9.10.2023 Umberto Lucentini
Ma nell’audizione ho sentito parlare – tra l’altro- del delitto del capitano Basile e del tentativo di orientare la sentenza del processo nel ‘92, dei pentiti che il procuratore Borsellino stava ascoltando nei suoi ultimi giorni di vita e dell’agguato a Rino Germanà trasferito a Mazara del Vallo dopo un’inchiesta scomoda, del dossier mafia appalti del Ros e delle riunioni in procura a Palermo allora guidata da Giammanco e delle sue pressioni per chiudere le indagini su politici, del nido di vipere di cui parlò Borsellino e del ruolo di funzionari legati ai servizi di sicurezza, della mancata bonifica di via D’Amelio nei giorni dopo la strage di Capaci e dell’altissimo rispetto delle istituzioni che Borsellino aveva e ha trasmesso alla sua famiglia, del comunicato di Caponnetto che subito svelò che dopo via D’Amelio non si trovava l’agenda rossa…
Umilmente, non credo che il procuratore Borsellino meriti ancora, dopo tanti anni, che si insulti chi racconta tutti questi fatti invocando un depistaggio…”
Fonte: FB
La “palermitudine” di Paolo Borsellino. LA VERITA’ NEGATA
Paolo Borsellino 1992… La verità negata: Il 19 luglio 1992 Paolo Borsellino viene ucciso dalla mafia in via D’Amelio, mentre si reca a trovare la madre. La cronologia dei drammatici ultimi giorni che portano Paolo Borsellino dritto verso il sacrificio della propria vita.
Il ricordo dei figli, sempre accanto al padre, magistrato in lotta contro le trame oscure della mafia e dei suoi complici; la loro enorme delusione e amarezza per le tante lacune, le troppe omissioni e manipolazioni, che hanno caratterizzato le inchieste sulla strage di via D’Amelio.
I processi clamorosamente smentiti dopo 26 anni da una sentenza che ha certificato il depistaggio, definito uno dei più gravi della storia giudiziaria del nostro Paese, che ha tanti protagonisti e comparse: un danno, per la collettività tutta, che a causa del troppo tempo trascorso ha reso difficilissima, se non addirittura impossibile, la ricostruzione della verità processuale. La verità negata…
Questo libro, che racconta la storia di Paolo Borsellino e del suo mondo, non è una semplice riedizione in occasione dei trent’anni dell’attentato costato la vita anche ai poliziotti della scorta, Agostino Catalano, Vincenzo Limuli, Claudio Traina, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina. Queste pagine rilette oggi sono anche un atto d’accusa nei confronti di chi non ha onorato l’esempio di Paolo Borsellino.
Paolo Borsellino, la verità negata – RAI NEWS
Palermo non gli piaceva, e anche per questo imparò ad amarla. Perché Paolo Borsellino apparteneva a quella umanità che dimostra i sentimenti nella concretezza dei gesti, senza tanti annunci programmatici o di interesse: “Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”.
E Borsellino ci ha provato con tutti i suoi mezzi, fino al 19 luglio del 1992, a cambiare Palermo e a sconfiggere la mafia, senza perdere il sorriso né la gentilezza. Da Monreale a Palermo, da Marsala all’Asinara. Da giudice istruttore a procuratore della Repubblica, ma anche da padre, marito, amico: sempre a disposizione di un prossimo che aveva necessità di essere ascoltato e senza far sentire il suo grado di magistrato.
A quasi trent’anni dalla strage di via D’Amelio, Umberto Lucentini, giornalista e autore della biografia Paolo Borsellino (San Paolo Edizioni, 2022), tratteggia nuovamente il suo ritratto e contribuisce a custodirne l’integrità della sua figura negli anni.
Qual è stato il suo primo incontro con Paolo Borsellino?
L’ho conosciuto subito dopo il suo arrivo a Marsala. Lavoravo al Giornale di Sicilia e collaboravo con il settimanale Europeo, occupandomi già di cronaca giudiziaria. Dovevo scrivere per il settimanale un articolo su una procura di periferia, quale Marsala, e di un magistrato che aveva appena terminato l’istruttoria del maxi processo. Mi incuriosiva capire cosa avrebbe fatto un magistrato di quel calibro in un contesto periferico.
Il periodo di Marsala delinea una delle caratteristiche principali di Borsellino: la capacità di anticipare i tempi, intuire quanto la mafia di provincia incidesse su quella palermitana.
