strage di via D’ Amelio venne decisa da Totò Riina nel corso di una riunione, tenuta nella villa di Giuseppe Calascibetta, alla quale intervennero anche La Barbera e Cancemi, i quali negano con decisione. Il 24 gennaio 1995 emerge la notizia che Sacarantino ha provato ad accreditarsi come un “pentito” in grado di parlare anche dei politici, sostenendo che Cosa nostra forniva cocaina a Silvio Berlusconi, in quel momento solo ex presidente del Consiglio. Anzi dal verbale, datato 24 giugno 1994, appare chiaro che il nome di Berlusconi è stato tra i primi fatti. Scarantino sostiene di avere appreso dal boss Ignazio Pullarà che quest’ultimo ”mandava cocaina a Berlusconi’”. E poi aggiunge: “Berlusconi conosceva altri boss come Luciano Liggio” e inoltre “manda 50 milioni l’anno alla famiglia di Santa Maria di Gesù”. Il 24 maggio, Scarantino compare per la prima volta in corte d’Assise al primo processo per la strage di via D’Amelio in corso a Caltanissetta. Dice Scarantino: “Mi sono pentito un mese e mezzo dopo essere stato arrestato, nel settembre ’92, ma ho cominciato a collaborare solo nel giugno ’94. Avevo paura delle minacce di Profeta, e mi vergognavo anche del fatto che avrei dovuto dire a quei magistrati che avevo ucciso un loro collega. Di tutti gli omicidi che ho fatto quello di Borsellino è stato quello più brutto. Non sapevo però come fare, ho pure tentato il suicidio in carcere, prima cercando di impiccarmi e poi tagliandomi le vene. Ma dopo un colloquio con mia moglie mi decisi a parlare”. E così continua: “Ero il guardaspalle di Salvatore Profeta e un giorno, tra la fine di giugno e inizio luglio del ’92, lo accompagnai ad una riunione in una villa ai Chiarelli, a Palermo. Io mi fermai fuori, insieme ad altre sei persone, ma dentro si tenne una riunione”. Scarantino, su invito del pubblico ministero, omette di dire i nomi dei partecipanti a questa riunione, come anche di altre persone con le quali era entrato in contatto nel corso della preparazione della strage. Poi aggiunge: “Non sentivamo di cosa si discutesse dentro, ma ad un certo punto parlarono di Borsellino, di Falcone e di esplosivo”. Al termine della riunione Profeta gli chiede di procurargli una macchina di piccola cilindrata. “A mia volta – dice Scarantino – chiesi a Salvatore Candura di procurarmi la macchina, ed una decina di giorni prima del 19 luglio il Caldura mi portò una Fiat 126”. Il 17 luglio del ‘92, il venerdì precedente la strage, “insieme ad altre persone portai la 126 davanti alla carrozzeria di Giuseppe Orofino, in via Messina Marina. L’indomani, mentre stavo nel bar Badalamenti, alla Guadagna, insieme ad altre persone, arrivarono Gaetano e Pietro Scotto, e ‘Tanuzzu’ parlando ai presenti disse che erano riusciti a intercettare il telefono: ‘stavolta a chistu l’incucciammu (questo stavolta l’abbiamo in pugno. Ndr), è stata la risposta dei presenti. Nel pomeriggio, insieme ad altre persone, in tutto otto, abbiamo portato la macchina nella carrozzeria di Orofino. Qualcuno portò dentro la carrozzeria la 126, e dopo un po’ arrivò una Suzuki jeep che, secondo me, portava l’esplosivo. Io non entrai nella carrozzeria, ma, insieme ad altri due, giravamo con le moto intorno l’edificio”. Il compito di Scarantino e delle altre persone era quello di intercettare eventuali pattuglie della polizia o dei carabinieri, sparargli e farsi eventualmente arrestare pur di salvare le persone dentro la carrozzeria. “Dopo circa quattro ore – continua Scarantino – uscirono dalla carrozzeria e tornammo tutti a casa. L’appuntamento era per l’indomani, domenica 19 luglio, alle 5,30 di mattina. All’alba, insieme ad altre persone, siamo andati a prendere la macchina, quindi, con un corteo di tre automobili e la 126 in mezzo siamo andati in piazza Leone, dove ci aspettavano altre tre persone. Lì ci siamo fermati, gli abbiamo consegnato l’auto e ce ne siamo andati. Io sono tornato a casa, ho parlato al telefono con la mia ragazza, ho pranzato, ho chiamato al telefono la mia amante, poi, nel pomeriggio, alle 17,30, ho sentito persone in mezzo alla strada che gridavano ‘hanno ucciso Borsellino, hanno ucciso Borsellino’. Sono subito andato da Salvatore Profeta per dargli la notizia, a casa sua, e l’ho trovato sdraiato sul divano che guardava alla televisione le immagini della strage di via D’Amelio. In seguito mi dissero che a compiere la strage erano stati quei tre che ci aspettavano a piazza Leone, quei tre ‘dalle corna d’acciaio’”. Il 26 luglio, per la prima volta, si diffondono “voci” secondo le quali Scarantino avrebbe deciso di ritrattare le sue accuse. Tramite il sostituto Carmelo Petralia la procura smentisce, ma Concetta Scarantino, sorella di Vincenzo, e la cognata Maddalena Mastrolembo (moglie di Domenico – fratello del “pentito” – in carcere per ricettazione di auto) riferiscono ai cronisti di avere ricevuto due telefonate e poi una terza (che hanno registrato) nelle quali Scarantino affermerebbe di “voler tornare in cella, di volere parlare con i magistrati per ritrattare le accuse”. Ma lo stesso giorno il “pentito” viene rintracciato da un giornalista di “Studio Aperto” a cui dichiara di aver “deciso di dire tutta la verità e di non collaborare più, perché ho detto tutte bugie. Non è vero niente, sono tutti articoli che ho letto nei giornali e ho montato tutta questa cosa”. Alla