L’attentato a Paolo Borsellino fu ampiamente annunciato ma da (quasi) tutti ignorato

PIO LATORRE.IT. 18.7.2023

 

Che Paolo Borsellino doveva morire in un attentato il Ros lo scrisse quattro giorni prima che un’auto bomba esplodesse in via D’Amelio. Lo scrisse in una informativa inviata per posta ordinaria alla Procura di Palermo il 16 luglio 1992, tre giorni prima del massacro. La lentezza delle Poste italiane fece arrivare quella missiva il 22 luglio, tre giorni dopo l’eccidio.


Una beffa? Una tragica beffa?

La stessa informativa dei Ros interessava l’allora pubblico ministero Antonio Di Pietro, ma al contrario di Borsellino al magistrato di mani pulite, e alla sua famiglia non venne nemmeno consentito di dormire nella propria abitazione e venne addirittura fatto partire per il Costa Rica, con un nome di copertura. Ad informare i carabinieri del Ros di un imminente attentato nei confronti dei due magistrati era stata una “fonte confidenziale”. Il generale Vincenzo Alonzi, oggi in pensione e nel luglio del ’92 comandante della sezione anticrimine del Ros di Milano, ha indicato davanti a giudici e magistrati chi fu quella “fonte confidenziale”: una prostituta. Quest’ultima viene anche citata nelle motivazioni della sentenza del processo denominato “Borsellino quater”.
I giudici nisseni, infatti, scrivono che “una prostituta avrebbe rivelato ad un sottufficiale dei carabinieri, all’epoca in servizio a Cernusco sul naviglio, Gianfranco Cava, oggi comandante della stazione di Acicastello, che era pronto un carico di tritolo per uccidere Di Pietro e Borsellino e che gli attentati sarebbero stati imminenti”.
Il militare chiamato a deporre al processo a Caltanissetta aggiunse anche che quella prostituta per lui rappresentava all’epoca una fonte confidenziale molto attendibile.
La donna, sempre secondo il racconto del carabiniere, disse anche che poco prima della strage di via D’Amelio ci sarebbe stato un incontro al quale avrebbe partecipato Totò Riina, alcuni esponenti del clan Fidanzati e altri grossi latitanti. Il summit si sarebbe tenuto il 16 luglio 1992. “Fui io stesso – ha testimoniato ancora il carabiniere – ad accompagnare la donna a quell’incontro. Quando si concluse mi disse che in Italia si stavano preparando degli attentati e che sarebbero stati imminenti. In uno di questi progetti omicidiari, l’auto doveva essere messa in una via e bisognava far spostare altre macchine. Una macchina doveva essere imbottita di tritolo e doveva esplodere davanti ad un parente. La bomba destinata a Di Pietro doveva invece esplodere al palazzo di Giustizia di Milano”.
Il sottufficiale ha anche affermato che tentò di informare telefonicamente i suoi superiori ma invano. Ha anche aggiunto di avere inviato loro una relazione su quanto appreso ma solo dopo la strage. “In quel periodo – ha proseguito – correva voce che avrebbero ucciso Borsellino. Qualcuno avrebbe pensato che io stessi raccontando una bufala, probabilmente non sarei stato creduto”. Il sottufficiale dell’arma decise quindi di recarsi personalmente da Di Pietro, che incontrò nel suo ufficio invitandolo a cambiare abitudini. Gli raccontò anche delle altre rivelazioni apprese dalla donna. Il sottufficiale dell’Arma ha anche affermato che dopo la strage di via D’Amelio lo andarono a trovare nel suo ufficio alcuni uomini del Ros e del Sismi.

Nonostante quella “soffiata” nessuno allertò i responsabili della sicurezza di Paolo Borsellino. Quest’ultimo già qualche giorno prima della sua morte aveva avuto un durissimo scontro con l’allora capo della Procura di Palermo Pietro Giammanco. E’ la fine di giugno del ’92 quando Paolo Borsellino in compagnia della moglie incontra in aeroporto l’allora ministro della difesa Salvo Andò, il quale gli dice di avere saputo dal procuratore Giammanco che per lui a Palermo sarebbe arrivato il tritolo. Borsellino appena giunto a Palermo contesta (ed usiamo un eufemismo) a Giammanco di non averlo informato. Il procuratore balbetta qualcosa e si sarebbe giustificato affermando che “la competenza è dei colleghi di Caltanissetta”, come se il problema fosse chi dovesse indagare su un omicidio non ancora compiuto, e dimentica che sarebbe stato quanto meno opportuno avvisare il diretto interessato. Ma le “anomalie” non sono finite.

La mattina del 19 luglio del 1992, giorno della strage, al centralino della questura di Palermo giunge una telefonata. L’anonimo interlocutore dice poche parole, ma pesantissime: “Oggi una bomba scoppierà sotto il vostro culo”. Anche in questo caso la notizia di quella telefonata anonima sarà verbalizzata con calma e consegnata nei giorni seguenti. Qualcuno si giustificherà affermando che di telefonate di quel tenore ne giungevano molte e poi era domenica e c’era poco personale. E’ vero che molte sono le telefonate di mitomani che giungono ai centralini delle forze dell’ordine e non solo, ma quella volta la bomba esplose davvero. Sei le persone che persero la vita. Con Paolo Borsellino morirono i suoi angeli custodi: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Da allora si sono celebrati quattro processi per la strage, altri processi per i depistaggi e indagini che sono ancora in corso per accertare la vera verità.

L’intera cupola mafiosa e altri capimafia sono stati condannati all’ergastolo. Con le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza si è giunti anche a scoprire il depistaggio costruito con il falso pentito Vincenzo Scarantino. Sono stati indagati e a volte anche processati uomini delle Istituzioni. Nel 1994 fu indagato Bruno Contrada. Ci furono alcuni testimoni che dissere che Contrada si trovava in via D’Amelio nella immediatezza della strage. La sua posizione fu archiviata nel 2002. Nello stesso anno fu archiviata anche l’indagine su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, che vennero indagati sotto le sigle “Alfa” e “Beta” per concorso in strage.

Tra gli indagati per depistaggio anche tre funzionari della polizia di Stato ma dopo anni di indagini il processo si è concluso tra prescrizioni e assoluzioni.

Le indagini a Caltanissetta continuano, ma dopo 31 anni dovrebbe esserci il diritto di conoscere quella verità: di chi ebbe l’interesse oltre a Cosa nostra a fare esplodere quell’autobomba, di chi si impadronì dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, di chi decise la strategia terroristico-mafiosa. La Sicilia, ma soprattutto i siciliani, hanno il diritto di conoscere quelle verità volutamente nascoste.

Nelle motivazioni della sentenza che ha dichiarato prescritta l’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito la mafia contestata a funzionari della polizia di Stato i giudici scrivono: “La strage di via D’Amelio, tragica nel suo esito umano e deflagrante sul piano politico istituzionale dell’epoca in cui si consumò, ne è esempio paradigmatico e pone un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio non completamente svelata. Il diritto alla verità deve definirsi un fondamentale diritto della persona umana nell’ambito del quale si fondono, fino a modificarsi geneticamente quando entrano in contatto, sia la prospettiva individuale, che quella collettiva”.