𝗡𝗶𝗰𝗼𝗹𝗮 𝗚𝗿𝗮𝘁𝘁𝗲𝗿𝗶: “𝗛𝗼 𝗳𝗮𝘁𝘁𝗼 𝗮𝗿𝗿𝗲𝘀𝘁𝗮𝗿𝗲 𝗮𝗻𝗰𝗵𝗲 𝗮𝗺𝗶𝗰𝗶 𝗱’𝗶𝗻𝗳𝗮𝗻𝘇𝗶𝗮…”

 

 
Domani a mezzogiorno Nicola Gratteri, 65 anni, presta giuramento al Tribunale di Napoli e si insedia a capo della Procura più grande d’Italia, con nove aggiunti e 102 sostituti.
 
Quando ha visto il primo morto ammazzato?
«Facevo le medie a Locri, spesso da Gerace ci andavamo in autostop. Durante uno di quei viaggi vidi dei morti a terra. Poi li ho visti anche vicino a scuola».
Ha fatto arrestare suoi compagni di classe?
«Sì, molti studenti erano figli di capimafia. Feci arrestare anche il mio compagno di giochi in campagna, quando andavo dagli zii, perché aveva un arsenale di armi».
Qualcuno le è rimasto impresso?
«Con un amico giocavamo sempre a pallone davanti a casa mia, in uno spiazzo di terra battuta, con vetri, chiodi. Quando tornavamo a casa dovevamo stare attenti a non zoppicare sennò erano botte, perché il gioco era tempo perso, bisognava solo studiare e se avanzava tempo andare nei campi ad accudire gli animali, mucche, capre, pecore, galline, conigli, tacchini, tutto quello che c’è in una piccola fattoria».
Cosa successe?
«Lui era emigrato a Torino con la famiglia. Molti anni dopo lo ritrovai su un veliero davanti alle coste di Miami con un carico di 800 chili di cocaina. In carcere mi impressionò la faccia, era bianco come la carta: le prigioni americane non sono come le italiane. “Mi sono rovinato la vita”, disse. Risposi che poteva ripartire da zero, bastava che collaborasse. Non collaborò».
Fece arrestare anche il presidente della Corte d’Assise di Catanzaro, Marco Petrini.
«No, non sono stato io. Quando l’indagato è un magistrato della stessa Corte di Appello, la Procura manda gli atti alla Procura presso la Corte di Appello più vicina. In quel caso era Salerno. A seguito delle nostre intercettazioni, furono loro a completare le indagini e a emettere l’ordinanza di custodia cautelare».
Le dispiacque?
«Il dispiacere c’è per tutti. Ma noi siamo pagati per applicare la legge».
Com’erano i suoi genitori?
«Semianalfabeti. Mia madre aveva conseguito la terza elementare, mio padre la quinta. Lei casalinga, lui camionista: aveva un piccolo Tigrotto con mio zio Nicola e mio nonno. Non ci sono più da una decina d’anni. Ho fatto in tempo a farli preoccupare per me, ma erano orgogliosi. Di tutti e 5 i figli: una ha insegnato all’università all’estero, un altro è professore ordinario di medicina legale, poi ci sono io, uno è odontotecnico, la piccola è insegnante».
Cosa vuol dire vivere sotto scorta? Ormai sono quasi 35 anni, dall’aprile del 1989.
«È pesante. Ci sono giorni in cui si soffre di più, viene la sindrome da soffocamento a non poter fare una passeggiata da soli, non poter andare in bicicletta, non uscire in moto. Penso di non fare un bagno al mare da 25 anni».
Quante persone la proteggono?
«Otto-dieci fisse: di più non è possibile. A questi si aggiungono quelli che quando mi sposto fanno i controlli, le bonifiche, portano i cani per sentire l’esplosivo. È abbastanza asfissiante. Mi costa tantissimo sul piano psicologico, bisogna avere nervi d’acciaio».
È mai andato dallo psicanalista?
«Ci vado ogni domenica: il mio psicanalista è l’orto, lavorare la terra, piantare zucchine e cetrioli, in questo periodo cavoli, broccoli, bietole, raccogliere le olive. Domenica scorsa sono stato 12 ore sul trattore per trinciare l’erba».
E sempre qualcuno a guardarla.
«Uno? Tutti! Sono circondato».
Che rapporto ha con la scorta?
«Sono come fratelli, figli. L’addestramento in Sardegna, ad Abbasanta, è durissimo: gli istruttori consigliano di non fare il servizio per più di quattro anni perché è molto logorante. Io ho ragazzi che stanno con me da 14 anni».
Dove trova la forza di fare questa vita?
