Strage Via D’Amelio – LUIGI PATRONAGGIO – Audizione presso Commissione Antimafia

 

 

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TRASCRIZIONE AUDIZIONE

 

 

 

 

Patronaggio: “Depistaggio Borsellino mistero inquietante

“Io non so quale sia stato il movente della strage di via D’Amelio, ovvero, se vi siamo stati più moventi convergenti. Di sicuro Borsellino era un fiero e pericoloso nemico di Cosa Nostra e le sue qualità investigative, così come le informazioni in suo possesso, erano ben note ai mafiosi.
Non può a priori escludersi che le sue intuizioni investigative potessero danneggiare quella parte dell’ imprenditoria e della finanza nazionale collusa con la mafia”.
Così, all’Adnkronos, il Procuratore generale di Cagliari, Luigi Patronaggio, che oggi è stato sentito dalla Commissione nazionale antimafia.
“Gli acclarati depistaggi sulla strage di via D’Amelio aprono peraltro irrisolti ed altrettanto gravi interrogativi: innanzi tutto a vantaggio di chi siano stati operati tali depistaggi.
Resta un mistero inquietante per la vita democratica di questo Paese stabilire per chi e per quali motivi abbiano agito uomini “anfibi” come il Prefetto La Barbera ( meta’ poliziotto e metà agente segreto) e gli ignoti responsabili della sparizione della agenda rossa”, aggiunge.
Sull’agenda rossa scomparsa dice: “Su che fine abbia fatto con tutta onestà non lo so. Confermo invece che l’ufficio di Borsellino fu sigillato nella immediatezza della strage e che i colleghi di Caltanissetta procedettero ad un inventario. Se fra quelle carte vi fosse proprio l’ agenda rossa tuttavia lo ignoro”.
 “Qualsiasi iniziativa volta a restituire la verità a questo Paese è auspicabile, anzi doverosa, l’importante è che questa ricerca avvenga con spirito laico, critico, senza pregiudizi politici o ideologici”.
“In ordine ai rapporti fra il gruppo Gardini/Ferruzzi e Cosa Nostra, è noto , almeno dal 1997, il legame fra Lorenzo Panzavolta e Buscemi Antonino della famiglia mafiosa di Palermo-Bocca di Falco.
Mi risulta altresi che una pista investigativa, risalente nel tempo e tuttavia mai riscontrata giudiziariamente, indicava come una parte della maxi tangente Enimont fosse affluita alla corrente andreottiana tramite Salvo Lima”, dice poi Patronaggio. E conclude: “”Pur non essendomene occupato personalmente è infine noto, almeno a livello investigativo, l’interesse economico dei Buscemi nel settore delle cave in Sicilia e a Massa Carrara, alcune di queste ultime già appartenenti al gruppo Ferruzzi”. (di Elvira Terranova 29.12.2023


Patronaggio all’Antimafia: «Non lo so dove sia finita l’agenda rossa di Borsellino»

 

Parla l’ex sostituto a Palermo con Falcone e Borsellino

«Io non so quale sia stato il movente della strage di via D’Amelio, ovvero, se vi siamo stati più moventi convergenti. Di sicuro Borsellino era un fiero e pericoloso nemico di Cosa Nostra e le sue qualità investigative, così come le informazioni in suo possesso, erano ben note ai mafiosi. Non può a priori escludersi che le sue intuizioni investigative potessero danneggiare quella parte dell’imprenditoria e della finanza nazionale collusa con la mafia».
Lo ha detto all’Adnkronos, il procuratore generale di Cagliari, Luigi Patronaggio, che è stato sentito dalla Commissione nazionale antimafia. «Gli acclarati depistaggi sulla strage di via D’Amelio aprono peraltro irrisolti ed altrettanto gravi interrogativi: innanzi tutto a vantaggio di chi siano stati operati tali depistaggi. Resta un mistero inquietante per la vita democratica di questo Paese stabilire per chi e per quali motivi abbiano agito uomini “anfibi” come il prefetto La Barbera (metà poliziotto e metà agente segreto) e gli ignoti responsabili della sparizione della agenda rossa», aggiunge.
Sull’agenda rossa scomparsa dice: «Su che fine abbia fatto con tutta onestà non lo so. Confermo invece che l’ufficio di Borsellino fu sigillato nella immediatezza della strage e che i colleghi di Caltanissetta procedettero ad un inventario. Se fra quelle carte vi fosse proprio l’agenda rossa tuttavia lo ignoro». E aggiunge: «Qualsiasi iniziativa volta a restituire la verità a questo Paese è auspicabile, anzi doverosa, l’importante è che questa ricerca avvenga con spirito laico, critico, senza pregiudizi politici o ideologici».«In ordine ai rapporti fra il gruppo Gardini/Ferruzzi e Cosa Nostra, è noto , almeno dal 1997, il legame fra Lorenzo Panzavolta e Buscemi Antonino della famiglia mafiosa di Palermo-Bocca di Falco. Mi risulta altresì che una pista investigativa, risalente nel tempo e tuttavia mai riscontrata giudiziariamente, indicava come una parte della maxi tangente Enimont fosse affluita alla corrente andreottiana tramite Salvo Lima», dice poi Patronaggio. E conclude: «Pur non essendomene occupato personalmente è infine noto, almeno a livello investigativo, l’interesse economico dei Buscemi nel settore delle cave in Sicilia e a Massa Carrara, alcune di queste ultime già appartenenti al gruppo Ferruzzi»



