“Il processo sulla trattativa Stato-mafia andava bloccato subito. Ma neanche questa lezione servirà”
Giovanni Fiandaca, professore emerito di Diritto penale a Palermo nonché garante dei detenuti della Regione Sicilia, è stato tra i pochi a smontare da principio il teorema della cosiddetta “trattativa Stato mafia”. Lo ha fatto esponendosi anche quando porre dei distinguo sul tema era tabù e la tesi dei pubblici ministeri palermitani era considerata come il Verbo sacro, dall’opinione pubblica e da buona parte dei media. A distanza di più di dieci anni, e alla luce della sentenza della Cassazione che assolve i tre ex Ros e Marcello Dell’Utri con formula piena dall’accusa di minaccia a corpo dello Stato, il professore ci ricorda che questa vicenda in un’aula di tribunale non sarebbe mai dovuta arrivare. E che un certo modo, per così dire, militante di fare inchieste, da parte di una (piccola) porzione i pubblici ministeri, non sarà certamente scalfito da sentenze definitive come questa.
La Cassazione ha scritto la parola fine sul processo cosiddetto Trattativa Stato-mafia: ex Ros e politici assolti. Lei fu il primo a sostenere che si trattava di un teorema insostenibile. Come commenta la decisione della Suprema Corte? Meglio tardi che mai. Ma è un processo che non si sarebbe dovuto fare, andava bloccato all’origine con una richiesta di archiviazione.
In appello gli imputati erano stati assolti “perché il fatto non costituisce reato”. La Cassazione, invece, senza disporre rinvio in appello, sceglie una formula più ampia, “per non aver commesso il fatto”. Cosa significa questo, da un punto di vista giuridico? Per comprendere davvero il senso di questo mutamento di formula assolutoria avrei bisogno di leggere le motivazioni. Ė verosimile che significhi che agli ufficiali del Ros non è attribuibile, secondo la Cassazione, alcuna condotta di valenza minacciosa verso il governo di allora. Quindi un’assoluzione ancora più ampia di quella disposta dalla Corte d’Appello, che aveva escluso soltanto il dolo, ma aveva riconosciuto l’esistenza oggettiva della condotta.
In una precedente intervista ad HuffPost, aveva detto che i pm avevano preteso di fare gli storici. La Cassazione ieri ci ha detto che non ci sono reati e che fu solo la mafia a tentare di trattare con lo Stato. Sarà definitivamente consegnata alla storiografia questa vicenda? Dubito che questa vicenda abbia e possa mantenere un rilevante valore anche su di un piano meramente storiografico. Non c’è stata compromissione dello Stato italiano come tale, e questo avrebbe dovuto comprendersi sin dall’inizio. L’etichetta “trattativa Stato-mafia” è stata frutto di una indebita enfatizzazione estremistica dei pubblici ministeri.
Molto prima che arrivassero le sentenze, complici interviste, trasmissioni televisive, la grande esposizione dei pm e una narrazione che andava tutta in un unico senso, gran parte dell’opinione pubblica riteneva già che la trattativa Stato-mafia fosse un dato assodato. È possibile che, nonostante le sentenze ormai abbiano detto con molta chiarezza che non ci sono reati commessi da pezzi delle istituzioni, nell’immaginario collettivo gli ex Ros restino “i colpevoli” che hanno trattato con la mafia? C’è da ritenere che settori del mondo politico e mediatico non fossero realmente interessati, e continuino a essere poco interessati, al concreto esito giudiziario; interessavano di più le ipotesi accusatorie, che sono state intenzionalmente e non disinteressatamente contrabbandate per verità dimostrate. Occorrerebbe in proposito un’autoriflessione critica: far prevalere i processi politico-mediatici rispetto ai processi giudiziari non giova al buon funzionamento del sistema democratico e non giova neppure a una credibile lotta alla mafia.
Sono passati in tutto 25 anni prima di arrivare a sentenza definitiva e la tesi dei pm è stata completamente demolita. Questa vicenda sarà in qualche modo da lezione a quella magistratura che tende più a perseguire tesi sociologiche che non a basarsi su ipotesi concrete di reato, oppure c’è il rischio che la storia si ripeta? Sono scettico in proposito, dubito che questa vicenda possa servire da lezione nel senso che lei dice. La tentazione di fare storiografia, politologia e sociologia, pur non possedendone davvero gli strumenti, è ancora forte in alcuni settori della magistratura penale più combattentisticamente impegnata sul fronte del contrasto delle mafie.
