Testo del resoconto stenografico
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XIX Legislatura – Lavori – Resoconti delle Giunte e Commissioni
La seduta comincia alle 11.35. Seguito dell’audizione di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino, ai quali do il benvenuto, e che ringrazio ancora per la non scontata disponibilità.
Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme di audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell’audito o dei colleghi. In tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
Diversi colleghi si sono già iscritti a parlare già dalla volta precedente, quindi procedo ad annotare le nuove iscrizioni. Do la parola al senatore Rastrelli.
SERGIO RASTRELLI. Grazie presidente, mi consenta di associarmi anche personalmente ai ringraziamenti del presidente per la vostra rinnovata disponibilità con quel carico di sofferenza che certo comporta e mi lasci dire che la vostra audizione nobilita e dà un senso particolare al nostro mandato parlamentare. Noi siamo tra coloro che ritengono che il diritto alla verità, di cui avete parlato, non sia una ossessione della famiglia o dei familiari delle vittime, ma un diritto che appartiene all’intera comunità nazionale. La verità di cui parliamo, quella sulla morte del dottor Borsellino, purtroppo è stata ostacolata, e questo è di tutta evidenza, non soltanto da indagini o accertamenti non particolarmente approfonditi, ma anche da veri e propri depistaggi, nell’ambito dei quali naturalmente spicca quello che è stato definito il più grande depistaggio della storia nazionale. Quello su cui si innestano poi i processi di Caltanissetta e la dinamica Scarantino.
La mia domanda è rivolta specificamente all’avvocato Trizzino, perché mi ha colpito una sua dichiarazione quando è giunto a sostenere che la logica del depistaggio ha addirittura preceduto la morte del dottor Borsellino, quindi le sarei grato se potesse chiarire questo specifico pensiero. Restando al tema del depistaggio e alla collaborazione di Scarantino, vorrei sapere se loro hanno avuto modo in qualche modo di dubitare della veridicità delle sue dichiarazioni ancora prima della divulgazione delle dichiarazioni di Spatuzza. Grazie.
PRESIDENTE. Se per lei va bene, avvocato, farei intervenire un paio di colleghi, così riesce a rispondere più fluentemente. Ho iscritto l’onorevole Tenerini.
CHIARA TENERINI. Grazie presidente. Anche io mi associo ai ringraziamenti all’avvocato Trizzino e a Lucia Borsellino per queste audizioni che ci hanno aperto una prospettiva importante, anche per il carico umano ed emotivo che abbiamo percepito, almeno che io ho percepito, in queste lunghe ore e la necessità di arrivare quanto meno alla verità di una vicenda che riguarda tutti gli Italiani, sapendo ed essendo cosciente personalmente che vivere all’ombra di questa verità, di qualsiasi verità, non è facile. Questo lo so per esperienza personale. Rispetto a quanto lei ci ha raccontato in queste lunghe audizioni vorrei soffermarmi su una questione che lei ci ha già abbastanza specificato ma che vorrei in qualche maniera rendere più evidente.
Dagli atti si evince, ed è circostanza storica nota, che il dottor Borsellino, nella fase che precedette la strage di via D’Amelio, si incontrava con gli esponenti dei carabinieri del ROS che conducevano l’inchiesta mafia-appalti in una caserma dei carabinieri, pur potendoli ricevere più agevolmente in procura. Come mai il dottor Borsellino si recava nella caserma dei carabinieri? Probabilmente non si fidava dell’ambiente della procura? In questo caso le interpretazioni cervellotiche che hanno portato i processi sulla cosiddetta trattativa conclusi con l’assoluzione piena degli esponenti dei carabinieri verrebbero ribaltate. La mancanza di trasparenza e di fiducia riguardava la procura o l’Arma dei carabinieri? Grazie.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Per quanto riguarda il depistaggio devo dire che nel processo ci siamo battuti, appunto in considerazione dell’immediatezza dell’esecutività delle azioni depistatorie, a porre la questione in termini strettamente logici, prima ancora che giuridici perché, se il depistaggio inizia con la mancata repertazione della borsa (un trattamento della borsa del dottor Borsellino come se fosse qualcosa che non andava, invece, attenzionata, come è previsto dai protocolli, anche un uditore giudiziario, appena superato il concorso in magistratura in via Arenula, se gli aveste chiesto cosa avrebbe fatto lui della borsa di Paolo Borsellino l’avrebbe repertata, con tutto il contenuto), e al di là della borsa, essendo iniziato immediatamente il depistaggio, bisognava, in qualche modo, dimostrare che c’era una preordinazione ex ante. Tant’è vero che la sentenza del tribunale di Caltanissetta, accogliendo la nostra impostazione, afferma a chiare lettere che tra il depistaggio e l’esecuzione della strage vi è una correlazione diretta. Quindi, come vedete, è stata accolta la nostra impostazione, ma perché è nella logica dei fatti. La nota con cui il dottor Pansa chiede al dottor Petralia il 20 luglio di non acquisire il traffico in entrata del dottor Borsellino non ha senso da un punto di vista del rispetto del protocollo delle indagini. Come, d’altra parte, la risposta immediata che il dottor La Barbera diede a un’indicazione neutra della famiglia, per il tramite di Caponnetto (con un’Ansa del 24 luglio Caponnetto si fa latore dell’ambasciata della famiglia circa l’esistenza di un’agenda rossa). Io non vedo il motivo, se non in un’ottica strettamente depistatoria, di respingere immediatamente al mittente questa indicazione neutra, un contributo di indagine, dicendo: l’agenda rossa, se c’era, è sparita, o è andata distrutta nel corso dell’esplosione. Cioè, vi sono elementi che da subito, oggi valorizzandoli, ci dicono che il depistaggio è iniziato immediatamente e non il 24 giugno del 1994 come, nel corso delle sue domande, il senatore Scarpinato ha detto ponendolo in correlazione col fatto (domandando come si concilia con il fatto) che Scarantino inizia a parlare il 24 giugno? Scarantino inizia a parlare il 24 giugno perché, come sappiamo, inizia il forcing su Candura. Ma abbiamo la nota del 13 agosto del 1992, con cui il Sisde, con cui il colonnello Ruggeri dice: «da informazioni acquisite dalla squadra mobile di Palermo noi conosciamo non solo l’autore, ma anche il luogo dove è stata ricoverata la macchina per l’imbottitura dell’esplosivo». E al 13 agosto se potevano essere valorizzate le dichiarazioni della Sbigottiti e di Pietrina Valenti, cioè la proprietaria della 126, con riferimento all’indicazione di Totò Candura, del luogo in cui la macchina è stata imbottita, non si capisce da dove lo prendono.
E poi, vedi caso, quel luogo viene indicato nel canovaccio, nello spartito fatto recitare a tre attori assolutamente incapaci di reggere la scena, come Candura, Andriotta e Scarantino, che si inseguono costantemente nella circolarità delle informazioni che vengono trasmesse dalla Polizia di Stato, o meglio da alcuni funzionari del gruppo Falcone-Borsellino. Quindi il depistaggio nasce immediatamente, oserei dire alle 16.59 del 19 luglio, ma non lo voglio dire. Sicuramente quella nota del 20 è inspiegabile. Non acquisire il traffico in entrata del dottor Borsellino è un vulnus alle indagini che si spiega soltanto nel tentativo di nascondere qualcosa che non doveva essere reso ostensibile. Quindi credo di avere risposto. Il tribunale di Caltanissetta in primo grado dice: «Non c’è ormai più dubbio, sulla base di quello che è stato riversato in atti, che tra il depistaggio e l’esecuzione della strage c’è un diretto collegamento».
Poi, per quanto riguarda l’incontro alla caserma Carini, io credo di avere spiegato abbondantemente come il dottor Borsellino abbia vissuto il suo inferno (prima ancora, poi spero il paradiso, per quanto riguarda il resto) il suo inferno lo ha vissuto anche in seno alla procura della Repubblica. Vi prego di valorizzare l’audizione della dottoressa Falcone che dice: «Paolo mi disse di avere scoperto cose tremende». Il 23 giugno. E le mette in relazione, la stessa dottoressa Falcone, con Giammanco. È ovvio.
Ho dimostrato che il dottor Borsellino ha dovuto interrompere il flusso delle comunicazioni e ne ha fatto confidenza a Ingroia, a Teresi e al dottore Scarpinato, che sapevano che il dottor Borsellino aveva deciso di venir meno al dovere di lealtà, che ha sempre connotato la sua azione di magistrato. Quindi c’erano problemi seri.
La necessità di un incontro alla caserma Carini nasce dal fatto che allo stato il dottor Borsellino non si fidava della procura di Palermo e, segnatamente, in primis, del suo capo. Fa un incontro carbonaro, l’ho definito, con il rischio di subire anche un procedimento disciplinare. Per questo l’incontro è estremamente rapido, perché non ha la titolarità formale neanche per fare quelle indagini. Ma lui è arrivato a fare queste forzature, io invoco lo stato di necessità, per evitare un pericolo a sé mortale, che comunque non è riuscito ad evitare. Quindi i fatti sono lì.
A meno che, come si tenta più volte di dimostrare, Falcone e Borsellino erano degli incapaci. Per carità erano fallibili anche loro, non erano perfetti, il dottor Borsellino pure avrà fatto i suoi errori, ma chi lo mette in dubbio? Ma non c’è dubbio che agli occhi della mafia, di cosa nostra, e di quel grumo di interessi politici e imprenditoriali che attorno alla mafia facevano azioni di contiguità e di collusione, sia Falcone che Borsellino erano sempre stati considerati degli acerrimi nemici perché erano professionalmente validi. Si attenevano a ricostruzioni fattuali. Volevano afferrare le prove. E quante volte hanno dovuto scarcerare persone di cui, pur sapendo, per esempio, lo spessore di killer, li hanno dovuti scarcerare perché non avevano le prove. È giusto che i giudici tornino a fare i giudici e si occupino di prove e di fatti. Io credo nei fatti che il giudice Borsellino avesse fiducia nei confronti del ROS e non nei confronti del capo della procura e, non lo so, di alcuni fedelissimi.
Fondamentalmente io chiedo alla Commissione di acquisire l’audizione segreta del maresciallo Canale resa davanti al presidente Del Turco in Commissione, in cui Canale addirittura stava facendo dei nomi di alcuni magistrati della procura di Palermo di cui il dottor Borsellino sospettava. So che questa audizione probabilmente è segreta, ma io credo che la Commissione abbia il potere, comunque, di visionare questa audizione.
E vedrete che Del Turco lo blocca, ma non perché lo vuole bloccare, perché gli dice: «Stia attento a quello che dice, perché lei si limita a riportare una confidenza del dottor Borsellino». Benissimo, oggi voi avete tutti gli elementi perché quella confidenza venga innestata, si innesti in una serie di circostanze documentali e fattuali incontrovertibili.
Per quanto riguarda, invece, il fatto se noi abbiamo creduto o meno a Scarantino, è questo il senso del grande tradimento e del grande dolore che noi soffriamo oggi. Noi ci siamo affidati alle istituzioni. Da quando nel 2015 ho cominciato a leggere tutti gli atti, io lo dico chiaramente, quello che hanno combinato i magistrati che hanno indagato su Scarantino, Andriotta e Candura, dal mio punto di vista, professionalmente, è qualcosa di inenarrabile. E non mi si venga a dire il contesto, non contesto. Perché quando si sceglie deliberatamente di non depositare per trentatré mesi, cioè per quasi tre anni, il confronto tra Scarantino e Cancemi, in cui Cancemi smentisce Scarantino, non sui fatti, ma sulla stessa possibilità antropologica che uno come Scarantino potesse far parte e assumere un ruolo, quale che sia, all’interno di una delle più eclatanti stragi della storia della Repubblica denota come minimo la mancanza di capacità di conoscere le dinamiche di cosa nostra. Quel confronto in cui addirittura Cancemi invoca e dice ai magistrati: «Per favore, io sono la mafia ma voi siete lo Stato, non vi potete fare prendere in giro da uno così». Ebbene, Scarantino è stato stradifeso nella sua versione. Gli avvocati degli imputati mafiosi hanno condotto una guerra senza sconti, perché il depistaggio è stato sì preordinato bene, ma poi alla fine è stato abbastanza grossolano, perché gli attori a cui è stata data la parte da recitare erano veramente scarsi. Solo che gli avvocati dei mafiosi erano mafiosi e i magistrati invece … No? E tutti siamo caduti in questo tranello terribile. Per cui oggi io non ho alcun timore ma, per un atto di onestà intellettuale, vi devo dire che nell’ambito del processo Borsellino 1 e bis, chi ha difeso la toga del giudice Borsellino sono stati gli avvocati. E ancora io sto aspettando che qualche magistrato scriva l’elogio degli avvocati, perché noi avvocati, specialmente con riferimento alla ricostruzione di quella stagione stragista, abbiamo svolto un ruolo come minimo paritario a quello dei magistrati.
Quindi noi ci siamo affidati alle istituzioni, e le istituzioni ci hanno confezionato delle sentenze che a leggerle ancora oggi io inorridisco. Però la fiducia nella magistratura, nelle istituzioni, va sempre mantenuta intatta. Perché quella stessa magistratura, che ha confezionato quei mostri, poi si è messa a lavorare per restituire alla Nazione, e a noi ovviamente, una ricostruzione più plausibile. Quindi noi la fiducia l’avremo finché moriremo, perché tradiremmo noi per primi l’esempio di Paolo Borsellino. Però se lei mi chiede se abbiamo dubitato, non potevamo dubitare delle forzature incredibili che sono state fatte in quell’altro monastero, che è la procura della Repubblica retta da Giovanni Tinebra. E su questo vi devo dire che mia moglie ha da raccontare un episodio che è emerso. Qualche warning noi l’abbiamo avuto, ma non potevamo pensare a tutto questo. E su questo credo si attarderà Lucia.
LUCIA BORSELLINO. C’è stato un episodio che ci ha un po’ inquietato, tra l’altro rievocato da un testimone nel corso del dibattimento del processo Borsellino quater ordinario.
Si trattava del mio fidanzato all’epoca dei fatti in cui, appunto, è stata compiuta la strage che ha portato alla morte di mio padre, il quale, per le ragioni legate al fatto che in casa mia non si viveva più all’indomani della strage, lui di fatto rimaneva a casa nostra fino a tarda sera. Si trattava, peraltro, di un poliziotto, di un agente di Polizia in servizio presso la Polizia scientifica di allora. Ebbene, nel mese di febbraio del 1994 abbiamo ricevuto uno squillo al citofono di casa alle 21.50, o alle 22 addirittura, e sotto casa c’era l’allora moglie di Scarantino, la signora Rosalia Basile, la quale con un gruppo di persone (poi si è scoperto che aveva con sé anche un gruppo di persone, dei bambini, non so) voleva salire a casa nostra e parlare con mia madre. Devo dire che abbiamo visto questa incursione come un’incursione poco opportuna, tenuto conto anche dell’orario, quindi il mio fidanzato di allora ritenne, per tutelare la privacy familiare, di scendere giù e fare da filtro, visto che non avevamo un controllo stabile da parte delle forze dell’ordine nella nostra abitazione. Quindi, di fatto, non consentì alla signora Basile di salire a casa. Fece una relazione di servizio su indicazione dell’allora questore Finazzo, che chiamammo perché era una persona della quale mio padre si fidava, e nella quale mia mamma riponeva fiducia. Il questore ordinò di fatto a quel ragazzo di fare una relazione di servizio e di inviarla, oltre che al questore di Palermo, anche al suo capo della Polizia scientifica, la signora Pluchino. Ebbene, di quella relazione per molto tempo non se ne seppe nulla. Abbiamo scoperto solo in sede di dibattimento del processo Borsellino quater che la relazione non era mai stata assunta agli atti dei processi, ragione per cui questo testimone è stato sentito solo nel 2016 o nel 2018 addirittura. Praticamente già allora, dalle poche parole che riuscirono a scambiare con la signora Basile, il dottor Iuppa (questo era il suo nome) seppe che la signora Basile voleva riferire a mia madre dei maltrattamenti che il marito Scarantino subiva al carcere di Pianosa per essere costretto a parlare. E stiamo parlando di un periodo – febbraio 1994 – che è antecedente all’avvio del depistaggio nel senso più pieno del termine.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Volevo aggiungere che il destinatario di quella relazione era il dottor La Barbera, che era quello che pestava Scarantino per farlo parlare. Quindi per questo non si trova la relazione.