Processo Borsellino: Patronaggio, “Via D’Amelio era un inferno, impossibile da coordinare” – il Fatto Nisseno – Caltanissetta notizie, cronaca, attualità

 

“Via D’Amelio era un inferno, c’era tanta gente ed era impossibile coordinare”. Lo ha detto Luigi Patronaggio, procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Cagliari e nel 1992 sotituto alla procura di Palermo.
“Ero magistrato di secondo turno – ha raccontato – e arrivai con un certo ritardo.
La scena era davvero apocalittica. Il collega Pilato si diede da fare (per coordinare, ndr.) e io lo aiutai, poi andai a ispezionare con i carabinieri un immobile allontanandomi per un poco dal luogo del delitto. Si attese l’arrivo dei colleghi di Caltanissetta, e si preservo’ tutto per quresti colleghi. Non ho visto portare via la borsa di Borsellino; quanto al suo contenuto si sapeva che in quella borsa potessero esservi i fascicoli relativi a Mutolo o a indagini internazionali”.
Quanto alla cosiddetta ‘agenda rossa’, Patronaggio ha affermato: “Confermo che furono apposti i sigilli all’ufficio di Borsellino, ma non partecipai all’apposizione di questi sigilli ne’ stesi verbali o atti in merito”.  FATTO NISSENO 29.11.202


Rapporto mafia e appalti nel 1992, Patronaggio racconta riunione in Procura “Borsellino chiese dettagli”

 

“Nei giorni che vanno dalla strage di Capaci a quelli di via D’Amelio, Paolo Borsellino era agitatissimo, in preda a un’ansia di verità” e voleva “sapere qualcosa in più su mafia e appalti”. Lo ha detto Luigi Patronaggio, nel 1992 sostituto procuratore a Palermo, ricostruendo la riunione in procura del 14 luglio di quell’anno convocata dal capo Pietro Giammanco.
In quella riunione famosa – ha aggiunto – vi erano argomenti notevoli: mafia e appalti, estorsioni, ricerca dei latitanti. Borsellino fece qualche domanda da cui si intuiva che voleva sapere qualcosa in più su mafia e appalti”.  
Il magistrato poi ucciso in via D’Amelio “aveva un ottimo rapporto con i vertici dei carabinieri, e aveva recepito le aspettative dei carabinieri sul rapporto del Ros, ma percepiva che questa aspettativa non veniva realizzata. Ebbe spiegazioni di carattere tecnico e non furono esaustive”.  
“Era inusuale – ha aggiunto Patronaggio – che un magistrato non assegnatario richiedesse spiegazioni su un certo procedimento. Una copia dell’informativa mafia e appalti, comunque, l’aveva avuta poiché una parte riguardava Marsala. Borsellino aveva quotidiani scambi con carabinieri e polizia e da quella domanda si intuiva questa criticità”.
Patronaggio ha poi ricostruito il contenuto del rapporto del Ros e la sua importanza. “Il rapporto – ha detto – gettava un punto di vista investigativo avanzato poiché focalizzava bene il meccanismo di acquisizione degli appalti da parte di Cosa nostra.
Devo anche dire, però, che il rapporto nella versione del 20 febbraio 1991 è più un’annotazione che un rapporto, senza una rubricazione”, senza elenchi di indagati e intercettazioni ed “era giusta l’osservazione di Lo Forte sulla sua utilizzabilità”.
“Il procuratore Giammanco – ha proseguito Patronaggio – non era all’altezza di quel periodo drammatico dell’Italia e della Sicilia” con “una procura gestita in modo burocratico e verticista”.“
C’erano voci – ha spiegato – sulla vicinanza di Giammanco a certi ambienti politici e il Ros nutriva sfiducia nei confronti di Giammanco, e questa sfiducia arriva a Borsellino.
Quella riunione venne preceduta da una richiesta di archiviazione di una parte di quel rapporto. La procura sotto Giancarlo Caselli cambiò decisamente registro”. BLOG SICILIA 29.11.2023


