29.11.2023 Commissione Parlamentare Antimafia – Audizione LUIGI PATRONAGGIO


VIDEO e RASSEGNA STAMPA


XIX LEGISLATURA Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere

RESOCONTO STENOGRAFICO Seduta n. 23 di Mercoledì 29 novembre 2023

Audizione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Cagliari, Luigi Patronaggio.

 

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’audizione del dottor Luigi Patronaggio, Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Cagliari, a cui do il benvenuto e che ringrazio per la disponibilità.
Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme dell’audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione. I lavori potranno proseguire in forma segreta, a richiesta dell’audito o dei colleghi. In tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web-tv.
Dottor Patronaggio, noi arriviamo a questa audizione perché nel corso di quelle che abbiamo fin qui svolto, lei è stato più volte evocato. Soprattutto per darle un indirizzo di intervento, nel corso della sua audizione al CSM del 31 luglio 1992, lei ha dichiarato di aver cominciato a capire che all’interno della Procura di Palermo vi fossero spaccature e divergenze solo nel corso della riunione del 14 luglio 1992. Rispetto a questa riunione e in riferimento a tutto il filone che stiamo seguendo,ci domandavamo se potesse aiutarci a ricostruire quei giorni e quello che ne è seguito. Grazie.
LUIGI PATRONAGGIO, procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Cagliari. Grazie a voi per l’invito e per l’attenzione. Chiaramente non posso che confermare quanto dichiarato al CSM.
Io ero un giovane magistrato per cui mi trovavo alla Procura di Palermo da non moltissimo e tuttavia avevo una conoscenza personale sia con Giovanni Falcone sia con Paolo Borsellino e posso dire che Paolo Borsellino, nei giorni che vanno dalla strage di Capaci fino a quando morirà nella strage di via D’Amelio, era agitatissimo, era veramente in preda a un’ansia di verità che lo attanagliava.
Stava svolgendo diversissime attività investigative, aveva sentito il pentito Messina Leonardo, e ricevendo anche notizie importanti, e altri pentiti.
Quella famosa riunione fu peraltro convocata in modo anche un po’ strano perché nell’ordine del giorno da un lato si parlava di saluti in vista delle ferie, ma dall’altro vi erano argomenti ognuno dei quali meritava un approfondimento notevole. Infatti come primo punto vi era mafia-appalti, come secondo punto ricerca latitanti, come terzo punto estorsioni.
Ognuno di questi punti meritava dunque una trattazione importante, per cui, quando si diede la parola all’istruttore per riferire su mafia-appalti, Borsellino fece qualche domanda da cui si intuiva che lui voleva sapere qualcosa in più.
L’istruttoria della pratica, che era del collega Lo Forte, si soffermò soprattutto sugli aspetti tecnici, sulla inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche e sulle scadenze termini, insomma su questioni tecniche.
L’attenzione di Borsellino, che sicuramente era stato compulsato dai carabinieri – Borsellino aveva un ottimo rapporto con i vertici dei carabinieri per cui aveva recepito quelle che erano le aspettative dei carabinieri su questo rapporto mafia-appalti – fece delle domande da cui si intuiva questa aspettativa dei carabinieri, un’aspettativa che in qualche modo non si era realizzata. Borsellino volevo sapere un po’ di più sugli imprenditori e sul ruolo dei politici.
Le spiegazioni invece furono di carattere tecnico e non esaustive, per cui confermo in pieno quello che ho detto al CSM.
Poi, se la Commissione è interessata a conoscere la complessissima vicenda del rapporto mafia-appalti e di quello che è avvenuto dopo, sono disponibile a dare dei chiarimenti perché è una stagione che ho vissuto appieno.
Per esempio, posso dire che sicuramente il rapporto mafia-appalti gettava un punto di vista avanzato investigativo perché riusciva a focalizzare bene il momento di acquisizione del meccanismo degli appalti da parte di Cosa nostra, cioè la capacità di individuare il finanziamento, di individuare il progettista, di manipolare la gara di appalto con il cartello degli imprenditori, e come questo cartello venisse in qualche modo condizionato a valle dai mafiosi e così via.
Però devo pure dire con la massima onestà intellettuale che il rapporto, nella sua versione del 20 febbraio 1991, che poi io ebbi modo di vedere successivamente, anzitutto non è un rapporto, questo va detto una volta per tutte. In realtà è una annotazione.
Non è un rapporto con una rubricazione.
Cosa significa tecnicamente la rubricazione? Siamo a metà tra il vecchio e il nuovo codice e ancora si usava rubricare, cioè indicare gli indagati con relative ipotesi di reato loro addebitate.
In realtà questa informativa, questa annotazione, aveva in realtà degli elenchi, delle schede, con una quantità notevole di intercettazioni. Lì era giusta l’osservazione fatta dal relatore dell’istruttoria, il dottor Lo Forte, sui problemi di utilizzabilità di queste intercettazioni.
Resta evidentemente però il nodo tra ciò che si aspettava da questo rapporto e da ciò che poi si è prodotto, e dalla frattura che si è creata tra la Procura della Repubblica e la dirigenza del ROS.
Devo con altrettanta onestà intellettuale dire che il Procuratore di allora, Giammanco, per usare un’espressione non troppo dura, non era all’altezza di quel periodo drammatico che stavano vivendo la Sicilia e l’Italia.
C’è un documento che fu sottoscritto dapprima dai sostituti appartenenti alla distrettuale antimafia, e poi dagli altri sostituti, in cui si evidenziava l’incapacità del Procuratore Giammanco o comunque il fatto che non fosse all’altezza.
C’erano delle vecchie incomprensioni tra Giammanco prima con Falcone, poi con Borsellino.
Tutti noi in ufficio sapevamo che Giammanco faceva fare anticamera a questi due illustri magistrati. Quella di Giammanco era comunque una Procura gestita in modo verticistico, in modo burocratico.
C’erano anche sospetti su certe contiguità politiche tra Giammanco e apparati politici allora dominanti in Sicilia.
Di questo il ROS ritengo fosse a conoscenza, o comunque erano voci che circolavano.
La vicinanza di Giammanco a certi ambienti politici era una cosa che girava.
Per cui, da un certo punto di vista, la sfiducia che il ROS ha nei confronti della Procura di Giammanco, sfiducia che viene trasmessa a Borsellino, alla fine arriva in questa famosa riunione del 14 luglio che, va ricordato, peraltro era stata preceduta, il giorno precedente, da una richiesta di archiviazione di una parte del rapporto del ROS.
Se interessa alla Commissione, devo dire che esaurire il discorso sul rapporto del ROS mafia-appalti è riduttivo perché la Procura della Repubblica, sotto la guida di Giancarlo Caselli, cambiò decisamente registro ed è altrettanto vero, peraltro, che anche le indagini della vecchia Procura della Repubblica, prima di questo rapporto mafia-appalti, non è che fossero totalmente ferme, totalmente bloccate.
Ricordo per tutti il procedimento nei confronti di Ciancimino Vito che, all’epoca, era comunque un procedimento di importanza elevatissima. Parimenti, devo dire che non giovò ai rapporti tra il ROS e la Procura della Repubblica, la gestione del collaboratore Li Pera Giuseppe.
Li Pera Giuseppe, che viene arrestato dalla Procura della Repubblica di Palermo e che si rifiuta di rendere dichiarazioni alla Procura della Repubblica di Palermo, a un certo punto diventa confidente del ROS.
Da un punto di vista processuale questo modo di procedere non è esattamente ortodosso e altrettanto non ortodosso è stata la mossa di far sentire Li Pera, che era detenuto per la Procura di Palermo, a sommarie informazioni da un magistrato della Procura di Catania, il dottor Felice Lima.
Per cui, in quel momento, si è verificata questa situazione assolutamente incresciosa: colui che aveva in mano buona parte delle notizie su cui si è poi sviluppato tutto il filone mafia-appalti, che era Li Pera, con la Procura di Palermo aveva opposto un rifiuto a collaborare, non aveva risposto all’interrogatorio ed era in stato di detenzione, faceva da confidente dei carabinieri e poi è stato sentito a sommarie informazioni da un magistrato di Catania.
Sostanzialmente si è verificato che i carabinieri del ROS, non fidandosi della Procura di Palermo, si erano rivolti alla Procura di Catania dove avevano trovato un interlocutore che dava loro spazio.
Questa è stata una frattura notevolissima che ha portato tutta una serie di conseguenze, che ora non sto qui a ricordare in dettaglio.
Felice Lima ritengo subì un’ispezione e non so se subì addirittura un processo disciplinare.
Felice Lima denunziò alcuni colleghi di Palermo alla Procura di Caltanissetta.
Insomma, fu una vicenda molto dolorosa che creò grandi contrapposizioni. Ciononostante, il ruolo del ROS e del rapporto mafia-appalti non si è esaurito, nonostante queste criticità, perché per esempio, già nel febbraio 1992, anche sulla scorta del rapporto mafia-appalti, vengono arrestati due grossi personaggi della mafia, che sono Cascio Rosario e Buscemi Vito, fratello di Buscemi Antonino, della famiglia mafiosa di Palermo Boccadifalco, che un filo lungo porterà al controllo di «Calcestruzzi» in Sicilia, a collegamenti con la Calcestruzzi ravennate, con il gruppo Ferruzzi, per intenderci. E questi vengono arrestati già il 17 febbraio del 1992.
Nel frattempo, nel luglio precedente, viene fatta l’altra importante ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Siino Angelo, Li Pera Giuseppe, Farinella Cataldo, Falletta Alfredo e Morici Serafino.
Ho con me degli appunti, non vi ho chiesto l’autorizzazione a consultarli, ma non riesco a ricordare a memoria tutte le date e i nomi.