Secondo una ricostruzione ampiamente smentita dalle sentenze, l’accelerazione della strage di via D’Amelio sarebbe stata causata proprio dalla trattativa. Fabio Trizzino, l’avvocato della famiglia Borsellino, ieri ha dichiarato: “Hanno tentato in tanti modi di spiegare l’accelerazione della strage di via D’Amelio, pur di non guardare altrove. È giunto il momento di capire perché non si volle guardare a quello che Borsellino voleva fare e alle terribili difficoltà che incontrò dentro la Procura di Palermo”. Lei ritiene che ci sia ancora spazio per arrivare alla piena verità sugli anni delle stragi o dovremo rassegnarci a una ricostruzione non del tutto completa? Nutro purtroppo un certo scetticismo rispetto alla possibilità che si possano raggiungere in futuro soglie di accertamento veritativo all’altezza di pur giustificate aspettative.
DEMOLITO L’IMPIANTO ACCUSATORIO
Sì, la Trattativa stato-mafia era una boiata. Parla Fiandaca
“La sentenza della Cassazione conferma che questo processo non sarebbe mai dovuto esistere. E mostra le distorsioni del sistema giudiziario e mediatico”, dice il professore emerito di Diritto penale all’Università di Palermo “E insomma alla fine avevo ragione a sostenere che il processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia fosse una boiata pazzesca. Un pasticcio giuridico, non si sarebbe mai dovuto fare”. Per Giovanni Fiandaca, professore emerito di Diritto penale all’Università di Palermo, la sentenza della Corte di cassazione sulla Trattativa è una specie di cerchio che si chiude. Nel 2012 scrisse un saggio in cui spiegava per filo e per segno perché facesse acqua da tutte le parti. “Per quanto possa essere compiaciuto che le mie critiche fossero giuridicamente fondate, questa vicenda è una fotografia che ci aiuta a riflettere sulle storture della giustizia italiana”, dice oggi Fiandaca. IL FOGLIO 28.4.2023
Il SAGGIO
1.6.2013 – GIOVANNI FIANDACA: “Il processo sulla trattativa é una boiata pazzesca”
Processo Borsellino. “In 30 anni si è guardato ovunque. Non all’interno delle toghe”
Colloquio con Fabio Trizzino, legale della famiglia del magistrato, all’indomani della Cassazione sul Borsellino quater
Il depistaggio dopo l’uccisione di Paolo Borsellino c’è stato, nessun dubbio può essere più sollevato a riguardo. La corte di Cassazione ieri sera ha messo il sigillo al processo Borsellino quater, nato per accertare quella “macchina della calunnia” che ha portato per anni a dare credito al falso pentito Vincenzo Scarantino. Il ‘pupo vestito’ che si era accusato del furto dell’auto che fu utilizzata per uccidere il magistrato palermitano e gli uomini della sua scorta il 19 luglio 1992 e che, per anni, è stato creduto. Fino a quando Gaspare Spatuzza, nel 2008, si è pentito e ha ammesso che quel furto l’aveva compiuto lui, smontando un castello di bugie di due inchieste e di due processi. Quei processi erano sbagliati dall’inizio.
Gli avvocati, come Rosalba di Gregorio Giuseppe Scozzola, che assistevano le persone falsamente accusate lo hanno sostenuto subito, inascoltati in una lunga battaglia che si è poi rivelata giusta. Oggi – dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato l’ergastolo per i capomafia Salvatore Madonia e Vittorio Tutino e quelle per calunnia per gli altri due falsi pentiti, Calogero Pulci e Francesco Andriotta, – si può affermare serenamente che quei processi si poggiavano sul nulla.
“Si sono retti su una falsa ricostruzione avallata da pm e giudici”, dice all’Huffpost Fabio Trizzino, avvocato della famiglia Borsellino, insieme a Vincenzo Greco, e marito di una delle figlie del magistrato, Lucia.
Su questi elementi oggi c’è certezza. Eppure, la parola “fine” scritta al Palazzaccio può essere un nuovo inizio: “Questa sentenza può essere considerata un punto di partenza per la ricostruzione della verità storica, sul movente della strage di via D’Amelio e sulle origini del depistaggio.
Mi piacerebbe pensare lo stesso per la verità processuale, il tempo non gioca a nostro favore, 30 anni sono troppi e la ricostruzione davanti a un giudice diventa sempre più complessa. Alcuni danni sono irreparabili. Restiamo con la speranza che di questi fatti si occupo anche la commissione parlamentare antimafia”, spiega ancora Trizzino.
Era al Palazzaccio, ieri, mentre gli ermellini confermavano le condanne e, pur nel tecnicismo di un dispositivo, dicevano che quello che la famiglia sostiene da anni è verità. Storica e giuridica.
Per una verità assodata, altre ne mancano. E per il legale non ci sono più scuse per nascondere: “Non faremo sconti a nessuno – avverte – non per desiderio di vendetta, ma perché sentiamo di avere un dovere nei confronti delle future generazioni”.