Borsellino, Patronaggio: “Chiese dettagli su mafia e appalti

 

Lo ha detto Luigi Patronaggio, nel 1992 sostituto procuratore a Palermo, ricostruendo la riunione in procura del 14 luglio di quell’anno convocata dal capo Pietro Giammanco

“Nei giorni che vanno dalla strage di Capaci a quelli di via D’Amelio, Paolo Borsellino era agitatissimo, in preda a un’ansia di verita’” e voleva “sapere qualcosa in piu’ su mafia e appalti”. Lo ha detto Luigi Patronaggio, nel 1992 sostituto procuratore a Palermo, ricostruendo la riunione in procura del 14 luglio di quell’anno convocata dal capo Pietro Giammanco. “In quella runione famosa – ha aggiunto -vi erano argomenti notevoli: mafia e appalti, estorsioni, ricerca dei latitanti. Borsellino fece qualche domanda da cui si intuiva che coleva sapere qualcosa in piu’ su mafia e appalti”.
Il magistrato poi ucciso in via D’Amelio “aveva un ottimo rapporto con i vertici dei carabinieri, e aveva recepito le aspettative dei carabinieri sul rapporto del Ros, ma percepiva che questa aspettativa non veniva realizzata. Ebbe spiegazioni di carattere tecnico e non furono esaustive”. GRANDANGOLO 29.11.2023


Patronaggio: ”Mafia e appalti? A Palermo le indagini non si fermarono”

 

Il Pg di Cagliari in Commissione antimafia: “La prima versione non era un rapporto ma un’annotazione. Ci fu una gestione dei confidenti non ortodossa”

