I rapporti tra ‘ndrangheta e membri della comunità rom, l’inchiesta Garden conferma scenari già tratteggiati

 

Gli uomini del Gico impegnati nella recente operazione della Finanza denominata Garden
Gli uomini del Gico impegnati nella recente operazione della Finanza denominata Garden

 

 

Nel settembre scorso LaC News24 aveva offerto l’analisi di uno spaccato della realtà criminale reggina per certi versi inedito ma ben conosciuto dagli inquirenti che già indagavano su queste dinamiche. Investigazioni che hanno portato alla recente operazione della Dda

 

L’inchiesta “Garden” della Dda di Reggio Calabria apre uno spaccato inedito e parecchio preoccupante in merito agli equilibri ‘ndranghetistici nella zona sud della città dello Stretto. Posto che ad oggi siamo all’impostazione accusatoria avallata dal gip (con prove che dovranno essere vagliate successivamente nel corso di un eventuale processo e che dunque tutti gli indagati sono da considerarsi innocenti fino a sentenza passata in giudicato) è certamente già possibile affermare come, sulla base di quanto narrato dagli investigatori, si possa percepire un cambiamento importante nelle dinamiche esistenti all’interno dei rapporti tra ‘ndrangheta e gruppo dei rom, a prescindere da quelle che saranno poi le responsabilità penali individuali tutte da verificare.
Proprio delle dinamiche esistenti tra rom e cosche ci eravamo occupati il 4 settembre scorso con un’analisi che partiva da un dato fattuale incontrovertibile: l’inchiesta sulla centrale dello spaccio documentata con coraggio da Klaus Davi all’interno di una palazzina del Rione Marconi, zona sotto il diretto controllo della cosca Borghetto, anche se di fatto delegata, per alcune attività, proprio al gruppo rom. Le immagini girate all’interno di quell’appartamento mostravano senza alcun filtro la fiorente attività di spaccio posta in essere da alcuni soggetti incaricati della cessione dello stupefacente.  
Assodata una tale circostanza, avevamo osservato, tra l’altro, come ciò rappresentasse inevitabilmente una evoluzione della struttura criminale reggina, da sempre costretta a cambiare pelle per resistere sia all’azione di contrasto dello Stato che ai cambiamenti strutturali inevitabili che si presentano nel corso degli anni. Ed avevamo rimarcato come l’inchiesta di Davi – che peraltro, risulta oggi essere particolarmente “indigesto” alla cosca Borghetto per queste sue attività – avesse cristallizzato di fatto l’ascesa del gruppo dei rom all’interno delle gerarchie mafiose, quantomeno a livello di mansioni assegnate. Una chiave di lettura integralmente condivisa dal procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, come anche dal presidente della sezione gip/gup reggina, Tommasina Cotroneo, la quale – emerge dalle cronache – ha valutato un vero e proprio rapporto di «necessario “do ut des”» tra la ‘ndrangheta e alcune comunità dei rom, «legittimandole» e consentendo uno «spazio di autonomia e libertà delinquenziale» che, altrimenti, non avrebbero avuto. Circostanza che non può che allarmare.
Di seguito, riproponiamo una parte dell’analisi effettuata il 4 settembre 2023, proprio con riferimento ai rapporti tra gruppo dei rom e cosche mafiose.
Con un rilievo finale importante: si invocava un intervento tempestivo dello Stato in merito a quanto mostrato per la centrale dello spaccio. Lo Stato è intervenuto e ha fatto molto più di una semplice chiusura della centralina dello spaccio.