domanda del giornalista che lo aveva rintracciato se “quindi sono tutti innocenti quelli che lei ha nominato?”, Scarantino risponde: “Tutti innocenti, me ne vado in carcere e lo so che mi faranno orinare sangue e mi faranno morire in carcere. Però morirò con la coscienza a posto”. Il giorno dopo, Scarantino fa marcia indietro: “E’ stato solo un momento di sconforto, confermo la mia volontà di collaborare con la giustizia”. Lo dice al pubblico ministero di Caltanissetta Carmelo Petralia. In relazione al “caso Scarantino” la procura di Caltanissetta diffonde una nota nella quale definisce “grave il comportamento di quanti hanno strumentalizzato un comprensibile desiderio di affetto per fini processuali che nulla hanno che vedere con una vicenda che presenta tratti esclusivamente umani”. Aggiunge l’altro pm del processo, Anna Maria Palma: “La mobilitazione, non nuova, della sua famiglia e di un intero quartiere conferma, se mai ve ne fosse bisogno, la caratura del personaggio e l’importanza delle dichiarazioni che ha reso”. Ma il 10 ottobre, in un esposto consegnato alla procura di Palermo, Rosalia Basile, moglie di Scarantino, accusa i magistrati della procura di Caltanissetta di avere estorto al marito le sue confessioni. Sempre secondo l’esposto, Scarantino avrebbe confidato alla moglie che i pubblici ministeri Carmelo Petralia ed Ilda Boccassini lo avrebbero indotto ad accusare il cognato Salvatore Profeta: “Se non lo fai non sei credibile” gli avrebbero detto. “Mio marito mi disse che i pm giocano sporco” – si legge ancora nell’esposto – Rosalia, devi vedere come mi difendono, pur sapendo che sono tutte bugie, perché se questo processo finisce male possono andare a difendere i processi dei minori”. In un’altra occasione, sostiene la moglie, il “pentito” sarebbe venuto a Palermo per individuare l’officina carrozzeria di Giuseppe Orofino dove la 126 venne caricata con il tritolo. “Mio marito non sapeva dove si trovasse – sostiene la donna – e con un gesto uno dei poliziotti gliela indicò”. Nell’esposto si prospettano comportamenti illeciti da parte dei magistrati inquirenti sulla strage di Caltanissetta, con riferimento a una presunta falsa verbalizzazione od a rifiuto di verbalizzare ed infine al divieto che sarebbe stato imposto a Scarantino di parlare con i magistrati di Palermo in assenza di quelli nisseni. Informata dell’esposto, presentato dalla moglie di Scarantino, il sostituto procuratore di Caltanissetta, Anna Maria Palma, pubblico ministero d’aula al processo per la strage di via D’Amelio, così commenta: “Questo conferma ancora una volta le incredibili pressioni che la Basile riceve dalla famiglia”. Intanto stanno emergendo nuovi particolari sulla personalità di Scarantino e soprattutto sulla sua vita sessuale che potrebbe essere incompatibile con un uomo d’onore. Il 31 ottobre in Assise vengono chiamati a testimoniare “Margot”, “Flavia” e “Fiammetta” (un transessuale e due omosessuali) e cioè Michela D’Amico, 35 anni, Mario Ingrassia, 34, e Giovanni Nicchia, 40. “Margot”, che ha cambiato sesso e si è sposata cinque anni prima con un imprenditore toscano, conferma che dal 1982 al 1984 ebbe una relazione con Scarantino: “Lo conobbi per strada a Palermo. Enzo mi offrì un passaggio ed io accettai. Da quel giorno abbiamo vissuto per quasi due anni assieme, ne ero innamorata”.Vengono poi ascoltati Mario Ingrassia e Giovanni Nicchia, che abitavano nello stesso cortile dove “Margot” viveva con il “pentito”. I due testi confermano l’esistenza di una relazione tra il transessuale e Scarantino. Il 2 novembre altro colpo di scena: Scarantino riafferma di essere “pentito” e leale collaboratore della giustizia. Rivela inoltre che la moglie gli confidò di avere ricevuto pressioni telefoniche da Pietro Aglieri ed altri latitanti perché lo inducesse a ritrattare. Più volte durante l’’interrogatorio della moglie, Vincenzo Scarantino (protetto in aula da cinque carabinieri) grida “bugiarda” alla moglie che risponde: “Bugiardo sei tu, dilla tutta la verità”. Rosalia Basile dichiara inoltre che in occasione della deposizione del marito al processo “gli fecero avere le carte un mese prima e lo fecero studiare”. “Sono qui – prosegue – per dire tutta la verità e anche mio marito la deve dire. A luglio mio marito voleva tornare a Palermo e ritrattare tutto. Diceva che il verbale lo aveva fatto il pm Petralia e lui aveva firmato. Poi gli hanno fatto fare un confronto con altri pentiti, Cancemi, Di Matteo, La Barbera e anche con Marino Mannoia”. “Quando chiesi di tornare a Palermo – sostiene la teste – vennero i Pm Palma, Petralia e l’avv. Lucia Falzone. Volevo tornare a casa quando Enzo mi disse che era innocente. Ma non potevo uscire perché ero sequestrata in casa. Dopo che mio marito voleva ritrattare ci trasferirono in una villa dove pagavano quattro milioni al mese. In quella villa venne l’ispettore Luigi Pagano che disse a mio marito che poteva richiedere una bella somma se mi convinceva a rimanere, 500 milioni. La dottoressa Palma venne a trovarmi e mi disse che io al processo dovevo avvalermi della facoltà di non rispondere. Ma ho deciso di tornare a casa, l’ho fatto per la mia coscienza. Nei giorni scorsi mio marito mi ha telefonato dicendo ‘Attenta a quello che dici al processo’. Le telefonate sono state registrate, ho le bobine a casa”.