Il rapporto del Ros (Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri) denominato “mafia e appalti”, datato 20 febbraio 1991, non corrisponde a un vero rapporto, ma a una semplice annotazione.
Nonostante ciò la procura di Palermo (guidata da Caselli) riuscì a sfruttarla per effettuare importanti arresti nel febbraio 1992, tant’è vero che venne creato un “pool” nel procedimento nel quale confluiscono diverse indagini sul sistema incardinato sulla mafia e sugli appalti: un “gioco grande” che non venne “scoperto con il rapporto del Ros del ’91“, ma intorno al 1996-1997 dai magistrati di Palermo.
Si potrebbero riassumere così i punti più salienti dell’audizione del procuratore generale della corte di Appello di Cagliari Luigi Patronaggio, giovane magistrato in Sicilia all’epoca delle stragi, in commissione antimafia: il magistrato ha così smentito categoricamente la tesi secondo la quale il famoso dossier del Ros dei carabinieri venne lasciato ‘decadere’ dai magistrati palermitani del tempo, sottolineando il fatto che vi fu un procedimento di archiviazione, ma che riguardò solo una parte “del rapporto del Ros.
Archiviazione a cui Paolo Borsellino, durante la riunione della procura del 14 luglio 1992, non si oppose: come primo punto all’ordine del giorno, ha riferito il procuratore generale di Cagliari, vi era proprio mafia e appalti e Borsellino “fece qualche domanda da cui si intuiva che lui voleva sapere qualcosa in più”.
Però devo pure dire con la massima onestà intellettuale – ha riferito – che il rapporto nella sua versione del 20 febbraio 1991” aveva “in realtà degli elenchi, delle schede e una quantità notevole di intercettazioni” che secondo, il magistrato Guido Lo Forte (relatore della pratica durante la riunione del 14 luglio, ndr) non erano inutilizzabili poiché “provenivano da diversi procedimenti” e “avevano grosse difficoltà ad essere lette, ad essere interpretate, a collocarle nella giusta dimensione investigativa”.
La vicenda delle intercettazioni è un punto chiave di tutta la vicenda ‘mafia e appalti’: abbiamo già più volte scritto che la prima informativa dei Ros datata 1991 non conteneva espliciti riferimenti a Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi, al tempo esponenti politici di grosso calibro.
Fatto singolare dal momento che i carabinieri erano a conoscenza di tali nomi già da un anno ma che sono stati inspiegabilmente esclusi dal rapporto mafia-appalti: “Questa vicenda delle intercettazioni del Ros – ha continuato Patronaggio rispondendo alla domanda dell’ex procuratore generale di Palermo e oggi senatore Roberto Scarpinatoè un’altra vicenda dolorosissima, nel senso che si era venuta a creare una contrapposizione tra il metodo di lavoro dei carabinieri e il metodo di lavoro della procura. I carabinieri ritenevano non so ora bene se correttamente o non correttamente, di avere riversato quest’enorme massa di intercettazioni e che lì vi fosse tutto e che poi era compito della Procura leggere tra queste intercettazioni e tirarne le conseguenze”, per “cui confermo che il nome di Lima esce in tutta la sua gravità con un’intercettazione del ’90”.
Sul punto la presidente Chiara Colosimo ha chiesto al magistrato se per caso la mancanza di quell’intercettazione nel dossier depositato nel febbraio de ’91 non fosse dovuta semplicemente al fatto che le intercettazioni vennero riascoltate dal Ros nel maggio del ’92, come scrive la gip di Caltanissetta Gilda Loforti archiviando il procedimento sulla gestione dell’inchiesta su mafia e appalti nel 2000. Patronaggio, però, ha confermato che le intercettazioni di Lima vengono “a conoscenza del gruppo di lavoro non prima del settembre ’92”. Questo particolare non impedì ai pm di avere comunque dei risultati: “Già nel febbraio ’92 sulla scorta anche del rapporto mafia e appalti vengono arrestati due personaggi grossi della mafia che sono Cascio Rosario e Buscemi Vito. Buscemi Vito è fratello di Buscemi Antonino della famiglia mafiosa palermitana di Bocca di Falco”. Inoltre, “nel luglio 1991 viene fatta un’altra importante ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Siino Angelo, Li Pera Giuseppe, Farinella Cataldo, Falletta Alfredo e Morici Serafino“.
“Giuseppe Li Pera non voleva collaborare con la Procura di Palermo”
Durante l’audizione il procuratore di Cagliari ha detto che l’imprenditore Giuseppe Li Pera, allora capo area per la regione Sicilia della società Rizzani De Eccher, anch’essa coinvolta nell’inchiesta, non voleva collaborare con i magistrati di Palermo e che sarebbe diventato un confidente del Ros.
Una ricostruzione che contraddice le affermazioni fatte in precedenza dall’ex magistrato di Mani Pulite Antonio Di Pietro: “Verso il mese di ottobre del 1992 viene da me il mio ufficiale dei carabinieri di riferimento, Zuliani, che mi disse che un ufficiale del Ros mi doveva parlare. Oggi so il suo nome, lo ricordo, si tratta di De Donno (Giuseppe, ndr), e voleva parlarmi… Dopo la morte di Borsellino le indagini erano arrivate ai principali gruppi imprenditoriali italiani: a quel punto viene questo ufficiale del Ros e mi dice ‘con riferimento alle indagini che stai facendo su Ferruzzi, De Eccher, Buscemi, c’è un tizio che ti vuole parlare perché, arrestato da un anno, non gli credono'”. “Li Pera – disse De Donno a Di Pietro, secondo il racconto di quest’ultimo in Commissione – si lamenta e vorrebbe parlare con lei, perché lei indaga su fatti che lui conosce e che lo riguardano direttamente, e riguardano la De Eccher, fatti per cui lui sta dentro”. “Qualche giorno dopo – ha proseguito Di Pietro parlando questa volta di sé stesso – io e un altro capitano dei carabinieri andammo a Rebibbia e Li Pera mi raccontò ciò che aveva detto a Catania, e cioè che a Palermo non gli davano retta”
Invece secondo Patronaggio fu Li Pera che “si rifiutò di rendere dichiarazioni alla Procura della Repubblica di Palermo, a un certo punto diventa confidente del Ros”.
Li Pera, ha specificato il magistrato rispondendo alle domande dei commissari “era assistito da due difensori e uno dei due difensori era Domenico Salvo, inteso ‘Memi’ Salvo, soggetto cocainomane e nelle mani della famiglia di Brancaccio, arrestato e poi condannato”. Per questo “difficilmente Li Pera poteva collaborare con la magistratura”.
L’imprenditore cambiò avvocato quando “collaborò con il dottor Felice Lima di Catania”: “Da un punto di vista processuale – ha detto – questo modo di procedere non è esattamente ortodosso e altrettanto non ortodossa è stata la mossa di far sentire Li Pera che era detenuto per la procura di Palermo a sommarie informazioni da un magistrato della procura di Catania.
