«Il tesoro nascosto di Matteo Messina Denaro potrebbe essere in Svizzera»

 

MAURIZIO DE LUCIA, procuratore capo di Palermo, 62 anni, ha lavorato dal 2009 al 2017 alla DNA. Lo abbiamo intervistato su presente e futuro della lotta a Cosa Nostra in vista del suo incontro a Endorfine a Lugano.

Per cominciare, le faccio la stessa domanda con cui si apre il 17° capitolo del libro che lei ha scritto con Salvo Palazzolo, La Cattura, pubblicato da Feltrinelli: chi è davvero l’uomo fermato dai carabinieri del ROS il 16 gennaio 2023?
«La risposta è ciò che emerge da decenni di indagini: Matteo Messina Denaro è uno dei capi di Cosa Nostra, non il capo perché una delle regole dell’organizzazione mafiosa è che al vertice ci debba essere un palermitano. E tuttavia, la lunghissima latitanza e il fatto di essere il figlio di Francesco Messina Denaro, un importante uomo d’onore, ha fatto di Matteo Messina Denaro un personaggio molto carismatico all’interno di Cosa Nostra, e gli ha certamente dato estrema autorevolezza, oltre a farne un punto di riferimento del sodalizio criminale. Dopodiché, è comunque il capo della provincia mafiosa di Trapani, questo è anche istituzionalmente, diciamo così, il suo incarico. L’arresto è stato fondamentale perché con lui abbiamo catturato anche il simbolo di una impunità dell’organizzazione mafiosa che in qualche misura era rimasto intatto. Un’impunità, va detto, che è andata nel tempo via via riducendosi: in questi anni sono stati infatti arrestati tutti i vertici dell’organizzazione. Sia pure in una partita molto lunga, a vincere alla fine è lo Stato. A chiunque dev’essere chiaro che margini di impunità, per i boss di Cosa Nostra, non ce ne sono».

Ma perché sono stati necessari quasi trent’anni per catturare Matteo Messina Denaro?
«In questi trent’anni non si è cercato soltanto Matteo Messina Denaro, si è data la caccia a tutti i protagonisti della stagione delle stragi del 1992 e 1993. Sono stati arrestati centinaia di esponenti dell’organizzazione mafiosa, abbiamo sequestrato e confiscato beni per valori assolutamente significativi. È vero, tuttavia, che uno di questi soggetti è rimasto latitante per un lunghissimo periodo di tempo. Si tratta di una ferita sulla quale noi stiamo cercando di fare chiarezza. Io oggi posso dirle, in termini generali, che Messina Denaro ha evidentemente goduto nel suo territorio, il Trapanese, ma non solo in quello, di appoggi dentro l’organizzazione e nella popolazione. Scopo delle nostre indagini, adesso, è proprio ricostruire questo trentennio, partendo dal momento finale dell’arresto e muovendoci a ritroso. Vogliamo capire chi, effettivamente, in un ambiente a lui favorevole, lo ha protetto. Finora sono state arrestate otto persone: familiari, ma anche medici che hanno ignorato una situazione di oggettiva latitanza, commettendo una serie di reati».

Favoreggiamento, ad esempio?
«Sì, ma non solo. Il medico non commette il favoreggiamento se aiuta un soggetto malato: ma tutte le attività connesse a questo aiuto – ad esempio, le falsificazioni che sono state operate per consentire a Messina Denaro di essere ricoverato senza essere catturato – sono reati e sono stati perseguiti. Dopodiché, si tratta – ed è quello su cui siamo impegnati – di fare un lavoro di ricostruzione di tutto il materiale nuovo che è stato trovato. Materiale che va incrociato con quello che già abbiamo. In questi trent’anni abbiamo acquisito un sacco di informazioni su Messina Denaro e sulla sua famiglia mafiosa, il nostro scopo è quindi comprendere come sia stato possibile per lui rimanere in stato di latitanza per tutto questo periodo».