PRESIDENTE. Grazie mille. Ho iscritto a parlare il vicepresidente D’Attis.
MAURO D’ATTIS(intervento da remoto). Grazie presidente. Mi scusi per l’assenza, ma sono contemporaneamente in Commissione bilancio da dove sto seguendo l’audizione e ringrazio nuovamente l’avvocato Trizzino e la signora Borsellino. Arrivo subito alle domande all’avvocato Trizzino. Abbiamo compreso che, secondo alcuni, il dottor Paolo Borsellino era consapevole, secondo alcuni, dell’orientamento dei settori della procura di Palermo di archiviare in parte o in tutto a proposito dell’inchiesta mafia e appalti. Da molti atti giudiziari e anche da quello che sta emergendo da queste audizioni si evince, invece, che il dottor Borsellino non era stato informato di una scelta che probabilmente non avrebbe condiviso. In sintesi, proprio in due parole, vorrei il pensiero dell’avvocato Trizzino su questo.
Vorrei poi chiedere allo stesso, in sintesi, quali furono i magistrati che al tempo insistettero per le archiviazioni, i massimi promotori della decisione di archiviare, seppur parzialmente, mafia e appalti. Questa archiviazione, seppure parziale, a parere dell’avvocato Trizzino, ha cagionato danni all’inchiesta di mafia e appalti? Infine, se, a parere dell’avvocato Trizzino e della signora Borsellino, può essere l’archiviazione e l’inchiesta mafia e appalti in particolare, tra le cause principali dell’accelerazione della strage di via D’Amelio, visto che, da quello che stiamo ascoltando, il dottor Borsellino aveva avuto centralità nell’azione investigativa condotta nel contrasto all’azione dell’organizzazione mafiosa a Palermo e in tutta la Sicilia. Grazie.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Questa domanda contiene in sé diverse cose, per cui mi prenderò un po’ di tempo per rispondere.
Fino a quando non abbiamo scoperto che c’era stata una riunione il 14 – in cui Borsellino si presenta ed è l’unico (e vi spiegherò i motivi) che conosce quel rapporto e fa delle domande al dottor Lo Forte – noi, prima di avere appreso questa circostanza, sapevamo che c’era questa archiviazione. Io personalmente non l’ho mai vista bene in relazione alla tempistica, cioè un’archiviazione fatta il 13, 22, 14. Ma, ovviamente, venendo a sapere che Borsellino, invece, compulsa il collega – sulla base delle dichiarazioni di testi qualificati presenti al momento, cioè il dottor Gozo, il dottor Patronaggio, il dottor Matassa, la dottoressa Consiglio, eccetera – a quel punto mi sono posto il problema: ma era informato, o no, di questa archiviazione?
E qui sono cominciati i veri problemi. Perché? Ho sentito l’altra volta derubricare a battuta il discorso che Paolo Borsellino avrebbe detto, a battuta sarcastica: «quei due non me la raccontano giusta». Non si può derubricare perché il problema è il contesto: siamo in una riunione allargata a tutti i magistrati della procura, voluta dal dottor Giammanco e non sono i condomini di un condominio. Il dottor Borsellino – ed ecco la cosa che non ci piace – viene fatto passare per uno facilone. Io sto difendendo in questa sede la statura o lo spessore professionale del dottor Borsellino. Il dottor Borsellino, se dall’altra parte gli avessero detto facciamo un’archiviazione allo stato degli atti del 2789/90 – citiamo i numeri visto che non piace dire «inchiesta mafia e appalti», citiamo un numero di procedimento – se il dottor Borsellino avesse sentito (e nessuno dei testimoni qualificati ne parla) «Guarda, stiamo facendo un’archiviazione allo stato degli atti…» invece no, il dottor Borsellino dice: «Come è finito poi con le carte di Pantelleria?» – tenete a mente questo dato – «Come è finita con le carte di Pantelleria? Come mai non sono state inserite nella richiesta di rinvio a giudizio del 9 marzo del 1992?» Questa è una mia ricostruzione che sono costretto a fare deduttivamente perché tutti si guardano bene dal ricordare veramente quello che è successo. Anche in seno a quella verbalizzazione sono molto imprecisi. Ma me lo immagino, giovani che erano lì convocati per una riunione, si sentono Borsellino che parla con Lo Forte «Hai messo quelle carte?» Quali sono le carte? Sono le carte riguardanti gli imprenditori Antonino Spezia e Bulgarella Puccio che, con un’istanza del 4 febbraio del 1992, la procura di Palermo chiede e Ingroia – nell’ambito di un procedimento per associazione a delinquere semplice, finalizzata alla turbativa degli incanti con gli amministratori del comune di Pantelleria – manda a Palermo, dicendo: «Attenzione, non rendete ostensibile questo verbale» – sta parlando la segretaria di Antonino Spezia – «rendetelo ostensibile nei limiti in cui non mi danneggi le indagini per associazione semplice a Marsala».
Borsellino rimane a Marsala fino al 29 febbraio del 1992, sta due giorni a Marsala, tre giorni a Palermo. Il primo marzo prende possesso definitivamente della funzione di procuratore aggiunto di Palermo. Quindi Borsellino, quando c’è la trasmissione degli atti, sovrintende con Ingroia a questa trasmissione degli atti e vuole sapere da Lo Forte perché quegli atti non sono nella richiesta di rinvio a giudizio, e riguardano la posizione di Spezia e Bulgarella che sono archiviati il 13. Ma è incomprensibile, dal mio punto di vista, questa archiviazione.
Vi devo spiegare le tre gare di Pantelleria. Mi dovete consentire questo breve riferimento alle tre gare di Pantelleria, correggendo innanzitutto una cosa che ho detto nella foga della risposta. Con riferimento a Catti De Gasperi non viene prelevata la busta, ma egli in qualche modo – con prospettazione di vantaggi futuri, non con minacce – viene convinto a recedere dalla volontà di presentare un ricorso giurisdizionale presso l’autorità amministrativa rispetto alla delibera di esclusione dalla gara per l’aggiudicazione, appunto, della gara per l’insediamento artigianale di Petralia Bivio Madonnuzza. È il famoso episodio in cui io vi ho dimostrato che quelle parti di intercettazioni, che inguaiano fino al collo Catti De Gasperi, sono presenti nella richiesta di arresto del 25 giugno 1991 e spariscono dall’archiviazione del 13 luglio, dalla relazione del 7 dicembre del 1992 al CSM per il caso Lima (di cui dovremmo forse parlare), e soprattutto dalla relazione citata in questa sede del febbraio 1998 di cui all’audizione del dottor Caselli nel 1999. C’è Catti De Gasperi che dice, tutto spaventato da Siino: «Io prima di aderire a quello che mi dice Siino, devo parlare con uno che è più in alto di esso». E soprattutto dice: «Rispetto al vantaggio prospettato della gara io ho visto la griglia e lì non c’è niente». Ma la cosa importante è che non esiste il bando della gara di Monreale quando dice «io ho visto la griglia». E questo conferma che le trattative venivano fatte prima, e il bando era il momento in cui si formalizzava a discapito totale dell’interesse pubblico. E quando questo interesse pubblico sussisteva si doveva trovare il modo, attraverso le perizie di variante, di creare provviste per corruzioni e per mantenere in vita il sistema.
Quindi vi rendete conto di come la posizione di Giorgio Zito e di Catti De Gasperi…
Nel rapporto si parla dei lavori del consorzio Cempes, costituito dalla Tor di Valle (Catti de Gasperi), dalla Cisa di Cataldo Farinella e dalla Federici. La Federici era una multinazionale il cui amministratore delegato per le cose di Sicilia sapete chi era? Un uomo di San Giuseppe Jato. E quello che combina Giorgio Zito con riferimento al consorzio CEMPES ai lavori per lo stadio, ai finanziamenti… E la cosa assurda è che nelle deleghe di indagine i magistrati della procura di Palermo danno le giuste indicazioni: «andate a sentire Fortis, andate a sentire Orcel, fate le perquisizioni all’Agenzia del Mezzogiorno. Fate tutto». E poi? Tac. Quindi ci sarà stato qualcosa. E quel qualcosa cos’è? L’iniziativa di Giammanco, che invia il plico alle autorità politiche. Lì devo dire una cosa. Falcone ha sbagliato, me ne assumo la responsabilità, io sarei andato immediatamente dal procuratore della Repubblica a denunciare Giammanco per rivelazione del segreto d’ufficio. Altro che nota di restituzione. E avrebbe salvato, probabilmente, la sua vita, e anche quella di Borsellino, se lo avessero arrestato in quel momento, Giammanco per un reato gravissimo, cioè, mandare una notizia di reato alle autorità politiche. Questo ripeto a chi dice ancora oggi che quell’indagine non valeva niente.
Quindi non sapeva dell’archiviazione. Borsellino non lo sa, non lo può sapere perché non avrebbe mai accettato che le posizioni di Spezia e di Bulgarella venissero archiviate. Lo sapete perché? Perché le gare di Pantelleria sono tre e queste le conosce per ragioni del suo ufficio, perché Borsellino fino al 20 novembre del 1991 poteva indagare su fatti di mafia relativi al proprio circondario. Soltanto con l’introduzione del decreto del 20 novembre si crea la procura distrettuale antimafia e si crea la Procura nazionale antimafia. Quindi Borsellino è costretto a mandare le carte perché? Perché con riferimento alla gara della circonvallazione e alla gara di contrada Scauri e di Arenella, l’associazione sta muovendosi, l’associazione mafiosa: Siino, Spezia, Bulgarella, Cascio Rosario, si muovono per stravolgere gli esiti di quella gara. E la cosa incredibile che emerge dal rapporto è che a un certo punto ci sarà una dilazione per quanto riguarda la gara della circonvallazione, che è quella famosa da cui il Lipera ritira la busta, fa il doppio gioco, si mette d’accordo con Iacobelli della Iagi (perché Lipera, nel frattempo, sta cercando di coltivare un suo orticello). Attenzione, lui si muove secondo le direttive di Claudio De Eccher, perché tra gli atti sequestrati vi erano lettere compromettentissime nei confronti di Claudio De Eccher. Eppure, Claudio De Eccher viene creduto in tutte le sue deduzioni difensive, e la buttano tutta su Lipera. Ecco perché Lipera non parla con Palermo. Non ci vuole parlare perché ha capito che hanno preso, non dico il nudus minister, però se la stanno prendendo con l’ultimo.
E poi dobbiamo parlare delle manovre inquinatorie di Claudio De Eccher. Ne dobbiamo parlare. La gara di Pantelleria, quella della circonvallazione, doveva svolgersi inizialmente il 16 gennaio del 1990. Cosa succede? Succede che il Lipera non viene informato da Cani – che era l’altro esponente, dirigente di Udine della Rizzani De Eccher, salvato anche lui nell’archiviazione del 13, o meglio la sua posizione è stata ritenuta non suscettibile di attenzione – non lo avevano informato che dovevano cedere il pass e cioè dovevano fare vincere la gara ad altre imprese. Quindi lui cosa fa? Per cercare di coltivarsi il suo orticello propone questa busta a Procopio della Iagi di Agrigento. Quindi fa il doppio gioco. Ma siccome le pressioni che stanno arrivando per la gara del 16 sono importanti, cosa fa? Si inventano la malattia del segretario della commissione di aggiudicazione Marino e rinviano la gara una prima volta al 22 di gennaio. E sono interessanti le telefonate contenute nel rapporto. Il 22 gennaio, siccome gli accordi tra le imprese non sono ancora stati presi – e questo emerge dalle telefonate nel rapporto – un soggetto, che era l’amministratore delegato di una società di Antonino Spezia, fa una manovra dilatoria presentando un ricorso, assolutamente inutile, ottenendo l’effetto di rinviare la gara dal 22 al 25 gennaio. Il 25 gennaio si risponde a questa istanza del rappresentante di una ditta di Spezia Antonino e, poi, si rinvia per la decisione definitiva al 22 o 25 febbraio del 1992. Ebbene, la cosa che emerge dal rapporto sono le telefonate in cui Morici, Bulgarella e Siino danno conto degli accordi che devono fare, delle manovre dilatorie per arrivare a questa benedetta gara del 25 febbraio sulla circonvallazione con l’accordo sulle associazioni che devono vincere la gara. Quindi c’è tutto questo. Poi la gara viene aggiudicata ma la cosa incredibile è che la gara viene aggiudicata ad un’altra impresa, all’impresa che va con Siino, ma si scopre che l’impresa che vince la gara è essa stessa dei fratelli Spezia. Quindi gli Spezia partecipano a queste gare sotto doppia veste, prima con l’impresa di famiglia e poi con l’impresa delle mogli. L’impresa di famiglia degli Spezia fa ricorso per ottenere la dilazione, poi l’impresa degli Spezia intestata alla moglie vince l’appalto.
Questo è un meccanismo che il ROS spiega perfettamente. E soprattutto sono le telefonate che spiegano come hanno fatto di tutto per prendere tempo e fare gli accordi in vista della vittoria di quella gara. La cosa che non mi convince è che a un certo punto, soprattutto per le gare del 30 marzo – perché quella della circonvallazione è del 25 febbraio 1992, quella di contrada Scauri e Arenella è del 30 marzo – c’è una telefonata in cui il Siino parla con Bulgarella, parla con Salvatore Fauci, e gli dice: «Sono stato mortificato da Nino». Noi abbiamo Siino considerato il dominus mafioso, che viene mortificato da Spezia, archiviato, dicendo che non c’è nulla che possa afferire alla sua partecipazione all’associazione mafiosa nell’ambito del procedimento di cui al rapporto. E i ROS cosa dicono? Perché tutta questa roba la trovate nella sezione del rapporto relativo all’associazione di stampo mafioso. Quindi già il ROS individua in Puccio Bulgarella, che addirittura ha una telefonata con Siino in cui parlano di un grande latitante, in cui devono spostare il loro appuntamento in un luogo. E Bulgarella dice: «Tu l’hai saputo dove è andato a dormire quello?» «No, non lo so dove ci luccicano gli occhi». E i carabinieri del ROS scrivono «Probabilmente si riferiscono ad un grande latitante». E Puccio Bulgarella esce archiviato?
Borsellino queste cose le conosceva e ce lo dice anche Canale il 24 marzo del 1998 al processo Borsellino bis. Andate a leggervi anche quelle dichiarazioni di Canale. Se Borsellino avesse saputo che Puccio Bulgarella, Nino Spezia, lo stesso Rosario Equizzi, erano fuori…
Perché Equizzi chi è? Equizzi è un altro che, con Siino, prendono l’appalto per la ricostruzione dello stadio di Mazara, e affidano in subappalto occulto i lavori a un certo Lombardino che – guarda un po’ chi era Lombardino? – era il guardaspalle di Accardo, boss di Partanna del Belice, che era sotto l’attenzione di Paolo Borsellino.
Nel rapporto viene citato un episodio accaduto nel 1976, quando il Lombardino, come autista di Accardo Francesco, venne fatto segno di colpi di pistola in un tentato duplice omicidio e poi Mariano Agate, per vendicare questo tentato duplice omicidio, ne ammazza quattro tra il 1976 e il 1978.
E Lombardino sparisce anche lui. Equizzi sparisce dall’orbita delle considerazioni.
