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La cascina confiscata torna al Comune di Fino
In tale occasione sarà possibile visitare la mostra NOIsiamoLORO
Nel lontano 2002 l’agenzia del demanio aveva assegnato al comune di Fino Mornasco un cascinale della valle dei mulini, poco prima della svolta per la stazione e il ristorante Il Casottino.
L’immobile, oggi fatiscente, era stato confiscato alla criminalità organizzata, in particolare a Nicodemo Valenzisi, persona condannata e coinvolta nell’inchiesta nota come Fiori di San Vito.
Questo vecchio fienile al momento – a distanza cioè di 16 anni dalla data della confisca – risulta ancora intestato al catasto al vecchio proprietario.
«E’ un cascinale malandato – conferma e spiega il sindaco di Fino Mornasco, Giuseppe Napoli – una specie di stalla. Ristrutturarlo per le casse comunali sarebbe un salasso.
Quest’estate però dopo mille difficoltà siamo riusciti ad inaugurare la casa di Socco, un’altra cascina confiscata alla criminalità organizzata che adesso può ospitare persone in difficoltà.
Quindi, fatto questo importante passo, adesso stavamo cercando di capire se è possibile dare un futuro anche alla cascina della valle dei mulini. Non sarà facile.
Ci siamo così accorti che la prima urgenza operativa è sistemare la situazione catastale, togliere il nome del vecchio proprietario da tutti gli atti burocratici». Ora però servono i soldi. LA PROVINCIA
EMANUELA LOI
L’agente Emanuela Loi fu la prima donna poliziotto a morire in una strage di mafia. Entrò nella Polizia di Stato nel 1989 e frequentò il 119o corso presso la Scuola Allievi Agenti di Trieste.
Fu trasferita a Palermo due anni dopo.
Tra i diversi incarichi le furono affidati i piantonamenti a Villa Pajno a casa dell’allora parlamentare Sergio Mattarella, la scorta alla senatrice Pina Maisano (vedova di Libero Grassi) e il piantonamento del boss Francesco Madonia.
Dopo la strage di Capaci, nel giugno del 1992 venne affidata al magistrato Paolo Borsellino.
Aveva solo 24 anni quando cadde nell’adempimento del proprio dovere, era una ragazza solare, sempre sorridente con un’aria sbarazzina e spensierata.
Sognava di tornare presto nella sua Cagliari, proprio per questo aveva richiesto di essere lì trasferita. Lasciò i genitori, una sorella ed un fratello ed il fidanzato con il quale sperava presto di sposarsi. Amava molto il suo lavoro, pur essendo consapevole del pericolo che correva ogni giorno. MINISTERO DELL’INTERNO
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«Io, caposcorta di Borsellino all’ultimo cambiai turno: salvo per un testa o croce»
A decidere fu il lancio della monetina, testa o croce. «Uscì croce e chiedemmo il cambio ai colleghi del turno pomeridiano, che arrivarono a Villagrazia di Carini e ci sostituirono. Se invece fosse uscito testa avremmo riaccompagnato noi il giudice Borsellino in via D’Amelio, e il cambio lo avremmo fatto dove c’era l’autobomba. Che sarebbe successo? I colleghi arrivati prima avrebbero notato la macchina sospetta o, com’è più probabile, saremmo morti anche noi?». Il vice-sovrintendente di polizia Nicola. Catanese — 59 anni, in servizio da 36, uno dei capiscorta di Paolo Borsellino — se lo chiede da trent’anni. Da quel 19 luglio del 1992 in cui salutò il magistrato nella sua casa sul mare per apprendere, qualche ora dopo, che era stato ammazzato insieme a chi avrebbe dovuto proteggerlo. Poteva toccare a lui, la sorte decise che fossero altri.