PRESIDENTE. Non occorre alcuna autorizzazione.

LUIGI PATRONAGGIO. Si aprì un altro fronte di indagine, altrettanto importantissimo, relativo agli appalti della SIRAP, una società creata ad hoc dalla regione per gestire appalti di importo elevatissimo e dove c’erano convivenze pesantissime tra la politica regionale e Cosa nostra.
La vera svolta del rapporto del ROS avviene quando il procuratore Caselli forma un nuovo pool di lavoro con magistrati nuovi e nuovi ingressi, e anch’io mi onoro di aver fatto parte di questo pool mafia-appalti.
Si crea un grande contenitore, che è il procedimento 6280/92, in cui confluiscono tutte le precedenti acquisizioni che aveva la Procura della Repubblica, da Ciancimino in poi, passando per l’omicidio Taibi, il rapporto del Ros, quello che nel frattempo avevamo acquisito e la collaborazione di Mutolo, importantissima.
Mutolo è il primo che viene sentito da Borsellino, Mutolo è colui che racconta a Borsellino quello che è il clima pesantissimo esistente a Palermo.
Io non escludo che nella diffidenza di Borsellino, in quei giorni che vanno dalla strage di Capaci alla strage di via D’Amelio, abbiano influito le dichiarazioni di Mutolo, perché il panorama che egli rende a Borsellino in quei giorni è un panorama assolutamente triste, grave, pieno di ombre.
Mutolo racconterà di magistrati corrotti, di poliziotti corrotti, di avvocati consigliori della mafia, di politici che agiscono: il panorama che esce fuori dalle dichiarazioni di Mutolo è un panorama grossissimo. Con questo procedimento 6280/92 noi ci avvaliamo delle dichiarazioni di Mutolo.
Nel frattempo, abbiamo la collaborazione di Di Maggio Baldassare, altro personaggio fondamentale nel controllo degli appalti pubblici da parte di Cosa nostra.
Di Maggio Baldassare è uomo d’onore della famiglia di San Giuseppe Jato.
Ci avvaliamo di Cancemi Salvatore, altro collaboratore, e ci avvaliamo anche della collaborazione di qualche imprenditore, collaborazioni molto timide, per la verità.
Infatti, in quel periodo, come abbiamo avuto modo di constatare insieme al dottor Di Pietro e agli altri colleghi di Mani pulite di Milano, gli imprenditori del nord, quando venivano al sud, non avevano voglia di parlare di mafia. Era un argomento di cui non volevano parlare. Massima collaborazione per raccontare il cartello fra gli imprenditori, omertà assoluta per parlare del ruolo della mafia.
Così, per esempio, un grosso personaggio del sistema di gestione degli appalti, che era Filippo Salamone, fece delle parziali confessioni, parlando del cartello tra imprenditori e politici, ma negando qualsiasi suo accordo con Cosa nostra, con i mafiosi.
La stessa cosa fece Lodigiani, il quale diede una collaborazione in termini di tangenti che aveva pagato, ma tacque del tutto sui rapporti con la mafia.
La stessa cosa fece De Eccher, altro imprenditore.
Mentre a Milano il lavoro aveva una certa «facilità» – ricordo il «metodo Di Pietro» che, dopo aver esortato un imprenditore a stare attento perché sarebbe potuto finire destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare, questi raccontava spontaneamente facendo chiamate in correità e si andava avanti nelle indagini – in Sicilia l’imprenditore, bene che andava, raccontava di qualche tangente pagata, ma non raccontava con chi si fosse seduto o con chi di Cosa nostra avesse come referenti.
Ci siamo dunque mossi in un sistema di grande omertà.
Ancora per fare chiarezza, se interessa, altro elemento che cambiò la visione della Procura di Palermo e ci permise di fare passi avanti fu la collaborazione di Siino.
Siino collabora con me nel giugno 1997. Qui voglio raccontare come egli collabora. Siino era un personaggio di grandissima intelligenza, di grandissima introduzione nel mondo della politica e nel mondo dell’imprenditoria, ben addentro alla famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, conoscitore di Lima e anche del mondo delle istituzioni.
È un personaggio che ha dialogato anche con i carabinieri, prima di collaborare.
Siino è colui che racconta per esempio delle famose fughe di notizie sul rapporto mafia-appalti, mettendo dentro pezzi dell’Arma dei carabinieri come il maresciallo Guazzelli e il maresciallo Lombardo.
Secondo la versione di Siino il rapporto mafia-appalti sarebbe giunto sul tavolo di Salvo Lima attraverso un comportamento illegale sia di Guazzelli sia del maresciallo Lombardo.
Siino «salta il fosso» nel giugno 1997 e, attenzione, nonostante avesse avuto queste interlocuzioni con l’Arma, collabora attraverso la Guardia di finanza. Il ROS si dispiacerà molto di questo, anche perché, da quel momento, cioè dalla collaborazione di Siino, la collaborazione del ROS sarà via via sempre più ridotta, a vantaggio di altre forze di polizia.
Quando si parla di collaboratori di giustizia, noi sappiamo che esistono delle regole, quando si parla di rapporti confidenziali, noi queste regole non le sappiamo e non le conosciamo, per cui io non posso riferire sui rapporti confidenziali di Li Pera con il capitano De Donno, così come non posso riferire dei pregressi rapporti confidenziali di Siino con pezzi dell’Arma.
Sicuramente Siino fece delle dichiarazioni assolutamente stravolgenti e, a grosse linee, ci raccontò questo quadro.
Una prima fase, in cui gli appalti in Sicilia erano controllati da due uomini politici, dapprima Ciancimino e poi Salvo Lima, una seconda fase in cui entrano prepotentemente i corleonesi che vogliono la regia, tramite Di Maggio Baldassare e Brusca Giovanni. A un certo punto Di Maggio Baldassarre dice a Siino, che era già accreditato a gestire questi appalti, «Mettiti da parte perché li devo gestire io». Una seconda fase, e forse questa è la parte più importante, per quello che ho letto sulla stampa e per quelli che sono i boatos che si sentono in televisione.
Una terza fase, in cui il gioco passa in mano a quel Salamone Filippo che abbiamo già visto e che aveva sempre negato rapporti con Cosa nostra.
Salomone Filippo, lo voglio dire, viene una prima volta raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare secondo l’articolo 416, perché non era provato il suo ruolo con Cosa nostra, e viene raggiunto da una seconda ordinanza, questa volta secondo l’articolo 416-bis, per i suoi rapporti acclarati con Cosa nostra. 
Quest’altra ultima fase vede il gruppo imprenditoriale di Salamone, con i suoi soci Miccichè e Vita, dialogare con Buscemi Antonino, che è in stretto legame con Panzavolta e con il gruppo Calcestruzzi, con Bini, che diventano i veri artefici di quello che si chiama il «tavolino». Questo forse è veramente il gioco grande, che, fatemelo dire in tutta sincerità, non viene scoperto con il rapporto del ROS del 1991, ma siamo ben al di là, siamo nel 1997.
Questo gioco grande vede, da un lato, Salamone Filippo, con questo ruolo assolutamente di cerniera tra gli imprenditori e anche i mafiosi, e, dall’altra parte, Buscemi Antonino, che prepotentemente porta il gruppo Calcestruzzi giù in Sicilia.