Lei ha detto che Cosa Nostra continua ad evolversi. E a guardare oltre. Le chiedo: che cos’è questo “oltre”? Che cosa intende, esattamente, quando parla di un indirizzo caratterizzato da una dimensione prettamente economica? Che la mafia ha rinunciato alla sua forza militare o al presidio del territorio per dedicarsi esclusivamente agli affari?
«No, questi sono dati irrinunciabili per l’organizzazione. Cosa Nostra, anche se non spara, non può rinunciare all’idea di sparare. Il retroterra mafioso, la sua base, è la potenza militare. Vale a dire, la forza e la violenza. Anche se la regola è usare questa forza e questa violenza il meno possibile. Nel periodo corleonese, quello che va, diciamo così, dal 1978 a oggi, si è derogato a questa regola: le stragi sono state un momento di violenza importante, non usuale per l’organizzazione, il cui scopo – nei suoi 160 anni di vita – non è mai stata la guerra allo Stato, quanto piuttosto convivere con lo Stato e fare gli affari».

La scelta stragista di Totò Riina è stata quindi un grave errore per Cosa Nostra.
«Senza dubbio. La loro situazione attuale è di grave difficoltà proprio per questo. Ecco perché adesso, in qualche misura, l’obiettivo dell’organizzazione è tornare al passato, cioè a prima della fase corleonese. Tornare agli affari, alle mediazioni, alle estorsioni, al controllo del territorio. Ricostituire la propria forza militare. Per fare questo ci vuole una capacità economica significativa, per ottenere la quale in breve tempo bisogna tornare a trafficare stupefacenti in grande stile. La droga è l’unica merce al mondo, com’è noto, a consentire un massiccio arricchimento in tempi molto rapidi. Quindi queste sono, diciamo così, le linee direttive di una “nuova” Cosa Nostra che tenta di sollevare la testa. L’avere catturato anche l’ultimo degli stragisti è certamente un fatto importante, dimostra la debolezza dell’organizzazione. Ma se noi dicessimo che l’organizzazione è sconfitta, commetteremmo un errore grave».

Perché?
«Perché le consentiremmo di tornare ad alzare una testa che è sì abbassata, ma non è decapitata. Oggi, sul territorio della provincia di Palermo e della Sicilia occidentale, le attività di base dell’organizzazione mafiosa permangono: in particolare, le estorsioni e il traffico di stupefacenti. Quello che oggi l’organizzazione non ha è un vertice. Cosa Nostra è diversa dalle altre mafie proprio perché è una struttura unitaria. La famosa Commissione, in questo momento, non c’è, e questo non consente all’organizzazione di ristrutturarsi come vorrebbe. Voglio ribadire che la Commissione non c’è perché lo Stato, con una serie di indagini e di processi, ne ha impedito la ricostituzione. Lo sforzo, quindi, deve continuare a essere questo, in modo da avere un’organizzazione sempre più debole e quindi finalmente sconfitta sul serio».

Soldi e potere rimangono l’ideologia della mafia e del mafioso, prima ancora della violenza.
«Sicuramente, ma questo vale per tutte le mafie».

Lei afferma come una delle questioni centrali sia la gestione dei patrimoni nascosti. C’è un tesoro che Messina Denaro custodisce chissà dove, ma al momento non può utilizzare. È possibile, o è credibile, che questo tesoro del capomafia di Castelvetrano si trovi, in tutto o in parte, in Svizzera?
«È una delle nostre ipotesi da verificare. Abbiamo una serie di elementi che ci portano a ritenere che Messina Denaro e gli uomini a lui vicini, che sono stati a lungo sul territorio elvetico, ci siano stati proprio – come dire – per curare una serie di investimenti in quel territorio. Quindi sì, la risposta alla sua domanda in questo senso è positiva».

Più volte è stato detto che il boss ha trascorso periodi più o meno lunghi della sua latitanza all’estero. Lo ha fatto anche in Svizzera?
«Questo non lo possiamo affermare con certezza. In via del tutto ipotetica è possibile, ma elementi concreti, in questo momento, non ne abbiamo. Come dicevo prima, il nostro progetto investigativo intende ricostruire ciò che Messina Denaro ha fatto dal 16 gennaio 2023 a ritroso. Siamo convinti che ci siano stati periodi di latitanza all’estero, in alcuni Stati europei e in Paesi della zona Sud del Mediterraneo. E però, non siamo in grado di dire adesso dove lui effettivamente sia stato».