Borsellino quel giorno mi spiegò che indagando sul maxi processo, quindi sulle cosche di Cosa nostra, sull’ascesa dei corleonesi di Totò Riina e Bernando Provenzano, aveva scoperto che questi capomafia avevano un legame fortissimo con la provincia di Trapani e più in generale con le zone di Mazara del Vallo e Castelvetrano, che ricadevano sotto la competenza territoriale della procura di Marsala. Borsellino è stato il primo a capire che i legami di Cosa nostra palermitana con quella provincia erano fortissimi. Si è scoperto solo dopo il 1992 e le stragi che Totò Riina era solito passare parte della sua latitanza a Mazara del Vallo. Inoltre Borsellino, con l’aiuto degli investigatori, ha capito il ruolo della famiglia Messina Denaro, da cui proviene Matteo, il più pericoloso latitante italiano ricercato dal 1993.
La nomina di procuratore a Marsala fu anche oggetto di critiche da parte di Leonardo Sciascia nell’ articolo I professionisti dell’antimafia. Quali furono le reazioni di Borsellino?
Sciascia scrisse un articolo per Il Corriere della sera in cui di fatto Borsellino veniva dipinto come un professionista dell’antimafia, perché il Consiglio Superiore della Magistratura in quella occasione aveva preferito destinare all’incarico di procuratore di Marsala un magistrato che aveva un’anzianità inferiore rispetto all’altro concorrente, e di fatto compiendo una scelta di campo, preferendo chi aveva una professionalità in temi di lotta contro Cosa nostra, rispetto a un altro magistrato. Essere additato come professionista dell’antimafia è stato davvero troppo. Borsellino ha capito subito che probabilmente Sciascia era stato indotto in errore nello scrivere quell’articolo e nell’esprimere quelle valutazioni su di lui, tant’è che anni dopo in un successivo incontro con Sciascia, proprio a Marsala, i due ebbero un incontro di “pacificazione”. L’articolo di Sciascia è stato importante e al tempo stesso nefasto perché ha dato fiato alla parte di società che osteggiava il lavoro dei magistrati antimafia in Sicilia. La polemica fu un tentativo, utilizzato da molti, per indebolirli.
L’organizzazione del pool è l’intuizione decisiva per la lotta contro la mafia. Quanto è stata determinante la complicità tra i quattro giudici, con il nuovo metodo investigativo?
Il pool è una vera “rivoluzione culturale” ancora oggi, vista a tanti anni di distanza. Il metodo investigativo, inventato da Rocco Chinnici e proseguito con Antonino Caponnetto, mette a disposizione di tutti i magistrati le informazioni. Certamente la complicità è stata fondamentale: Falcone e Borsellino si conoscevano fin da bambini, frequentavano la stessa parrocchia ed essersi ritrovati da adulti, da magistrati a Palermo, con le stesse fondamenta e principi, ha rappresentato l’arma vincente. Scherzavano e parlavano lo stesso linguaggio, ed essendo cresciuti in un quartiere popolare, conoscevano sia “gli sbirri” che il modo di pensare dei mafiosi. Avevano la stessa “palermitudine”, Falcone e Borsellino: sapevano cogliere i segnali, decifrare gli sguardi di chi era stato mafioso e che si fidava di loro come magistrati, decidendo di diventare collaboratore di giustizia. La loro complicità e la loro origine comune sono state messe al servizio del pool antimafia.
E il linguaggio di Borsellino è stata la sua arma vincente?
Borsellino ha sempre avuto la capacità di mettersi alla pari con gli altri. Questo era il suo segreto. Durante il nostro primo incontro, da giornalista di 24 anni, alle primissime armi, quel giorno mi sono sentito… Enzo Biagi: quel pomeriggio mi ha dedicato almeno un’ora del suo tempo, raccontandomi dal maxi processo all’ incarico a Marsala, dandomi attenzione, facendomi sentire come un giornalista importante, anche se ovviamente non lo ero.
Falcone e Borsellino. Due mondi distanti per politica, idea di famiglia, carattere e senso dell’umorismo. È stata una totale complementarietà?
Il carattere dei due era molto diverso. Falcone appariva molto più chiuso eppure, come racconta Manfredi, Borsellino del periodo trascorso all’Asinara, rideva e scherzava e si divertiva a pescare, sembrava un altro uomo in quei giorni: non aveva il condizionamento di essere sempre all’erta, di temere che ogni cosa che avrebbe detto o fatto poteva essere interpretata a suo sfavore e finire nel tritacarne mediatico. Poi il fatto che Falcone non avesse figli e Borsellino sì, era una differenza enorme, ma per la paura di dover svolgere il proprio lavoro quotidianamente e pensare a un’eventuale ritorsione sulla famiglia. Che poi avessero avuto da giovani idee politiche distanti, non penso che sia mai stato motivo di ostacoli nelle loro relazioni.