Per cui in quel momento si è verificata questa situazione assolutamente incresciosa. Colui che aveva in mano buona parte delle notizie su cui si è sviluppato poi tutto il filone di mafia e appalti, che era Li Pera, con la procura di Palermo aveva posto un rifiuto a collaborare, non aveva risposto all’interrogatorio. Era formalmente indagato, era in storia di detenzione e faceva da confidente ai carabinieri e poi è stato sentito a sommare informazioni da un magistrato di Catania”
alla “presenza del Capitano De Donno”.
Il sistema degli appalti
Il sistema degli appalti venne scoperto dalla procura di Palermo tra il 1996 e il 1997
: secondo Patronaggio era un sistema che “vedeva da un lato Salamone Filippo, con questo ruolo assolutamente di cerniera tra gli imprenditori e anche i mafiosi, e dall’altra parte Buscemi Antonino che porta giù il gruppo Calcestruzzi in Sicilia prepotentemente. Qual era l’interesse di un gruppo così grande affermato come Calcestruzzi? Quando parlo di Ferruzzi e Calcestruzzi faccio un’approssimazione assolutamente arbitraria. Però per capirci, perché il gruppo Ferruzzi e Calcestruzzi ha interesse a venire in Sicilia? Probabilmente per tre ordini di motivi. Il primo è il più banale, controllare gli appalti pubblici in Sicilia, per cui sedersi al tavolino forte delle conoscenze mafiose che ha attraverso Panzavolta (Lorenzo ndr) con la famiglia Buscemi. Due, avere il monopolio del calcestruzzo in Sicilia e tre, e questa forse è l’ipotesi investigativa, la possibilità a Cosa nostra di riciclare ingenti quantità di denaro”.
Il magistrato ha spiegato che in una “prima fase in cui gli appalti in Sicilia erano controllati da due uomini politici, da prima Ciancimino e poi Salvo Lima, una seconda fase in cui entrano prepotentemente i corleonesi che vogliono la regia tramite Di Maggio Baldassare e Brusca Giovanni, a un certo punto Di Maggio Baldassare dice a Angelo Siino (conosciuto anche come il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) che era già accreditato a gestire questi appalti” e “una terza fase in cui il gioco passa in mano a quel Salamone Filippo che abbiamo già visto e che aveva sempre negato rapporti con Cosa nostra. Salamone Filippo, lo voglio dire, viene una prima volta raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare per 416 semplice, perché non era approvato il suo ruolo con Cosa nostra e viene raggiunto da una seconda ordinanza, questa volta per 416 bis, per i suoi rapporti accertati con Cosa nostra“.
Patronaggio ha ribadito con forza, ancora una volta, che la procura della Repubblica di Palermo fece un’importante opera di repressione: Tutti questi soggetti a cui ho fatto riferimento, tutti questi indagati e le società in qualche modo loro riferibili sono stati tutti colpiti da misure di prevenzione di carattere patrimoniale. In quel momento le misure di prevenzione di carattere patrimoniale hanno assunto un ruolo fondamentale nella lotta alla mafia. Tutti questi nomi, tutte queste imprese, tutta questa roba che abbiamo così velocemente elencato sono stati tutti poi passati al vaglio delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale”.
Il documento contro Giammanco
Patronaggio ha anche ricordato i momenti successivi alla strage di via d’Amelio, quando un documento sottoscritto da alcuni pubblici ministeri, tra cui Roberto Scarpinato, costrinse il Csm a intervenire su Pietro Giammanco, allora procuratore capo di Palermo. “Giammanco non era all’altezza di quel periodo drammatico che stavano vivendo la Sicilia e l’Italia. C’erano vecchie incomprensioni tra Giammanco e Falcone e Borsellino – ha aggiunto Patronaggio – Sapevamo che Giammanco faceva fare anticamera a questi due illustri magistrati. La procura era gestita da Giammanco in modo burocratico e verticista”. “Il documento che sfiduciava Giammanco fu preso su iniziativa di Scarpinato a cui si aggiunsero altri colleghi tranne qualcuno che lo riteneva un documento forse troppo avanzato. Era una mossa molto azzardata perché i tempi erano diversi da quelli di oggi, c’erano diverse sensibilità politiche ed era un documento molto coraggioso”.
La mancata perquisizione del covo di Riina
La verità processuale parla di un errore.
Tuttavia Luigi Patronaggio, oltre a ricordare le sentenze di assoluzione dei carabinieri, ha ricordato i rischi del metodo proposto dai carabinieri: “Il nostro modo di operare era quello, fare irruzione e entrare. Ci veniva proposto (dal Ros, ndr) un altro modo di operare, legittimo, attenzione, che veniva fuori dalla esperienza della lotta al terrorismo, che era quella dell’osservazione esterna. C’erano dei rischi oggettivamente in questa cosa. Il primo rischio era la fuga di notizie, perché chiaramente la stampa era già in cerca. Il secondo rischio era quello che potesse andare male qualche cosa. Comunque tutti quanti accettammo questa impostazione investigativa che proviene da due ufficiali di altissima qualità. Passano alcuni giorni e arriva sul mio tavolo una nota del commissariato di Corleone che ci dice che Ninetta Bagarella, la moglie di Totò Riina, ha fatto rientro a Corleone insieme ai due figli più piccoli. Anche questa era una notizia importantissima, anche la Bagarella tornava alla vita vera e non alla vita di latitante e questa cosa ci incuriosì. Allora un collega, ricordo Vittorio Teresi in particolare, sollevò il problema: ‘Ma questo servizio di osservazione da parte dei carabinieri in via Bernini che fine ha fatto?’ È il tempo di andarla a verificare dato che Ninetta Bagarella ha fatto rientro a Corleone. E chiaramente Caselli chiese ai carabinieri appunto cosa fosse successo di questo servizio di osservazione”.
È da quel punto in poi che si crea una frattura tra i carabinieri e la procura di Palermo: “Un momento di criticità assoluto, furono chieste delle spiegazioni che arrivarono anche per iscritto, insomma le spiegazioni erano sostanzialmente che non era stato possibile tenere sotto controllo il covo, gli uomini che facevano parte della squadra di De Caprio erano stanchi e dovevano essere avvicendati e poi anche gli stessi filmati in realtà non furono neanche portati a termine. Ricordo in particolare che il collega Teresi volle vedere i filmati effettuati dall’interno della ‘balena’, da questa macchina segreta ma non so quanto segreta, e questi filmati alla fine davano solo una nebbiolina, non registravano nulla. Si sono fatti dei processi su questa cosa, gli ufficiali dei Carabinieri ne sono sempre stati assolti con formula piena, per quel che ricordo ripeto, sono solo sentito come testimone in entrambi i processi, si è parlato di un disguido, di una défaillance operativa. E questa è la verità processuale, acclarata su delle sentenze passate in giudicato“, ha detto.  Luca Grossi