A questo punto Scarantino chiede al presidente della corte Di Natale di parlare: “Giuro su Dio e sulla vita dei miei figli che nessun magistrato, né poliziotto, mi ha detto mai niente”. Rosalia Basile, nella seconda parte della sua lunga testimonianza che si protrae fino a sera, parla ancora delle pressioni che sarebbero state fatte sul marito per indurlo al “pentimento”.

40 giorni dopo Scarantino ribadisce la sua “collaborazione”. Interrogato a Messina, per motivi di sicurezza, dai giudici della corte d’Assise di Caltanissetta, Scarantino spiega di avere ritrattato per una crisi di sconforto. Il 27 gennaio 1996 arriva la prima sentenza per la strage di via D’Amelio: ergastolo per Orofino, Scotto e Profeta. Il “pentito” Vincenzo Scarantino viene condannato a 18 anni di reclusione. Con ordinanza separata la Corte concede la scarcerazione di Scarantino, già da tempo detenuto in struttura extra carceraria, osservando che con “la sua scelta di collaborare ha rotto ogni legame con gli ambienti criminali”. Il 7 agosto 1996 sulla scena processuale compare un altro “pentito”, Giovanbattista Ferrante il quale tra i motivi che lo hanno indotto alla “collaborazione” dice che c’è anche il desiderio di scagionare una persona da lui ritenuta innocente: Pietro Scotto, il tecnico dell’Elte (impiantistica telefonica) condannato all’ergastolo con l’accusa di avere intercettato l’utenza della madre del giudice Paolo Borsellino per raccogliere informazioni, indispensabili al commando omicida, sugli ultimi spostamenti del procuratore aggiunto. Ferrante esclude che l’utenza fu intercettata ed avrebbe spiegato il modo in cui Cosa Nostra apprese che il magistrato si sarebbe recato a casa della madre. Secondo il pm Anna Maria Palma, Ferrante ha partecipato solo alla fase finale dell’attentato: “Il collaboratore di giustizia non conosce le fasi precedenti e quindi non sa del ruolo di Scotto che è stato ampiamente provato”. Tanto “ampiamente provato” che Scotto sarà assolto nel processo d’Appello. Il 27 maggio 1997, gli avvocati impegnati nella difesa dei 18 imputati del processo bis per la strage di via D’Amelio, nel corso di una conferenza stampa, affermano che “I pm hanno tenuto nel cassetto confronti discordanti tra pentiti”. Gli avvocati ribadiscono che i pm Anna Palma e Antonino Di Matteo avrebbero depositato con anni di ritardo il testo dei confronti tra il “pentito” Vincenzo Scarantino ed altri tre collaboratori (Salvatore Cancemi, Gioacchino La Barbera e Santo Di Matteo) nel corso dei quali il teste-chiave del processo viene smentito in molti punti. In particolare sulla presunta riunione in cui i boss avrebbero deciso la strage. Secondo i legali, i verbali dei confronti, svolti nel gennaio del ’95, non vennero depositati all’udienza preliminare del ’96: “Se il Gip li avesse letti – dice l’avv. Scozzola – avrebbe potuto o dovuto concludere in maniera diversa”. Il mancato deposito di quei confronti avrebbe impedito di chiarire la posizione di alcuni soggetti imputati e detenuti con il regime del 41 bis per i quali “si aveva la sola accusa di Scarantino”. Il 22 luglio, quasi a ribadire l’attendibilità di Sacarantino, il gip del tribunale di Caltanissetta, Gilda Loforti, dispone con due decreti il sequestro preventivo di fotografie, negativi, filmati, identikit e “in ogni caso – si legge nella nota che accompagna i provvedimenti – di tutte le immagini comunque ritraenti il collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino” e di sua moglie, Rosalia Basile. Scarantino”. Il 16 settembre 1997 Scarantino revoca il mandato al suo legale, l’avv. Lucia Falzone. La Falzone aveva assunto la difesa del “pentito” nel settembre del 1994. Sacrantino nomina l’avv. Enzo Guarnera, altro legale esperto nell’assistenza ai “pentiti”. Il 24 luglio 1998 viene ascoltato al processo Borsellino bis Rosario Scarantino, fratello di Vincenzo. Rosario riferisce che il fratello si è inventato tutto perché, dopo essere stato arrestato e sottoposto al carcere duro, per ingraziarsi i magistrati ha accusato gli altri imputati del processo. Lo scopo, secondo il fratello del “pentito”, era quello di ottenere – come poi è avvenuto – delle agevolazioni e quindi la libertà. Il 15 settembre Scarantino si “pente” nuovamente di essersi “pentito” e annuncia una nuova ritrattazione. La ritrattazione avviene davanti ai giudici della corte d’Assise di Caltanissetta nel corso dell’udienza del processo bis in trasferta a Como. Scarantino compare assieme al fratello Rosario per un confronto e sostiene di essere estraneo alla strage. Per