Nel suo libro biografico, sottolinea una sequenza di numeri ricorrenti nella vita del giudice: la morte a 52 anni, come il padre e lo zio, le stanze in successione di Borsellino e Falcone, 63 e 64. C’è quasi una cabala che giustifica il fatalismo di Borsellino, questo come si concilia con il suo cattolicesimo?
I figli di Borsellino – Lucia, Manfredi e Fiammetta – e la moglie, Agnese, con i quali di fatto ho scritto questo libro, raccontano che Borsellino scherzava spesso con il tema della morte, per esorcizzarla. Fiammettaprima dell’estate del ’92 gli comunica che vuole andare in Africa con alcuni suoi amici, e il padre le risponde: “Se tu sei in Africa in un villaggio sperduto, come faccio a telefonarti per dirti che mi hanno ammazzato?”. Questa è una frase drammatica detta alla figlia con il sorriso sulle labbra, ma che rende evidente quale fosse l’atteggiamento di Borsellino nei confronti del fatalismo, che non è mai stata rassegnazione. Negli ultimi giorni della sua vita ripeteva: “Devo fare in fretta”, ma non solo per convinzione della morte ormai prossima, ma perché voleva ottenere risultati investigativi nel più breve tempo possibile.
La biografia, in origine, doveva essere un po’ diversa: un libro scritto a quattro mani con Borsellino.
Nel periodo da procuratore a Marsala, Borsellino stava cominciando un’inchiesta importantissima che partiva da Partanna, grazie alla testimonianza di Piera Aiello e Rita Atria (testimoni di giustizia raccontate in un altro libro di Umberto Lucentini, Maledetta Mafia, ndr). in quanto appartenenti, loro malgrado, ad una famiglia mafiosa. Borsellino ha potuto fare luce su un territorio fino ad allora blindato, dove i segreti di mafia non trapelavano. Gli proposi di scrivere un libro sulle donne e la mafia, un tema che allora, nel ’91, non era così frequente, ma un fenomeno che stava rivelando tutta la sua importanza. Borsellino era d’accordo, però suggerì di ampliare il libro con la sua vita da giudice, successi e delusioni, gli amici che lo avevano tradito e i nuovi che aveva incontrato a Marsala. Il progetto era iniziato così, poi Borsellino fu trasferito a Palermo e non abbiamo fatto in tempo a finire il libro. Dopo il 19 luglio, è stata la famiglia Borsellino a dirmi: “Questo progetto deve andare avanti. Paolo Borsellino deve continuare a vivere anche grazie alle parole di un libro”. E abbiamo cominciato questa bellissima avventura. TORTUGA
UMBERTO LUCENTINI – giornalista- scrittore ricorda l’amico Paolo Borsellino
“A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato”: servitore dello Stato fino in fondo, Paolo Borsellino, magistrato nato e morto a Palermo, ha portato all’estremo la sua scelta professionale e di vita. Ucciso insieme agli uomini della scorta, il 19 luglio del 1992, nella strage di via D’Amelio, Paolo Borsellino è stato inserito dalla speciale commissione della Santa Sede nell’elenco dei martiri della giustizia del XX secolo. E da martire, Borsellino, ha vissuto gli ultimi giorni della sua vita: dopo un’altra strage, quella del collega e amico Giovanni Falcone (era il 23 maggio del ’92, con il giudice c’erano la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta). Borsellino era diventato il “nemico numero uno della mafia”. Ma, a esser più precisi, nel mirino dello cosche Borsellino è da anni, almeno dall’80, quando inizia ad indagare con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile sul clan dei “corleonesi” di Totò Riina e Bernardo Provenzano, allora sconosciuti “picciotti” destinati a diventare i sanguinari capi della mafia siciliana. Da quel momento, la “missione” antimafia di Borsellino diventa una strada senza ritorno. Nato a Palermo il 19 gennaio del 1940, in un quartiere borghese e popolare insieme, quello della Magione, Borsellino respira un’aria di rigore morale senza però chiudere gli occhi davanti al piccolo mondo della delinquenza che lo circonda. Figlio di farmacisti, quindi appartenente ad una delle famiglie più in vista del quartiere, Borsellino resta molto affezionato alla Magione, dove da bambino frequenta l’oratorio di San Francesco e gioca con un altro bimbo della zona, Giovanni Falcone. Cresciuto in una famiglia che aderisce al fascismo, il piccolo Paolo durante i bombardamenti degli americani si trasferisce ad Alcamo con la famiglia. E al momento dello sbarco degli alleati riceve un ordine dalla madre: “Non accettare nulla dagli americani”. Queste vicende e i racconti di “Zio