Essendo fuori Palermo dal mattino, c’era la possibilità di attivare lo straordinario (guadagnando qualcosa in più su una busta paga non ricca) e spostare il cambio turno al rientro in città; ma si poteva anche chiedere il rimpiazzo all’orario previsto, fuori Comune. Un’alternativa decisa da una coincidenza: il compleanno della futura moglie di Catanese, nata il 20 luglio, che viveva a Messina come lui. «Io tendevo ad accumulare i turni di riposo — ricorda il poliziotto — per avere qualche giorno in più quando tornavo a casa, e quella domenica avevo deciso di non rientrare. Dunque potevamo rimanere con il giudice fino al ritorno a Palermo. Verso fine mattinata, da una cabina telefonica, chiamai Sofia, la mia fidanzata, e le confermai che non sarei andato, ma si dispiacque. Così pensai di farle una sorpresa e di andare, senza dirglielo. Tornai dai colleghi e dissi: io vorrei smontare, voi che dite? Eravamo in sei, il responso fu tre a tre. A quel punto potevo decidere io, ma per non scontentare nessuno scelsi di affidarmi alla monetina: testa restiamo, croce chiediamo il cambio».
ANDREA GORLERO agente di scorta Paolo Borsellino : «Io mi ricordo quella volta che tornavamo dal Palazzo di Giustizia e salivamo a casa del dottor Borsellino. Lui era molto pensieroso e ad un certo punto disse: “Mi dispiace che probabilmente ci sarete pure voi”».Andrea Gorlero, non ha dubbi: «Io penso che il sacrificio dei ragazzi delle scorte e dei giudici Falcone e Borsellino sia servito, perché ha cambiato la coscienza popolare».
19.7.2017 ANTONIO VULLO, il sopravvissuto della strage Borsellino: «Quel pezzo di me, rimasto in via D’Amelio»
L’intervista all’agente che il 19 luglio 1992, per un caso fortuito, uscì vivo dall’attentato in via D’Amelio, a Palermo. E che in Adesso Tocca a me, docufilm realizzato per i venticinque anni dalla strage e in onda su Raiuno, dà il contributo più emozionante. «Anche se io», dice, «neanche avrei voluto»
«Sono stato coinvolto in questo progetto, ma non avrei voluto: rivivere quei momenti è sempre molto doloroso per me». L’agente Antonio Vullo, oggi in pensione, è l’unico sopravvissuto della strage di Via D’Amelio, venticinque anni fa il 19 luglio. Sei morti – il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta -, ancora senza un colpevole: al processo di revisione, nei giorni scorsi, la corte d’appello di Catania ha assolto tutti gli imputati.
Vullo, all’epoca, era in servizio come autista: il giorno della strage, alle 16, nell’attimo in cui Borsellino e i cinque colleghi della scorta scendevano dall’auto per andare a citofonare alla madre del giudice (prima di saltare in aria con una Fiat 126 imbottita di tritolo), lui è tornato indietro a parcheggiare meglio la macchina. «Mentre ero girato con il viso per fare retromarcia, ho sentito un’ondata di calore infernale e poi il boato. Sono sceso dall’auto che era già in fiamme. Intorno a me era tutto buio», ha raccontato. «Anche se ne avrei fatto a meno», il suo sarà l’intervento più toccante di Adesso Tocca a me, il docufilm con protagonista Cesare Bocci nei panni di Borsellino realizzato in occasione dei venticinque anni dall’attentato e in onda su Raiuno il 19 luglio in prima serata.
«Perché io sì e gli altri no»: quante volte se lo sarà domandato.«Sempre, ma è impossibile dare una risposta. La cosa mi ferisce, ma non ho nessuna colpa: non mi sono né nascosto né tirato indietro o piegato. È successo e lo devo accettare. Molti mi dicono che sono stato fortunato ma non è stata proprio una fortuna vivere questo».
Ha detto di sentirsi più un «miracolato»****.«Ho avuto una sensazione quel giorno. Fisicamente sono uscito dall’auto da solo, ma è stato come se i miei cinque colleghi e il magistrato mi avessero tirato fuori mentre stava prendendo fuoco».