Un dovere di far riemergere una verità che è stata rubata da anni di errori, di tesi smontate – leggi alla voce Trattativa – di bugie e di magistrati, i primi che hanno indagato sulla strage, che, ormai è certo, qualcosa hanno sbagliato.
La verità giudiziaria in sostanza a questo si ferma: la procura di Caltanissetta non avrebbe dovuto credere a Scarantino, il tribunale avrebbe dovuto smontare il castello di falsità. Né l’una né l’altro ha fatto niente di tutto questo. Ad oggi questo si può dire, il resto forse si potrà ancora ricostruire, e a leggere bene tutte le carte i punti da cui partire ci sono. “In questi 30 anni le indagini e i processi hanno guardato ovunque: nella politica, nelle forze dell’ordine. Ma non si è guardato all’interno della magistratura. Sarebbe quindi opportuno soffermarsi nell’unico ambito istituzionale tralasciato”, afferma l’avvocato.
Un’indagine su due pm che hanno condotto la prima inchiesta a Caltanissetta c’è stata, ma il fascicolo messinese su Anna Palma e Carmelo Petralia – sospettati di concorso in calunnia aggravata – è stato archiviato. Non hanno commesso reati, dice il gip che ha disposto l’archiviazione, solo degli “errori”.
Che si dovesse vagliare un po’ di più l’ambiente della magistratura lo indicavano anche alcune frasi di Borsellino. Trizzino ricorda come nei suoi ultimi giorni di vita parlava della procura di Palermo come di un “nido di vipere”. Era un uomo rigoroso, tutto fa pensare che non avrebbe pronunciato una frase del genere a caso: “In questi anni – prosegue Trizzino – c’è stata un’analisi poco attenta delle testimonianze che il magistrato ha lasciato negli ultimi 57 giorni di vita, quelli che sono seguiti alla morte di Falcone. Parlo di testimonianze orali, perché quelle scritte non ci sono. Avrebbero, forse, potuto essere nell’agenda rossa che aveva con sé il giorno dell’attentato, ma quell’agenda è sparita. E lo sa quando sono iniziate le indagini su questa scomparsa?
Nel 2002″. Dieci anni, un tempo infinito, dopo.
Messo un punto sul “depistaggio gravissimo e grossolano”, dice Trizzino, “si sta andando nella direzione giusta”. O, almeno, è più difficile mistificare quello che è stato.
Un esempio: per decenni parte dell’opinione pubblica, e alcuni pm, ha ritenuto che Borsellino fosse stato ucciso perché si era opposto alla Trattativa Stato-mafia.
Al netto del fatto che poche settimane fa la corte d’Appello di Palermo ha stabilito che i contatti avuti dagli ufficiali dei Ros con parte della mafia non erano reato, già le prime battute del Borsellino quater ci dicevano che quella teoria era sbagliata.
Nella sentenza d’appello, non a caso il giudice scriveva che il magistrato era stato ucciso per “vendetta” per il maxi processo e per “cautela preventiva” rispetto al lavoro che stava svolgendo. Ed ecco che allora per arrivare alla verità bisogna partire dai punti fermi: “Si deve ricostruire con logica – sostiene con forza Trizzino – attenendosi ai riscontri, non ai teoremi”.
I teoremi sono stati tanti, e alcuni sono duri a morire. Però, dopo la sentenza della Cassazione, è tempo di speranza.
“Richiameremo tutti alle loro responsabilità”, dice il legale. E se sulle origini del depistaggio bisogna fare ancora piena luce, un approfondimento serio andrebbe fatto anche sul movente della strage: “La famiglia ha sempre guardato altrove rispetto alle ricostruzioni che volevano vedere una connessione tra la strage e la trattativa.
In particolare, abbiamo sostenuto, e sosteniamo, che bisognava guardare a ciò di cui Borsellino si stava occupando negli ultimi mesi. Al dossier mafia appalti, in particolare”.
Si tratta di una lunga informativa firmata dal generale Mario Mori e da Giuseppe De Donno – gli stessi assolti dopo essere stati considerati per anni traditori dello Stato – che dopo la morte di Borsellino è stata dimenticata.
Fuori da questa babele di errori e superficialità che hanno allontanato la verità, emerge però un dato, almeno quello, positivo: “I magistrati, negli ultimi anni, hanno fatto di tutto per rimediare agli errori dei loro predecessori”, continua ancora Trizzino. “Questo elemento – conclude – è stato evidente anche ieri, durante la requisitoria del procuratore generale della Cassazione. Dal tono, dalle parole usate, si capiva quanto fosse profondamente dispiaciuto dalle vicende di queste decenni. Era come se volesse dire che no, Paolo Borsellino non meritava tutto questo”.
DOSSIER Trattativa Stato-Mafia – La Cassazione demolisce le accuse