questo motivo sia i difensori degli imputati che i pm chiedono che Scarantino sia interrogato come teste. I pm chiedono anche “l’esame di funzionari di polizia su quanto accertato in relazione a tentativi di arrivare a convincere Vincenzo Scarantino a ritrattare”. “Mi riferisco – dice il pm De Matteo – in particolare a movimenti di denaro sino a qualche giorno fa”. Che Vincenzo Scarantino avesse intenzione di fare un colpo di scena, lo si sospetta fin dal momento in cui si siede davanti alla corte ed chiede che vengano allontanati gli agenti che gli facevano da paravento e che le telecamere riprendano le sue dichiarazioni. Scarantino racconta di essere giunto alla decisione di “collaborare” dopo aver subito un violento e duro trattamento in carcere: “A Pianosa ho passato quaranta giorni indimenticabili. Scrivevo sui muri del bagno che se io facevo il bugiardo era perché mi volevano ammazzare”. Poi dice di aver dichiarato di essere pronto a “collaborare” e a rivelare notizie sul traffico di droga a Palermo. E aggiunge: “Ma il dottor La Barbera disse che gli interessavano solo gli omicidi. Io di quello di Borsellino sono innocente”. Fu il trattamento carcerario (“cibo scarso e con i vermi”) a convincerlo a cambiare atteggiamento. Gli fu quindi detto che avrebbe incontrato l’allora capo del gruppo antistragi Arnaldo La Barbera, il pm Ilda Boccassini e l’avv. Luigi Li Gotti. “La Barbera – dice ancora Scarantino – mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato 200 milioni. A me non interessavano i piccioli (soldi, ndr). Poi entrarono la Boccassini e Li Gotti”. Conclusa la dichiarazione, Scarantino chiede al presidente di essere rimandato in carcere insieme a detenuti comuni. “Tutte bugie. Ho inventato tutto io, assieme alla polizia e ai giornali. L’unica cosa vera è la droga, che io lavoravo con la droga”. Con queste parole alla ripresa pomeridiana dell’udienza, Vincenzo Scarantino ribadisce la sua ritrattazione. Sostiene di aver raccontato bugie per ottenere un trattamento migliore in carcere, di aver deciso di ritrattare dopo che è passata in giudicato la condanna per il primo processo sulla strage di via D’Amelio (né il suo legale, né i pm hanno proposto appello e quindi la condanna è definitiva. Ndr).  “Io – aggiunge l’ex “pentito” – con chiunque ho parlato, con i pm, che Dio mi perdoni, ho giurato falsamente. Io di mafia non so niente”. Poi precisa di aver fatto dichiarazioni ai magistrati in base a notizie raccolte da processi o sui giornali o ascoltando tv o Radio Radicale. Accusò alcuni degli imputati per motivi personali, di vendetta. Per questi motivi infatti indicò Santo Di Matteo come colui che aveva riempito di esplosivo l’auto-bomba che uccise Borsellino e Gioachino La Barbera, la cui foto aveva visto in tv, come presente alla riunione organizzativa della strage. Poi dichiara di aver temuto che qualcuno volesse infettarlo col virus dell’Aids: “Io sono qua per pulirmi la coscienza. So bene che mia moglie e i miei figli saranno gettati in mezzo alla strada”. Infine afferma di non aver mai ricevuto denaro da nessuno per ritrattare. “Se muoio – avverte Scarantino, rispondendo al controesame del pm Antonio Di Matteo – è per ordini superiori della Squadra Mobile di Napoli o Palermo. Io non ho intenzione di ammazzarmi”. “Io chiedevo soldi, la macchina – ha detto ancora – E mi accontentavano. Io sono una pedina”. Infine Scarantino sostiene di aver “collaborato con la giustizia” dopo essersi arreso alle pressioni psicologiche dei pm. Emerge nel frattempo anche un particolare sconvolgente: nonostante si fosse accusato di quattro omicidi commessi a Palermo, la procura di Gian Carlo Caselli non ha mai creduto al “pentimento” di Vincenzo Scarantino, non ha mai utilizzato le sue dichiarazioni in nessun procedimento di mafia e, conseguentemente, non ha mai chiesto il suo inserimento nel programma di protezione previsto per i collaboratori. Scarantino aveva confessato di avere assassinato, tra gli altri, i “picciotti” Luigi e Santo Lucera, zio e nipote, uccisi nel quartiere Guadagna il 9 marzo del 1990. Poi alzò progressivamente il livello delle sue dichiarazioni chiamando in causa anche lo 007 del Sisde Bruno Contrada e l’on. Silvio Berlusconi. Ma neanche in questi casi la procura di Palermo ritenne di utilizzare le dichiarazioni del “pentito”. Il 19 ottobre 1998, al processo d’appello per la strage di via D’Amelio, Scarantino torna a ribadire la sua ritrattazione. “Negli ultimi anni – racconta l’ex “pentito” – telefonavo spesso alla dottoressa Palma per informarla che volevo