Qual era l’interesse di un gruppo così grande e affermato come Calcestruzzi – io dico gruppo Ferruzzi, ma lo dico impropriamente, perché dovrei fare una scheda societaria che in questo momento non sono in grado di fare, e quando parlo di Ferruzzi e Calcestruzzi faccio un’approssimazione assolutamente arbitraria – ma, per capirci, perché il gruppo Ferruzzi-Calcestruzzi ha interesse a venire in Sicilia? Probabilmente per tre ordini di motivi. Il primo, è il più banale: controllare gli appalti pubblici in Sicilia e sedersi al «tavolino», forte delle conoscenze mafiose che ha, attraverso Panzavolta, con la famiglia Buscemi. Secondo, avere il monopolio del calcestruzzo in Sicilia.
Terzo, e questa è forse l’ipotesi più interessante dal punto di vista investigativo, dare la possibilità a Cosa nostra di riciclare ingenti quantità di denaro. Mi riporto a qualche anno addietro, a quando Falcone per primo disse che Cosa nostra era entrata nel mondo della finanza.
Forse nel 1997 la Procura di Palermo è riuscita a capire questo filo conduttore, questo gioco che si è articolato in questo modo.
Nel dicembre 1997 abbandono la Procura di Palermo per altro incarico, per cui da lì in poi le mie notizie non sono di prima mano.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola ai colleghi Scarpinato, Ascari e Russo, che hanno chiesto di intervenire, vorrei fare io un paio di domande in relazione all’esposizione del Procuratore.
Anzitutto, nel rispondere alla mia introduzione, lei ha parlato della famosa riunione tenuta a Palermo. Per caso ricorda se in quella riunione si parlò di questa archiviazione? Sapeva dell’esistenza del procedimento che poi fu archiviato dal dottor Natoli, mi pare portasse il n. 3589/91?
Tornando al tema che anche in questi giorni sta tenendo banco, nella stessa audizione presso il CSM del 1992, lei ha dichiarato che era di turno il giorno della strage di via D’Amelio e ha riferito che lei e il suo collega Pilato siete rimasti fino a tardi per adempimenti urgenti. Si ricorda in questa fase quali fossero questi adempimenti urgenti?
Le chiedo inoltre se furono apposti dei sigilli alla stanza del dottor Borsellino, se avete convalidato i sequestri del materiale rinvenuto sul luogo della strage e cosa contenesse la famosa borsa, evidentemente il riferimento è all’agenda rossa, perché se lei sa che cosa ci fosse nella borsa del dottor Borsellino, magari ci può aiutare a capire cosa ci fosse e cosa no, rispetto a tutto quello che sta uscendo. Infine, le chiedo se in quella borsa ci fosse o meno un altro dei fascicoli a cui lei ha fatto riferimento – molto importante – cioè il fascicolo Mutolo.
LUIGI PATRONAGGIO, Sono venuto a conoscenza della richiesta di archiviazione del rapporto del ROS proprio in occasione della riunione, prima non lo sapevo.
Tra l’altro c’erano gruppi di lavori diversi, io non facevo parte di quel gruppo di lavoro per cui non potevo saperlo e ne venne a conoscenza proprio in quella sede.
Per quanto riguarda l’indagine a cui lei fa riferimento, quella archiviata dal collega Natoli, che ritengo debba trattarsi di quella istruita dal dottor Lama a Massa Carrara, no, non ne ho avuto conoscenza all’epoca.
Ne ho avuto conoscenza – e infatti ne ho accennato precedentemente – in un secondo momento, quando abbiamo indagato, anche nell’ambito delle misure di prevenzione, sul gruppo Buscemi.
Se mi permette voglio dire qui una cosa sulle misure di prevenzione, perché sono strettamente legate al tema degli appalti.
Tutti questi soggetti a cui ho fatto riferimento, tutti questi indagati e le società in qualche modo loro riferibili, sono stati colpiti da misure di prevenzione di carattere patrimoniale. In quel momento, le misure di prevenzione di carattere patrimoniale hanno assunto un ruolo fondamentale nella lotta alla mafia.
Tutti questi nomi e tutte queste imprese, che abbiamo così velocemente elencato, sono stati poi passati al vaglio delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale, per cui di questa notizia che riguarda interessi dei Buscemi nelle cave di Massa Carrara che comunque facevano riferimento al gruppo Ferruzzi, no, allora non ne venni a conoscenza, parliamo del 1992, ne venni a conoscenza successivamente, molti anni dopo, quando abbiamo acceso i riflettori proprio sulle possidenze patrimoniali dei Buscemi. Allora non ne ero a conoscenza e non ero a conoscenza neanche della successiva archiviazione.
Venendo alla sua seconda domanda, quella relativa al sopralluogo in via D’Amelio, voglio fare una precisazione: io non ero di turno in via D’Amelio. C’era all’epoca un’organizzazione alla Procura della Repubblica.
Vi era un magistrato di turno, un secondo magistrato di «riserva», che comunque interveniva in aiuto, e un turno magistrati della distrettuale. Io ero il magistrato di secondo turno, cioè di aiuto.
La cosa era oggettivamente di grandissima gravità, per cui arrivai anch’io di supporto.
Arrivai con un certo ritardo perché appunto non ero preparato, poi ci fu anche un problema con la macchina di servizio. Insomma, arrivai con un certo ritardo.
La scena del delitto era una scena apocalittica, dovete credermi.
Una scena apocalittica. A me non piace fare riferimenti cruenti, ma mi colpì molto il corpo dell’agente Loi, sbrandellato su un alberello, così come quello del collega Borsellino, di cui l’unica cosa che si riconosceva veramente in modo netto erano i baffi e i denti, poi due macchine, insomma c’era l’inferno.
C’era tantissima gente sul luogo che aveva peraltro titolo a essere lì. C’erano i Vigili del fuoco, c’erano i Carabinieri, c’era la polizia di Stato, c’era tantissima gente e ognuno aveva un ruolo. Coordinare quel sopralluogo era sostanzialmente impossibile, difficile.
Il collega Pilato si diede da fare in qualche modo, e io lo aiutai.
Poi, in particolare, io fui «distratto» perché, con un gruppo di amici carabinieri del reparto operativo, andammo a ispezionare un immobile da cui ritenevamo potesse essere stato azionato l’esplosivo, per cui in qualche modo mi allontanai pure dal luogo del delitto. Poi comunque aiutai sempre il collega perché queste operazioni furono lunghe.
Si dovette aspettare che arrivassero i colleghi da Caltanissetta, per cui in realtà si preservò tutto per i colleghi di Caltanissetta. Io non ho visto portare via la borsa di Borsellino, non l’ho vista portare via, ho una conoscenza «giornalistica» di questi fotogrammi del capitano Arcangioli che porta via la borsa, ma non ne ho una conoscenza diretta.
Quanto al contenuto della borsa, ho riferito perché ci siamo confrontati tra colleghi, con cui abbiamo un po’ ripercorso quelle che erano le indagini e cosa facesse Borsellino in quei giorni.
Mi ricordo che ne parlai con il procuratore aggiunto Aliquò.
Si sapeva che in quella borsa potessero trovare spazio i verbali di Mutolo o comunque il fascicolo che riguardava le indagini che andava facendo in quel momento, anche a livello internazionale, il dottor Borsellino.
Sull’agenda rossa, confermo che furono apposti i sigilli all’ufficio del dottor Borsellino, ma io non partecipai all’apposizione di questi sigilli né ho steso un verbale di consistenza.
Ritengo di non avere firmato addirittura nessun atto perché, ripeto, la mia presenza era soltanto di supporto.
Che poi dentro l’ufficio vi fosse l’agenda rossa o altra agenda o altro tipo di appunti, non sono in grado di riferire.