Io mi infervoro sapete perché? Perché tutti i grandi soloni del pensiero, giornalisti, dicono che questo rapporto era una cosa inutile. Io non accetto questa impostazione perché attraverso questo si vuol far passare Paolo Borsellino, e prima ancora Giovanni Falcone, come degli incompetenti. E noi questo non lo accetteremo mai. Questo è il punto. La mia difesa non è del ROS. La mia difesa è del pensiero di Falcone e Borsellino che ritenevano questo rapporto fondamentale. Quindi il dottor Borsellino non lo sapeva. Tanto ciò è vero, e mi dispiace, ma questo lo devo sottolineare, che il problema dell’archiviazione si pone quando noi scopriamo la riunione del 14.
C’è una progressione dichiarativa, davvero, che deve essere davvero degna di migliore attenzione. I magistrati che hanno fatto quell’indagine oggi ci vengono a dire che lo sapevano. Ma se andate a guardare le dichiarazioni rese illo tempore non c’è nulla di tutto questo.
Allora questa progressione dichiarativa, dal mio punto di vista, deve essere attenzionata, perché non si può procedere secondo un criterio strettamente antitetico per cui il tempo passa e i ricordi devono essere minori. No, qui il tempo passa e i ricordi aumentano. Quindi, sinceramente su questo io voglio la giusta attenzione.
Quindi, perché la mafia appalti è importante nell’ottica dell’accelerazione della strage? Non lo dico io, lo dicono le sentenze definitive, il ter, il quater, lo dice circa a sentenza di primo grado del tribunale, lo dice il provvedimento di archiviazione dei mandanti occulti bis, lo dice la stessa Gilda Loforti, di cui dovremo parlare, perché la teoria della doppia informativa non esiste. È stata confutata, smentita da un giudice terzo, il giudice del procedimento, il giudice delle indagini preliminari, dottoressa Gilda Loforti. La quale interviene nel marzo del 2000, cioè in epoca successiva alle dichiarazioni del dottor Caselli alla Commissione parlamentare antimafia. Quella prospettazione unilaterale, contenuta nella relazione, viene confutata nei punti fondamentali da un provvedimento di un giudice terzo. E non si può far finta che questo provvedimento, se siamo ancora in una cultura della giurisdizione, non si può fare come se non esistesse. Perché lì la dottoressa Gilda Loforti, rifiutando l’archiviazione tout-court, e richiedendo con un’ordinanza del 27 gennaio 1999 una serie di approfondimenti documentali e non, riesce a dimostrare l’infondatezza della tesi della doppia informativa. E io, sinceramente non so più come spiegare che questa cosa non esiste. Non ci riesco più. Vi dico andatevela a leggere perché si vede che non sono bravo a spiegare questo fatto che la doppia informativa non c’era e che i magistrati della procura di Palermo aspettavano la Sirap, e lo sapevano.
Soprattutto la dottoressa Gilda Loforti riesce a dimostrare che nelle notizie di reato interlocutorie del 30 aprile, del 3 luglio e dell’agosto del 1990 c’erano tutte le intercettazioni, comprese quelle di Lima con il Ciaravino che parlano di Cataldo Farinella. E che il ROS venne semplicemente autorizzato al riascolto, non a fare nuove intercettazioni. Tant’è vero che la dottoressa Gilda Loforti li bacchetta: «Voi avevate tutto lì, non li avete visti, ma non potete buttarla sui carabinieri perché i carabinieri hanno agito correttamente». Tant’è vero che De Donno è stato archiviato in tutti i procedimenti, compresi quelli disciplinari.
Quindi noi lo riteniamo sulla scorta degli atti. Ricordate l’affermazione di Montalto Salvatore: «Chi ce lo portava a Borsellino di parlare di ‘ste cose». Borsellino non mi risulta che abbia parlato di eversione nera, Gladio, massoneria, ma ha parlato, e l’ho dimostrato internamente ed esternamente, del fatto che Falcone voleva tornare a fare il magistrato e che, come ho dimostrato internamente, Borsellino aveva, sulla scorta delle pregresse interlocuzioni costanti con Giovanni Falcone, il chiodo fisso di mafia e appalti.
PRESIDENTE. Ho iscritti l’onorevole Congedo e il senatore Sisler.
SAVERIO CONGEDO. Un grazie non rituale all’avvocato Trizzino e alla dottoressa Borsellino per questa audizione che immagino sia stata particolarmente impegnativa, non solo per la mole di dati, fatti, circostanze e ricostruzioni che ci avete offerto.
Con riferimento all’accelerazione della strage di via D’Amelio, successivamente a quella di Capaci, nella sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia, poi annullata e di cui non so se sono state ancora depositate le motivazioni, viene riportato che la ragione o una delle ragioni per cui cosa nostra, in particolare Riina, dette un’accelerazione alla seconda strage, con le conseguenze in termini di attenzioni mediatiche e dello Stato, fu che la presunta trattativa tra Stato e mafia venne percepita da cosa nostra e da Riina come un segnale di debolezza delle istituzioni e dello Stato. Da quello stato di debolezza cosa nostra avrebbe potuto lucrare in termini di ulteriore tempo a disposizione, di acquisizione di territori per incentivare il suo disegno criminale. Mi sembra che nell’arco della sua lunga audizione, avvocato, abbia riportato qualcosa riferito proprio all’accelerazione. Con questo passaggio della sentenza di primo grado mi piacerebbe sapere qual è il suo pensiero sostanzialmente.
SANDRO SISLER. Grazie presidente. Io ho due domande per la dottoressa Lucia Borsellino, che vorrei anzitutto ringraziare per la disponibilità. Lo hanno già fatto altri, ma ci tengo a farlo anch’io perché possiamo solo immaginare cosa significhi per lei continuamente ripercorrere quei giorni, quindi la ringraziamo. Posso solo dirle che per noi, per molti di noi, suo padre ha rappresentato e rappresenta un modello e un esempio. Spero che questo possa servire da parziale consolazione, diciamo così.
Anzitutto vorrei chiederle se lei ricorda quale fosse la posizione di suo padre circa l’idea del dottor Falcone di costituire la Superprocura e se c’erano, invece, dei magistrati contrari all’idea della costituzione della Superprocura.
La seconda domanda: dall’articolata ricostruzione dell’avvocato Trizzino è emerso chiaramente quale fosse l’idea di suo padre circa la procura nella quale operava. Questo mi è sembrato evidente. Al contrario, invece, quali erano i magistrati con i quali suo padre aveva un chiaro rapporto di fiducia? Con quali magistrati aveva simbiosi e rapporto di fiducia? Grazie dottoressa.
LUCIA BORSELLINO. Intanto sono io che ringrazio ulteriormente il presidente e voi per la pazienza di averci ascoltati, perché per noi questo è stato un momento, sì, faticosissimo, che mai forse avremmo voluto avere e immaginare, visto l’andamento che le cose hanno avuto nel corso di questi trent’anni. Vi ringrazio anche per la pazienza nell’ascolto di queste lunghe audizioni che complessivamente credo abbiano cumulato otto ore, e credo che non sia facile neanche per voi. Però per noi rimane un’occasione. Non so se è l’ultima o se ci saranno altre occasioni di questo genere, perché abbiamo capito, ed evidentemente lo avete notato anche dalle nostre parole, che non c’era più tempo per attendere e per dire come la pensavamo, rispetto agli atti che si sono consolidati, perché qui non stiamo prospettando opinioni personali che non siano suffragate. A maggior ragione noi figli, che non avevamo e non abbiamo le competenze tecniche, ma abbiamo certamente un substrato culturale per potere comprendere quanto è accaduto.
Colgo l’occasione anche per esprimere in questa sede una mia profonda amarezza per le espressioni di sconcerto che le nostre audizioni avrebbero, in alcuni casi, provocato. Lasciando al loro posto le relazioni familiari che intercorrono anche con alcuni componenti della famiglia di origine di mio papà, che ritengo debbano rimanere nell’ambito di un alveo strettamente intimo, in quanto ritengo profondamente irrispettoso, quanto meno per la nostra intimità, che vengano rese oggetto di dichiarazioni pubbliche. A fronte anche del contegno istituzionale che, senza tema di smentita, ciascuno di noi della famiglia nucleare e anche dell’avvocato Trizzino hanno mantenuto nel corso di tutte le sedi, istituzionali e non, nelle quali ci siamo trovati a dovere sporgere delle dichiarazioni e delle denunce pubbliche, mi preme, con profondo dolore e dispiacere, dover constatare che ciò purtroppo si è verificato. Noi, come ha detto mio marito, siamo qui per difendere unicamente nostro padre e l’operato di nostro padre. Non abbiamo e non vogliamo sfruttare occasioni di questo genere per tessere le lodi o meno di uomini per ciò che hanno compiuto o non hanno compiuto, perché comunque per questo risponderanno loro stessi alle loro coscienze. Noi, tra l’altro, non abbiamo neanche pronunciato, e lo devo dire, il nome del dottor Di Matteo nel corso delle nostre audizioni che, come appunto avevo ricordato, hanno cumulato circa otto ore, ancorché l’ambito oggetto della nostra ricostruzione è stato unicamente quello dei cinquantasette giorni che intercorsero tra le due stragi e in quei cinquantasette giorni non potevano esserci certo come protagonisti i magistrati che noi abbiamo conosciuto solo tanto successivamente.
Detto questo, e mi scuserete anche per questa premessa, per quanto riguarda l’opinione che mio padre aveva sull’organismo della Superprocura ideato da Giovanni Falcone, voi sapete come mio padre, nella sua estrema franchezza, non ha mai omesso di dichiarare il suo dissenso anche nei confronti dell’opinione e della ideazione di un progetto come quello della Superprocura, ancorché fosse fatto da uno dei suoi più intimi amici, quale appunto Giovanni Falcone rappresentava per mio papà, oltre che stimatissimo collega. Mio padre ebbe modo anche pubblicamente di esprimere le ragioni per le quali manifestava il suo dissenso. Lo ha fatto anche in occasione di una seduta pubblica. Ricordo vi era la presentazione del libro del sociologo Pino Arlacchi, nel corso del quale il Ministro Scotti, presente in quell’occasione, ebbe quasi a candidarlo pubblicamente alla Superprocura, tenuto conto che già si era consumata la strage di Capaci. Era il 28 maggio del 1992. E mio padre si irritò fortemente per questa candidatura pubblica, non solo perché appunto aveva già in passato espresso il suo dissenso, perché riteneva che questo organismo – lo dico in breve, tenuto conto che non sono un tecnico – fosse un organismo sì utilissimo, ma che avrebbe comunque determinato un forte accentramento di potere in capo ad un unico soggetto. In quel caso, sì ironicamente, e non troppo ironicamente, papà diceva che probabilmente a quell’organismo l’unica persona che poteva essere preposta era proprio Giovanni Falcone. Questo lo dimostra ancor più quando, a seguito della proposizione alla candidatura fatta in maniera così anomala da parte del Ministro Scotti, papà ebbe a irrigidirsi al punto che alcuni giornalisti ricordano che ebbe ad andarsene senza neanche rispondere alle loro domande, cosa che non avrebbe mai fatto in altre circostanze per la sua nota caratura umana e cortese. Preferì rispondere con una lettera, che se volete vi leggo, perché l’ho conservata, che inoltrò al Ministro Scotti, a cui chiese addirittura di renderla pubblica se avesse voluto. Quella lettera non fu mai pubblicata, ma fu resa nota soltanto poi con la prima biografia fatta sulla vita di mio papà da parte del giornalista Umberto Lucentini. Volevo leggervi qualche passaggio. «Onorevole signor Ministro, mi consenta di rispondere all’invito dalei inaspettatamente rivoltomi nel corso della riunione per la presentazione del libro di Pino Arlacchi. I sentimenti e la lunga amicizia che mi hanno legato a Giovanni Falcone mi renderebbero massimamente afflittiva l’eventuale assunzione dell’ufficio, al quale non avrei potuto aspirare se egli fosse rimasto in vita. La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce, infatti, di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale delittuoso evento. Le motivazioni addotte da quanti sollecitano la mia candidatura alla Direzione nazionale antimafia mi lusingano, ma non possono tradursi in presunzioni che potrebbero essere contraddette dai requisiti posseduti da altri aspiranti a detto ufficio, specialmente se fossero riaperti i termini del concorso. Molti valorosissimi colleghi invero non posero domanda perché ritennero Giovanni Falcone il naturale destinatario dell’incarico, ovvero si considerarono non legittimati a proporla per ragioni poi superate dal Consiglio superiore della magistratura. Per quanto a me attiene le su esposte riflessioni, cui si accompagnato le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata». Appena iniziata, eravamo al 28 maggio del 1992. «In una procura della Repubblica che è sicuramente quella più direttamente e aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalità mafiosa. Lascio ovviamente a lei, onorevole signor Ministro, ogni decisione relativa all’eventuale conoscenza da dare a terzi delle mie deliberazioni e di questa mia lettera».
Ricordo, tra l’altro, solo per inciso, che in quel periodo appunto mi pare il Ministro Martelli aveva proposto la riapertura dei termini del concorso e la questione poi appunto fu risolta dal CSM.
La seconda domanda. Per quanto riguarda i colleghi di mio padre con cui intercorrevano rapporti di maggiore fiducia e di amicizia, anche qui, visto che purtroppo noi siamo continuamente esposti al rischio di strumentalizzazioni di quelle che sono le nostre parole, noi per primi non vogliamo parlare di una persona che non c’è più, benché forse ne abbiamo il diritto. Io vorrei rappresentare in questa sede, vedete, che anche la nostra partecipazione a questa audizione, per quanto mi riguarda in particolare, mi ha costretto a ripercorrere non solo la vita vissuta insieme a mio padre, ma anche i trent’anni che mi sono vista trascorrere davanti. Per una ragione di sopravvivenza, perché non la posso definire in altro modo, io mi ero, per un certo periodo, anche tenuta lontano dalle carte, a maggior ragione in questo ultimo periodo in cui una grave malattia ha messo a dura prova la mia salute. Però l’ho dovuto fare. L’ho dovuto fare perché non posso accettare che siano sempre altri a parlare per lui.
A questo punto, nel ripercorrere questi trent’anni di storia, mi sono ricordata che la borsa di mio papà non conteneva soltanto l’agenda rossa. La borsa di mio padre, a detta del carabiniere Arcangioli che l’aveva prelevata, uno dei tanti che l’aveva prelevata e del quale si è riusciti, grazie anche al movimento delle Agende Rosse – io non nego i meriti a chi ce li ha – a mettere a fuoco tutti questi fotogrammi che avevano poi identificato nel carabiniere Arcangioli uno di coloro che aveva preso in mano materialmente la borsa, lui o Maggi, una delle altre persone che l’aveva presa prima di lui, ricordano che la borsa era pesante e piena. Quella borsa ci è stata restituita solo con il costume di mio padre, le chiavi di casa, un pacchetto di Dunhill e un’agenda marrone. Noi sappiamo per certo, da quello che abbiamo acquisito successivamente, che la borsa di mio padre conteneva, oltre all’agenda rossa, anche il fascicolo di Mutolo, così come ha dichiarato il dottor Aliquò nelle audizioni innanzi al CSM nel 1992. Mio padre non avrebbe mai portato con sé la borsa da lavoro solo per metterci il costume da bagno.