dire la verità, cioè finire di fare il falso pentito, ma lei replicava sempre: ‘Scarantino, stia calmo la finisca di fare così, lo Stato le ha dato la casa, la villetta a mare, l’automobile’”. Scarantino afferma che, per rendersi “più credibile”, accusò soprattutto il cognato Salvatore Profeta (uno dei tre imputati condannati al carcere a vita, ndr): “Ad ognuno degli imputati affibbiavo due accuse per l’attentato di via D’Amelio, così se venivano assolti per la strage rimaneva sempre il reato di omicidio. Io comunque mentivo per fare un piacere ai magistrati, e loro mi hanno fatto dare da un’ispettrice di polizia un libro scritto da Buscetta per imparare come era composta Cosa nostra. Dicevano che ero troppo grezzo come pentito, cioè non conoscevo l’organigramma della mafia. Prima, infatti, parlavo di quartieri della Guadagna, della Noce, e così, via mentre poi appresi che dovevo dire famiglie”. Scarantino aggiunge che “su altri omicidi so che la procura di Palermo non ha mai creduto a quello che ho raccontato e commentando con i pm del processo Borsellino dicevo, ‘ma come, per la strage sono credibile, mentre per gli altri delitti no?’ La dottoressa Palma, però, mi rassicurava dicendo che le cose per me si sarebbero aggiustate anche a Palermo”. Il 22 ottobre i penalisti di Palermo fanno quadrato attorno ai colleghi Paolo Petronio e Giuseppe Scozzola, accusati dai pm del processo Borsellino bis di avere pianificato la ritrattazione di Scarantino. La Camera penale chiede l’intervento del Csm, del ministro della Giustizia e del pg presso la Corte di Cassazione affinché sia valutata “la necessità che i pm Anna Maria Palma e Nino Di Matteo continuino a sostenere l’accusa nel processo e a svolgere indagini sulla ritrattazione” di Scarantino. Il giorno dopo il procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tenebra accoglie la richiesta della Palma e di De Matteo di essere sollevati dalle indagini sui retroscena della ritrattazione di Scarantino e affida il fascicolo processuale ai sostituti Salvatore Leopardi e Roberto Condorelli. I due pm continuano, invece, a sostenere l’accusa nel processo bis per la strage di via D’Amelio. Il giorno successivo (23 ottobre), Scarantino torna ad accusare i pm di averlo manovrato. Parla di dichiarazioni non verbalizzate, audiocassette di interrogatori “messe da parte” perché “non gradite”, persino la confidenza, fattagli, a suo dire, da magistrati di Caltanissetta, che le sue rivelazioni avevano “provocato la caduta del governo Berlusconi”. Il 29 ottobre, nel corso di un’udienza del processo d’appello sulla strage, l’avv. Scozzola, difensore di Scotto, chiede la trascrizione del primo interrogatorio da “pentito” di Vincenzo Scarantino e la trascrizione delle bobine del confronto tra lo stesso ex “pentito” e il collaborante Salvatore Cancemi. Il legale ha ipotizzato una manomissione dei verbali redatti dal gruppo investigativo che indaga sulle stragi. La presunta manipolazione riguarderebbe alcune dichiarazioni rese da Scarantino il 24 giugno del 1994 e la “cancellazione misteriosa” di 40 secondi di registrazione del confronto con Cancemi. Nell’interrogatorio Scarantino, parlando di Gaetano Scotto, lo indica come un “picciotto”. L’ex “pentito” chiarisce poi che intendeva indicare un “picciotto di 40 anni che era anche atletico, ma in effetti volevo dire un cristiano”. La difesa, invece, sostiene che nel verbale è stata lasciata appositamente la definizione “picciotto” che in dialetto indicherebbe una persona di non più di 25 anni. Il 13 novembre, nel corso di un’udienza del processo d’Appello per la strage l’avv. Fabio Passalacqua, nuovo difensore di Scarantino, deposita alcuni documenti che erano in possesso del suo cliente. I legali Giuseppe Scozzola e Paolo Petronio, difensori degli imputati Pietro Scotto e Salvatore Profeta, diramano una nota nella quale sostengono che il processo avrebbe assunto “connotazioni a dir poco sconvolgenti”. Tra i documenti prodotti dal legale, secondo Scozzola e Petronio, ci sarebbero “numerose annotazioni su verbali da correggere, vari appunti su discrasie da sanare, foto di imputati e verbali diversi o nuovi rispetto a quelli depositati ed in possesso delle difese nei due tronconi del processo. Le annotazioni sono scritte in stampatello e non pare proprio possano attribuirsi allo Scarantino, in quanto pressoché analfabeta”. Il 24 novembre, sempre in aula, Scarantino parla di “bigliettini” posti come segnalibro tra le pagine di atti processuali che lo riguardavano. Per gli avvocati degli imputati gli appunti