Il pentito Antonino Giuffrè, un tempo componente della Commissione provinciale di Cosa Nostra, ha detto: “Messina Denaro custodisce l’archivio di Riina. Lui ha i documenti che sono stati portati via dal covo di via Bernini dopo l’arresto del capo dei capi di Cosa Nostra”. Esistono davvero questi documenti? Chi potrebbe custodirli? E che cosa potrebbero svelare? Ed è vero che le carte di Riina sono state l’assicurazione sulla latitanza del boss trapanese?
«A tutti questi condizionali non riesco a dare risposte certe. Allo stato, non è irragionevole pensare che una parte di questa documentazione ci sia. Ed è pure possibile che sia stata custodita da Messina Denaro. Ma prima dobbiamo trovarla, e poi cercheremo di capire di che cosa si tratta. Al mondo dei mass media sta il porsi domande, come dire, di prospettiva. Io devo ragionare gradino dopo gradino. Antonino Giuffrè è un elemento che ci induce a fare indagini anche in questa direzione. Ma che le sue dichiarazioni siano vere, non possiamo affermarlo. E che cosa ci sia in quelle carte, a maggior ragione, non siamo in grado di dirlo».

In Sicilia c’è un rapporto fra mafia e un pezzo di borghesia che si tramanda di generazione in generazione. Una parte dei colletti bianchi palermitani e siciliani è abituata a risolvere i propri guai con la collaborazione di Cosa Nostra

Vorrei tornare un istante a quelle che lei definisce le «catene perverse» che legano la mafia alla società siciliana, e non solo. Capire perché i colletti bianchi siano da sempre una grande risorsa per i mafiosi e perché questo atteggiamento ambiguo di una parte della società sia così difficile da sradicare.
«Anche in questo caso, la risposta non può essere semplice, nel senso che ci sono ragioni differenti nei diversi territori. In Sicilia c’è un rapporto fra mafia e un pezzo di borghesia che si tramanda di generazione in generazione. Una parte dei colletti bianchi palermitani e siciliani è abituata a risolvere i propri guai con la collaborazione di Cosa Nostra. Ciò avviene da generazioni, e per taluni è difficile immaginare di poter continuare a fare affari senza la protezione, il consenso o l’aiuto della mafia».

E lontano dalla Sicilia?
«C’è un atteggiamento diverso che porta allo stesso risultato, cioè a rapporti opachi, ambigui, criminali con l’organizzazione mafiosa. Ed è l’atteggiamento di un altro tipo di colletti bianchi, che per la verità non si riscontra soltanto nel Nord Italia, ma in tutta l’Europa. Un po’ per ignoranza, un po’ per presunzione, un po’ per bisogno, c’è chi pensa che i soldi della mafia, così come tutti i soldi, non puzzino. E immagina di poter gestire gli affari anche per conto dei mafiosi, senza rendere loro conto. In realtà, non accade mai. Nel momento in cui si accettano i soldi del mafioso, automaticamente si diventa soci dell’organizzazione criminale. Che entra nell’affare con i soldi, ma anche con la sua capacità di intimidazione».

Le nuove tecnologie hanno aperto spazi di comunicazione più sicuri e più efficaci anche per i mafiosi. È vero che i social sono i “pizzini 2.0”? E come si contrasta l’uso criminale della Rete?
«Si tratta di una questione molto interessante. La pericolosità dei social è stata messa in luce anche in relazione alla formazione della pubblica opinione: troppo spesso si arriva a conclusioni sui social diverse da quelle della realtà effettuale. Ma non è ovviamente questo il tema se si parla di mafia. Per Cosa Nostra, i social sono innanzitutto una forma di proselitismo, di comunicazione diretta con il suo popolo. Poi c’è un problema più delicato, l’uso della Rete. Attraverso sistemi di criptazione delle comunicazioni, le grandi mafie fanno i grandi affari; tutte le organizzazioni criminali del mondo oramai comunicano su piattaforme criptate, soprattutto quando sono in gioco cifre importanti. Uno dei temi futuri relativi alla cooperazione internazionale delle autorità giudiziarie e di polizia riguarda le azioni volte a neutralizzare queste forme di comunicazione rapidissime e globali, che in questo momento tutte le mafie usano».