A chi nel 1992 non era neanche nato: chi era, «da vicino», il giudice Paolo Borsellino?«Sono stato aggiunto alla scorta il 31 maggio del ’92, perciò sono stato poco con lui. Quella che ho conosciuto era una persona stupenda e molto umile. Che aveva a cuore anche noi della scorta».
Un ricordo «piccolo» ma particolare?«Una volta ero in ascensore con una collega e il magistrato. Borsellino lesse il cartello “Capienza 4 persone” e domandò: “Quante persone entrano qua?”. “C’è scritto quattro, signor giudice”. “Sbagliato: qui ci capi Enza più quattro persone», rispose. “Capi” in dialetto significa “entra”, lui si divertiva molto a fare questi giochi di parole in siciliano».
A quel tempo sapeva di essere in pericolo.«Era consapevole che dopo Falcone c’era lui. Solo negli ultimi giorni, però, il suo umore è cambiato: aveva saputo che era arrivato il tritolo».
Venticinque anni dopo che cosa rimane all’Italia di Falcone e Borsellino?«Molto, perché il sacrificio che loro e i miei colleghi hanno dato alla nazione è grande. La nazione, però, doveva essere coinvolta e svegliarsi prima del loro martirio».
Lei non ha mai rinunciato a fare il poliziotto.«Sì, ma mi sono ritrovato in ufficio e la mia storia è finita lì. A darmi la forza di andare avanti c’è stato mio figlio, che all’epoca dei fatti aveva solo sei mesi: io so cosa voglia dire crescere senza padre, il mio era emigrato in Francia prima che nascessi e non l’ho mai più rivisto. Non volevo che mio figlio subisse lo stesso destino».
Lei ogni 19 luglio che cosa fa?«Partecipo alla deposizione della corona di fiori e alla messa alla caserma Lungaro. E poi vado in via D’Amelio, dove è rimasto un pezzo della mia vita. Ma per me il 19 luglio non è solo un ricordo, lo rivivo ogni giorno. Anche un semplice allarme di auto o la sirena mi riportano indietro».
E in via D’Amelio torna spesso?«Si, ma preferisco andarci di sera, al buio, quando le luci sono spente e non c’è nessuno. Molti lì si fanno vedere tanto per mettersi in mostra, io no».
Si è mai augurato di essere morto, quel giorno?«È capitato, credo sia normale in questi casi. Noi sopravvissuti veniamo guardati con un occhio diverso, a volte quasi come un peso. Pensi che l’atto ministeriale con cui si certifica la mia condizione di “vittima di mafia e terrorismo” è arrivato solo a marzo di quest’anno, dopo venticinque di iter burocratico».
Lei è amico di altri superstiti di attentati di mafia?«Sono legato ad Angelo Corbo della scorta di Falcone. Lui si trova a Firenze ma ci sentiamo spesso: condividiamo molti dispiaceri rispetto a questa nostra condizione».
Il più grande?«Il risarcimento danni è visto come un favore anziché un atto dovuto rispetto a quello che io e gli altri abbiamo dato. Sa quante volte i funzionari a cui parlavo dei dolori e dei problemi fisici legati all’attentato rispondevano: “Ma questo chi lo dice che sia dovuto a quello”?. Uno, addirittura: “Lei deve ringraziare che è vivo”».
Nonostante tutto ha scelto di rimanere a Palermo.«Ho sempre amato la mia città, ma qualche volta vorrei scappare».
Per andare dove?«In Australia, un Paese grande e “libero” che mi affascina sin da piccolo. Chissà che prima o poi non ci riesca a partire davvero». di Raffaella Serini 17 luglio 2017 VANITY FAIR
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Emanuela Loi non ha neanche vent’anni quando sua sorella la convince a tentare il concorso per entrare in polizia. È un percorso che la fa crescere in fretta, lontano dalla sua terra, dai suoi affetti, soprattutto quando, a Palermo, viene assegnata al servizio scorte Di Paolo Borsellino. Sono anni bui per la città, che è sede del maxiprocesso contro Cosa Nostra e bersaglio facile della mafia, che colpisce chi, la mafia, cerca di combatterla. Emanuela ha paura, ma il suo senso del dovere, che da sempre la accompagna, non la fa desistere. Fino alla fine.