PRESIDENTE. Do la parola al senatore Scarpinato.

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Non potrò fare una domanda e attendere la risposta, per cui le farò tutte le domande insieme e mi scuso per l’affastellamento.
Lei ha ricordato che, dopo la strage di via D’Amelio, fu firmato un documento che, in sostanza, chiedeva l’allontanamento di Giammanco dalla Procura della Repubblica. Le chiedo se ricorda chi prese questa iniziativa e chi redasse questo documento.
Seconda domanda.
Lei ha parlato delle indagini su Buscemi e Ferruzzi e ha detto che il quadro di conoscenza sui rapporti su Buscemi e Ferruzzi si consolidò progressivamente nel tempo e che ebbe una svolta quando finalmente Siino e altri raccontano cosa ci fosse dietro.
Lei è stato estensore di una richiesta di ordinanza di custodia cautelare del 17 maggio 1993 che scaturiva proprio dalla informativa del 1991 – Riina più 24 – con la quale fu richiesta e ottenuta la cattura di Riina, Buscemi Antonino, Giuseppe Lipari, imprenditori come Lodigiani, arrestato per 416-bis, tutto lo staff direttivo di Rizzani De Eccher, politici come Orlando, tutti i dirigenti della SIRAP.
Le chiedo se ricorda quali erano gli altri magistrati con i quali redasse questa richiesta di ordinanza di custodia cautelare.
Altra domanda.
Le risulta che nell’informativa del 1991, che era di circa 900 pagine con circa 500 allegati, non c’era un rigo in cui si parlasse di Lima, di Mannino e dei politici che gestivano gli appalti, nonostante vi fosse un’intercettazione del 1990, di cui la Procura venne a conoscenza soltanto nel settembre del 1992?
Le chiedo inoltre se le risulta che nello stesso 1993 furono fatte circa 15 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di politici nazionali e se nell’ottobre del 1992 fu fatta una richiesta di sequestro e confisca di tutto il patrimonio di Buscemi, comprese le quote che aveva nella Ferruzzi. Sto per finire con le domande.

LUIGI PATRONAGGIO, In quale anno vi fu il sequestro del patrimonio Buscemi?

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. La prima richiesta fu nell’ottobre 1992, non ricordo se il 13 e il 14, poi ve ne furono altre. Le chiedo ancora se le risulta che il sostituto Lima a Catania avesse formulato una richiesta di ordinanza di custodia cautelare in cui si diceva che negli appalti non c’era la mafia per cui Lodigiani dovesse essere arrestato per 416-bis, e Palermo invece l’arrestò per 416-bis.
Infine, un altro tema. Lei era sostituto di turno il giorno in cui fu arrestato Riina. Lei stava per fare la perquisizione del covo di Riina. Perché non portò avanti quella perquisizione?

PRESIDENTE. Prego, Procuratore.

PIETRO PITTALIS. Presidente, posso?

PRESIDENTE. Un attimo, onorevole, il Procuratore risponde alle domande poste da ciascun collega.

PIETRO PITTALIS. Se mi consente di intervenire, vorrei fare una domanda simile a quella del senatore che mi ha preceduto.

PRESIDENTE. Come sa, preferisco garantire un po’ di ordine, però, prego, aggiunga la sua domanda.

PIETRO PITTALIS. Saluto il Procuratore generale. L’ultima domanda posta dal senatore Scarpinato era anche la mia, cioè se può spiegare le ragioni della mancata perquisizione del covo di Totò Riina dopo il suo arresto che risale al gennaio…

PRESIDENTE. Il Procuratore dice 1993.

PIETRO PITTALIS. Sì il 1993.

PRESIDENTE. Onorevole Pittalis, non la sentiamo bene. Provi a escludere il video dal collegamento.

PIETRO PITTALIS. La domanda è semplice e riguarda appunto la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, dopo il suo arresto nel gennaio del 1993. Ci può chiarire a chi o a cosa fu dovuto? Grazie.

PRESIDENTE. Prego, Procuratore.