sarebbero prova di un presunto inquinamento processuale. L’ex “pentito” afferma che a consegnargli i ”bigliettini” sarebbero stati due agenti di polizia, Fabrizio Mazzei e Michele Ribaldo. Il processo si conclude il 23 gennaio 1999: due tre imputati del primo processo per la strage, Scotto e Orofino, vengono assolti in Appello. E’ evidente che la corte ha creduto Scarantino “credibile” ma solo per un terzo, visto che l’ergastolo è stato confermato solo a Profeta. Ciononostante la procura di Caltanissetta non molla e per bocca del sostituto procuratore Luca Tescaroli afferma: “Per il nostro ufficio le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, se riscontrate, continueranno ad essere utilizzate”. Tescaroli aggiunge: “Nonostante questa sentenza noi crediamo ancora al pentito”. L’ostinazione giudiziaria della procura anche di fronte alla più palese delle evidenze viene confermata dal procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra: “La sentenza della Corte d’ Assise d’Appello non rappresenta una sconfitta per la procura il cui impianto accusatorio ha retto”. Lo stesso giorno, in una nota, l’avv. Giuseppe Scozzola definisce “incomprensibile l’assenza dello Stato nella gestione di questo processo”. Perché, si chiede il legale, “non è stata mai disposta alcuna ispezione alla procura di Caltanissetta per appurare come Scarantino abbia potuto avere la copia degli interrogatori, quasi tutti annotati, mentre la difesa ancor oggi ha copie parziali degli stessi”. Scozzola afferma ancora che “la sentenza di oggi dimostra come, laddove le regole del processo vengono rispettate nella loro interezza, è possibile che lo stato di diritto abbia una sua piena esplicazione”. Il 13 febbraio, con sette ergastoli per i componenti della Cupola, considerati mandanti dell’agguato, si conclude anche il primo grado del processo “Borsellino bis”. In corso a Caltanissetta è invece ancora il processo “Borsellino ter”. Il 31 agosto viene arrestato per traffico di stupefacenti Domenico Scarantino, 40 anni, fratello di Vincenzo, A dicembre del 1999 i giudici delle Assise di Caltanissetta condannano all’ergastolo altri 17 accusati nel terzo filone d’inchiesta denominato “Borsellino-ter”. Fra i condannati a pene per complessivi 175 anni di reclusione, anche tre “collaboratori della giustizia”, Salvatore Cancemi (a 26 anni), Giovan Battista Ferrante (a 23 anni) e Giovanni Brusca (a 16 anni).

Dopo quasi otto anni gli ergastoli inflitti per la strage sono 25. Ma i misteri della strage di via D’Amelio, e la stessa vicenda Scarantino è ancora lontana dal potersi dire conclusa. Il 23 maggio 2001 i dubbi sulle indagini effettuate e sulla loro modalità, i contatti telefonici fra esponenti mafiosi e uomini dei servizi segreti, l’ipotesi che uomini di Cosa nostra sarebbero stati utilizzati come manovalanza da apparati statali per mettere a segno l’attentato sono al centro della deposizione del vice questore Gioacchino Genchi. Il funzionario di polizia, interrogato dai giudici della corte d’Appello di Caltanissetta del processo “Borsellino bis” che riguarda gli esecutori materiali della strage, parla di “anomalie” nelle indagini. Ex componente del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, Genchi, rispondendo alle domande del presidente della corte, Francesco Caruso, afferma che la procura di Caltanissetta si sarebbe “chiusa a riccio” dopo che “erano emersi contatti fra i boss coinvolti nella strage ed apparati istituzionali”. Per Genchi la procura non avrebbe dato il via libera ad indagare su questi fatti. Genchi esprime inoltre perplessità sulla gestione dell’ormai ex “pentito” Vincenzo Scarantino. Il funzionario avanza un’altra ipotesi investigativa, già illustrata a suo tempo ai magistrati di Caltanissetta. Secondo il teste, le persone che hanno premuto il pulsante che ha provocato l’esplosione non si potevano trovare nelle vicinanze di via D’Amelio perché sarebbero state raggiunte dall’onda d’urto. Gli investigatori avevano individuato come possibile base il Castello Utveggio, che sovrasta la città, dove ha sede la scuola di formazione del Cerisdi e dal quale con un binocolo si poteva controllare la strada in cui avvenne la strage. In questo punto di osservazione, secondo Genchi, si sarebbe insediato per un periodo, un gruppo del Sisde. Il funzionario fa notare alla Corte che nei tabulati di Scotto, l’esperto di telefonia poi assolto, risulta la chiamata a un numero telefonico intestato al Cerisdi. Il 19 luglio, all’udienza d’Appello del “Borsellino bis”, la corte accoglie le richieste