Lei conclude il suo libro dicendo: “Questa è una storia in cui è stato messo un punto, ma non c’è ancora la parola fine”. Giovanni Falcone diceva che la mafia, come tutte le cose umane, un giorno finirà. Quanto sarà lunga, ancora, questa battaglia?
«I tempi della battaglia dipendono dall’impegno di tutti noi, e mi riferisco proprio all’impegno di ciascuno. Che la battaglia possa finire in un solo modo, cioè con la parola fine, non si può che condividere quello che diceva Giovanni Falcone».

Domani mattina, dalle 11 alle 12.15, al palazzo dei congressi di Lugano, il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia sarà ospite del festival Endorfine. Dalle 15 alle 16.15, sempre a palazzo dei congressi, vanno in scena invece le «Punture di Zanzara» del giornalista Giuseppe Cruciani, autore e conduttore su Radio 24 di uno dei programmi cult del panorama radiofonico italiano. La chiusura del festival, dalle 17.30 alle 19, al boschetto Ciani, è infine affidata a Cecilia Sala, giornalista e autrice del podcast Stories, tra i più seguiti in Italia soprattutto dal pubblico più giovane. DARIO CAMPIONE Corriere del Ticino 18.9.2023

 


A colloquio con Maurizio de Lucia, il procuratore della Repubblica di Palermo che ha arrestato Matteo Messina Denaro.

 

Maurizio de Lucia, procuratore della Repubblica di Palermo, è l’uomo a capo delle indagini che hanno portato all’arresto, dopo quasi trent’anni di latitanza, di Matteo Messina Denaro. Lo abbiamo incontrato a margine della conferenza che ha tenuto oggi all’Endorfine Festival di Lugano, tracciando con lui lo “stato di salute“ di Cosa nostra e gli orizzonti verso cui l’organizzazione è rivolta.

Procuratore, vorrei partire dalla stretta attualità di questi giorni. Sappiamo che Matteo Messina Denaro non sta bene. Non mi addentro nella sua cartella clinica; ma questa situazione – quindi l’eventualità di una sua morte – è di certo un punto su cui Cosa nostra starà riflettendo. A cosa guarda oggi l’organizzazione?
«È una domanda corretta. Anche per noi. Nel senso che anche noi stiamo facendo le nostre riflessioni su quello che accadrà. Perché dal momento della cattura in poi abbiamo registrato un sostanziale silenzio dell’organizzazione. Tutti aspettano un evento; che evidentemente, dato che tutti sanno che è malato, è la sua scomparsa. Siamo al campo delle ipotesi. Però, assai ragionevolmente, sono due gli interessi dell’organizzazione per il dopo. Il primo – che è un interesse per la verità preesistente – è continuare il tentativo di ristrutturare Cosa nostra, che come è noto in questo momento manca del suo vertice. Perché tutti i capi sono stati catturati o sono morti. Ma l’altra questione, che diventa importante, è la successione “nei beni“. Noi sappiamo che lui ha ancora – nonostante i sequestri e le confische che abbiamo fatto – un consistente patrimonio che è intestato a soggetti che non conosciamo. Ma che loro conoscono. Il problema sarà quindi chi riuscirà a impadronirsi delle ricchezze dell’ex latitante nel momento in cui dovesse morire. Il che naturalmente può rendere possibili tanto conflitti quanto nuovi accordi con nuovi soggetti emergenti che possono prenderne il posto».

Torniamo un attimo al 16 gennaio scorso. “La cattura”; che è anche il titolo del libro che lei ha scritto a quattro mani con Salvo Palazzolo. Alle 9.12 il colonnello Arcidiacono la chiama e le annuncia: “Lo abbiamo preso”. È il momento in cui Messina Denaro smette di essere un fantasma. Di lì a poco ne avremmo conosciuto il volto, la voce, le abitudini. Le chat. I messaggi vocali. E, come mai era accaduto prima, dietro allo stragista, al mafioso sanguinario, scopriamo anche la normalità di un uomo. Molto più vicina a noi rispetto al “mostro“ distante che si immagina…
«Diciamo che chi conosce il fenomeno mafioso e ha già avuto a che fare con capi di Cosa nostra, che hanno scelto di collaborare con la giustizia o, più semplicemente, sono stati catturati dallo Stato, non si sorprende. C’è chi ha scritto un libro straordinario riferito a un’altra vicenda tragica della storia dell’umanità, che è Hannah Arendt quando scrive “La banalità del male“. E aveva ragione, perché il male è banale. Gente capace di porre in essere delle mostruosità, in questo caso i mafiosi che di mostruosità ne hanno compiute tante, quando li incontri faccia a faccia trovi poi delle persone apparentemente normali. Ma questa è una condizione umana. Il male è davvero banale e chi è capace di grandi atrocità è anche capace, in qualche misura, di normalità e di umanità.