Ciccio”, reduce della Campagna d’Africa, gli suscitano curiosità sulle vicende del periodo fascista: una delle prime “bravate” di Paolo è una tappa a Belmonte Mezzagno, un paesino che dista mezzora di autobus da Palermo, dove va a prendere informazioni sui suoi nonni. Dopo avere frequentato il Liceo classico “Meli” si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. All’Università, nel 1959 Borsellino aderisce all’organizzazione Fuan Fanalino, un gruppo studentesco legato alla destra. Membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino: l’attività politica lo coinvolge, ma riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi . Il 27 giugno 1962, all’età di 22 anni, Borsellino si laurea con 110 e lode. Pochi giorni dopo, subisce la perdita del padre: ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Borsellino studia per superare il concorso in magistratura. Ci riesce nel 1963. Per non perdere la licenza della farmacia impegna il primo stipendio di giudice per riscattarla: la sorella Rita, più piccola di lui, ne diventerà la titolare dopo la laurea. Nel 1965 Borsellino inizia la sua carriera di magistrato: è destinato al tribunale civile di Enna, come uditore giudiziario. Nel 1967 il primo incarico operativo: pretore a Mazara del Vallo, nel periodo del dopo terremoto. Intanto, il 23 dicembre del 1968, Borsellino si sposa con Agnese Piraino Leto, una giovane palermitana che gli darà tre figli. Il giudice continua a lavorare a Mazara facendo la spola ogni giorno da Palermo. Nel 1969 il trasferimento alla pretura di Monreale, praticamente il ritorno a casa. È lì che Borsellino comincerà a conoscere da vicino la mafia, quella “selvaggia e spietata” dei “corleonesi”, e lavora fianco a fianco con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. I due costituiscono un tandem investigativo affiatato, che continuerà a lavorare anche dopo il 1975, quando Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il capitano Basile lavora alle indagini antimafia, scopre verità fino ad allora solo immaginate, ordina arresti sulla base delle indagini del capitano Basile. È l’80 quando il capitano viene ucciso in un agguato. E per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta. Da quel momento il clima in casa Borsellino cambia. Il giudice comincia a vivere sotto protezione, le sue abitudini di vita cambiano, anche se si sforzerà di non farlo pesare ai tre figli che intanto crescono. Il suo modo di fare, la sua decisione, influenzano il “sentire” dei suoi familiari. La moglie ricorderà così quegli anni: “Il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido, perché anch’io credo nei valori che lo ispirano… Non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile, di ostacolarlo… Non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice: Paolo ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia”. La scorta costringe il giudice e la sua famiglia a convivere con un nuovo sentimento: la paura. Borsellino ne parla e la affronta così: “La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”. Nell’ufficio istruzione nasce il “pool antimafia” di Falcone, Borsellino e Barrile, sotto la guida di Rocco Chinnici. Borsellino comincia a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle feste giovanili di piazza, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa. Parallelamente continua il lavoro nel pool. Questa squadra funziona bene, ma si comprende che per sconfiggere la mafia il pool, da solo, non è sufficiente. Si chiede la promozione di pool di giudici inquirenti, coordinati tra loro ed in continuo contatto, il potenziamento della polizia giudiziaria, l’istituzione di nuove regole per la scelta dei giudici popolari e di controlli bancari per rintracciare i capitali mafiosi. I magistrati del pool pretendono l’intervento dello Stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta. E infatti la mafia reagisce: il 4 agosto 1983 viene ucciso il giudice Rocco Chinnici con un’autobomba. Borsellino è intimamente distrutto, dopo Basile anche Chinnici viene strappato alla vita. Il “capo” del pool, il punto di riferimento, viene a mancare. Borsellino con molta preoccupazione commenta: “La mafia ha capito tutto: è Chinnici la testa che dirige il Pool”. A sostituire Chinnici arriva a Palermo da Firenze il giudice Antonino Caponnetto e il pool, sempre più affiatato, continua nell’incessante lavoro raggiungendo i primi risultati: “Sentiamo la gente fare il tifo