dell’avv. Rosalba Di Gregorio, acquisendo al fascicolo del dibattimento anche la “proposta sanitaria” dell’ospedale militare di Chieti che esonerò dal servizio di leva Vincenzo Scarantino. Nel referto, Scarantino viene definito “neurolabile”, un soggetto che “minaccia reazioni al minimo stimolo esogeno non gradito”. Il 1° febbraio 2002 ennesimo show di Scarantino che in aula, nel processo d’Appello, afferma: “Ho ritrattato perché mi hanno minacciato, la verità è quella che ho detto nel processo di primo grado”. La ritrattazione della ritrattazione, secondo Scarantino, fu determinata dapprima da una serie di segnali e successivamente da precise indicazioni di un tale Antonio (nipote di Pietro Scotto) che conobbe a Padova quando era in regime di protezione con la sua famiglia. Racconta Scarantino: “Conobbi Antonio, detto Tonino, in un bar dove andavo a giocare la schedina e parlavamo di pallone. Lui diceva che era catanese, io che ero messinese, ma in realtà eravamo tutti e due di Palermo. Lui, tra una chiacchiera e l’altra, parlava dei pentiti e diceva, ‘sono morti che camminano’. Quella frase mi colpì tanto”. E aggiunge: “Ho chiesto di essere trasferito anche perché una cosa simile mi era già successa quando stavo sotto protezione a Roma dove incontrai un certo Franchino, fratello di Salvatore Tomaselli (condannato a otto anni e mezzo nel processo di primo grado per la strage di via D’Amelio, n.d.r.) proprio a pochi metri da casa mia, dove abitavo con mia moglie e i miei figli. A un certo punto, a Padova, cominciai a vedere Tonino anche davanti alla scuola dei bambini e davanti casa, spesso mi chiedeva come stavano, come crescevano. Così un giorno andai a Modena da mio fratello e gli dissi che volevo ritrattare, lui doveva diffondere la voce a Palermo. E così fece”. Quindi Scarantino racconta del giorno in cui Tonino gli svelò che lui sapeva tutto: “’Ancora non l’hai capito – mi disse – io lo so che tu sei Scarantino, so tutto quello che fai. Cerca di ritrattare, devi dire che sono stati la polizia e i magistrati che ti hanno fatto fare quelle dichiarazioni. Tu puoi uscirne fuori, ti facciamo dare l’infermità mentale, c’è una nuova legge, ti fissiamo un appuntamento con gli avvocati Petronio e Scozzola. Era il maggio 1998”. Scarantino riferisce ancora che in luglio andò a Palermo per fare vedere che era sua volontà ritrattare tutto: “Intanto mia moglie con me era spenta e i miei bambini erano diventati tristi. Nell’ultimo colloquio di gennaio mia moglie mi ha chiesto il divorzio e mi ha restituito la fede”.
L’ex “pentito” tornato “pentito” spiega ancora che precedentemente la moglie con i figli erano andati a vivere in Germania dove abitano altri parenti della famiglia: “Io invece ho sempre detto che volevo stare in carcere per motivi di sicurezza”.
A Scarantino il sostituto procuratore generale chiede se il fratello Rosario avesse avuto una parte nella ritrattazione: “Sì – risponde – Rosario mi disse di rimangiarmi tutto. In cambio della ritrattazione ottenni che mi liquidassero le mie proprietà che erano state sottratte dalla mafia in seguito alle mie dichiarazioni nel processo di primo grado. I miei parenti erano contenti della mia scelta, ma ormai anche con mia madre e i miei fratelli i rapporti si sono raffreddati e ognuno va per la sua strada”.
22 novembre 2002: Scarantino viene condannato a otto anni di reclusione dal Gip di Roma Renato Croce per calunnia nei confronti dei pm palermitani Anna Palma e Carmelo Petralia oltre che del defunto Arnaldo La Barbera. Il 31 maggio 2003 viene ucciso a Palermo Rosario Scarantino, un operaio di 30 anni, cugino del nuovamente “pentito” Vincenzo. La dinamica dell’omicidio è chiaramente mafiosa. Trascorrono cinque anni e il 15 ottobre 2008 diventa ufficiale il “pentimento” di Gaspare Spatuzza, killer del gruppo di fuoco dei fratelli Graviano, boss di Brancaccio. Spatuzza fa una rivelazione che spiazza e sbugiarda definitivamente Scarantino. Dice Spatuzza. “Fui io a rubare la 126 usata come autobomba per la strage di Via D’Amelio. A commissionarmi il furto furono i fratelli Graviano”. Il sicario, che ha sulle spalle una quarantina di delitti tra cui quello di don Pino Puglisi, parla da 4 mesi, ma non è stato ancora ammesso al programma di protezione. I magistrati ne stanno valutando l’attendibilità soprattutto alla luce delle contraddizioni tra la sua ricostruzione della strage e quella del “pentito” Vincenzo Scarantino. Sui racconti di quest’ultimo poggia infatti la verità giudiziaria sancita dal primo dei tre processi celebrati su via D’Amelio.