Ebbene, di questa borsa noi non abbiamo mai avuto un verbale né di acquisizione né di consegna. Anzi prego questa Commissione di cercarlo vivamente e di rendercene edotti nel caso in cui fosse possibile – e in questo sono sicura che riuscirete più di noi – acquisirne copia. Ma quello che è ancora più grave, quand’anche ci fosse una repertazione …
Perché così dice il dottor Cardella, tra i testi che sono stati sentiti, che sembrerebbe avere dovuto repertare quella borsa che è stata per oltre cinque mesi abbandonata sul divanetto della stanza dell’allora capo della squadra mobile dottor Arnaldo La Barbera come un oggetto qualunque. Come se, invece, anche per decoroso rispetto nei confronti del deceduto, questo non fosse un effetto personale, di cui in ogni caso avere cura, anche se non aveva rilevanza ai fini investigativi. Perché questo è stato detto, che la borsa e il suo contenuto non avevano alcuna rilevanza ai fini investigativi.
Ebbene, anche in questa presunta repertazione che è stata riferita dal dottor Cardella lui ammette di non avere repertato l’agenda marrone, perché all’interno della borsa c’era anche un’agenda legale di color marrone che conteneva una rubrica telefonica. Tenuto conto della complessità di questa storia, io ritengo, da profana, da cittadina, ma spinta in questo momento soltanto dall’amore immenso per un genitore al quale non finirà mai di dire grazie, che in questa storia anche il minimo respiro di mio padre, e quindi anche il minimo scritto può avere una rilevanza ai fini investigativi, soprattutto se letto dopo tanti anni. Quell’agenda ci fu consegnata, ma ci fu consegnata senza alcuna repertazione. Quindi, noi ne siamo in possesso da trent’anni senza avere mai saputo se questa agenda ha mai avuto alcuna attenzione sotto il profilo delle indagini. Pequesto la teniamo conservata nel nostro archivio. Questo che per noi è stato un lavoro è cominciato molto tempo prima delle date in cui le audizioni sono state fissate e in questi ultimi giorni è continuato. Io ho chiesto a mio fratello di fornire a questa Commissione le copie scansionate della rubrica telefonica che io vi consegnerò. Sarà mio padre a far comprendere chi erano le persone di cui si fidava e quelle di cui non si fidava. Per evitare strumentalizzazioni su questo importantissimo reperto, vorrei anche dare una chiave di lettura che, in questo caso senza alcuna modestia, solo noi figli possiamo dare. Perché in quella rubrica sono contenuti anche i numeri di alcune persone strettamente appartenenti alla cerchia familiare, perché era una rubrica che comprendeva tutti i contatti di mio padre, sia quelli professionali che quelli familiari ed è stata aggiornata per altro la mattina del 19 luglio perché era ospite in casa nostra il cugino di mio padre, che risiede in Veneto, che è stato per lui un fratello, che ha vissuto a casa nostra in quei giorni, il quale ricorda – e lo ha testimoniato nel corso del Borsellino 1 a marzo del 1995 – che mio padre stesse proprio aggiornando i numeri di telefono. Lo vedrete perché alcuni numeri sono stati aggiornati con un inchiostro di colore blu rispetto agli altri. In questa agenda voi troverete per tre quarti nomi di magistrati, dei quali alcuni riportano anche i numeri di casa, quelli privati, eccetera. La lettura è questa: questo surplus di numeri che venivano indicati erano indicati perché o mio padre con queste persone aveva un rapporto di lealtà e di confidenza tali che aveva necessità di cercarli dovunque, oppure erano persone – e mi riferisco in questo caso al suo procuratore Giammanco, per portare un esempio – con le quali necessariamente doveva avere tutti i numeri di telefono, in quanto lo doveva poter reperire in ogni momento della giornata per questioni lavorative. Un dato è chiaro, che i numeri che non troverete sono quelli con i quali queste frequentazioni non c’erano, o erano sporadiche, o erano mediate. Su questo io mi assumo tutta la responsabilità. Non troverete neanche, e lo dico in partenza, il numero dei miei nonni, perché erano persone il cui numero naturalmente era impresso nella memoria di mio padre, li chiamava ogni giorno. Non troverete il numero della sorella Adele, presso la quale mia nonna risiedeva per gran parte dell’anno, perché la chiamava ogni giorno. Non troverete il numero della mia migliore amica, che mio padre chiamava ogni giorno, perché non c’erano i cellulari, ma troverete quello della sua casa di campagna. Quindi questo già spiega che la mia chiave di lettura è assolutamente autentica, verosimile. Per i numeri che non troverete lascio a voi ogni valutazione.
PRESIDENTE. Grazie dottoressa. Sicuramente chiederemo anche il verbale sul contenuto della valigetta. Prego, avvocato Trizzino.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Per quanto riguarda la domanda sul processo Stato-mafia, nel corso della mia audizione, ho detto che, conoscendo perfettamente quelli che sono i meccanismi procedurali, per cui è il giudice che alla fine stabilisce il materiale probatorio che deve entrare, io ve lo ribadisco: nel momento in cui il presidente Montalto e il Giudice hanno scritto che Borsellino non conosceva il rapporto mafia e appalti per me io ho preso e ho chiuso. Se andate a sentire la mia arringa al processo Messina Denaro io ho definito quell’iniziativa improvvida perché per certi versi ha, in qualche modo, determinato un ulteriore innalzamento della soglia di pericolo del lato di chi era interessato ad eliminare Borsellino in ragione della sua attenzione per mafia e appalti. Perché? Perché chi contatta è De Donno, il materiale redattore del rapporto insieme al generale Mori, e da che vanno? Da Ciancimino. Che definirlo Giano bifronte è qualcosa di…
Però Ciancimino era all’interno del sistema degli appalti. Ciancimino era sicuramente un soggetto che, qualora avesse deciso di saltare il fosso, avrebbe ulteriormente rafforzato e rinfocolato le risultanze probatorie contenute nel rapporto delle indagini precedenti.
Quindi io non ho dubbi che si è trattato di un’azione info investigativa, come è stata percepita all’esterno.
Il punto ce lo spiega bene Brusca. Brusca al processo Borsellino ter, ci dice: «Bisogna vedere quello che ci arrivò a Riina». Cioè nel passaggio delle informazioni. Perché Brusca è particolare, e su questo la Petruzzella lo distrugge sul piano dell’attendibilità, allorché nell’ambito dell’abbreviato a carico di Calogero Mannino dice: «attenzione, Brusca all’inizio si concentra su mafia e appalti, ci spiega il meccanismo egemonico di Totò Riina, poi quando diventa in voga il processo trattativa, tac, si ricorda del papello, di questo e di quell’altro». E lì si pone il problema della gestione delle dichiarazioni errate dei collaboratori di giustizia. E Brusca viene totalmente distrutto in quella sentenza, proprio perché la progressione delle sue dichiarazioni è sospetta, e sembra – dice la giudice – volere in qualche modo accontentare le domande suggestive e le suggestioni dei pubblici ministeri che stanno facendo quelle indagini.
Questo è molto importante, lo dobbiamo tenere presente perché il Brusca iniziale, quello del 1998, ci parla di mafia e appalti. Con Siino ci danno un quadro perfetto del fatto che la mafia si è spaventata di Borsellino. Lo dicono chiaramente: «Ma chi ce lo portava a parlare di queste cose?» Siino ci dice: «Noi abbiamo capito che Falcone aveva capito quando ci ha detto che la mafia era entrata in Borsa». Ferfin, Ferruzzi, Massa Carrara. Tutto distrutto. Tutto.
Ed è importante perché, attenzione, Buscemi, nel 2003, viene indagato per 422, cioè viene considerato stragista Nino Buscemi e Lipari Giuseppe. E i giudici dicono: «Noi purtroppo non possiamo andare tanto perché purtroppo non abbiamo le bobine e sono stati distrutti i brogliacci». Attenzione, è importante la smagnetizzazione e la distruzione dei brogliacci. È molto importante perché ci spostiamo dalla Tangentopoli a un procedimento in cui i mandanti occulti sarebbero Nino Buscemi e Lipari Giuseppe. Attenzione, questo è un passaggio che forse non sono riuscito a spiegare, perché c’è un’indagine per 422 a carico del Buscemi Antonino. Non c’è solo mica la Tangentopoli. E i giudici, i PM, Messineo e gli altri, si lamentano del fatto che gli atti dal 1994 gli vengono trasmessi nel 2000 e che purtroppo gli atti originari di Massa Carrara sono smagnetizzati o distrutti.
Questo deve essere chiaro ed è negli atti, non mi sto inventando nulla. È negli atti.
Quindi io le dico una cosa. Io di fronte a dichiarazioni progressive, come giurista, faccio mille analisi. Dico: perché non l’ha detto prima?
E poi c’è un’altra cosa, un dato sociologico che vi voglio rassegnare. Perché in questi anni si è parlato solo del processo Trattativa, quando noi a Caltanissetta stavamo scoprendo il più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana, oggi considerato prodromico e propedeutico all’assassinio di Borsellino e dei suoi angeli custodi, e sui giornali non c’era una riga, una, e venivano santificati…? E su chi stava combattendo a Caltanissetta un’altra battaglia, molto più decisiva, come oggi vedete, c’era il silenzio assoluto. Quel silenzio che continua. E qualche giornalista chiama me depistatore. No, noi i depistaggi li abbiamo subiti e oggi abbiamo contribuito a scoprirli. Noi i depistaggi li abbiamo subiti. Deve essere chiaro questo.
La trattativa Stato-mafia è stata solcata. Abbiamo partecipato a Caltanissetta nell’incidente programmatico, perché è stata valutata come possibile momento dell’accelerazione. Ma poi quando Caltanissetta ha scoperto che il papello era falso, che Massimo Ciancimino aveva mentito – questa storia del passaporto, il signor Franco, individuato in un soggetto della Presidenza del Consiglio dei ministri – un soggetto che veniva portato nelle trasmissioni come l’icona dell’antimafia, Caltanissetta ha detto: non è possibile, non è quello il motivo, lo abbiamo solcato, lo abbiamo affrontato.
Ma poi, dico io, e ce lo chiediamo perché è il momento del redde rationem secondo me. Io ho aspettato questo momento perché vorrei dire anche a certi giornalisti che io ho letto nel luglio del 2022, quando hanno fatto un articolo in cui hanno chiesto quale fosse il segreto che era stato rilevato a tre magistrati da Borsellino. Teresi, Scarpinato ed Ingroia. E io, pur sapendo che loro sapevano quale fosse il segreto, di fronte al silenzio di non ricordarlo, non sono andato sui giornali. Ho aspettato l’audizione davanti a un organo istituzionale. Allora mi aspetto che quel giornalista oggi rintervisti quelle persone per vedere se ricordano quale fosse il segreto che io ho rivelato nel corso delle audizioni.
Deve finire questo utilizzo della ricostruzione del sacrificio di Borsellino e Falcone come marketing. C’è in gioco ben altro. La sanità delle istituzioni innanzitutto, ma soprattutto che quello che è accaduto non ritorni più.
Quindi io alla trattativa ho sempre guardato con sospetto, le dico la verità, sospetto che poi si è inverato quando ho letto che Borsellino non conosceva il rapporto, smentito dai fatti, e soprattutto quando si va per ragionamenti.
Quando uccidono Falcone Borsellino dice ad Alberto Di Pisa: «Questa è una strage per stabilizzare, non per destabilizzare».
La strage viene considerata da Borsellino come il tentativo di cui vi ho detto alla prima audizione, di uno Stato che sta per essere scoperto nelle sue degenerazioni di utilizzare la strategia della tensione con formule. Non c’entrano l’eversione nera, Gladio o massoneria, ma il sistema dei partiti. La Tor di Valle ha il NOS, il nulla osta sicurezza: quando si devono fare opere pubbliche che riguardano la sicurezza nazionale Catti De Gasperi era uno degli imprenditori impegnati. Raul Gardini con una telefonata blocca Augusto Lama. Di questo stiamo parlando. Il potere finanziario. E noi oggi stiamo vedendo come la politica ha totalmente ceduto il dirigismo delle nostre vite al potere finanziario. È il mondo che sta cambiando quello del 1992. Quindi Borsellino dice a Di Pisa: «Attenzione, questa è una strage per stabilizzare, non per destabilizzare».
Perché pensano ancora che utilizzando le stragi si possa… come facevano ai tempi … ma non è Stefano Delle Chiaie, la massoneria non lo so, ma ora vi devo leggere qualcosa perché devo correggere un punto. Quelle piste sono state solcate.
Se ci sono novità denunciatele, fate le vostre inchieste. Noi stiamo proponendo un’altra rilettura che è stata totalmente negletta.
Anche perché io mi fido delle conclusioni a cui arrivò il dottor Natoli nell’ordinanza sentenza di rinvio a giudizio del 9 giugno 1991. Lì ho fatto un errore, cioè nella foga di correre, perché qui io avrei migliaia di cose da raccontare, di atti compulsati a corroborare il mio ragionamento. Io l’altra volta ho detto che l’ordinanza sentenza di rinvio a giudizio nei confronti di Michele Greco più diciotto, nell’ambito dei reati politici, è stata di Falcone. No, è stata di Gioacchino Natoli, però la requisitoria scritta del 9 marzo del 1991 è stata firmata da tutta la procura della Repubblica, tra cui ovviamente anche Giovanni Falcone. E quando ho riportato quel passaggio irisposta all’onorevole Provenzano, io ho detto che in poche parole c’era una sovrapposizione perfetta tra le conclusioni cui è arrivato Giovanni Falcone nella requisitoria scritta, a pagina 1102, che è il passaggio secondo cui «invero tutti i più attendibili e significativi elementi…» – questo è Giovanni Falcone che scrive nella sua requisitoria scritta, che poi verrà, a pagina 1450, recepita nell’ordinanza sentenza di rinvio a giudizio del dottor Natoli – «Invero tutti i più attendibili e significativi elementi di valutazione emersi da un decennio di indagini» – perché i delitti di Reina, Piersanti Mattarella e La Torre avvengono tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta – «inducono ad escludere che un’alleanza di questo tipo» – cioè un’alleanza legata alla massoneria, ai servizi segreti, all’eversione nera – «si sia mai stabilita, e ciò per l’irriducibile vocazione di cosa nostra a salvaguardare la propria segretezza e la propria assoluta indipendenza da ogni altro centro di potere esterno».
Allora, o diciamo che Falcone non ha capito niente di cosa nostra, oppure continuiamo.
C’è una parte dedicata proprio alla pista nera. Ci sono le dichiarazioni di Alberto Volo, le considerazioni sull’attendibilità. C’è tutto. L’omicidio Mangiameli, il comportamento processuale di Volo nel procedimento relativo alla strage. Falcone ha sondato tutto.
E allora cosa dice Falcone? È stato poi ripreso da Natoli nella sua ordinanza sentenza: «È stato categoricamente escluso in particolare che Alberto Volo avesse mai avuto contatti con i servizi di sicurezza o con l’organizzazione Gladio. Con riguardo alla struttura Gladio è opportuno ricordare poi che ulteriori accertamenti documentali sono stati compiuti da questo ufficio nell’ambito di un diverso procedimento riguardante l’omicidio di Giuseppe Insalaco». L’ho spiegato, ce lo spiega bene il dicembre 1998 il giudice Guarnotta, che era uno dei giudici delle sezioni stralcio, giudice istruttore. «Noi abbiamo l’istanza del Partito Comunista che vuole sapere, anche con riferimento all’omicidio dei delitti politici» – ma siccome la requisitoria doveva essere scritta, anche perché il giudice Natoli doveva diventare sostituto procuratore il 10 giugno del 1991, e c’erano dei tempi proprio che bisognava rispettare, dice – «Poi affrontiamo la problematica di Gladio nel procedimento per l’omicidio di Giuseppe Insalaco». E lì Falcone arriva a questa conclusione: «In tal sede l’esame della documentazione completa concernente tutte le persone inserite nella struttura, ed anche semplicemente ‘valutate’ per un loro eventuale inserimento ha consentito di escludere l’esistenza di alcuna relazione con i temi e le persone costituenti oggetto del presente procedimento». E siamo nel 1991.