«Nella convinzione che quello che faccio serve, è utile alla collettività. La libertà non è andare in bici o farsi un bagno al mare. La libertà è stare anche per un anno sotto una pietra, fermo, immobile, ma poi poter dire quello che si pensa e guardare tutti negli occhi».
Quand’è l’ultima volta che ha pianto?
«Io non piango, cerco di controllare le emozioni, mi fermo un attimo prima. Devo essere sempre lucido, non posso permettermi il lusso di lasciarmi andare. Anche per la responsabilità verso chi lavora con me. Il mio telefono è acceso 24 ore su 24».
Paura per sua moglie e i suoi figli?
«Certo, paura per tutti. Pure loro hanno la scorta. Hanno cercato di sequestrare uno dei miei figli, avevano programmato di simulare un incidente stradale per ammazzare l’altro».
Sono arrabbiati con lei? Non le hanno mai chiesto: perché non hai scelto un altro lavoro?
«All’inizio sì, ora cominciano a metabolizzare e capire che ho fatto cose importanti. Assieme ai miei colleghi abbiamo reso la Calabria, la nostra terra, più libera. Soprattutto abbiamo messo nella testa della gente il tarlo che si può cambiare. Infatti le denunce sono aumentate».
È andato alla loro laurea?
«Di uno sì, dell’altro no, non era possibile in quel momento. Per anni con mia moglie, quando i miei figli facevano le recite a scuola, noi le facevamo a casa. Lei mi raccontava per filo e per segno come erano vestiti, cosa avevano fatto, e quando tornavo e protestavano, “non sei venuto!”, io replicavo “ma sì che c’ero, ero in fondo e non mi hai visto!”».
Fanno i magistrati?
«No, sono tutti e due medici. Stanno facendo la specializzazione: uno in dermatologia e uno in chirurgia plastica ricostruttiva».
Di cosa è più orgoglioso?
«Sul piano morale, di aver ridato la speranza ai calabresi. Sul piano pratico, di aver costruito fisicamente la nuova Procura, la più bella d’Italia, in un convento del Quattrocento che stava cadendo a pezzi. Avevo iniziato a pensarlo il 16 maggio 2016, il giorno in cui mi sono insediato a Catanzaro. Sono andato a Roma a fare la questua e ho trovato i sette milioni e mezzo che servivano. È stata la prova che la Calabria non è la regione delle incompiute. E poi abbiamo costruito l’aula bunker più grande al mondo».
Domani comincia a Napoli. C’è chi già scommette su quanto durerà.
«Ma io ho un carattere molto forte. Per anni ho mangiato pane e veleno. Sono allenato al sacrificio, a qualsiasi tipo di stress».
Sua moglie non la seguirà: non aveva chiesto il trasferimento perché non credeva che avrebbe ottenuto l’incarico.
«È vero: a settembre non ha fatto la domanda di trasferimento perché, ha detto, “siccome ti bocciano sempre è meglio che rimango dove sto”. Insegna matematica a Locri».
Le è dispiaciuto di più non diventare ministro della Giustizia nel 2014 o procuratore nazionale antimafia nel 2022?
«Non sono attaccato alle poltrone. Per me è importante servire lo Stato. Non è retorica, ma mentre cammino nei corridoi della Procura se trovo luci accese in una stanza e non c’è nessuno io le spengo: e chi le ha lasciate accese sa che sono passato. Certo, bisognerebbe capire chi ha detto a Napolitano che non potevo fare il ministro: Renzi mi aveva dato carta bianca».
Se deve fare un regalo a sua moglie fa «bonificare» il negozio?
«Io non entro mai in un negozio. Anche per un caffè, entra prima uno dei miei, paga, e poi arriviamo noi e consumiamo. Altrimenti c’è sempre qualcuno che te lo vuole offrire».
Non ne ha mai accettato uno?
«Una volta con mia moglie, eravamo fidanzati, entrai al bar con la scorta e c’era il capomafia del paese con la sua scorta che voleva assolutamente offrirmi il caffè. E io: ma no lasci stare, che poi trovo delle cose su di voi e vi faccio arrestare. Lui insistette. Cinque mesi dopo nel carcere di Palmi il caffè gliel’ho offerto io».
È vero che ha rifiutato i biglietti per lo stadio che le aveva fatto recapitare De Laurentiis?
«Ho detto ai miei di ringraziare, ma non sono mai entrato in uno stadio, quindi ho chiesto di restituirli».
Avrebbe potuto regalarli.
«Chi deve andare alla partita paga il biglietto. Un magistrato guadagna bene».
Lei quanto guadagna?
«Io guadagno 7.400 euro».
E vale la pena fare questa vita per quei soldi?