L’evoluzione dei rapporti tra rom e ‘ndrangheta

Non è un mistero l’esistenza di stretti rapporti tra esponenti criminali di etnia rom e rappresentanti di primissimo piano della ‘ndrangheta. Lo aveva certificato già nei primi anni 2000 l’inchiesta “Casco”, al di là degli esiti processuali assolutori, così come era stato acclarato anche dall’inchiesta “Testamento” del 2005, sino a giungere alle operazioni “Teorema-Roccaforte” e “Malefix”. Tutte hanno un comune denominatore: da una parte esponenti rom, dall’altra la famiglia mafiosa dei Libri che, nel tempo, ha saputo creare un rapporto duraturo con tale realtà. Non è un caso, del resto, che il Rione Marconi ricada in un territorio dove il predominio mafioso è appannaggio del gruppo Caridi-Borghetto-Zindato, diretta emanazione proprio dei Libri.
Considerato che neppure i rom fanno eccezione alla regola secondo cui, a livello di attività criminali, non si muove foglia senza che la ‘ndrangheta lo decida, non è così difficile dedurre come vi sia stata una concreta evoluzione dei rapporti e delle mansioni assegnate al gruppo criminale dei rom.
Fino a qualche anno addietro, infatti, il loro ruolo era direttamente collegato alla principale attività illecita cui erano dediti: i furti di autovetture o di altro tipo di mezzi. La tecnica del cavallo di ritorno, messa in atto per decenni, ha permesso ingenti proventi, ma ha anche di fatto accresciuto – agli occhi dei terzi – il prestigio e l’autorevolezza criminale delle cosche di ‘ndrangheta, facilitandone la loro infiltrazione nel tessuto sociale ed incrementandone il proselitismo. In tanti, infatti, rimasti di sasso per non aver più ritrovato la propria auto, piuttosto che rivolgersi subito allo Stato e denunciare, hanno preferito contattare esponenti “amici” delle cosche, affinché intercedessero con i capi del gruppo criminale dei rom, ottenendo così la restituzione del maltolto (dietro pagamento di un corrispettivo). Senza dimenticare anche i momenti di forte tensione tra ‘ndranghetisti e rom, laddove i mezzi rubati erano di affiliati o loro prossimi congiunti, con la richiesta (diremmo l’imposizione) di una pronta restituzione a titolo gratuito.
Tuttavia, rivolgersi alla ‘ndrangheta, rinunciando alle regole dello Stato, non significa altro che sottomettersi in modo definitivo alle regole dell’antistato e, per dirla con le parole del gip dell’inchiesta “Malefix”, «accettandone le logiche perverse e promettendo implicitamente di ricambiare il favore alla bisogna».

Dal cavallo di ritorno allo spaccio di droga

È di tutta evidenza come negli ultimi tempi, complici una serie di fattori, il fenomeno del cavallo di ritorno abbia visto un graduale ridimensionamento (non è purtroppo del tutto debellato) a vantaggio di altri settori strategici dove i gruppi criminali rom hanno inteso inserirsi. Lo spaccio di droga è proprio uno di questi. L’inchiesta di Davi lo conferma in modo plastico. Per acquistare cocaina o marijuana nella zona sud bisogna rivolgersi alla centrale dello spaccio che sta nel fortino dei rom, al Rione Marconi. Non è difficile immaginare come possa trattarsi di qualcosa di molto simile ad una sorta di “appalto” delle attività che la ‘ndrangheta ha lasciato in mano ad un braccio operativo. Del resto, la circostanza che diversi collaboratori di giustizia collochino esponenti delle famiglie rom addirittura quali soggetti pienamente affiliati alle cosche non fa che confermare quel forte legame creatosi nel tempo. Così, i gruppi rom sono passati dall’essere dediti ai furti, alla gestione delle fasi operative dello spaccio.
Probabilmente, subito dopo la messa in onda dell’inchiesta, andata sulle reti nazionali, i gestori del narcotraffico hanno provveduto a dismettere la palazzina di Rione Marconi e trovare un luogo diverso e più sicuro dove proseguire le attività illecite.
La speranza è che lo Stato non faccia passare troppo tempo prima di intervenire energicamente per liberare quegli spazi oggi occupati da un gruppo criminale che sta divenendo sempre più potente (non dimentichiamo le inchieste della Dda di Catanzaro che hanno certificato i rapporti, quanto allo spaccio, anche con cosche reggine) e che tesse trame e accordi con la ‘ndrangheta, in un rapporto di mutuo interesse che il tempo sta trasformando in qualcosa di molto più complesso. Un rapporto che viene da lontano e di cui le nuove generazioni di mafiosi intendono servirsi a pieno per il buon andamento degli affari nella collaudata strategia della sommersione e del silenzio. Un silenzio che va rotto subito dallo Stato. Prima che sia troppo tardi. 

 

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