«Il 16 gennaio si è posto fine a una parentesi violentissima nella storia di un’organizzazione che però i suoi danni nella struttura dello Stato italiano ha cominciato a farli molto prima. E vorremmo evitare che continuasse a farli adesso»

Quel 16 gennaio è uno spartiacque nella storia d’Italia, di quelli che determinano un prima e un dopo. Nel libro però mettete in un certo senso in guardia da questa separazione. Scrivete che la mafia di oggi “somiglia molto alla mafia dell’altroieri”, quindi prima della stagione stragista. E soprattutto sottolineate che “è sempre rischioso parlare di vecchia o nuova mafia”. Perché?

«È pericoloso perché si rischia di fare confusione. La nostra preoccupazione è che tutti diano per scontato che il fenomeno mafioso è finito ed è sconfitto. In realtà è esistita una mafia, quella corleonese, che ha dominato l’organizzazione per trent’anni. Ed è quella che ha condotto un’aggressione frontale contro lo Stato attraverso le stragi. Ma Cosa nostra ha una storia di 160 anni perlomeno, e quella è solo una parentesi. La “nuova mafia“ in qualche modo tende quindi a somigliare a quella”vecchia”, pre-corleonese. Ossia a quella mafia che per oltre cento anni ha convissuto con lo Stato; realizzando i vantaggi che le organizzazioni mafiose sanno trarre da questa convivenza. Quindi gli affari; l’infiltrarsi nella macchina pubblica per trarre il massimo di potere e di ricchezza. Questo è quindi il pericolo dell’allentare la guardia. Per cui, il 16 gennaio non direi che è cambiata la storia d’Italia, ma ragionevolmente – e anche simbolicamente – si è posto fine, sperando di non essere smentiti, a una parentesi violentissima nella storia di un’organizzazione che però i suoi danni nella struttura dello Stato italiano ha cominciato a farli molto prima. E vorremmo evitare che continuasse a farli adesso».

C’è però qualcosa di diverso rispetto a “ieri“. Come lei ha detto, oggi Cosa nostra non ha un vertice. E forse questa – dopo l’arresto di Messina Denaro – è la prima volta che, nell’immaginario collettivo, la mafia siciliana non ha un volto. È un buon segno?
«Le mafie hanno delle caratterizzazioni diverse fra loro. Ci sono quelle, come diceva Giovanni Falcone, più pulviscolari, come sicuramente lo sono le camorre napoletane e, in qualche misura, la ‘ndrangheta. Poi c’è una mafia che ha una struttura quasi statuale, che è Cosa nostra. Perché è un vertice con delle diramazioni sul territorio che lo governano. È capace di vivere anche senza vertice. Nel senso che una serie di regole vengono rispettate a prescindere. Pensiamo ad esempio a dove vanno i profitti delle estorsioni che, rigorosamente, devono andare alle famiglie del territorio e non ad altri. Questa cosa avviene con il vertice ma avviene anche oggi, senza un vertice, perché sono regole automatiche che consentono all’organizzazione di sopravvivere. Ma non di fare quelle scelte strategiche che hanno caratterizzato la sua storia. Perché Cosa nostra è anche, ahinoi, un soggetto politico. Ma lo è nella misura in cui qualcuno è in grado di assumere delle decisioni. In questo momento quindi, il fatto che non ci sia nessuno che ha questo potere – benché l’organizzazione cerchi di ridarsi questa struttura – è un vantaggio per lo Stato».

