Via D’Amelio, la strage dei misteri: 30 anni di complicità, bugie e depistaggi per nascondere la verità

 


Mentre a Caltanissetta si decide sull’archiviazione delle accuse senza riscontri del pentito Avola, a Roma il legale della famiglia di Paolo Borsellino lancia bordate in antimafia: «Il giudice stava scoprendo cose inimmaginabili». Al centro il dossier “mafia-appalti”

Omissioni e silenzi

Se una certezza vi è oggi sulla strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, è che probabilmente la verità su movente e mandanti è ancora ben lungi dall’essere stata scritta. La strage del 19 luglio 1992, infatti, sembra avvinta da una cappa di bugie, depistaggi, omissioni e colpevoli silenzi.

Molto più di quanto non sia avvenuto per il tritolo piazzato in prossimità dello svincolo di Capaci, in cui perse la vita il magistrato Giovanni Falcone. Perché è proprio quel lasso di tempo – dal 23 maggio al 19 luglio 1992 – che racchiude qualcosa a cui forse non si riuscirà mai davvero ad arrivare.  Incontri, indagini più o meno ufficiali, versioni vere e false.

Un groviglio da cui appare quasi impossibile uscire. Oggi più di ieri. La sensazione è divenuta sempre più evidente a seguito di due eventi che si sono succeduti a breve distanza tra loro: il primo è l’audizione del legale della famiglia Borsellino, l’avvocato Fabio Trizzino, in commissione parlamentare antimafia. Il secondo è l’udienza relativa alla richiesta di archiviazione delle accuse mosse dal pentito Maurizio Avola, proprio con riferimento alla strage di Capaci. Partiamo proprio da qui.

Avola, quelle parole mai riscontrate su via D’Amelio

Nel 2021, l’ex collaboratore di giustizia inizia a parlare della sua presenza in via D’Amelio il giorno della strage, benché nulla abbia mai detto negli anni precedenti: «Sono l’ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino, prima di dare il segnale per fare quella maledetta esplosione. Mi accendo la sigaretta, lo guardo, mi soffermo, mi rigiro e faccio il segnale».

Il suo racconto, però, non trova gli adeguati riscontri e, dopo la pubblicazione di un libro con quella versione, la Procura di Caltanissetta interviene duramente: «I conseguenti accertamenti non hanno trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità. Sono per contro emersi rilevanti elementi di segno opposto, che inducono a dubitare fortemente tanto della spontaneità quanto della veridicità del suo racconto. L’accertata presenza di Avola a Catania, addirittura con un braccio ingessato, nella mattina precedente il giorno della strage, là dove, secondo il racconto dell’ex collaboratore, egli, giunto a Palermo nel pomeriggio di venerdì 17 luglio, avrebbe dovuto trovarsi all’interno di un’abitazione sita nei pressi del garage di via Villasevaglios, pronto su ordine di Giuseppe Graviano a imbottire di esplosivo la Fiat 126».
L’ex pentito tiene a sottolineare come per quella strage si trattò solo di una «cosa di mafia», preoccupandosi di sottolineare come i servizi segreti non c’entrassero nulla. Avola si autoaccusa dei fatti di Via D’Amelio, puntando l’indice anche contro Aldo Ercolano e Marcello D’Agata. È proprio per tutti gli indagati che la Procura nissena ha chiesto l’archiviazione.

Gli approfondimenti richiesti dalla difesa

Sebbene non vi sia stata alcuna precisa opposizione a tale richiesta datata al 10 novembre 2022, la difesa di Avola, rappresentata dall’avvocato Ugo Colonna, ha chiesto approfondimenti investigativi. Nello specifico, è stato richiesto di nominare un collegio peritale che si occupi di confrontare il plastico T4 prelevato sui luoghi delle stragi avvenute tra il 1992 e il 1993, nonché dell’attentato alla villa di Pippo Baudo. L’obiettivo è verificare se si tratti dello stesso esplosivo trasportato da Avola, insieme a D’Agata, a Termini Imerese. Una seconda richiesta del legale è stata quella di disporre una perizia sul braccio di Avola per comprendere se la frattura presente nel periodo della strage di via D’Amelio fosse compatibile con una sua eventuale partecipazione. Da ultimo, Avola ha chiesto un confronto con Aldo Ercolano. Per la Dda di Caltanissetta, invece, non vi sono novità che possano portare qualcosa di concreto alle indagini.
Per tale ragione i magistrati hanno insistito sulla richiesta di archiviazione, sulla quale il gip si è riservato.

Avola e quei mancati riscontri sull’omicidio Scopelliti

L’ex pentito Avola, tuttavia, non è nuovo a racconti e narrazioni che non trovano riscontro oggettivo. È accaduto così anche per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. In questo caso, due anni fa circa, il killer siciliano ha riferito di essere stato presente all’uccisione del magistrato, coinvolgendo in tale racconto anche il boss da poco deceduto, Matteo Messina Denaro. La base logistica sarebbe stata Messina. Il fucile viene indicato e fatto ritrovare. Poi l’ex pentito scandisce i momenti del delitto: «Nello specchietto il dottore Scopelliti incrocia il mio sguardo. È un attimo: Enzo Santapaola punta il fucile e spara due volte, poi scarrella e spara ancora. Vedo la testa che si abbatte sul volante; l’auto ha una improvvisa accelerazione e finisce fuori strada».  Poi il rientro in Sicilia.
Un racconto, questo, che taglierebbe fuori completamente i calabresi da quel delitto efferato. Ma è davvero così? Pare proprio di no. I magistrati reggini, infatti, recuperano quella che Avola indica come arma del delitto. La perizia, però, fa emergere come non sia possibile, considerato lo stato di usura, alcun tipo di verifica. Ma non viene rilevata neppure una traccia biologica che permetta di estrapolare profili di dna utili alle indagini. Quel che più lascia perplessi è che le cartucce ritrovate, confrontate con quelle rinvenute sul cadavere del giudice, risultano «completamente difformi». Insomma, anche in terra calabrese, come per la strage di via D’Amelio, le dichiarazioni di Avola non ottengono i riscontri necessari.