 

Patronaggio: ”Nella riunione di luglio si parlò dell’archiviazione stralcio su ‘mafia-appalti”’

 

Il Pg di Cagliari in Commissione antimafia smentisce la “versione Mori”

 

Da mesi la Commissione parlamentare antimafia è impegnata in una serie di audizioni per ricostruire le vicende che ruotano attorno all’inchiesta “mafia-appalti”, cioè il dossier che negli anni Novanta il Ros stilò sui rapporti tra Cosa nostra, l’imprenditoria e la politica.
Un’inchiesta che fu anche oggetto di prova in diversi processi sulla stagione delle stragi (da quella su via d’Amelio al processo trattativa Stato-mafia) e che viene indicato, in particolare dai contestatori del processo trattativa Stato-mafia (a cominciare dalle difese di Mori, Subranni e De Donno, per poi seguire con alcuni familiari vittime di mafia), come il “motivo principe” dell’accelerazione che portò alla strage del 19 luglio 1992.

Lo ha ribadito in una recente intervista all’Huffington post il generale Mario Mori (imputato e poi assolto nel processo Stato-mafia “per non aver commesso il fatto”).

Giovanni Falcone era il nemico numero uno della mafia e prima o poi lo avrebbero ucciso. Borsellino, invece, è morto per mafia-appalti” ha detto senza mezzi termini.

Noi in più occasioni abbiamo spiegato i motivi per cui, analizzando i fatti, a nostro avviso quell’inchiesta non è sufficiente a spiegare i motivi della morte di Borsellino o il depistaggio che successivamente si è consumato attorno alla strage, ma in questa intervista c’è un altro aspetto che merita di essere approfondito anche alla luce della recente testimonianza del Procuratore generale di Cagliari, Luigi Patronaggio, proprio davanti alla Commissione parlamentare antimafia.

Mori, nell’intervista, parla di una famosa riunione che si tenne in Procura il 14 luglio 1992. Una data “chiave” per i tanti detrattori perché un giorno prima all’assemblea era stata richiesta l’archiviazione di uno stralcio dell’indagine che riguardava 13 persone, poi accolta il 20 luglio 1992, e il giudice (che saltò poi in aria il 19 luglio assieme agli agenti della scorta) chiese informazioni proprio sullo stato delle indagini.