«Cosa nostra è capace di vivere anche senza vertice. Ma non di fare quelle scelte strategiche che hanno caratterizzato la sua storia. Perché Cosa nostra è anche, ahinoi, un soggetto politico».

Un nodo su cui invece può ancora contare è quello della cosiddetta borghesia mafiosa. Mi rifaccio a un passaggio del libro: “Eccolo il vero problema, quello di un pezzo di società che da un secolo è abituata a convivere e a cercare la mafia. E se non la trova si preoccupa“… È un passaggio inquietante. Dove si inizia a recidere un nodo così stretto?
«Certamente con le indagini e con la repressione penale nell’ambito dei processi. Ma questo riguarda soltanto i soggetti che colludono anche dal punto di vista penale, in maniera significativa, con l’organizzazione. Dopodiché è chiaro che si tratta di un problema soprattutto culturale. Anche per questo noi lo denunciamo nel libro. Perché qualcuno capisca che in questo momento Cosa nostra è molto debole. Il rischio è che diventi più forte, o comunque sopravviva, perché qualcuno le riconosce una forza che non ha. E questo qualcuno è proprio quel pezzo della borghesia siciliana che da generazioni è abituata a semplificarsi la vita e risolvere i problemi non rivolgendosi allo Stato ma rivolgendosi alla mafia. E che continua a cercarla e, in qualche modo, la accredita anche oggi. Bisogna essere molto consapevoli del fatto che se noi non recidiamo definitivamente questo legame, con il problema della mafia avremo a che fare ancora per molto tempo. Quindi colpire e punire quelli che colludono attivamente e spiegare a tutto questo pezzo di borghesia – colletti bianchi, imprese e commercio – che non c’è vantaggio ad avere rapporti con le mafie. Dopodiché, su un piano più generale, riconoscere che i veri strumenti della lotta alla mafia non sono soltanto poliziotti, magistrati, leggi e processi, ma soprattutto sviluppo economico e cultura».

Per concludere, prima ricordava la fase di attacco frontale nei confronti dello Stato, culminata nelle stragi del ’92 e del ’93. Riguardo alla minaccia che Cosa nostra pone oggi per le istituzioni italiane scrivete che “per i mafiosi il problema non è vendicarsi di qualcuno, quanto eliminare le intelligenze, all’interno dello Stato“; e citate come esempio gli anni di piombo. E aggiungete che “è un tema su cui bisognerà iniziare a riflettere“. Ci spiega qualcosa in più?
«È assolutamente questo. Giovanni Falcone viene ucciso per tante ragioni. Probabilmente anche perché i mafiosi volevano vendicarsi per l’esito del maxi-processo. Ma non è solo questo. È soprattutto che Giovanni Falcone era una minaccia concreta alla sopravvivenza dell’organizzazione mafiosa perché è lui che ha inventato la lotta alla mafia in maniera sistematica e organizzata nel nostro paese. E quindi eliminarlo diventa quasi un dovere per l’organizzazione. Facevamo il riferimento alla stagione degli anni di piombo perché anche lì i magistrati e i poliziotti che vengono assassinati dai terroristi non vengono uccisi per vendetta. Vengono uccisi perché sono quelli che meglio, e più degli altri, comprendono il fenomeno e mettono in atto gli strumenti per distruggerlo. Cosa nostra è una struttura intelligente, la vendetta viene dopo. Quello che è importante è consolidare l’organizzazione eliminando i suoi avversari più pericolosi».

E oggi vede ancora questo rischio?
«Il rischio c’è sempre in questo caso. Davanti a una serie di messaggi costruttivi che aiutano la società a liberarsi dalla mafia, la mafia reagisce. Lo ha fatto. È il trentennale della morte di Padre Puglisi che viene assassinato non solo perché è un simbolo ma perché attirava a sé i giovani della borgata di Brancaccio che invece di diventare mafiosi “rischiavano“ così di diventare persone per bene. Un messaggio di questo tipo per Cosa nostra è devastante. E la storia della lotta alla mafia è piena di questi esempi». di Simone Re TIO.CH 18.9.2023

 

MATTEO MESSINA DENARO, fine di una latitanza trentennale

 

 

MAURIZIO DE LUCIA – Procuratore della Repubblica di Palermo