Quindi abbiamo Falcone e gli altri magistrati della procura che arrivano a questa conclusione. E dall’altra parte nel 1991 abbiamo il dossier mafia e appalti, abbiamo la fine della partitocrazia incipiente. E nel processo Borsellino quater viene riportata addirittura una cosa incredibile dal mio punto di vista, e cioè un incontro tra il capo della Polizia Vincenzo Parisi, il Ministro Scotti e il generale Pisani, a cui partecipa anche l’allora segretario della DC, il bresciano Martinazzoli. A un certo punto il capo della Polizia dice: «Ma mentre al sud c’è lo stragismo» siamo nel settembre 1992 «al nord c’è l’avanzare della Lega». Come c’è l’avanzare della Lega? È il corpo elettorale che si sta esprimendo. Questo per farvi capire che il sistema temeva il cambiamento prima ancora dentro le cabine elettorale. Questo è il punto. Un capo della Polizia che dice: «È pericoloso questo avanzamento della Lega al Nord», ma di che cosa stiamo parlando? Il 5 aprile del 1992 c’erano state delle regolari elezioni politiche democratiche. Per dirvi come il sistema temeva il cambiamento, che sarebbe vieppiù stato accentuato e accelerato dalle inchieste a tenaglia da Nord a Sud.
Di Pietro doveva morire. Cosa c’entra Di Pietro con l’eversione nera? Cosa c’entra Di Pietro con Gladio? Cosa c’entra Di Pietro con la massoneria? Di Pietro doveva morire perché era l’attendente al Nord delle stesse indagini che si dovevano fare al Sud.
PRESIDENTE. Grazie avvocato. Ci sono ancora cinque iscritti a parlare, vorrei farli intervenire tutti, ricordando che alle 14 c’è voto in Aula, quindi invito tutti a stare nei tempi. Inizio dall’onorevole Orlando, poi Cafiero de Raho e De Corato.
ANDREA ORLANDO. Grazie presidente, grazie avvocato. Io credo che l’insieme di suggestioni che sono state sottoposte a questa Commissione ci pongano di fronte a una ricostruzione che merita un approfondimento, tanto più che parrebbe non avere avuto questa sorte nelle diverse vicende processuali di cui ci siamo occupati in questi anni, di cui si è occupata la magistratura. Però, al di là dei fatti, che naturalmente sono molti e, quando si individuano, si individuano sempre attraverso uno schema di lettura che con onestà l’avvocato ha in qualche modo esplicitato, ci sono alcune questioni sulle quali volevo capire come coniugava i diversi aspetti che comunque sono emersi nelle vicende processuali, anche se non hanno portato a una verità definitiva. Cerco di richiamarli.
La ricostruzione che ci offre è quella di un sistema partitocratico agonizzante che utilizza la mafia come strumento di stabilizzazione. In questa ricostruzione però entrano in contraddizione alcuni punti. Il primo è quello dell’omicidio di Salvo Lima, perché Salvo Lima può essere considerato tutto tranne che un antagonista dell’eventuale sistema delle tangenti, essendone stato, in qualche modo, il garante politico. Questo credo che sia un dato accertato anche in sede giudiziaria. Il mandato ad uccidere nei confronti di Calogero Mannino ormai provato processualmente. Anche in questo caso Mannino è risultato estraneo ad alcune contestazioni che gli sono state fatte, ma sicuramente non emerge come un antagonista del sistema partitocratico. Mi pare che sia difficile collocarlo storicamente, a differenza probabilmente di Piersanti Mattarella o di Pio La Torre. In questo caso ci troviamo di fronte a un protagonista di quel sistema. L’altro aspetto che in qualche modo volevo capire come viene coniugato, è dopo il 1991 un protagonismo di alcuni elementi che con l’eversione nera avevano molto a che fare, e che sono protagonisti, anche qui accertati in sede di sentenza. E, da ultimo, rispetto alle indagini della procura di Firenze. Mi riferisco in particolar modo alla figura di Bellini. Bellini è uno stabilizzatore del sistema del tavolo delle tangenti, è uno strumento? Fatto sta che la mafia, diciamo così, accetta il suggerimento di deviare il proprio orientamento dalle stragi nei confronti di persone per orientarlo verso… Quindi non è un soggetto in qualche che è entrato in contatto occasionalmente e ha avuto una buona idea. Evidentemente c’era una frequentazione risalente che si può pensare fosse anche antecedente – non lo sappiamo, ma ci sono elementi che possono suggerire questo – al 1991.
L’ultima considerazione, sempre per capire come si combinano questi aspetti, è il tema della strategia complessiva che la mafia adotta all’indomani del 1991/1992 che sembra in qualche modo guardare non tanto a una difesa del vecchio sistema, ma a una partecipazione alla costruzione del nuovo. I tentativi di costruire la Lega Sud, il tentativo di lavorare sul fronte, diciamo così, di un riordino del sistema. Il ruolo e la funzione svolta – e anche qui stiamo alle carte – nell’interlocuzione con Dell’Utri nel momento della fondazione di Forza Italia. Tutti elementi che sembrano alludere più che a una mafia preoccupata per il crollo del vecchio sistema, interessata, con la consapevolezza o meno dei soggetti destinatari di questo interesse, alla costruzione del nuovo assetto che si viene a determinare.
Questi tre elementi, per titoli gli omicidi eccellenti della partitocrazia, l’aspetto che riguarda la conclamata interazione con l’eversione nera, probabilmente risalente a prima del 1991, ma questo non sono in grado di dimostrarlo, l’aspetto che riguarda, invece, il candidarsi ad essere levatrice del nuovo assetto che si viene a determinare della mafia, sembrerebbero in qualche modo in contraddizione con la ricostruzione che lei ci ha proposto.
PRESIDENTE. Grazie onorevole Orlando, prego vicepresidente Cafiero de Raho.
FEDERICO CAFIERO DE RAHO. Grazie presidente. Innanzitutto devo ringraziare la dottoressa Lucia Borsellino e l’avvocato Trizzino per il grande contributo di conoscenza che ci hanno dato per il panorama amplissimo di cui hanno parlato che ci aiuta a leggere ancora meglio e di più le carte e a confrontarle anche con tutto il quadro già acquisito. Questo è importante perché il diritto alla verità è un diritto riconosciuto dalla nostra stessa Costituzione, e che dobbiamo necessariamente rispettare. Ne va della nostra democrazia.
Voglio sottolineare un punto. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino saranno sempre degli eroi per noi. Sempre. Nessuno ha mai messo in dubbio la loro statura morale, etica, professionale. Sono dei giganti. Dei giganti ai quali tanti di noi si sono rivolti. Tanti di noi hanno scelto di essere magistrati proprio guardando quel modello. Quindi qualunque eventuale ventata sporca cui voi avete forse fatto riferimento in qualche intervento, credo che non sia stata colta assolutamente da nessuno di noi e da nessun componente del popolo italiano che rispetta e ricorderà sempre persone come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Io vorrei fare alcune domande. In primo luogo se fosse possibile avere qualche miglior chiarimento, ma è possibile che più di quello che è stato detto non è possibile avere. «Nido di vipere», avete delle indicazioni specifiche? È possibile rilevare con nomi e cognomi? E poi c’è stato anche un riferimento ai «fedeli di Giammanco e a tutto il restante ufficio», cioè Giammanco quindi poggiava su un sostegno all’interno del proprio ufficio? Su uomini che erano fedeli a lui e non seguivano, invece, l’andamento di quello che era un orientamento diverso nell’ambito dell’ufficio?
Un altro aspetto, Contrada era uomo che operava come esponente dei Servizi con Tinebra. Tinebra si avvaleva di lui e anche di altri. Quando poi il procuratore aggiunto Paolo Borsellino assume l’informazione, che resta solo oralmente acquisita, di uomini presenti nello Stato legati a cosa nostra, quindi Contrada, Domenico Signorino, immagino che questa sia stata una notizia sconvolgente. Domenico Signorino era stato il sostituto che aveva portato avanti il più grande processo che c’è stato a cosa nostra, quindi associarlo a Bruno Contrada e pensare che le indagini su Giovanni Falcone fossero portate avanti da persone che da Gaspare Mutolo venivano ritenuti uomini di cosa nostra, deve essere stato veramente sconvolgente. Su questo se poteste dare, sempre che ce ne sia, qualche ulteriore indicazione perché certamente, una notizia così sconvolgente non può essere restata priva di una conseguenza anche interiore per un gigante come il procuratore aggiunto Paolo Borsellino.
Avete poi parlato di qualcuno che lo ha tradito o lo aveva tradito. Certo non era il generale Subranni, che pure comunque – almeno sembra, non l’ho ben compreso in verità – nel momento in cui acquisisce la notizia dell’esplosivo che arriva a Palermo, ne dà informazione ad Andò, al procuratore Giammanco, non lo dice proprio al suo amico procuratore aggiunto Paolo Borsellino. Il che effettivamente è un’altra informazione sconvolgente questa nel momento in cui se ne prende atto. Anche su questo, se riuscissi ad avere una vostra risposta.
Ancora, nella sua ampia esposizione dei rilevanti fatti che hanno preceduto la strage di via D’Amelio, è stato dato un significativo rilievo all’incontro alla caserma Carini del procuratore aggiunto Paolo Borsellino con il generale Mori e il capitano De Donno, in cui si parlò delle indagini mafia-appalti. Di tale incontro il generale Mori e il capitano De Donno però non hanno mai parlato in prossimità di quella strage, di una strage così importante. Ne parlano, mi sembra, la prima volta alla fine del 1997 o agli inizi del 1998. Potrei però aver perso un suo passaggio, avvocato Trizzino. Di questo parla anche il GIP, Gilda Loforti, in quel provvedimento di archiviazione cui lei ha fatto riferimento e sottolinea anche un aspetto di quel tipo. Anche su questo, se fosse possibile, vorrei avere una sua indicazione.
Ancora molto brevemente. Ci fu una proposta di sorveglianza speciale di sequestro di beni nei confronti di Buscemi Antonino e Buscemi Giuseppe, anche con riferimento alla Calcestruzzi S.p.A., acquisti immobiliari e tanti altri beni che appunto appartenevano a costui, proprio come indiziato di appartenere alla mafia. Questa risale al 28 ottobre 1992, quindi già lì la prima delega era stata data nel 1991, vi è stato un sollecito il 15 luglio 1992. Su questo, se effettivamente anche questo era un precedente.
Era stata poi emessa un’ordinanza di custodia nei confronti di Riina Salvatore più ventiquattro, fra i quali vi era anche Buscemi Antonino, ma vi era anche Ciaravino Antonino, vi era Lodigiani Vincenzo. Vi erano grandi mafiosi e al tempo stesso grandi imprenditori, proprio quelli cui lei ha fatto riferimento. Questa però viene depositata il 17 maggio 1993 e il 25 maggio viene poi eseguita.
Infine, proprio nell’ambito di tutte le sue conoscenze, lei ha legato in qualche modo la strage di Capaci e quella di via D’Amelio con quello che è stato successivamente il programma stragista continentale, laddove in alcuni provvedimenti giudiziari si dice che si trattava di un progetto unitario sostanzialmente?
Infine, se vi fossero elementi in relazione all’omicidio del dottor Scopelliti, che era sostituto procuratore generale e avrebbe dovuto rappresentare, come è noto, il pubblico ministero davanti alla Corte di cassazione nel maxi processo. Se ve ne fossero in relazione appunto alla cosiddetta Falange Armata che rivendicò l’omicidio di Scopelliti e alle strutture Gladio di cui appunto parlava riunendole assieme già la sentenza ordinanza dell’Italicus bis, che pure sembra in qualche modo poter integrare un quadro generale.
Ringrazio davvero l’avvocato Trizzino e la dottoressa Lucia Borsellino per aver dato un contributo straordinario e una spinta notevolissima a quello che sarà il nostro successivo lavoro. Grazie presidente.
PRESIDENTE. Grazie a lei vicepresidente. Per facilitare la risposta le do subito la parola avvocato.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Sarò telegrafico.
PRESIDENTE. No, prenda il tempo che deve, ci mancherebbe.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Chiedo il consenso ad invertire l’ordine delle risposte. Prima rispondo all’ex Procuratore nazionale antimafia Cafiero de Raho e poi all’onorevole Orlando.
Per quanto riguarda il «nido di vipere» lei deve metterci un «qui». «Qui è un nido di vipere», quel «qui» cambia tutto: procura della Repubblica. Per i fedelissimi è Antonio Ingroia che ce lo dice al processo depistaggio e alla Commissione Claudio Fava, Lo Forte e Pignatone.
Per quanto riguarda Contrada e Tinebra fu Vincenzo Parisi, tramite il genero Costa, a chiedere la collaborazione di Contrada, il quale in tutto quel contesto, fu l’unico che si mosse secondo legalità, dicendo: a) «Io non sono autorizzato, potrò lavorare a questa indagine soltanto se ottengo l’autorizzazione»; b) diede le giuste informazioni, che furono assolutamente non seguite. Graziano e Madonia; c) Contrada viene posto sul luogo della strage immediatamente ed è riuscito a dimostrare che si trovava altrove, altrimenti avrebbe avuto un 422 c.p. Quindi Contrada a me sembra più un soggetto da sacrificare in nome di alti giochi che avvengono a Roma.
Non è vero che il dottor Borsellino non venne informato da Subranni subito. I Carabinieri seguono una gerarchia ben precisa. Lei come Procuratore nazionale antimafia avrà sicuramente letto la dichiarazione di Sinico nel processo Borsellino ter che dice che Baudo e Obinu, dopo aver appreso il 15 l’informazione dal carcere, grazie al maresciallo Lombardo, si recarono da Borsellino. Borsellino – dichiara il capitano Sinico – dice: «Io devo lasciare qualche spiraglio per la famiglia». Questo lo dichiara Sinico con riferimento al giorno 16 giugno del 1992. Il 18 arriva un anonimo con una bara e Giammanco questo anonimo lo voleva stracciare. Lì il dottor Natoli si oppone. Il 19/20 arriva l’informativa di Subranni e Paolo Borsellino si incavola non perché non sa che il tritolo è arrivato, perché glielo comunicano Baudo e Sinico il 16 di giugno – queste informazioni dovrebbero essere patrimonio della Procura nazionale antimafia – ma si incavola perché l’inerzia del dottor Giammanco nell’attivare il comitato di sicurezza è la prova provata che le «cose tremende che stava scoprendo» è che aveva un procuratore che gli remava contro, davvero. Quindi sgombriamo il campo, Subranni ha detto ai suoi sottoposti: «Avvisate subito Borsellino». E vanno in ufficio. E ce lo dice il capitano Sinico.
Per quanto riguarda le dichiarazioni sulla caserma Carini, neanche il dottor Scarpinato fino al 2021 ci ha detto che sapeva che il dottor Borsellino avrebbe dovuto incontrare il ROS e di non dirlo a Giammanco. Lo abbiamo scoperto nel 2021 ad Avezzano. Lo ha dichiarato il senatore Scarpinato.
ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. (fuori microfono) Ma che dice? Non mi può attribuire cose che non ho detto.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Lo leggo nella sua relazione. È agli atti.
PRESIDENTE. No, questa interlocuzione non si può fare senatore. Grazie.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. È agli atti, io mi riferisco ad atti.
Per quanto riguarda il sequestro dei beni avviene nell’ottobre del 1992, e Siico ci dice che quei beni dopo quindici giorni furono restituiti.
Per quanto riguarda il progetto unitario, se per progetto unitario si intende – e voglio rispondere in parte anche all’onorevole Orlando – Lima e Mannino sicuramente sono amici o considerati tali. Soprattutto Lima. Su Mannino poi ci sono stati processi, e in questo Paese bisogna prendere atto che ci sono giudici terzi che possono decidere e se la decisione non ci piace la dobbiamo accettare.
PRESIDENTE. Onorevole la prego, non ho dato parola di replica a nessuno, vale per tutti. La prego onorevole Orlando.