LUIGI PATRONAGGIO,. Rispondo al senatore Scarpinato con il quale, come è noto, siamo stati anche i colleghi, per cui questa cosa è abbastanza scontata.
Il documento che sfiduciava Giammanco fu preso su iniziativa del senatore Scarpinato, allora sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, a cui si aggiunsero quasi tutti i colleghi, tranne qualcuno che lo riteneva forse troppo avanzato. In effetti nella storia della magistratura italiana non ricordo si sia mai registrato un atto di sfiducia corale nei confronti di un Procuratore della Repubblica. Devo dire peraltro che era una mossa molto azzardata, perché i tempi erano diversi da quelli di oggi, c’erano diverse sensibilità politiche ed era un documento molto coraggioso.
Questa è la risposta alla prima domanda.
L’altra riguardava i rapporti tra Buscemi e il gruppo Ferruzzi. Confermo che fu Siino Angelo ad aprire questo filone investigativo, sebbene, per la verità, ma non vorrei sbagliarmi, anche Messina Leonardo avesse detto, nel suo linguaggio molto popolare: «La Calcestruzzi è in mano a Riina». Messina Leonardo disse più o meno così. Però una cosa è parlare in termini così generici, una cosa è poi avere delle indicazioni ben precise.
Circa la terza domanda del senatore Scarpinato in ordine alla ordinanza di custodia cautelare 17 maggio 1993, confermo che sono tra gli estensori della richiesta.
Sul gruppo di lavoro potrei anche sbagliare, però ricordo: Scarpinato sicuramente, Lo Forte sicuramente e De Francisci, ma non sono sicuro. Su Lo Forte e Scarpinato sono sicuro perché erano i coordinatori del gruppo, sugli altri non sono sicurissimo, per cui non vado oltre.
La quarta domanda riguardava il nominativo di Lima nell’informativa del 1991. Come ho detto prima, io dell’informativa del 1991 vengo a conoscenza successivamente, perché io entro in questo gruppo di lavoro dopo le stragi, tra il 1992 e il 1993. Tutta la vicenda precedente la conosco perché entro successivamente in questo gruppo di lavoro.
Confermo che il nominativo di Lima arriva alla Procura di Palermo attraverso un’intercettazione che era conosciuta ai carabinieri già nel 1990. Questa delle intercettazioni del ROS è un’altra vicenda dolorosissima, nel senso che si era venuta a creare una contrapposizione tra il metodo di lavoro dei carabinieri e il metodo di lavoro della Procura.
I carabinieri ritenevano – ora, non so bene se correttamente o meno – di aver riversato questa enorme massa di intercettazioni, e che lì vi fosse tutto, e che poi fosse compito della Procura leggere tra queste intercettazioni e tirarne le conseguenze. In realtà, da quello che appresi anche in quella famosa riunione del luglio 1992 cui si è fatto riferimento, queste intercettazioni avevano grosse difficoltà a essere lette ed essere interpretate, a collocarle nella giusta dimensione investigativa.
Per cui confermo che il nome di Lima esce in tutta la sua gravità con un’intercettazione del 1990 che viene riversata, se non ricordo male, nel settembre 1992, ma potrei anche sbagliarmi.
Mi si chiedeva delle autorizzazioni a procedere.
Confermo che furono richieste diverse autorizzazioni a procedere.
Ricordo quella nei confronti di Mannino, nei confronti di Nicolosi Rosario, che era presidente della Regione, e di altri, ma sicuramente era un gruppo notevole di politici colpito da questa richiesta di autorizzazione a procedere.
La quinta domanda riguarda il collega Felice Lima, della Procura di Catania.
L’ho accennato poco fa e lo ripeto. Felice Lima fece questa mossa non ortodossa, diciamo così, da un punto di vista processuale, cioè sentì un soggetto che era detenuto e indagato da parte di un’altra Procura e lo sentì a sommarie informazioni, come persona informata sui fatti, e si portò dietro in questo interrogatorio il capitano De Donno. È andato appresso ai carabinieri e ha sostanzialmente fatto entrare una fonte informativa in un circuito processuale.
Li Pera – il soggetto sentito in queste forme non ortodosse – come già accennato, era favorevole a parlare degli imprenditori e dei tavolini, ma non era assolutamente favorevole a parlare dei rapporti con la mafia, assolutamente. La posizione di Lodigiani, da Catania, fu effettivamente trattata come una posizione di un consociato semplice, non mafioso, mentre nella ordinanza di custodia cautelare che è stata ricordata, quella del 1993 a Lodigiani si addebitò il 416-bis.
Andando poi all’ultima domanda del senatore Scarpinato e dell’onorevole Pittalis, la vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina è stata oggetto di almeno due processi diretti e poi di sbieco di altri procedimenti. Sono stato sentito come testimone più volte su questa vicenda. La ripeto.
I carabinieri brillantemente arrestano Totò Riina in questo residence di via Bernini.
Ci arrivano tramite l’indicazione di Di Maggio. Loro hanno un servizio di osservazione e quando Di Maggio dice: «è lui» e loro hanno la certezza trattarsi di Totò Riina, lo arrestano con una brillante operazione davanti a quello che si chiama il Motel Agip di Palermo.
Portano il Riina in caserma. Sono di turno e intervengo subito insieme al Procuratore Caselli, che si era insediato proprio in quei giorni. Per una questione di colore mi piace ricordare un episodio, perché è un momento importante della lotta alla mafia. Salvatore Riina in piedi sotto la foto di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Caselli si avvicina e gli dice: «Io sono il Procuratore della Repubblica Giancarlo Caselli, io sono lo Stato. Se lei ha qualcosa da dire, la deve dire a me».
È un momento storico, una cosa bella da ricordare. Non gli fu torto un capello, non subì niente, soltanto questa umiliazione sotto l’immagine di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Una volta esperite le formalità, quelle più immediate, ci fu un vertice presso la caserma dei carabinieri a cui parteciparono il generale Mori, il generale Cagnazzo, il procuratore Aliquò, il Procuratore Caselli. Era un summit ai massimi livelli e io ero il PM di turno, che è sempre quello molto più giovane della compagnia.
Il generale Mori, su indicazione del capitano De Caprio – erano coloro che avevano condotto l’operazione – propose una modalità operativa che per noi era insolita, ma che, a quanto pare, aveva dato dei frutti nella lotta al terrorismo, cioè quella di non fare irruzione nel covo e di fare un servizio di osservazione per vedere quello che succedeva.
Parliamo di due ufficiali di grandissima esperienza, Mori e De Caprio.
Le indicazioni, che provengono dal generale Mori, che ha un’esperienza nella lotta al terrorismo, e da De Caprio, che è un altro eccellente ufficiale, alla presenza dei massimi vertici dei carabinieri e della magistratura, non possono che trovare accoglimento, nonostante la prassi che ha seguito la Procura di Palermo in questi casi. Ricordo per esempio – perché io stesso feci la perquisizione – il covo di Bagarella, dove trovammo un sacco di cose, trovammo la pistola sul comodino, nel box trovammo kalashnikov e fucili a pompa. Il nostro modo di operare era quello, fare irruzione ed entrare.
Ci veniva proposto un altro modo di operare, legittimo attenzione, che veniva fuori dalla esperienza e della lotta al terrorismo, che era quello dell’osservazione esterna.
Oggettivamente c’erano dei rischi: il primo rischio era la fuga di notizie, perché chiaramente la stampa ne era già in cerca, il secondo era quello che qualche cosa potesse andare male.
Comunque tutti quanti accettammo questa impostazione investigativa, che proviene da due ufficiali di altissima qualità. Passano alcuni giorni e arriva sul mio tavolo una nota del commissariato PS di Corleone che ci dice che Ninetta Bagarella, la moglie di Totò Riina, ha fatto rientro a Corleone insieme ai due figli più piccoli.
Anche questa era una notizia importantissima.
Anche la Bagarella tornava alla vita vera, non alla vita da latitante, e questo ci incuriosì. Un collega, Vittorio Teresi in particolare, allora sollevò il problema. Questo servizio di osservazione da parte dei carabinieri in via Bernini che fine ha fatto?
È il tempo di andarlo a verificare, dato che Ninetta Bagarella ha fatto rientro a Corleone? Dunque Caselli chiese ai carabinieri cosa fosse successo di questo servizio di osservazione.
Lì nasce una contrapposizione, ancora una volta, tra il ROS e la Procura di Palermo, questa volta nella persona di Giancarlo Caselli, il quale, peraltro, lo voglio dire, aveva avuto fino ad allora un rapporto ottimo con i carabinieri, con il ROS, con cui avevano lavorato al nord e c’era anche un rapporto di amicizia fuori dall’ufficio.
Iniziò un momento di criticità. Furono chieste spiegazioni, che arrivarono anche per iscritto. Le spiegazioni erano sostanzialmente che non era stato possibile tenere sotto controllo il covo. Gli uomini che facevano parte della squadra di De Caprio erano stanchi e dovevano essere avvicendati.
Gli stessi filmati, poi, non furono in realtà neanche portati a termine perché ricordo che il collega Teresi in particolare volle vedere i filmati effettuati dall’interno di questa macchina «segreta» – non so quanto segreta – e questi filmati alla fine davano solo una nebbiolina, insomma non registravano nulla. Si sono fatti dei processi su questa circostanza, gli ufficiali dei carabinieri sono sempre stati assolti con formula piena. Per quel che ricordo – sono stato sentito come testimone in entrambi i processi – si è parlato di un disguido, di una défaillance operativa. Questa è la verità processuale acclarata in sentenze passate in giudicato.