L’audizione di Trizzino in commissione antimafia

Proprio mentre al tribunale di Caltanissetta si scrive un’altra pagina giudiziaria che rischia di essere un ennesimo nulla di fatto nella ricerca della verità sulla strage che costò la vita al giudice Paolo Borsellino, a palazzo San Macuto, sede della commissione parlamentare antimafia, l’audizione dell’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, getta nuove inquietanti ombre su ciò che avvenne a Palermo tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992.
Il legale, che è anche marito di Lucia Borsellino, ha rivelato infatti che, dopo la strage di Capaci, Borsellino disse che stava «scoprendo cose tremende, inimmaginabili». Più nello specifico, Trizzino fa riferimento alle parole utilizzate da Maria Falcone, sorella di Giovanni, nella sua audizione al Csm il 30 luglio 1992: «Maria Falcone riferisce che in occasione del trigesimo della morte del fratello, il 23 giugno, “Paolo, di fronte alla mia necessità e di Alfredo Morvillo (fratello di Francesca, ndr) di dichiarare davanti al mondo le ragioni che avevano costretto mio fratello Giovanni ad abbandonare Palermo – è la ricostruzione di Trizzino -, disse di stare calmi perché stava scoprendo delle cose tremende, inimmaginabili”».
Trizzino racconta ai commissari dell’incontro segreto tra Paolo Borsellino e gli ufficiali del Ros, Mario Mori e Giuseppe De Donno: «Li incontrò fuori dalla Procura perché aveva scoperto delle cose tremende sul conto del suo capo, il procuratore Pietro Giammanco». Secondo Trizzino, questo quadro andrebbe a corroborare l’idea che aveva Borsellino e cioè che «il suo capo era un infedele», in virtù di «contrasti e circostanze gravi».
La convinzione espressa da Trizzino è che Borsellino avrebbe voluto «arrestare» o «far arrestare» Giammanco. Secondo il legale della famiglia Borsellino, alla base dell’incontro che il giudice volle con gli esponenti del Ros vi sarebbe stato il dossier “Mafia e appalti” redatto proprio dai militari dell’Arma: «L’incontro avvenne alla caserma Carini. Fu un incontro rapido e lui andò dritto al punto: voleva approfondire l’inchiesta su appalti e mafia aggiungendo “voi dovete riferire solo a me”».
Il legale spiega: «Di questo incontro erano quindi a conoscenza Mori, De Donno, il maresciallo Carmelo Canale (colui che si attivò per organizzarlo, ndr) e l’allora magistrato dell’epoca Roberto Scarpinato». Proprio questi era presente in audizione, quale parlamentare del M5S. Da qui anche una polemica politica per le domande che Scarpinato ha posto e che sono state giudicate quasi come l’esame di un teste in aula, provocando la reazione del presidente Colosimo ma anche la pronta replica del M5S.
Trizzino, intanto, fa un preciso atto d’accusa: «Anche la magistratura deve essere pronta a guardare dentro di sé e a quello che ha combinato in quel frangente della storia repubblicana.
Tutti dicono che Borsellino, dopo la morte di Falcone, sarebbe andato a fare il procuratore nazionale antimafia ma nessuno sa che il plenum del Csm tra il 15 e il 20 giugno del 1992 bloccò qualunque richiesta di riaprire i termini del concorso, disse che Borsellino non aveva titoli e che non avrebbe sopportato l’ingerenza del potere esecutivo rispetto ad un concorso che era già sotto delibazione o quasi definito. Non ho visto in questi anni la magistratura ragionare su come abbia in qualche modo abbia cannibalizzato i suoi figli migliori, non ho mai sentito un ‘mea culpa, “abbiamo sbagliato”, ‘cosa abbiamo combinato? ’ o “non abbiamo capito niente”».

Quale verità per via D’Amelio?

Quanto sta avvenendo, dunque, non fa altro che gettare ulteriori ombre su ciò che sia effettivamente accaduto in quelle settimane che separarono le stragi di Capaci e via D’Amelio.

Chi volle davvero la morte di Paolo Borsellino e per quale ragione?

Senza voler indicare alcuno, c’è da ricordare come lo stesso giudice si rivolse alla moglie, Agnese Piraino, un giorno prima di morire ammazzato: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo».

 Nemmeno ventiquattr’ore dopo, il tritolo distrusse tutto ciò che si trovava nei pressi dell’abitazione della madre del giudice, in via D’Amelio. Fu una strage terribile. Ma, al di là della morte, portò con sé anche una quantità indicibile di misteri irrisolti: dall’agenda rossa sparita per sempre ai personaggi presenti quel pomeriggio di domenica a Palermo. Fino a mandanti mafiosi e menti raffinatissime insospettabili che hanno ordito una trama che neppure il tempo è riuscito a definire con un minimo grado di accettabile verità.  LACNEWS 24 10.10.2023