Sostiene Mori che “nella riunione della direzione distrettuale antimafia di Palermo del 14 luglio cinque giorni prima della sua morte, chiede conto della mancata considerazione di mafia appalti. E fa notare che agli atti manca una sua indagine sugli appalti a Pantelleria, che avrebbe potuto confermare il contenuto della nostra informativa. Nessuno gli dice che il giorno prima i due sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato avevano chiesto l’archiviazione del dossier”.

Il racconto di Patronaggio

Questa ricostruzione è stata sonoramente smentita proprio dal Procuratore generale di Cagliari Patronaggio, rispondendo proprio ad una domanda della Presidente Chiara Colosimo.

“Io sono venuto a conoscenza della richiesta di archiviazione del rapporto del Ros proprio in quell’occasione – ha ricordato Patronaggio – Prima non lo sapevo tra l’altro c’erano gruppi di lavoro diversi, non facevo parte di quel gruppo di lavoro per cui non potevo saperlo, ne venni a conoscenza proprio in quella sede”.

E poi ancora ha aggiunto: “Non ricordo, e anzi lo escluderei, che avesse detto (Borsellino) di attendere per l’archiviazione in attesa di sentire Messina e Mutolo. Mi sentirei di escluderlo, assolutamente. Così come non ricordo chi disse di rinviare la discussione”. E poi ancora rispondendo ad un altro Commissario: “Per quanto riguarda la richiesta di Borsellino di rinviare la discussione ad altra data, devo dire la verità, non la posso né escludere ma neanche confermare, perché comunque la decisione di archiviazione era stata già presa, era stata già firmata l’archiviazione, per cui non so quanto potesse giovare un rinvio. Se lei mi vuole dire che Borsellino tentò di fermare l’archiviazione, le dico no, assolutamente no, su questo posso essere categorico”.

Nella sua testimonianza Patronaggio ha raccontato le modalità di quell’incontro che vedeva proprio tra i punti dell’ordine del giorno la relazione sull’inchiesta.

Infatti al tempo, a partire dalla pubblicazione dei diari di Falcone (24 giugno 1992), era scoppiata una forte campagna sulla stampa in cui si diffondeva il sospetto o l’accusa che alla Procura di Palermo si manipolassero o si insabbiassero le indagini più delicate, come quelle che potevano coinvolgere esponenti politici, le loro collusioni con Cosa nostra, o ancora non si andasse a fondo nelle inchieste mirate alla cattura dei più pericolosi latitanti.
Di fatto sui giornali vennero pubblicati stralci di intercettazioni, alcuni anche riguardanti l’ex ministro Mannino. Una vera e propria fuga di notizie che fece esplodere enormi polemiche.
Ma perché in quel 14 luglio non si sarebbe parlato di politici presenti nell’inchiesta?
Il motivo, forse, è più semplice di quanto sembri: nel rapporto del Ros originario, quello del 20 febbraio 1991, i nomi di politici come Calogero Mannino, Salvo Lima e Rosario Nicolosi, non c’erano. Nomi che invece comparirono il 5 settembre del ’92, un anno e mezzo dopo il deposito della prima informativa, con espliciti riferimenti.

Dal ’91 al ’92 una doppia informativa

Anche l’esistenza di una doppia informativa viene messa sempre in dubbio dai detrattori dei magistrati della Procura di Palermo.

Eppure ne dà espressamente atto la relazione redatta dall’allora Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, datata 5 giugno ’98, dal titolo alquanto esplicito: “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini-mafia-appalti negli anni 1989 e seguenti”.

In quel documento si dimostra come una prima versione del rapporto del ROS venne depositata alla Procura di Palermo priva del nome di politici.

Chi sostiene che la doppia informativa non sia mai esistita utilizza il decreto di archiviazione del Gip di Caltanissetta Gilda Lofortisulle fughe di notizie sul dossier “mafia e appalti”.
Si scorda sempre, però, che nelle motivazioni della sentenza d’appello sulla trattativa Stato-mafia, divenuta definitiva dopo che la Cassazione ha assolto definitivamente gli imputati istituzionali “per non aver commesso il fatto”, i giudici bacchettano proprio l’ordinanza Loforti, ritenuta “frettolosa e sommaria”, per poi evidenziare le “omissioni assai significative” compiute dal Ros.

I giudici non nascondono le doglianze e le perplessità espresse in quell’assemblea: “Borsellino tenne un atteggiamento che non tradiva affatto sfiducia e diffidenza nei confronti dell’operato dei colleghi titolari del procedimento, ma, al contrario denotava la volontà di aprire un confronto sincero sul tema in discussione, come aperte e trasparenti furono le critiche e le perplessità e le richieste di chiarimenti esternate in quella sede (nell’assemblea in Procura del 14 luglio 1992 ndr)”.