PRESIDENTE. Grazie. Ci sono ancora diversi iscritti a parlare. Vorrei porre solo una domanda che proiene da quello che ha detto su Lima. L’intercettazione era del 1990, stava nell’informativa del 5 agosto del 1990 e ne venne chiesto il riascolto? Perché se no non mi spiego il provvedimento di Gilda Loforti che sicuramente conoscerà.

LUIGI PATRONAGGIO, Il procuratore Gilda Loforti la conosco incidentalmente perché non ero interessato alla vicenda.
Per quello che ricordo io, questa intercettazione arriva nel settembre 1992.
L’intercettazione è del 1990 e a mia conoscenza nel gruppo di lavoro non prima del settembre 1992.

PRESIDENTE. Grazie. Sono iscritti a parlare il vicepresidente D’Attis, il senatore Russo, l’onorevole Ascari. Prego onorevole D’Attis.

MAURO D’ATTIS. Grazie presidente. Anch’io ringrazio il signor Procuratore per la disponibilità all’audizione. L’ho seguita da remoto. Ho inteso che si parlò della richiesta di archiviazione. Lo Forte, in quel parlare, disse quali erano le posizioni che sarebbero state archiviate o che erano state archiviate? Rispetto alla vicenda Rizzani De Eccher, sa se nell’ottobre del 1992 Claudio De Eccher sia stato trovato con un verbale di Messina Leonardo?

PRESIDENTE. Prego, Procuratore.

LUIGI PATRONAGGIO,. Nella riunione del luglio 1992, non ricordo che il collega Lo Forte abbia espresso indicazioni sulle singole posizioni, no. Si trattarono spiegazioni di carattere tecnico senza entrare nelle singole posizioni.
Del verbale di Messina Leonardo in possesso di Claudio De Eccher non sono a conoscenza, non lo ricordo oggettivamente.

PRESIDENTE. Grazie. La parola al senatore Russo.

RAOUL RUSSO. Grazie, ho tre domande. Lei ha già accennato alla questione, però mi interessa tornarci sopra. Anche in una recente trasmissione televisiva, «Far West», lei ha ribadito come la Procura di Palermo fino agli anni ’80-inizio anni ’90 fosse sostanzialmente, come anche ricordava Borsellino, un luogo attraversato da molti veleni, alcuni forse per motivi di carriera, altri per motivi non meglio definiti e che, come ha detto in maniera elegante, forse il procuratore Giammanco non era all’altezza di gestire questa complessità. Vorrei comprendere ancora meglio il senso della sua affermazione.
La seconda domanda: lei ha parlato di Vito Buscemi come fratello di Nino, ma nel rapporto mafia-appalti ci sono gli altri fratelli. Il terzo passaggio: se ho ben compreso le intercettazioni di Lima erano comunque nel faldone dell’annotazione mafia-appalti e quindi di fatto erano presenti e ostensibili. Pur essendo in mezzo ad altre carte erano comunque disponibili?

PRESIDENTE. La parola al Procuratore.

LUIGI PATRONAGGIO,. Confermo l’atmosfera particolarmente pesante, non solo in Procura, ma negli uffici giudiziari palermitani. Ricordo per tutti un episodio che molte volte, forse per pietas cristiana, è passato sotto silenzio.
Voglio ricordare che uno dei due pubblici ministeri che sosteneva l’accusa nel maxiprocesso era stato raggiunto da alcune indicazioni dei pentiti e si è suicidato in ufficio.
Lo dico solo per fare un esempio. Così come, dopo le dichiarazioni di Gaspare Mutolo, molti colleghi, presidenti di corte d’assise e presidenti di tribunale, finirono sotto procedimento penale, procuratori della Repubblica finirono sotto procedimento penale. E queste erano tutte persone che agivano nell’ombra.
L’attività del pool antimafia, quello di Falcone e Borsellino, quello dell’Ufficio istruzione per intenderci, non è che fosse ben accetto a tutto il Palazzo di giustizia, assolutamente.
Loro vivevano in un bunker, non soltanto fisico, ma anche un punto di vista morale. Erano isolati da buona parte della magistratura.

Quando oggi parliamo della conoscenza e della sensibilità al fenomeno, tutto cambia dopo le stragi del 1992, perché prima del 1992, ancora e prima del maxiprocesso soprattutto, noi registriamo una ignoranza sul fenomeno, anche da parte di ambienti qualificati dalla magistratura, e parlo di ignoranza per non parlare di altro, per cui confermo questa problematica.
Non sono qui per dover giudicare il procuratore Giammanco, che peraltro è deceduto, e comunque non è il mio ruolo.
Non mi sembra neanche corretto parlare delle voci che giravano sulla sua vicinanza a certi ambienti politici.
Mi riporto soltanto a quel documento che fotografa esattamente la inidoneità di quel procuratore a gestire quella situazione in quel contesto storico.
Buscemi Vito e Buscemi Antonino sono stati tutti e due raggiunti da misura cautelare però in tempi diversi.
Il primo a essere colpito da ordinanza di custodia cautelare fu Buscemi Vito insieme a Cascio Rosario il 17 febbraio 1992. Leggo dai miei appunti perché altrimenti non ci arriverei mai a memoria.
Buscemi Antonino viene colpito dopo, con l’ordinanza del 17 maggio 1993. Non vorrei sbagliare, ma sono tutti e due della famiglia di Boccadifalco.
L’intercettazione del 1990, personalmente, non me la ricordo nella prima fase delle indagini, me la ritrovo successivamente quando mettiamo mano a quella richiesta di ordinanza di custodia cautelare del 1993. Prima non me la ricordo oggettivamente.

PRESIDENTE. Prego, senatore Russo.

RAOUL RUSSO. Lei diceva che nella riunione del 14 si parlò di problemi tecnici sull’utilizzo delle intercettazioni: attenevano a questa o ad altre intercettazioni, se ne ha memoria?

LUIGI PATRONAGGIO, Ne ho memoria: non si fece riferimento a questa intercettazione di Lima nella riunione del luglio 1992. Essenzialmente si sollevò un problema di utilizzabilità delle intercettazioni, perché provenivano da diversi procedimenti, e già allora c’era un problema di utilizzabilità, ma non si fece riferimento a questa intercettazione di cui, ripeto, venni a conoscenza molto dopo.

PRESIDENTE. La parola all’onorevole Ascari.

STEFANIA ASCARI. Grazie presidente. Grazie dottore per la sua presenza. Vorrei un attimo tornare sulla mancata perquisizione del covo di Riina, nel senso che vorrei veramente capire da lei, che ha anche vissuto quelle indagini. Qui non era stato arrestato un borseggiatore qualunque, era stato arrestato il numero uno della mafia a livello nazionale e oltre.
Vorrei quindi capire la modalità di osservazione, se si possono avere più dettagli, cioè quanto doveva durare questa osservazione, se era stato deciso un verbale quotidiano per verificare gli spostamenti – per esempio giorno uno, chi è entrato, giorno due, chi è entrato – e quindi magari avere un po’ più di dettagli, e anche se voi magistrati che avevate avuto una linea diversa – fare irruzione ed entrare – l’avete presa bene, se è stato aperto un dibattito interno.
Su questo veramente vorrei avere maggiori dettagli e indicazioni perché purtroppo è una dinamica che si è ripetuta anche con altri mafiosi eccellenti, come per esempio Provenzano. Si aveva già in mano la possibilità di catturarlo, ma è stato preso dieci anni dopo con Ilardo che doveva diventare collaboratore di giustizia, così come per un altro di cui hanno perquisito una casa diversa facendo in modo che scappasse.
Vorrei dunque chiederle più precisazioni sul tema.
Poi le vorrei chiedere qualcosa in merito all’attentato, nel momento in cui lei arriva sul luogo della strage di via D’Amelio. Vorrei capire se lei ha notizia chiara su chi vi è intervenuto, chi c’era esattamente, polizia, carabinieri?
La borsa è stata presa da Arcangioli, che era un carabiniere, però ci può dire, dottore, effettivamente chi fosse lì delle forze dell’ordine?
L’ultima domanda è di attualità, nel senso che qualche giorno fa sul quotidiano «la Repubblica» è uscito un articolo di Salvo Palazzolo, relativo a un suo collega che era di turno con lei proprio il giorno della strage, parlo di Salvatore Pilato. Cosa pensa delle dichiarazioni del dottor Pilato che dice che l’agenda era in realtà dentro l’ufficio di Borsellino? Lo dico perché questa è una notizia di qualche giorno fa ed è girata ovviamente molto. Grazie.