per noi”. Nel 1984 viene arrestato il potente ex sindaco democristiano Vito Ciancimino, si pente il boss Tommaso Buscetta, e Borsellino sottolinea in ogni momento il ruolo fondamentale dei “pentiti” nelle indagini e nella preparazione dei processi. Comincia la preparazione del maxiprocesso, e i protagonisti delle indagini continuano a cadere sotto il piombo mafioso. Falcone e Borsellino vengono immediatamente trasferiti sull’isola dell’Asinara per concludere l’istruttoria del maxi-processo e predisporre gli atti senza correre ulteriori rischi. Falcone è con la moglie, Borsellino porta con sé la famiglia. Lucia, la figlia più grande, si ammala di anoressia psicogena, Tornato a Palermo, il giudice dovrà affrontare anche questa battaglia. La figlia guarisce, il maxi-processo decolla, e Borsellino chiede il trasferimento alla Procura di Marsala per ricoprire l’incarico di Procuratore Capo. Borsellino scopre i legami tra i clan della provincia e quelli palermitani, raccoglie le confidenze dei primi collaboratori di giustizia. E quando, nel 1987, Caponnetto è costretto a lasciare la guida del pool di Palermo, Borsellino si schiera a favore di Falcone: criticherà il successore di Caponnetto per aver “smembrato” il pool, finisce sotto processo al Consiglio superiore della magistratura. Riabilitato, torna a lavorare e continua ad assestare nuovi colpi alle cosche. Finché, con l’istituzione della Procura nazionale antimafia e delle Direzioni distrettuali antimafia, rientra a Palermo come procuratore aggiunto, dove si occuperà delle indagini sulla mafia di Agrigento e Trapani. Nuovi pentiti, nuove rivelazioni confermano il legame tra la mafia e la politica, riprendono gli attacchi al magistrato e lo sconforto ogni tanto si manifesta. In una dichiarazione si può riassumere lo stato d’animo di Borsellino in quel momento: “Un pentito è credibile solo se si trovano i riscontri alle sue dichiarazioni. Se non ci sono gli elementi di prova, la sua confessione non vale nulla. È la legge che lo dice… e io sono un giudice che questa legge deve applicarla. I rapporti tra mafia e politica? Sono convinto che ci siano. E ne sono convinto non per gli esempi processuali, che sono pochissimi, ma per un assunto logico: è l’essenza stessa della mafia che costringe l’organizzazione a cercare il contatto con il mondo politico. È maturata nello Stato e nei politici la volontà di recidere questi legami con la mafia? A questa volontà del mondo politico non ho mai creduto”. Si apre la corsa alla Superprocura, e nel maggio del ’92 sembra che Falcone abbia raggiunto i numeri necessari per essere nominato. Ma il 23 maggio, Falcone, che nel frattempo era stato nominato direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, torna a Palermo e viene ucciso nella strage di Capaci. Per Borsellino è un colpo durissimo. Gli viene offerto di prendere il posto di Falcone nella candidatura alla superprocura, ma Borsellino rifiuta, sebbene sia consapevole che quella sia l’unica maniera che ha per condurre in prima persona le indagini sulla strage di Capaci. Ad un mese dalla morte dell’amico Falcone, tra le fiaccole e con molta emozione parla di lui, cerca di raccontarlo: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione… per amore. La sua vita è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo, continuando la loro opera, dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”. Borsellino vuole collaborare alle indagini sull’attentato di Capaci di competenza della procura di Caltanissetta. Le indagini proseguono, i pentiti aumentano e il giudice cerca di sentirne il più possibile. Arriva la volta di Messina e Mutolo, ormai Cosa Nostra comincia ad avere sembianze conosciute. Spesso i pentiti hanno chiesto di parlare con Falcone o con Borsellino perché sapevano di potersi fidare, perché ne conoscevano le qualità morali e l’intuito investigativo. Continua a lottare per poter avere la delega per ascoltare il pentito Mutolo. Ma il 19 luglio 1992 va in via D’Amelio, a prendere la madre per accompagnarla dal medico. Un’autobomba, posteggiata tra tante altre auto, senza che nessuna autorità si preoccupasse di istituire una zona rimozione, esplode. Il giudice muore con i suoi cinque agenti di scorta. Amava ripetere, lui religiosissimo, scherzandoci su per esorcizzare la morte: “Non sono né un eroe né un kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento. Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno”.