ANDREA ORLANDO. Solo perché non rimanga agli atti un addebito che ho fatto all’onorevole Mannino. Era solo una ricostruzione politica.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Il problema qual è? Riina ha subìto – l’ho spiegato bene nel corso delle mie audizioni – la sentenza del maxi, ha subìto la sentenza Basile, Riina ha un problema di leadership interna spaventosa. Non è riuscito a garantire nulla alla sua organizzazione di quello che aveva promesso, e infatti crea la «Supercosa». Stringe attorno a sé i fedelissimi, e questo emerge dalle risultanze del processo Messina Denaro, Borsellino quinquies, Capaci ter. Quindi ha la necessità di contemplare ai suoi sodali che è il momento della vendetta, perché ci manca pure che rimane fermo rispetto al fatto che si sono tutti presi l’ergastolo e il teorema Buscetta è stato confermato. «Quindi Lima va ucciso» lui contempla ai suoi nella riunione del dicembre 1991, «Va ucciso perché non è riuscito a proteggerci». Di Mannino sappiamo da Brusca. Brusca ci dice: «Dopo Falcone doveva morire Mannino». E poi c’è il clinamen, cioè la deviazione su Borsellino. Quindi l’omicidio Lima va innanzitutto inserito nella necessità che ha Salvatore Riina di contemplare all’esterno che là ci deve essere una reazione.
Come ho spiegato prima il disegno egemonico di Salvatore Riina, come ce lo spiega benissimo Brusca, prima di andare verso il papello ed altro, è quello di sedersi lui al «tavolino». È questa la grande differenza tra la mafia di Bontade, Badalamenti, Greco e gli altri. Riina vuole sedersi al «tavolino». Il che significa intrecciare rapporti diretti con Raul Gardini, il quale non mi si venga a dire che in quegli anni non aveva il potere con una telefonata, non dico di decidere, perché poi lui pagò la decisione sulla mancata defiscalizzazione delle plusvalenze. Però chi era Gardini? Gardini è uno che poteva alzare il telefono e dire: «Io faccio Enimont se mi fate la defiscalizzazione delle plusvalenze». Poi siccome i politici, Craxi e gli altri, non volevano mollare le galline dalle uova d’oro, De Mita e tutti quelli non gli fanno il provvedimento di defiscalizzazione delle plusvalenze derivanti da joint-venture.
È più complicato di quello che sembra. Io rivendico il mio sacrosanto diritto di utilizzare paradigmi interpretativi non tralatizi, perché l’Italia e il mondo stava cambiando. E l’ho spiegato nell’analisi del contesto storico. E poi io ho fatto nomi e cognomi. O pensiamo ad uno Stato italiano totalmente governato da una Spectre, per cui Pansa chiede di non acquisire il fascicolo, quell’altro la borsa la tratta come niente, Tinebra fa i depistaggi, La Barbera fa i depistaggi, ma tutti questi soggetti a chi rispondono? Rispondono all’eversione nera, alla massoneria? Che ne so io. Io vi ho portato dei dati. Dire che La Barbera, Pansa, Tinebra sono dei sodali, fanno parte dell’eversione nera sinceramente mi riesce difficile, ma se mi si dimostrerà lo accetterò, ci mancherebbe. Io ho solo l’interesse a che si scopra per conto di chi questi soggetti hanno agito. Però Borsellino dice: «qui è un nido di vipere». E questo, credetemi, non è stato mai analizzato a sufficienza. Questo siamo venuti a dirvi.
Per quanto riguarda la strategia unitaria: anche qui si è sempre pensato a cosa nostra come un monolite. Già nel marzo del 1992 Borsellino fa una dichiarazione in cui dice: «Riina e Provenzano sono come due pugili in lotta». Anche lì andrebbe rivista la famosa monoliticità, unitarietà della commissione. Io credo che Riina – e l’ho spiegato – agisse in pieno delirio di onnipotenza per necessità sue interne e perché era convinto che, appunto, dando i colpetti, potesse utilizzare i vecchi sistemi per cui poi alla fine ci si accordava. La politica della mediazione, come vi ho detto nel corso della mia audizione introduttiva sul contesto. Dovete inquadrare questa risposta con riferimento al disegno egemonico di Riina. Riina pensa di poter essere colui che va a occupare il vuoto di potere che si sta per determinare per effetto delle indagini. Questa consapevolezza viene dopo, nel 1993. Ecco perché io non lo ritengo un progetto unitario. Nel 1992 le stragi hanno una ragione preventiva, che viene venduta come vendicativa alla maggior parte della commissione che non sa degli affari di Riina e del disegno egemonico di Riina per arrivare al «tavolino».
Quindi le stragi di Capaci e via D’Amelio non sono connesse con le stragi in continente, perché lì se un simulacro di unitarietà della deliberazione delle commissioni si potrebbe rinvenire nel disegno vendicativo nei confronti di Falcone e Borsellino, rispetto alla strategia stragista in continente, quando cioè è fallita la logica preventiva di bloccare quelle inchieste, Riina, tra l’altro catturato, i suoi sodali cercano di giocare l’impossibile. Ma io non vedo tra Italicus, Bologna… Io ho sentito pure di Portella della Ginestra, come se fosse un disegno unitario, come se gli anni non passassero solo per noi e per il mondo, ma tutto fosse fermo. Quando si parla di mafia, dei rapporti Stato-mafia ci si ferma, il tempo non passa, i paradigmi non vengono superati. Quando io sento parlare di Portella della Ginestra associata alle stragi di Falcone e Borsellino, io divento letteralmente pazzo, come se la storia, gli eventi, il dinamismo sociale, anche il cambiamento culturale all’interno dello stesso sodalizio mafioso… Ma c’è una differenza enorme tra Messina Denaro e Totò Riina, per substrato culturale, per strategia, per tutto. E le nuove generazioni saranno ancora peggio e quindi meglio per noi.
Bellini. Il progetto della Lega Sud fa parte di questo tentativo di creare un proprio spazio. Addirittura, c’è un verbale della Commissione parlamentare antimafia, la posizione del defunto onorevole Mattioli, in cui dice: «Attenzione, guardate che quelli persi per persi, va di moda il leghismo, va di moda, proviamo la strada della Lega del Sud», proprio per occupare e darsi un ruolo. Ci dirà poi Cancemi, e soprattutto ce lo dirà Giuffrè, Riina voleva uccidere Provenzano. Giuffrè ci dice che quando Riina gli chiese: «Ma a che ora esce Binno?» Giuffrè ha capito che attraverso il boss di Caccamo, fedelissimo di Provenzano – quindi prima della cattura di Riina – Riina voleva addirittura uccidere Provenzano, perché voleva il campo libero in questo suo disegno pazzesco, folle, in pieno delirio di onnipotenza.
Bellini è una figura inquietante, sono d’accordo con l’onorevole Orlando, ma Bellini fa parte di quel «mondo di mezzo», perché Bellini è protagonista di alcune trattative. Una è quella famosa legata alla restituzione di alcuni beni artistici. Ed è il Bellini che si propone al Brusca Giovanni perché, attraverso il famoso maresciallo Tempesta, se ricordate, si fa questa prima trattativa. Ma è chiaro che in quel momento storico, dove tutti perdono dei punti di riferimento, l’unica Falange Armata veramente esistente non è quella che rivendica il 21 giugno il fatto che Ayala sta mentendo sui diari di Falcone, sulle annotazioni, perché le annotazioni poi le abbiamo trovate. La Falange Armata, voi sapete, è stata poi studiata dal giudice Salvini è stato dimostrato che molte volte si trattava di hackers. E soprattutto è stato dimostrato che in un’agenzia giornalistica in Portogallo, in piena epoca pre-crollo del muro di Berlino, si era organizzato un centro di spionaggio. Tant’è vero che chi voleva indagare su quella struttura in Portogallo poi è stato bloccato per motivi di segreto di Stato, perché lì c’era – anche attraverso l’utilizzo, per carità, di soggetti di estrema destra fondamentalmente – l’utilizzo di una cellula di controspionaggio, ma sempre in funzione anticomunista.
Quindi la vera Falange Armata che io ho visto operare seriamente in quegli anni erano le pattuglie di Riina che piazzavano tritolo. E poi ho visto un’altra Falange Armata muoversi: uomini dello Stato che hanno fatto di tutto per depistare le indagini sulla strage di via D’Amelio. Se voi riuscite a dimostrarmi che cos’è la Falange Armata io sono il primo a dire: «Allora portatemi le prove che esiste un’altra Falange Armata, che è la vera. Io conosco solo quella Falange Armata».
L’omicidio Scopelliti. Diciamo che sull’omicidio Scopelliti c’è da dire che conosco poco, non posso sapere tutto. So solo che una delle causali viene individuata nella inavvicinabilità dello stesso, con riferimento alla requisitoria che avrebbe dovuto fare nella funzione di sostituto procuratore generale in Cassazione rispetto al maxi processo. Io vorrei ricordare che già Riina si mosse molto per cercare di aggiustare il maxi processo. Non ci riuscì. E lì sul versante calabro catanese ammetto di non avere le stesse conoscenze che ho sulla mafia del versante occidentale. Quindi qualora mi si dimostrerà che Scopelliti è stato ucciso anche attraverso l’intervento di terroristi, io non potrò che prenderne atto.
Quello che veramente vorrei che restasse è che noi stiamo cercando di offrire materiale nuovo, e di non andare sempre a riciclare del materiale vecchio che è stato già oggetto di ampia delibazione nelle sedi competenti.
PRESIDENTE. Grazie mille avvocato. Io ho ancora tre iscritti a parlare. Prego onorevole De Corato.
RICCARDO DE CORATO. Io volevo ringraziare sia la dottoressa Borsellino sia l’avvocato Trizzino. Nella prima audizione ha iniziato con il paragone Mani pulite e mafia. Io sono stato consigliere comunale a Milano dal 1985 fino al 2016 e ho vissuto in quegli anni tutta la vicenda di Mani pulite nel consiglio comunale di Milano, quindi non devo dire altro. La sua ricostruzione mi ha impressionato, soprattutto perché questo accostamento mafia-appalti non era mai stato fatto. Ad esempio lei ha detto che Di Pietro fu portato in Costa Rica a un certo momento perché c’era il rischio. Questo è un fatto che a Milano non si è mai saputo. E questo è un fatto anche di un certo rilievo. La domanda che io le farò – poi noi avremo modo di sentire anche il dottor Di Pietro – perché in un’intervista a L’Espresso del 19 gennaio 2020 che lei ha citato, Antonio Di Pietro racconta l’incontro con Paolo Borsellino. L’incontro avviene ai funerali di Falcone. Dice il dottor Borsellino: «Ci siamo parlati e lui ripeteva: “Dobbiamo fare presto, dobbiamo fare presto” con riferimento alle indagini sul rapporto del ROS». Di Pietro spiega il valore di quell’indagine giungendo addirittura ad affermare che Mani pulite e Palermo sono un’unica storia e questo emerge in maniera chiarissima. Io per questo la ringrazio perché dopo quello che lei ci ha detto credo che i dubbi possono essere pochissimi. Io non li ho. Il riferimento decisivo è proprio all’indagine su Gardini e la Calcestruzzi, guarda caso. Mani pulite non è partita da Milano, ma da Palermo, con il rapporto dei ROS del 1991. Questo per esempio è un fatto fondamentale, almeno per chi come me per anni ha vissuto nel consiglio comunale di Milano con denunce varie che ho portato anche al dottor Di Pietro. Questo rapporto del ROS, che io ritengo un dato fondamentale, la storia di quello che è accaduto nel nostro Paese, in relazione a tutte le vicende delle tangenti, a Milano come a Palermo. Questo rapporto del ROS del 1991 viene messo in cassaforte da Giammanco, guarda caso, dove veniva raccontato quello che ho scoperto anni dopo. Dice Borsellino.
Domanda: avete notizie sul rapporto personale tra il dottor Borsellino e il dottor Di Pietro? Cosa pensate di queste affermazioni? Lei le ha citate, ma non siamo mai entrati in queste affermazioni del dottor Di Pietro che, è inutile dire, è stato l’autore di tutta la vicenda di Mani pulite, almeno nella parte più importante. Grazie.
RAOUL RUSSO. Grazie presidente. Naturalmente un ringraziamento non formale a Lucia Borsellino e all’avvocato Trizzino per quello che hanno detto, soprattutto perché lo hanno fatto con dovizia di particolari, con concretezza, e perché hanno – l’avvocato Trizzino in modo particolare con le sue correlazioni perfette oserei dire tra fatti e contesto – rievocato anche il clima della Palermo dell’epoca. Perché magari chi, come me, è palermitano un po’ si ricorda, perché aleggiava il tema di questa procura che era un «nido di vipere», come veniamo a sapere dopo e soprattutto questo clima da «mani sulla città» collegato al potere politico e al potere economico che, vi assicuro, era molto visibile, perché i figli di Siino andavano nelle migliori scuole di Palermo, qualcuno se lo scorda. Siino era considerato uno degli imprenditori più importanti di Palermo. Molti dei nomi che sono stati fatti sono i principali costruttori che hanno costruito e devastato Palermo. Quindi parliamo di un contesto molto importante e chi l’ha vissuto non si può meravigliare come questo potere economico e politico fosse non solo intrecciato, ma non volesse avere rotte le scatole. Una domanda alla dottoressa Borsellino in modo specifico. Secondo me, lei oggi ci ha dato una notizia importante: ci ha consegnato, se ho ben compreso, la rubrica telefonica contenuta nell’agenda marrone sicuramente trovata nella famosa borsa, dandocene anche una chiave di lettura che io ritengo assolutamente plausibile per una generazione che ancora utilizzava carta e penna. Quindi le faccio una domanda quasi provocatoria: cosa c’era secondo lei, che viveva con il dottor Borsellino, quindi non de relato, in quella borsa? Come diceva la famosa agenda rossa, c’era altro? Ovviamente a sua memoria.
E poi una domanda per l’avvocato Trizzino. Lipera – forse mi è sfuggito, però volevo precisare meglio – inizia a collaborare con la procura di Catania e aveva manifestato ufficialmente, ufficiosamente la volontà di collaborare anche con la procura di Palermo in questo meccanismo di indagini? Grazie.
PRESIDENTE. Grazie mille. Avvocato, se vuole rispondere intanto.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Parto da quest’ultima domanda. Lì si apre una pagina, secondo me, tra le più terribili della storia, che è un incidente all’interno di tutta questa vicenda, il cosiddetto caso Catania. Il giudice Felice Lima è stato vittima, e lo dico senza paura, di un attacco feroce della procura di Palermo per essere riuscito a fare quello che loro non erano riusciti a fare. Cioè, valorizzando il rapporto, ovviamente anche attraverso le dichiarazioni di Lipera, fanno una richiesta di custodia cautelare, che io ho agli atti, che non venne vistata dal procuratore Alicata, benché il procuratore Alicata avesse seguito tutte le indagini. L’altra volta, nella sua domanda, il senatore Scarpinato mi ha chiesto di Lodigiani. Bene, il primo che va ad interrogare Lodigiani è stato Felice Lima. Ed era già nella richiesta di arresto non vistata del 15 ottobre del 1992. Non bisognerà aspettare l’ordinanza del maggio del 1993 per avere il nome di Lodigiani.