L’unico dettaglio “nuovo” che Patronaggio ha offerto rispetto all’audizione davanti al Csm nel 1992 è che in quell’assemblea si fece riferimento esplicito alla richiesta di archiviazione.

Ma è chiaro, leggendo gli atti, che quel dettaglio non fu ritenuto decisivo, al tempo, da chi poneva le domande. Tanto che l’argomento mafia-appalti era proprio all’ordine del giorno.

Sempre nelle motivazioni della sentenza della Corte d’assise d’appello di Palermo sulla trattativa Stato-mafia si mettono in evidenza anche le spiegazioni che furono date a Borsellino sul perché, nel fascicolo a carico di Siino ed altri alcuni documenti fossero assenti.

In riferimento agli appalti a Pantelleria, di cui Mori parla nella sua intervista, i giudici ricordano la testimonianza di Giuseppe Pignatone il quale aveva riferito delle interlocuzioni tra la Procura di Palermo e quella di Marsala, indicando i motivi per cui quelle carte non erano presenti, che riguardavano più le necessità d’indagine di Marsala stessa, che non Palermo.

Certo è la questione mafia-appalti non si semplifica in un’archiviazione di un filone nel luglio 1992. E al tempo l’operato del Ros non fu così limpido e certosino come diversamente si vorrebbe far credere.

Perché, dunque, oggi si insiste a gettare fango sui magistrati che portarono avanti quelle indagini?

Perché si punta il dito contro chi, come l’ex Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, decise di esporsi in primissima persona con la redazione della lettera firmata da altri sette componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato e Vittorio Teresi) in cui si diceva, in sostanza, che il Procuratore capo Giammanco non poteva restare alla procura della Repubblica?

Quel “documento molto coraggioso”, così come lo ha definito lo stesso Patronaggio in audizione all’Antimafia, mostra chiaramente la posizione che veniva assunta.

Eppure ciò non viene mai ricordato dai detrattori (o forse si dovrebbe dire i “vendicatori” se si vuole dar retta alle parole dette da Mario Mori in più occasioni).
Così si procede nascondendo i fatti o omettendo particolari di rilievo. Un’opera che è sempre stata messa in atto dai Mori di turno nel corso degli anni.

Silenzi e nascondimenti

Un esempio può essere il contenuto dell’incontro che Borsellino tenne con gli ufficiali del Ros il 25 giugno del 1992.

Un’altra data ritenuta centrale nello sviluppo del racconto con cui far credere che dietro “mafia-appalti” si nasconda il motivo della morte di Borsellino.

Se davvero era così rilevante quell’incontro come mai Mori e De Donno nulla dissero ai magistrati che si occupavano della strage?

Un silenzio che durò fino al 1997 quando si pente Angelo Siino, “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, portando con sé anche la polemica sul famoso rapporto mafia-appalti.

Un appunto che la stessa Gilda Loforti, nella sua ordinanza, fa ai militari.

“Non può – in primo luogo – non osservarsi come sorprenda che sia il Maggiore De Donno che il Generale Mori abbiano riferito di questo singolare incontro presso la caserma Carini, solamente a distanza di anni(tra la fine del 1997 e gli inizi del 1998, secondo quanto riferito da De Donno innanzi alla locale Corte d’Assise), e non con immediata tempestività come avrebbe dovuto, al contrario, suggerire la loro veste istituzionale, tenuto conto che, ad appena qualche settimana da quell’incontro, era stata consumata in Italia, a meno di due mesi di distanza da quella di Capaci, la seconda tra le stragi più efferate, e tutti gli organi investigativi erano alla ricerca di qualsiasi elemento di conoscenza che potesse rappresentare un utile spunto d’indagine per la individuazione degli esecutori e dei mandanti, sia palesi che occulti”.

Forse hanno taciuto perché l’oggetto di quell’incontro riguardava altro? Probabile, come diversamente testimoniò il tenente Carmelo Canale, ex braccio destro del giudice Borsellino.
E’ lui, sentito nel processo Borsellino quater, ad aver spiegato che quell’incontro sarebbe stato voluto da Borsellino per discutere di altro: l’anonimo conosciuto come “Corvo 2”. Una lunga lettera indirizzata, tra gli altri anche al magistrato, in cui si accennava a una sorta di trattativa che l’ex ministro Calogero Mannino avrebbe avviato con il boss Totò Riina. Anche su questo documento Borsellino stava cercando di far chiarezza in quei 57 giorni che separano Capaci da via d’Amelio.

Ma questa è un’altra storia.  Aaron Pettinari

 

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