Chi era Emanuela Loi, agente di scorta di Borsellino
19/07/2016 Nel giorno in cui, il giudice Paolo Borsellino fu ucciso a Palermo con la sua scorta, 19 luglio 1992, ripercorriamo la vicenda di uno dei cinque agenti, ricostruita in un libro edito da Einaudi ragazzi.
Ci voleva un libro per ragazzi per ricordare la storia dell’agente Emanuela Loi, uno dei cinque membri della scorta di Paolo Borsellino che saltarono in aria il 19 luglio 1992 in via d’Amelio.
Nata a Sestu (Cagliari), non aveva ancora 25 anni e fu la prima donna poliziotto a morire per mano mafiosa. Il libro Io, Emanuela agente della scorta di Paolo Borsellino (Einaudi ragazzi), scritto da Annalisa Strada, versatile e prolifica autrice, ripercorre in prima persona la vicenda della giovane da quando frequentava l’Istituto magistrale e studiava con la sorella Claudia.
Con il sogno di diventare maestra, fu tentata dal concorso in polizia. Si preparano insieme le due sorelle, ma solo la più diligente Emanuela passò con il massimo dei voti, e fu ammessa ai sei mesi di addestramento a Trieste.
Poco più che ventenne affrontò il primo distacco dalla famiglia, a cui era molto legata. Ma fu ancora più doloroso quando, invece di tornare nella sua Sardegna, dai genitori, i fratelli e il fidanzato, fu destinata a Palermo.
Al disappunto per dover restare ancora lontana da casa, si univa la paura per una terra martoriata dagli attentati, e in cui le forze dell’ordine insieme con la magistratura erano le vittime.
A Palermo dovette scontrarsi anche con gli sfottò dei ragazzini, che irridevano la divisa addosso a una donna. Mentre cercava di adattarsi al suo incarico di piantone, e socializzava con i colleghi, compilava continuamente domande di trasferimento e approfittava dei week end per imbarcarsi sul ferry boat e tornare a casa.
La notizia del tremendo attentato in cui persero la vita Falcone, la moglie e tre uomini di scorta scosse profondamente i poliziotti, che si sentivano ancora più vulnerabili. E la paura insieme al senso del dovere assalì Emanuela quando le comunicarono che sarebbe entrata a far parte delle scorte.
A un amico che impensierito le raccomandava di stare attenta disse: «Maddai, finché non mi mettono con Borsellino, non corro nessun rischio. Solo con lui mi possono ammazzare».
E invece, il 17 luglio, di rientro da un periodo di ferie in Sardegna, fu assegnata proprio a Paolo Borsellino, che nell’incontrarla disse «E lei dovrebbe difendere me? Dovrei essere io a difendere lei».
Il primo giorno di scorta andò liscio.
Il secondo no. Erano le 16,58 quando in via d’Amelio, dove Paolo Borsellino si era recato per andare a salutare l’anziana madre, proprio nel momento in cui il giudice ed Emanuela scesero dall’auto,una Fiat 126 esplose.
Sono pagine molto belle quelle in cui Annalisa Strada ricostruisce gli ultimi istanti della vita di Emanuela. «Ho provato una mostruosa nostalgia per chi stavo lasciando, per quello che avrei potuto fare, per tutto ciò che lasciavo in sospeso. Non era giusto che andasse così». Fulvia Degl’Innocenti FAMIGLIA CRISTIANA
MAFIA E ANTIMAFIA NEL COMASCO
CRIMINALITÀ ORGANIZZATA IN LOMBARDIA E NEL COMASCO