La cosa incredibile – e io vi rimando alle fonti, per lo studio di questa questione è fondamentale – io voglio sapere, nell’ambito del procedimento 3541/92, stralcio Sirap, una volta che, il 5 settembre del 1992, De Donno produce l’informativa Sirap, quali atti di indagine significativi sono stati fatti fino al 28 ottobre del 1992, quando scoppia il caso Lima, che viene accusato dai magistrati della procura di Palermo di recare un danno alle loro indagini. E il danno sarebbe quello di portare come teste al processo Claudio De Eccher, che stava inquinando da mesi le indagini. Questo era il danno che stava provocando Felice Lima a Palermo. De Eccher viene trovato con il verbale uscito dalla procura di Palermo di Leonardo Messina e lo scopre Felice Lima. Felice Lima lo vuole arrestare subito perché De Eccher è il più proclive a delinquere di tutti gli imprenditori che sono nel rapporto di mafia-appalti. Era veramente un imprenditore spregiudicato. C’è una registrazione della signora Stella, la moglie di Lipera, di quando, nello studio dell’avvocato Carlo Fabbri, Claudio De Eccher e Carlo Fabbri cercano di convincere la signora Stella, moglie di Lipera, pagandogli l’assistenza dei difensori, conservandogli il posto di lavoro e tante altre cose, per impedire al marito di collaborare. Questo è Claudio De Eccher, archiviato. E poi nella dichiarazione del 7 dicembre 1992 di denuncia di Felice Lima questo sarebbe il danno, dimostrare che quel soggetto che avrebbe dovuto fare il teste era un vero delinquente che stava inquinando le indagini. E quando loro lo arrestano nel maggio del 1993, era stato arrestato nel marzo del 1993 dalla procura di Pordenone.
Andava arrestato nell’ottobre del 1992, come voleva Felice Lima, perché stava inquinando le carte processuali, altro che maggio 1993.
E la cosa incredibile è che la procura di Palermo fa un’eccezione che normalmente facciamo noi avvocati, e cioè: avete sentito Lipera a s.i.t. come persona informata sui fatti e non come imputato di reato connesso. Ma fece bene Lima, per tanti motivi. Primo, non sapeva chi aveva di fronte. La prima cosa che gli dice fuori verbale è che la procura di Palermo non si fida perché lui conosceva personalmente dal 28 febbraio 1991 il rapporto. Quindi da quella procura è uscito il rapporto e ce lo conferma Gilda Loforti. Gilda Loforti lo dice: «È assai logico e probabile che la divulgazione illecita sia avvenuta dalla procura, non dai carabinieri». Altro che i carabinieri.
Lima viene attaccato, sottoposto ad un procedimento disciplinare devastante solo perché era riuscito a far parlare Lipera, aveva capito la natura associativa del patto del «tavolino» che precede l’infiltrazione della mafia. Per cui prima esiste il sistema delle combine, il racket, ed era tutto desumibile dalla richiesta di arresto del 25 giugno 1991. Gli stessi magistrati della procura di Palermo, quando fanno la richiesta di arresto di Siino, Lipera, Falletta, Cataldo Farinella latitante, e un altro che in questo momento non mi ricordo, attraverso il giusto recupero che fanno delle dichiarazioni di Pino Aurelio, e di Giacone, che io ho definito erroneamente imprenditore, ma era il sindaco di Baucina, amico intimo del Taibi ucciso nel settembre del 1989, da cui cominciano le indagini proprio tra Tor di Valle, che si associa con un imprenditorino di quattro soldi. Da lì nasce l’inchiesta oltre che dall’omicidio di Barbaro o La Barbera. Sono veloce, però come si fa a essere veloce a raccontare la storia d’Italia in quattro righe? Felice Lima è uno scandalo, ha subito la stessa sorte di Augusto Lama solo perché si era infilato in quella cosa in cui non si doveva infilare. Allora io voglio sapere, nel momento in cui l’informativa Sirap atterra su Palermo il 5 settembre, e siccome c’era stato lo stralcio del 15 giugno, 3541/92, quali deleghe di indagini sono state fatte sulla base della lettura dell’informativa Sirap. Perché se per caso si dovesse scoprire che dal 5 settembre al 28 ottobre non c’è niente, ci deve essere una spiegazione.
Tra l’altro Felice Lima nei verbali – e vi rinvio a questi atti che vi produco – richiesta di arresto non vistata dal procuratore Alicata, quello che ci dice Teresa Principato nel maxi bis, che aveva chiesto che rispetto a un procedimento a carico di Susinni, tenuto da Felice Lima, attraverso D’Acquisto si doveva arrivare ad Alicata per influire su Felice Lima. Sempre questo è il giro. D’Acquisto, capo di una procura, sostituto che si occupa di certe indagini. Sempre questo, e ce lo dice Teresa Principato nei verbali della commissione. Circostanza emersa nel processo maxi bis. Quindi vi rinvio per la storia del caso Lima alla relazione della procura di Palermo del 7 dicembre 1992 al CSM. Anzi andiamo prima, richiesta di custodia cautelare non vistata del 15 ottobre del 1992 di Felice Lima. Vi ho prodotto gli interrogatori del 13, 14, 15 gennaio, 20 luglio, eccetera, di Lipera. Lì troverete anche i tentativi degli avvocati fanno, soprattutto Memi Salvo, per far tacere Lipera. Tra le cose che gli contestano nella relazione del 7 è che Lipera è stato sentito non alla presenza di quell’avvocato di cui loro oggi dicono che era un mafioso.
Vedete la contraddizione? La contraddizione è pazzesca. È un paradosso tutto questo. Io avrei voluto veramente avere più tempo per rappresentare passo passo tutte le anomalie di quella gestione. Guardate che il caso Catania grida vendetta. È come se Caltanissetta, che aveva dimostrato l’inattendibilità di Ciancimino, avesse sollevato un caso al CSM perché l’arresto lo fa la procura di Palermo che lo aveva portato in cima in Italia come l’icona dell’antimafia. Non è successo niente. Si fa una telefonata tra capi e si dice: «Guarda non ti ho fatto il collegamento per questo e questo motivo». C’era il problema che Lipera era chiuso in un carcere con i mafiosi e che c’erano in atto manovre inquinatorie, anche da parte della mafia, per non farlo parlare tramite l’avvocato Memi Salvo. E poi – sentite, sentite – lo dichiara Felice Lima al CSM nel marzo e nell’aprile del 1996 (atti che vi ho depositato): «Io ho parlato con Borsellino ed è stato lui a far capire di non far mandare niente a Palermo». È chiaro?
Ma le ragioni di Lima sono estremamente importanti perché tutto avviene in quattro mesi. L’articolo 371 c.p.p. stabilisce una facoltà e non obbligo. Palermo aveva anch’essa l’anonimo di Catania, perché non si interessava Palermo, visto che l’anonimo era stato sequestrato come atto di delega di indagine della procura di Palermo? In realtà se voi leggete la posizione di De Eccher nell’archiviazione è pazzesco come si valorizzano le sue deduzioni difensive pro domo sua, si analizzano molto attentamente telefonate, pezzi di intercettazioni, documenti, però tutti gli elementi che, invece, andavano a carico della posizione, e che erano lì, perché la lettera e l’appunto sequestrato nella segreteria di Caltanissetta del Lipera erano stati sequestri fatti dal ROS su delega di indagine della procura di Palermo. Erano lì gli atti. Ecco quali sono le anomalie che non ci convincono. Noi pensiamo, a torto o a ragione, che quella archiviazione fu accelerata. Non si diede il tempo a Borsellino di ritornare, se fosse vissuto, e a dire: ne parliamo dopo. Come fa nella riunione del 14. Gli dice: «Vedete di acquisire gli atti dell’ultimo pentito» che era Leonardo Messina «e poi di questa questione ne parliamo appena torno dalla Germania». E secondo voi un magistrato parla così se gli avessero detto: «c’è un’archiviazione allo stato degli atti»? Ma di che cosa stiamo parlando?
Quindi vi rinvio per lo studio attento del caso Lima, al provvedimento della dottoressa Gilda Loforti, alla relazione della procura di Palermo del 7 dicembre 1992, alle sedute del marzo e dell’aprile 1996 della sezione disciplinare del CSM in cui Felice Lima spiega, convincendomi pienamente, che non era opportuno e che – visti i pericoli di vita che correva Lipera, e soprattutto le manovre inquinatorie accertate di Claudio De Eccher – non c’era alcuna necessità di informare Palermo. E che anzi in vista dell’inizio del dibattimento del 19 ottobre del 1992 del procedimento a carico di Siino e altri bisognava bloccare e arrestare Lodigiani, De Eccher, Catti De Gasperi eccetera, perché erano tutti associati a delinquere semplice in una grande organizzazione volta alla gestione illecita degli appalti, in cui poi vi era anche la mafia.
LUCIA BORSELLINO. Soltanto sulla conoscenza di mio padre con Di Pietro. Era una conoscenza che chiaramente si ascrive più al periodo finale della sua vita. Questo lo sappiamo dal dottor Di Pietro. Io poi l’ho conosciuto personalmente insieme con mia madre a casa nostra, perché è venuto a casa dopo la strage di mio padre, e fu lui che appunto ci confermò che stava lavorando con lui, aveva frequenti contatti nell’ultima fase della sua vita.
Noi, a dire la verità, per essere proprio estremamente trasparenti e chiari, non abbiamo trovato il suo numero, per esempio, in quella famosa rubrica; per chi poi dovesse sollevare anche questo tipo di obiezione, visto che ci aspettiamo tutto. Però c’era il numero del ROS di Milano.
Il presidente mi ricordava che tra le sue domande, onorevole Russo, vi era anche la questione del contenuto della borsa. Io ho testimoniato personalmente nella fase del dibattimento deL quater.
Sono stata sentita come teste della difesa chiamata dall’avvocato Repici per testimoniare in ordine alla presenza dell’agenda rossa. L’agenda rossa era contenuta all’interno della borsa perché io sono stata una testimone oculare dell’utilizzo di questa agenda da parte di mio padre la mattina del 19 luglio. Così come mio zio, Bruno Lepanto, è stato testimone del fatto che mio padre avesse aggiornato l’agenda, la rubrica proprio quella mattina del 19 luglio. Lui era solito alzarsi molto presto e in particolare quella mattina si era alzato prima delle cinque perché alle cinque aveva avuto un appuntamento telefonico con mia sorella, prima che poi venisse chiamato alle sette dal procuratore Giammanco. Perché io fui testimone di quelle ore, che papà trascorse a lavorare? Perché visto che la mia camera da letto era occupata dagli zii che dormivano da noi in quei giorni, io dormivo quella notte nel divano che vi era proprio in prossimità della sua scrivania.
Quindi io fui svegliata dalle telefonate, a partire da quella delle cinque del mattino, per cui poi mi trattenni nel letto, senza dormire chiaramente, in dormiveglia, fino poi a svegliarmi completamente, guardando tutto quello che papà aveva fatto prima di andare via. Tra l’altro lui partì da casa intorno alle nove e mezza, dieci, se non vado errata, e quindi fino a quel momento aveva continuato a lavorare. Si era poi ritagliato questo spazio della mattina, fino al primo pomeriggio, per stare con la sua famiglia a Villa Grazia.
Io stetti proprio a stretto contatto con lui perché fino all’ultimo voleva convincermi ad andare con lui la mattina. Convinse mia cugina di dodici anni, che mise con lui in macchina. Quindi se mio padre fosse stato sicuro di morire quel giorno, e mi risulta che c’era stato un tentativo di far brillare l’ordigno la mattina stessa, mio padre avrebbe portato a morte anche me e mia cugina Silvia di dodici anni. Quindi questo dimostra che mio padre fino all’ultimo ha creduto nella possibilità che lo Stato potesse proteggerlo. Questo lo dico a gran voce. Poi per un puro caso io non fui con lui perché appunto l’indomani dovevo sostenere un esame all’università, che poi fa rimandato di una settimana perché fu proclamato il lutto cittadino, e quindi poi non lo vidi più dalle dieci meno un quarto in poi perché appunto si apprestò ad andare alla casa del mare.
Quindi l’agenda rossa era contenuta nella borsa insieme con l’agenda marrone di cui vi ho parlato, contenente la rubrica, vi era un costume da bagno, le chiavi di casa, le sigarette che ci sono state restituite con il pacchetto, tutto era integro, perché la borsa ovviamente ha subìto una trasformazione nell’esplosione a livello esteriore, ma non ha assolutamente compromesso il contenuto. Per questo io mi sono particolarmente arrabbiata quando il capo della squadra mobile, il dottor Arnaldo La Barbera, ci ha consegnato la borsa e non ci ha dato l’agenda, perché io ero certa che fosse contenuta all’interno di quella borsa.
Lo dimostra il fatto, e questo lo dice il maresciallo Canale più volte, e anche il suo collega di Salerno Diego Cavaliero, che quando mio papà si trovò lì a Salerno per il battesimo del figlio del collega Diego Cavaliero, per un attimo dimenticò l’agenda rossa in albergo e fece di tutto per riuscire a recuperarla, sebbene poi sarebbe ritornato in albergo e quindi l’avrebbe naturalmente ritrovata, ma anche quelle due ore di permanenza dell’agenda in albergo a lui destava preoccupazione. Quindi questo a dimostrazione del fatto che l’ha portata con sé, e sono certa di questo, per averla vista inserire all’interno della borsa, come risulta anche dai miei verbali di deposizione innanzi all’autorità giudiziaria presso la procura di Caltanissetta. Escludo la possibilità che lui l’abbia minimamente lasciata, per esempio, nella casa del mare, pur avendola utilizzata, o in altri luoghi, perché appunto non se ne separava mai e avrebbe fatto di tutto per ritornare nel luogo dove l’aveva dimenticata. Quand’anche nella malaugurata ipotesi l’avesse lasciata a Villa Grazia di Carini e non gli sarebbe stato dato il tempo di ritornare, perché nel frattempo è stato ucciso, a Villa Grazia di Carini noi abbiamo subìto un furto, che abbiamo regolarmente denunciato, nel quale per altro non ci sono state forzature e che ha messo a soqquadro soltanto lo studio di mio padre, senza rubare nulla che fosse importante, almeno non abbiamo rinvenuto la sottrazione di alcun oggetto che potesse essere di valore. Questo è tutto quello che posso dirvi sull’argomento.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Io ho eluso una risposta, ma non era mia intenzione. Sulla natura dei rapporti tra Falcone, Di Pietro e Borsellino io la rimando, senatore, al verbale dell’aprile del 1999, Borsellino ter, che ho tra gli allegati, dove lì Di Pietro spiega perfettamente come nasce prima il rapporto con Giovanni Falcone, legato a un progetto di informatizzazione degli uffici della procura, perché Di Pietro era abile con gli strumenti informatici. Poi da lì si comincia a parlare, e siamo nella primavera del 1992, quindi Falcone è ancora vivo, Borsellino è ancora vivo e cominciano tutti e tre. Lei lo vede dal verbale del 1999, tutti e tre, Falcone, Borsellino e Di Pietro parlano delle indagini. Siamo all’inizio, Baggina e piccole cose lombarde. Borsellino e Falcone hanno, invece, il rapporto del ROS. Non dimenticate la reazione di Falcone quando nell’agosto del 1991 Giammanco gli manda il rapporto: «Lo stanno insabbiando». Non dimenticate la reazione di Borsellino come raccontatoci da Antonio Ingroia nel 2021: «Lo stanno insabbiando». Borsellino credeva che stessero insabbiando quell’indagine. Ho spiegato più volte la manovra a tenaglia. Di Pietro da una parte, Falcone Procuratore nazionale, Borsellino non oso immaginare. Tant’è vero che c’è una dichiarazione del 1998 di De Donno in cui De Donno dice: «Falcone mi chiama e mi dice: se divento Superprocuratore la voglio con me nella costituenda forza d’indagine che vado a creare». E secondo voi De Donno di che cosa si sarebbe occupato con Falcone? Non penso di Stefano Delle Chiaie, mi pare un po’ difficile in quel momento storico, ma non lo voglio dire, lo potrei dire anche di Curcio, Moretti, a me non interessa il colore, nero, bianco o rosso delle frange terroristiche. A me piace l’aderenza ai fatti. E ho dimostrato che Riina, tramite Panzavolta, Bini, Buscemi, era così con Raul Gardini, quello che è in grado di fare una telefonata e bloccare un’inchiesta.