«Quando ho iniziato guadagnavo un milione 350 mila lire al mese. Questo lavoro non si fa per i soldi. Se uno pensa di fare il magistrato e invidia chi ha la Ferrari doveva fare il concorso per notaio. Siamo privilegiati: guadagniamo tre volte lo stipendio di un impiegato».
Torniamo a Napoli. Quali sono le priorità?
«Intanto devo entrare in Procura e lo farò domani. Per prima cosa devo ascoltare tutti. Io faccio 4-5-10 riunioni in un giorno. Arrivo alle otto, esco alle 20, mangio sulla scrivania, non mi alzo finché non ho preso una decisione, mettendo a disposizione la mia esperienza».
Come ha preso la lettera della Camera Penale che le ha fatto «gli auguri più sinceri», ma avrebbe «preferito un profilo diverso, meno operativo militare»?
«Mi dispiace per loro che non hanno studiato le mie cose, la mia vita, non si sono informati da persone oneste su chi sono. Anche una corrente di magistrati ha sollevato obiezioni. Ma se a Catanzaro, dove sono da 7 anni, nessuno ha fatto domanda di trasferimento un motivo ci sarà. Eppure ci sono giovani da Lombardia, Emilia-Romagna, Umbria, Marche».
I detrattori dicono che tutta la Calabria ha 2 milioni di abitanti e Napoli da sola 3 milioni.
«E quindi?».
Sarà in grado di gestire numeri così diversi?
«I miei predecessori venivano tutti da Procure più piccole di quella di Catanzaro».
L’hanno già chiamata il sindaco Gaetano Manfredi e il governatore Vincenzo De Luca?
«No, e perché? Loro fanno il loro lavoro, io faccio il mio. Capiterà di incontrarci».
A Napoli un’emergenza è la criminalità giovanile. Immagino provi amarezza, visto il suo investimento sui giovani. Non a caso ci stiamo vedendo a Trento, dove era in programma un incontro con gli studenti universitari.
«Se hanno meno di 18 anni è competente la Procura dei minorenni. Con la quale vorrò confrontarmi, così come mi confronterò con le altre procure circondariali, per vedere se si possono applicare protocolli e buone prassi».
La preoccupano i rioni bunker?
«Non esiste un posto dove non si può entrare. Nei bunker sotterranei lunghi chilometri abbiamo catturato dieci latitanti, grazie alle tecnologie e a fantastici uomini ragno».
Scrive tutti i libri con Antonio Nicaso: il prossimo, «Il Grifone», uscirà il 7 novembre per Mondadori e sarà il numero 23.
«Ho conosciuto Nicaso quando stavo preparando il concorso in magistratura e davo ripetizioni agli studenti a Caulonia. Abbiamo gli stessi valori. È emigrato in Canada perché in Calabria non riusciva a diventare giornalista, c’era sempre qualcuno più bravo di lui. Fratelli di sangue ce lo volle pubblicare solo Pellegrini Editore, tutti i grandi lo avevano rifiutato. Vendemmo 50 mila copie. Dopo ci volevano tutti».
Oggi è più potente la mafia, la ’ndrangheta o la camorra?
«La ’ndrangheta: è la più ricca e riesce a importare l’80 per cento della cocaina che arriva in Europa. Cosa Nostra da almeno 25 anni compra la cocaina dalla ’ndrangheta».
Cosa pensa di film e fiction a tema?
«Posso dire che Il Padrino è un capolavoro di musiche e immagini, ma quella famiglia non è mai esistita. E invece nell’immaginario collettivo siamo cresciuti con l’idea delle mafie che hanno un’etica e dei valori. Chi si sente uomo di cultura, deve porsi la domanda: ma l’effetto di questi film qual è? Se davanti alle scuole vediamo i ragazzini muoversi come i killer del film che hanno visto la sera prima, abbiamo creato danni e nessuna coscienza».
Indagherebbe di nuovo Lorenzo Cesa, la cui posizione nell’inchiesta poi fu stralciata?
«C’erano delle intercettazioni, poi dalle indagini abbiamo appurato che non c’erano stati contatti. Io non ho la sfera di cristallo».
Non si è pentito nemmeno della prefazione al libro negazionista di Bacco e Giorgianni?
«Sì, ha ragione, quello è stato un mio errore. Sono stato superficiale a fidarmi a fare la prefazione su un abstract. Ho chiesto scusa».
Avesse una bacchetta magica e potesse svegliarsi senza scorta, cosa farebbe?
«Mi comprerei una motocicletta. Quando ero ragazzo amavo tutti i motori».
Elvira Serra sul Corriere del 19/10/2023