PRESIDENTE. Prego, dottor Patronaggio.

LUIGI PATRONAGGIO, Per quanto riguarda la mancata perquisizione ho già riferito e mi rifaccio comunque esclusivamente alle verità attestate in sentenze passate in giudicato, per cui non mi faccio trascinare dalla suggestione di ciò che pure è entrato in quei processi, perché lei sicuramente saprà che alcuni collaboratori di giustizia hanno riferito che il covo è stato svuotato.
Però la verità processuale, quella che si rispetta e quella che è nelle sentenze passate in giudicato, parla di un errore, di un problema di carattere tecnico. Entrando nel problema di carattere tecnico, non ricordo, anzi ne sono quasi sicuro, vi fossero dei verbali giornalieri di osservazione.
Le spiegazioni arrivarono a posteriori, quando il procuratore Caselli scrisse al generale Mori, chiedendo chiarimenti. Prima non arrivarono: verbali di osservazione quotidiana non ne sono arrivati. Lei chiede se quella strategia sia stata presa bene. Fu presa male dagli stessi carabinieri della territoriale.
Tra ROS e i carabinieri della territoriale c’è una sorta di sana concorrenza, diciamo così, nel senso che i carabinieri della territoriale erano pronti a fare irruzione, avevano allertato anche un elicottero e il gruppo cinofili, e vi erano già diverse macchine pronte con una cinquantina di uomini a fare irruzione, per cui i carabinieri della territoriale non lo presero bene. Però, ripeto, tra le opzioni operative questa era una delle opzioni operative che si poteva scegliere.
Lei ha fatto riferimento ad altri episodi su altri covi, ma ritengo che non siano l’oggetto di questa audizione. Per quello che ne so io e per quello che sono le mie esperienze, c’è stato un altro incidente di percorso che ha visto il ROS, quello che scaturisce dalla collaborazione del collaboratore di giustizia Ilardo con il colonnello dei carabinieri del ROS, Riccio.
Anche lì c’è una sentenza, che va rispettata, che parla di scelte tecniche di un certo tipo. Il colonnello Riccio, che aveva Ilardo come confidente, reclamava un’irruzione di un certo tipo, fatta con un certo numero di uomini. Il vertice del ROS ritenne di non dover accedere a questa opzione investigativa, ma anche lì vi è una sentenza di ampia assoluzione, a cui io mi rimetto assolutamente.
Chi c’era in via D’Amelio?
C’erano tutti, e quando dico tutti, c’erano tutti. C’era una grandissima confusione.
Lei ha fatto riferimento al capitano dei carabinieri Arcangioli che prese la borsa, ma vi erano anche esponenti della polizia. Vi erano pure colleghi miei, a vario titolo presenti sulla scena del delitto.
Questo lo devo dire, anche con onestà intellettuale: non tutti i miei colleghi presenti avevano titolo per essere lì, così come molti delle forze dell’ordine non avevano titolo a essere sulla scena del delitto.
Però tenga conto della tensione in quel momento.
Il collega Pilato e io, per quanto possibile, ci adoperammo, ma non riuscimmo a contenere questa quantità di persone, ognuna delle quali aveva peraltro un motivo per essere lì.
Quelli dell’ufficio scorte avevano i colleghi morti, ognuno aveva un suo motivo.
Per quanto riguarda infine l’ultima notizia relativa all’agenda che si sarebbe trovata nell’ufficio del dottor Borsellino, posso confermare soltanto che l’ufficio fu sigillato e non escludo che all’interno vi fossero documenti che sicuramente saranno stati repertati dai colleghi della Procura di Caltanissetta, che erano gli unici titolati a levare i sigilli e a fare l’inventario.
Non escludo che ci possa essere stata un’agenda, ma che sia l’agenda rossa o meno, questo non sono assolutamente in grado di dirlo.

PRESIDENTE. Grazie. Restano iscritti a parlare i senatori Sallemi, Sisler e Rastrelli.

SALVATORE SALLEMI. Grazie presidente. Buonasera Procuratore. Tornerei al 14 luglio del 1992 e alla riunione dei magistrati in Procura. Potrebbe riferire, se lo ricorda, cosa disse il dottor Borsellino in quella riunione, cosa chiese ai suoi colleghi, qual era lo stato d’animo che c’era, che parole furono utilizzate, che reazioni ci sono state? Poi, ricorda se in quella riunione Borsellino disse di rinviare il discorso di approfondimento su mafia-appalti e come questo possa essere ricollegato all’archiviazione?

PRESIDENTE. Prego, dottor Patronaggio.

LUIGI PATRONAGGIO, Sono passati trentuno anni, non è facilissimo. Confermo che il dottore Borsellino chiese ed era per certi versi un fatto inusuale che un magistrato non assegnatario chiedesse spiegazioni specifiche su un certo procedimento, per cui questo già è indice di una tensione.
Poi non nego che le voci di corridoio avevano riportato questa aspettativa dei carabinieri che era arrivata al dottore Borsellino.
Tenga anche conto che il dottor Borsellino una copia dell’informativa mafia-appalti l’aveva avuta, perché riguardava gli appalti di competenza della Procura di Marsala, e, se non ricordo male, un appalto su Pantelleria, ma potrei anche sbagliarmi.
Come ho già riferito, Borsellino in quel periodo non solo andava cercando collaboratori di giustizia, ma aveva quotidiani scambi con i massimi vertici dell’Arma così come della polizia di Stato e da quella domanda che fece Borsellino si intuiva evidentemente questa criticità.
Per quanto riguarda la richiesta di Borsellino di rinviare la discussione ad altra data, non lo posso escludere né confermare, devo dire la verità, non lo posso escludere ma neanche confermare, perché comunque la decisione di archiviazione era stata già presa, era stata già firmata l’archiviazione, per cui non so quanto potesse giovare un rinvio.
Se lei mi vuole dire che Borsellino tentò di fermare l’archiviazione, le dico no, assolutamente no, su questo posso essere categorico.
Se lei mi chiede se Borsellino avesse chiesto altro tempo per rivederlo, non lo posso escludere.

PRESIDENTE. La parola al senatore Sisler.

SANDRO SISLER. Grazie al dottor Patronaggio soprattutto per la sua disponibilità. Vorrei porre due domande. La prima riguarda il signor Li Pera. Lei sa spiegare il perché lui non collaborò con la Procura di Palermo, al di là di quelle che furono le posizioni del ROS? Le chiedo altresì se ricorda se tra i difensori che lo assistevano c’era un tal Salvo Memi e che proprio il ROS, in particolare De Donno, chiesero ai magistrati che lo interrogavano di poter proseguire gli interrogatori senza la presenza di questo Salvo Memi e se ci sa dire anche chi era quest’ultimo, perché evidentemente era una figura ritenuta importante dal ROS.
La seconda domanda riguarda sempre il dottor Borsellino.
Le domando se è vero che egli chiese di attendere rispetto a decisioni anche abbastanza importanti da prendere, perché c’era un nuovo collaboratore che stava parlando e lui, da quel che risulta, stava già raccogliendo le dichiarazioni di Leonardo Messina e di Mutolo. Le chiedo se è vero e se ricorda questo particolare. Grazie dottore.