L’Italia stava cambiando, non c’erano più quei paradigmi. Poi ci può essere sempre un rimasuglio, ma dire che la mafia è eterodiretta dall’eversione è una follia perché è smentita dai fatti. È la storia di cosa nostra che è così, ma quella di Riina poi non ne parliamo. Riina è talmente ossessionato che non si fida neanche dei suoi. Scarantino è rimasto in vita nonostante Ferrante che si pente nel 1996, perché Ferrante non sapeva realmente chi aveva rubato la macchina. E Ferrante chi è? Colui che presidia Borsellino la domenica da via Cilea, tutta la staffetta. E Ferrante non sa chi ha rubato la macchina. Quindi un Riina che non si fida manco dei suoi, deve appaltare a chicchessia le stragi? Questa cosa se riuscite a dimostrarmela io sarò il primo a chiedere scusa a tutta l’Italia, però su questo voglio essere giudicato, su questo voglio essere contrastato.
PRESIDENTE. Avvocato Trizzino nessuno la giudica. Mi permetto di dirlo a nome di tutti, ci mancherebbe altro. Comunico ai colleghi che l’Aula è ripresa, quindi il tempo a nostra disposizione è terminato. Ho iscritta l’onorevole Ascari, la prego di essere velocissima, poi il vicepresidente D’Attis voleva sollecitare una domanda e liberiamo la dottoressa Borsellino e l’avvocato Trizzino.
STEFANIA ASCARI (intervento da remoto). Grazie presidente, farò il possibile, anche perché, come sa, il tema è estremamente complesso. Ringrazio anch’io l’avvocato Trizzino e la dottoressa Borsellino per l’importante contributo. È un dato di fatto e sappiamo tutti che Falcone stava indagando su Gladio prima ancora che questa organizzazione diventasse di pubblico dominio.. Sappiamo che, dopo il fallito attentato, Falcone parlò per la prima volta di «menti raffinatissime». Nel corso del processo per l’omicidio Rostagno è stato acquisito un documento, datato 10 giugno 1989, nel quale si davano istruzioni per un’operazione riconducibile a Gladio, con l’utilizzo di mezzi del centro Scorpione di Trapani. Mi riferisco all’operazione Domus Aurea, operazione che doveva svolgersi proprio nel tratto di mare antistante il villino abitato dal dottor Falcone all’Addaura. Dieci giorni dopo c’è stato l’attentato. Fatto sta che tre anni dopo, quando il dottor Falcone si è trasferito all’ufficio Affari penali del Ministero di grazia e giustizia a Roma, ha portato con sé alcuni file che riteneva importanti, tra questi quello su Gladio. Un mese dopo la strage di Capaci qualcuno ha consultato quei file. Io vorrei chiederle, dottoressa Borsellino, se vostro padre all’interno del nucleo familiare vi ha mai parlato di Gladio e se sì se prima del 1990, anche perché ci fu un dibattito feroce con Giammanco proprio su questo argomento.
La seconda domanda è questa: la signora Agnese, sua mamma, ha dichiarato durante il processo per la strage: «Mi ha accennato qualcosa, e non in quel contesto, che c’era una trattativa tra la mafia e lo Stato, ma che durava da un po’ di tempo. Dopo la strage di Capaci disse che c’era un colloquio tra la mafia e alcuni pezzi infedeli dello Stato e non mi disse altro». Questa è una domanda che faccio sempre a lei dottoressa Borsellino, perché vorrei capire se proprio all’interno delle mura avete avuto modo con la signora Agnese di approfondire questa dichiarazione nel merito, proprio come nucleo familiare. La strage di via D’Amelio è sempre stata definita anomala proprio perché troppo ravvicinata a quella di Capaci e anche perché le conseguenze sarebbero state ovviamente e palesemente dannose per gli stessi mafiosi.
Per quanto riguarda l’avvocato Trizzino vorrei chiederle, a proposito di trattativa Stato-mafia, ad aprile scorso, come tutti sappiamo, la Cassazione ha confermato l’assoluzione per gli uomini dell’Arma; per quanto riguarda l’ex parlamentare Dell’Utri, oltre ad aver riconosciuto la prescrizione per il boss di cosa nostra Leo Luca Bagarella e per il medico Antonino Cinà, ritenuto vicino a Totò Riina. Assolti per non avere commesso il fatto e non perché il fatto non costituisca reato. Ricordo a tutti noi che, nelle migliaia di pagine delle motivazioni della sentenza di secondo grado, i giudici siciliani, spiegando le ragioni dell’assoluzione dal reato di minaccia al corpo politico dello Stato, parlando del ruolo svolto dai militari dell’Arma, hanno scritto: «Una volta assodato che la finalità perseguita – o comunque prioritaria – non fosse quella di salvare la vita all’ex ministro Mannino o ad altre figure di politici che rischiavano di fare la fine di Lima, nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell’ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto di vite umane». Insomma non è un reato trattare con i boss mafiosi per arginare la violenza mafiosa. E qui la mia domanda: se il dottor Borsellino è morto perché, come è emerso anche da queste importanti audizioni, aveva intenzione di proseguire l’indagine, quindi sul dossier mafia-appalti, ritenendo quindi la commistione tra politica e mafia da denunciare e combattere assolutamente, cosa pensate? Lo chiedo a entrambi perché ho sentito una parte di una versione. Cosa pensate entrambi di questa sentenza della Cassazione? Una sentenza che assolve uomini dello Stato che hanno trattato con i mafiosi.
Ultime due domande velocissime. Vorrei che venisse approfondito il fatto che il dottor Borsellino andò in Germania, anche se è stato approfondito anche dall’avvocato Trizzino. Proprio il giorno della strage avrebbe dovuto andare in Germania per parlare con Gioacchino Schembri per l’omicidio Livatino. Pensa che quella visita fosse collegata alle indagini che Livatino stava facendo prima di essere ammazzato anche con riferimento al traffico di armi?
La dottoressa Lucia Borsellino ha parlato della visita della moglie di Scarantino, che è stata filtrata dall’ex fidanzato del tempo. Vorrei capire se quel filtro che c’è stato ha riferito in merito alla volontà di interlocuzione con la famiglia Borsellino. Grazie.
PRESIDENTE. Il vicepresidente D’Attis vorrebbe ripetere una domanda alla quale non è stata data risposta.
MAURO D’ATTIS(intervento da remoto). Riguarda mafia e appalti. Sulle altre aveva risposto, e la ringrazio. Se fosse possibile sapere quali sono stati in effetti poi i magistrati che hanno insistito all’archiviazione, seppur parziale, dell’inchiesta mafia e appalti e quindi massimi promotori di questa decisione che avvenne prima della strage.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Per quanto riguarda l’ultima domanda è documentale, si trovano nel testo i nomi dei magistrati che hanno firmato la richiesta di archiviazione di posizioni che sono state definite residuali nell’ambito del processo di Avezzano e di Caltanissetta. Tra questi vi era appunto Nino Buscemi, Lipari, Equizzi, Bulgarella e Nino Spezia. Quindi posizioni residuali. Il compendio probatorio in realtà non era per questa residualità. Quindi i nomi si trovano nel documento.
C’è da accertare semplicemente un aspetto che riguarda l’apposizione del visto sulla richiesta, perché il dato documentale – ed è riconosciuto tra l’altro nella sentenza Pellino a pagina 1583 – ci dice addirittura che Giammanco avrebbe vistato il 22. Questo francamente non lo so. Certo se ha vistato la richiesta dopo la morte di Borsellino per me il significato è importante, perché senza il visto del procuratore quello era un atto tamquam non esset. Se ha ritenuto, come ultimo atto, prima di andar via della procura di vistare quell’archiviazione, poi a sua volta accolta de plano il 14. L’archiviazione rispetto ad un procedimento poi, attenzione, non è che significa che l’indagine la riprendi come vuoi. No, devono arrivare nuove prove, devi chiedere a un giudice terzo l’autorizzazione a re-indagare e devi motivare quali sono le fonti di prova che danno in qualche modo reviviscenza all’importanza e all’attualità di una nuova indagine.
Quindi si può dire quello che si vuole, ma con riferimento a quelle posizioni, in quel contesto ben preciso che noi abbiamo preso come riferimento, cioè i cinquantasette giorni tra le due stragi, c’è anche l’archiviazione. Quindi quello è. Quello che è stato fatto dopo mi interessa relativamente. Vivaddio c’è l’obbligatorietà dell’azione penale in questo Paese, e di fronte alla messe incredibile di situazioni che sono emerse che però erano in nuce, anzi, più che in nuce, dentro il rapporto – e questo è l’oggetto della mia contestazione – certo che sono stati fatti i processi, ma sono stati fatti come una semplice Tangentopoli, giammai ponendo in relazione l’interesse di Borsellino per quelle carte e la sua uccisione. Quindi trovate tutto negli atti.
Chi sono? Non c’è problema, sono il dottor Scarpinato, il dottor Lo Forte che richiedono, il visto viene apposto dal dottor Giammanco; il dottor Sergio La Commare il 14 agosto de plano accoglie la richiesta di archiviazione.
LUCIA BORSELLINO. Sarò velocissima. La prima domanda che mi è stata posta è l’opinione che avevo rispetto a quanto è accaduto con riferimento al tentato omicidio ai danni di Giovanni Falcone all’Addaura. Io voglio chiarire intanto la mia posizione, che credo sia abbastanza chiara. Io sono la figlia di Paolo Borsellino e sono qui non in veste di opinionista o di persona esperta in materia giuridica. Me ne guardo bene. Vorrei anche dire che riportandomi all’epoca dei fatti io ero appena una ragazzina, in particolare nel 1989 avevo diciannove anni, poi quando è morto mio padre ne avevo ventidue. Questo è risaputo, noi potevamo cogliere qualche aneddoto della vita lavorativa di mio papà, ma non certo eravamo destinatari di confidenze, specie con riferimento a quello che poteva essere un tema delicatissimo qual era stato appunto quell’evento che aveva caratterizzato il fallito attentato all’Addaura.
Lo stesso dico con riferimento alle dichiarazioni che ha reso mia madre innanzi all’autorità giudiziaria di Caltanissetta nel 2009 prima innanzi al procuratore Lari e al sostituto Luciani e poi nel 2010 sempre innanzi al procuratore Lari e al sostituto Nico Gozzo, dove ebbe a riferire proprio di questi colloqui tra mafia e Stato. Anche lì mia madre, e lo ha detto lei, quindi non noi, lo riferiva allora per la prima volta (stiamo parlando degli anni 2009/2010, quindi a distanza dalla strage) proprio perché, fino a quel momento, aveva voluto tutelare noi figli. Quindi noi non siamo stati mai destinatari, anche dopo la strage, di confidenze di mia madre in questo senso. Quella era la prima volta che lei deponeva in questi termini dinanzi all’autorità giudiziaria. Noi non ne avevamo avuto alcuna anticipazione. Poi anche su questa frase io non sono tenuta a commentare nulla, ci sono dei processi che sono stati svolti. Io vorrei che chiunque, come sto facendo io, che non è addentro alle indagini, che non ha studi giuridici alle spalle, abbia l’umiltà di dire che appunto non è competente sul tema. Proprio su questa dichiarazione di mia madre è stato imbastito un intero processo, quello appunto sulla trattativa, che è giunto agli ultimi gradi di giudizio. Quindi non sta a me dire che peso avessero quelle confidenze che mio padre, in un momento di disperazione, visto che ormai non si poteva fidare quasi più di nessuno, disse a mia madre, avendo la piena consapevolezza che era arrivato alla fine dei suoi giorni. In realtà la questione che lui fosse oggetto e fosse il prossimo bersaglio, come è stato chiaramente precisato anche dall’avvocato Trizzino, era qualcosa che a mio padre era giunto già il 16 giugno. Quindi l’accelerazione già era in re ipsa, se di accelerazione si vuole parlare, perché già lui ne era a conoscenza ben prima di quando poi ufficialmente il procuratore Giammanco ebbe modo di riferirglielo solo a seguito di un duro confronto e di una dura rivendicazione da parte di mio padre il 28 giugno, a seguito dell’incontro con il Ministro Andò.
E poi vorrei precisare che mia madre in quel termine Stato non intendeva un’accezione generica, perché non c’è niente di più sbagliato che ritenere lo Stato nella sua interezza coinvolto sotto il giudizio dell’infedeltà a quelli che sono, invece, i suoi servitori migliori. In realtà, sono persone che si sono macchiate di infedeltà, ma sono persone, quindi vanno perseguite sul piano individuale, non è lo Stato nella sua interezza. Questo ci teniamo a dirlo proprio perché vogliamo continuare a nutrire fiducia nelle istituzioni da cui siamo governati, e soprattutto nelle quali viviamo e delle quali facciamo parte.
FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Telegraficamente. Credo di avere ampiamente sviscerato la questione di Gladio. Falcone indaga Gladio proprio quando si scopre la struttura. Non poteva farlo prima. E questo è uno degli effetti degli equilibri mondiali che stanno crollando.
Poi per quanto riguarda i file del PC di Falcone, lì è arrivato qualcuno prima di Genchi, perché Genchi non li ha trovati. Questo qualcuno è forse la stessa Criminalpol, che poi li ha portati per sbaglio a Palermo. E poi, infine, Paolo Borsellino ha dimostrato comunque di avere fiducia nel ROS fino al 14 sicuramente, perché li difende. E anche il 15, perché io insisto sulla struttura semantica di quella frase: «Ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto, non perché Subranni è … perché me l’hanno detto, perché mi hanno detto che Subranni è punciutu» Lì chi glielo sta riferendo è il mafioso, non Subranni. Su questo io insisto perché la lettura complessiva delle carte mi porta a dire – del resto siamo in Sicilia – che nulla è per come appare. Questo è il risultato. Io di questo ormai sono convinto, nulla è per come appare, e viceversa.
Nonostante noi siamo venuti a portare una nuova chiave di lettura, si insiste ideologicamente, quasi che la verità su Paolo Borsellino sia una questione ideologica. Ma è pazzesco tutto questo. Sono quelle cose attorno a cui un Paese deve rifuggire da qualunque dogmatismo ideologico. Noi non teniamo famiglia. Come Paolo Borsellino noi abbiamo perso tutto. Anche la verità. Quindi l’atteggiamento migliore per tentare di ricostruire questa storia è il non tenere famiglia, non difendere rendite, non difendere posizioni, eccetera. Bisogna essere totalmente disinteressati. Noi abbiamo un unico problema da questo punto di vista. Io non sono sempre così e ve l’ho dimostrato, siamo emotivamente coinvolti. Però, ciò nonostante, ho cercato di seguire un metodo rigorosissimo nell’analisi delle carte. Per ricostruire questa vicenda bisogna essere liberi. Liberi. Senza libertà non avremo verità.
PRESIDENTE. Grazie mille, avvocato Trizzino, grazie dottoressa Borsellino.
Io voglio solo dire che spero che la sofferenza generata da questi ricordi possa essere alleviata, anche se solo in parte, dal lavoro che questa Commissione intende fare di sola e pura ricerca della verità, che credo meriti il giudice Borsellino perché è e resta una delle figure più significative e importanti della storia italiana. All’unanimità e in modo assolutamente corale e comunitario, noi gli dobbiamo la risposta alla richiesta di verità. Credo che ce lo abbia detto anche nell’ultima sua relazione fatta qualche mese prima della sua uccisione, quando parlò di criminalità politica e giustizia.
Io ringrazio tutti. Vi ringrazio veramente di cuore per esservi sottoposti a queste ulteriori ore di viaggio e sono certa che la Commissione parlamentare antimafia, dopo tutti questi anni, farà nel suo complesso il meglio possibile per alleviare la vostra solitudine. Grazie.
La seduta termina alle 14.25.
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