Il 1° dicembre si apprende che indagini difensive dirette alla revisione del processo per la strage di via d’Amelio sono state avviate nei mesi scorsi dai difensori di uno degli imputati condannato definitivamente all’ergastolo: Gaetano Scotto. Secondo Scarantino, insieme ad altri avrebbe ricevuto la notizia che Borsellino era stato intercettato dal boss Gaetano Scotto, fratello di Pietro, tecnico di telefonia, che avrebbe compiuto l’intercettazione, quest’ultimo assolto però definitivamente. La difesa di alcuni imputati condannati per la strage sta puntando alla revisione del processo in cui sono stati inflitti decine di ergastoli.

Il 21 aprile è ufficiale che le dichiarazioni di Spatuzza sono state riscontrate in tutti i punti che riguardano la strage di via D’Amelio e che quindi Scarantino è un falso “pentito” a cui, nella migliore delle ipotesi, troppi magistrati hanno creduto ciecamente.

Spatuzza apre così alcune crepe sul processo che si è già concluso definitivamente per mandanti ed esecutori della strage. Inoltre, nel corso di un confronto che i pm di Caltanissetta hanno fatto fra Candura e Scarantino, il primo ammette di aver mentito. Candura viene indagato per autocalunnia e Scarantino per calunnia.
Il 29 luglio la procura distrettuale antimafia di Caltanissetta avvia indagini per accertare se davvero – come Scarantino aveva ammesso in passato – sia stato aggiustato il primo verbale di interrogatorio reso, nel 1994, dallo stesso. L’ipotesi si inserisce nell’ambito di un presunto depistaggio che potrebbe esserci stato nell’inchiesta sulla morte di Paolo Borsellino e della sua scorta. L’analisi dei magistrati parte da quel primo verbale. Il documento, agli atti del processo già definito con sentenze di condanne all’ergastolo, è pieno di annotazioni e suggerimenti scritti a mano a margine delle pagine. E anche in base a questo verbale i giudici avrebbero emesso le loro sentenze di condanna.
I magistrati hanno accertato che a scrivere le note è stato un poliziotto. Il giorno dopo tornano a parlare i familiari di Scarantino. Dice la madre: “Mio figlio non c’entra niente. L’hanno costretto a dire cose non vere e ad accusare gente innocente. Erano tutte invenzioni. Noi familiari sapevamo che Enzo era innocente e per questo avevamo protestato pubblicamente nel ‘94”.  Dice ancora la madre: “Sono stati poliziotti e magistrati a costringere mio figlio a dire cose false. Qui tutti lo sanno, come lo sanno anche i magistrati, furono loro, quelli interni allo Stato, a fare la strage”. Insomma verbali aggiustati, il famoso papello annunciato dal figlio di Ciancimino, indagini su cui grava l’ombra del depistaggio, veri e falsi “pentiti” e undici ergastoli definitivi che un probabile giudizio di revisione potrebbe mettere in discussione. 17 anni dopo la strage di via D’Amelio emerge la concreta ipotesi che alcuni investigatori abbiano estorto false confessioni e false accuse. Chi tentò di indurre Scarantino a mentire? E’ la stessa domanda che si facevano gli avvocati che hanno assistito prima al “pentimento” di Scarantino, poi alla sua ritrattazione e infine alla ritrattazione della ritrattazione. In prima fila, ad esprimere dubbi sul collaboratore c’era, allora, l’avv. Rosalba Di Gregorio, difensore di quattro degli 11 imputati che grazie alle dichiarazioni di Scarantino sono stati condannati all’ergastolo. E ancora l’avv. Piero Milio che, da senatore della lista Pannella, nel febbraio del 1999, presentò un’interrogazione al ministro della Giustizia proprio sul verbale “aggiustato” del 1994. “Scarantino – dichiarò in quell’occasione Milio – ha addirittura prodotto atti e documenti non firmati e da lui acquisiti durante il periodo in cui è stato sottoposto a regime di rigorosa protezione. Per questo ho chiesto ai ministri se non ritengano di dover disporre una seria indagine ispettiva anche al fine di accertare come Scarantino abbia potuto disporre – e chi gliela abbia data – della copia degli interrogatori, quasi tutti annotati, mentre la difesa degli imputati ha avuto, a suo tempo, rilasciate solo copie parziali”. Quell’interrogazione, presentata ai ministri del governo di centrosinistra presieduto da Massimo D’Alema, “non ebbe mai alcuna risposta”.
Il 31 luglio 2009 arriva la notizia che Gaspare Spatuzza è considerato “attendibile”. Lo dicono le procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze che hanno espresso parere favorevole per il riconoscimento delle misure di sicurezza provvisorie all’aspirante “pentito”, prima tappa per l’accesso al programma di protezione definitivo.
Il 21 novembre l’”attendibilità” di Spatuzza si rinforza. Vittorio Tutino, uomo della cosca palermitana di Brancaccio, nel corso di un interrogatorio a Caltanissetta davanti ai magistrati del pool che indaga sulle stragi del ‘92, fornisce una versione coincidente con quella di Gaspare Spatuzza.
La versione di Vincenzo Scarantino è così definitivamente smontata. Ma il mistero Scarantino rimane intatto.  Misteri d’Italia 2009 

LA STORIA DI VINCENZO SCARANTINO, IL FALSO “PENTITO” CREDUTO DA TROPPI MAGISTRATI. SOLO UN INCREDIBILE ERRORE?