PRESIDENTE. Prego, Procuratore.

LUIGI PATRONAGGIO,. Circa la domanda sul perché Li Pera non collaborò con Palermo: innanzitutto lei ha detto giustamente che era assistito da due difensori e uno dei due era Domenico Salvo, inteso Memi Salvo, soggetto – questo lo posso dire perché ci sono delle sentenze – cocainomane e nelle mani della famiglia mafiosa di Brancaccio, arrestato e condannato.
L’esperienza giudiziaria ci dice che chi vuole effettivamente collaborare con la giustizia, la prima cosa che fa cambia avvocato. Non perché voglio mancare di rispetto alla classe forense, assolutamente, però, ahimè, sappiamo che non tutti gli avvocati sono propensi a un tipo di collaborazione in processi di un certo tipo.
Attenzione, è una scelta difensiva complicata che prescinde dalla buona o dalla malafede, si tratta comunque di una scelta difensiva complicata. Certamente, senza voler fare nessun torto personale all’avvocato Domenico Salvo, egli non era sicuramente l’avvocato idoneo a questo traghettamento, mettiamola così.
Non ricordo chi fosse l’altro difensore di fiducia, sicuramente ricordo Domenico Salvo, perché personaggio noto. Sicuramente con Memi Salvo difensore, per il legame che aveva con la famiglia mafiosa di Brancaccio e per la sua dipendenza acclarata dalla cocaina, difficilmente Li Pera poteva collaborare con la magistratura.
Ritengo che già ci fosse qualche contatto tra gli investigatori e Li Pera e che questo contatto doveva passare verosimilmente, come avviene normalmente in questi casi senza di nuovo far torto alla classe forense, attraverso il cambio dell’avvocato, cosa che avvenne quando Li Pera collaborò con il dottor Felice Lima di Catania.
Lì vi fu cambio dell’avvocato, modalità di assunzione diversa, non da indagato ma da persona informata sui fatti, e tutt’altro svolgimento, perché alla presenza del capitano De Donno.
Circa l’altra domanda su Borsellino: non ricordo e, anzi, escluderei che avesse detto di attendere per l’archiviazione, in attesa di sentire Messina e Mutolo.
Mi sentirei di escluderlo, assolutamente, così come non ricordo che disse di rinviare la discussione. Peraltro il procedimento era già archiviato e non era di competenza di Borsellino.

PRESIDENTE. Grazie, la parola al senatore Rastrelli.

SERGIO RASTRELLI. Naturalmente mi associo anche io al ringraziamento al Procuratore generale.

LUIGI PATRONAGGIO, procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Cagliari. È un dovere assoluto innanzitutto.

SERGIO RASTRELLI. La ringrazio anche per l’assolvimento del dovere. Torno ad alcune risposte che lei ha già dato in premessa, in relazione alla richiesta di emissione di ordinanza cautelare, quella del 1997, nei confronti di Buscemi e altri. Lei ha già riferito dell’acquisizione dei documenti da parte della Procura di Massa Carrara. Mi interessa in modo particolare capire se lei ebbe modo di visionare direttamente gli atti trasmessi da quella Procura, con riferimento alle indagini svolte sul gruppo Ferruzzi, se all’interno di quegli atti vi fossero, come di consueto, intercettazioni telefoniche o ambientali o altro, e se lei ebbe modo di visionarne il contenuto e di apprezzarne eventualmente la rilevanza processuale.

PRESIDENTE. Prego, procuratore.

LUIGI PATRONAGGIO, Non ho mai visto i documenti provenienti da Massa Carrara, non li ho mai visti, né le relative intercettazioni.

PRESIDENTE. L’onorevole Pittalis voleva porre un’altra domanda.

PIETRO PITTALIS. Intanto una brevissima premessa. Lei ha dichiarato che la mattina del 20 luglio del 1992 si è recato nella stanza del procuratore Giammanco dove erano presenti i suoi colleghi Lo Forte, Pignatone e il Procuratore generale Siclari e che il procuratore Giammanco era intenzionato a dimettersi, anzi diceva di avere già comunicato oralmente le sue dimissioni al Guardasigilli. Il motivo specifico per il quale si trovò lì, come lei ebbe a dire, era perché: «Siccome» la notte prima «ero stato coinvolto in prima persona negli atti urgenti, mi sembrò giusto mettermi a disposizione anche per l’indomani. Lo trovai molto amareggiato e diceva a tutti chiaramente che non aveva più intenzione di subire questi attacchi ingiusti da parte della stampa, di non avere le giuste solidarietà da parte dei vertici istituzionali e dalle forze politiche». «Diceva chiaramente che lui insisteva nelle sue dimissioni che già oralmente aveva dato al Guardasigilli la notte precedente, che lui non sarebbe tornato indietro sui suoi passi se non avesse avuto un segno di solidarietà». Può spiegare perché il dottor Giammanco voleva dimettersi? Io ho riportato le dichiarazioni del 1992 che sono agli atti del Consiglio Superiore della Magistratura.

PRESIDENTE. Prego, Procuratore.

LUIGI PATRONAGGIO, La ringrazio per la domanda che mi riporta a un frammento di memoria che avevo perso e che ora sto recuperando.
In effetti io entrai in punta di piedi, e dico letteralmente in punta di piedi, nella stanza di Giammanco – dove peraltro vi erano il Procuratore generale Siclari e il procuratore aggiunto Aliquò – soltanto per mettermi a disposizione per quello che avevo fatto e per quello che avevo visto, qualora ci fosse stato ancora bisogno del mio aiuto e della mia attività.
Soltanto incidentalmente ho vissuto frammenti di questa discussione perché Giammanco era molto amareggiato, si sentiva vittima di un ingiusto attacco giornalistico e mediatico.
Penso che questo suo esternare la sua amarezza fosse dovuto anche a un calcolo per verificare quanto consenso riusciva ancora a godere all’interno dell’ufficio, perché quel documento, a cui ho fatto più volte riferimento, quel documento di sfiducia, fu un parto doloroso e lungo, dato che non tutti i sostituti erano d’accordo, non tutti avevano il coraggio di saltare il fosso, e Giammanco, esternando platealmente questa sua amarezza, questa sua volontà di dimettersi, in realtà voleva vedere quanti uomini gli erano rimasti fedeli. Ritengo che il fatto che abbia assistito a questo spezzone di conversazione – peraltro abbastanza imbarazzante – sia dovuto al fatto che Giammanco voleva misurare ancora le sue forze all’interno dell’ufficio. Glielo confermo.

PRESIDENTE. Grazie mille. Non essendoci altri iscritti a parlare, prima di salutarla la volevo ringraziare per questa audizione.
Sono emersi a mio avviso racconti diversi da quelli che fino a qui sono stati esposti, almeno riguardo alla notizia della parziale archiviazione del procedimento su mafia-appalti e questo ovviamente sarà motivo di altro lavoro per la Commissione, perché né i testimoni, che magari sentiremo in altra sede, né coloro che abbiamo ascoltato fino ad ora hanno fatto riferimento a un’esplicita archiviazione in quella riunione. Questo per noi è sicuramente motivo di approfondimento. Grazie a tutti.
Dichiaro conclusa l’audizione.

 

 

 

Strage di Via D’Amelio – In COMMISSIONE ANTIMAFIA le audizioni dei famigliari di Paolo Borsellino e testimoni

 

 

 

 

 

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