Mario Mori. Vi spiego perché furono uccisi Falcone e Borsellino

 

 

Il generale Mario Mori, già comandante del Ros, una lunga carriera culminata prima nella caccia ai terroristi, con il metodo Dalla Chiesa, e poi nella lotta alla mafia, ha lavorato accanto a Falcone e Borsellino. Che puntavano molto sulle sue indagini. Dopo gli anni delle stragi di mafia si è dovuto difendere dalle accuse di chi sosteneva che non fosse un cacciatore di mafiosi, ma un colluso con la mafia. L’ultimo processo, la Trattativa, è stato totalmente smontato in Cassazione. In questa lunga intervista ci racconta come l’attività del Ros fu smontata pezzo dopo pezzo e di come il Paolo Borsellino fu ostacolato. E da chi.

Generale, nel libro che ha scritto con Giuseppe De Donno – La verità sul dossier mafia-appalti – racconta dei dettagli inediti dell’informativa che avrebbe potuto cambiare un pezzo di storia giudiziaria del Paese. Perché era così importante? Emergeva per la prima volta che non era solo la mafia a condizionare gli appalti e pretendere una percentuale.  La mafia concorreva in questo tipo di reato insieme a imprenditori criminali e a qualche politico. Questa era la grande novità iniziale del dossier mafia appalti.

Il vostro lavoro, però, a un certo punto è stato fermato. Come se lo spiega? La prima parte del dossier era stata consegnata, a Giovanni Falcone, nel febbraio 1991.
Noi ponemmo resistenze, perché ritenevamo non fosse ancora completo, ma Falcone lo portò al procuratore capo, Pietro Giammanco. Passarono quattro mesi senza che succedesse nulla, allora decidemmo di fare delle pressioni.
La procura emise cinque richieste di custodia cautelare.
Successivamente ne aggiunse altre due. Il problema non era il numero esiguo, ma il fatto che furono colpiti solo alcuni imprenditori locali.
Non erano state considerate alcune posizioni di imprenditori del Nord, che erano espressione del concetto che aveva guidato tutta la nostra inchiesta: quello del condizionamento degli appalti non era un fenomeno locale, siciliano. Era nazionale. Falcone lo aveva capito perfettamente, la procura di Palermo no.
Ciò danneggiò le indagini. Ma il danneggiamento avvenne anche per un altro motivo.

Quale? In tutte le inchieste di mafia è prassi che quando si consegnano gli atti agli avvocati difensori, si facciano degli omissis.
Non si renda pubblica l’intera inchiesta, per evitare che si capisca quali altri soggetti coinvolge e dove si voglia arrivare. Bene: la procura di Palermo consegnò l’intera informativa: 980 pagine, più gli allegati. Questo creò a noi un risentimento notevole. Ci furono degli incontri che, in realtà, erano scontri.

Cosa successe dopo? Non ci furono ulteriori sviluppi, se non parziali, mirati a un determinato appalto. Fino a quando non è arrivato Paolo Borsellino, non era stata più recepita la globalità criminale della vicenda. Al suo arrivo, era marzo ‘92, Borsellino era già stato informato da Falcone del dossier. Gliene consegnammo una copia. Cominciò a cercare di capire perché l’indagine era rimasta ferma.

Poi, il 23 maggio, muore Falcone. Sì. Borsellino capisce che anche lui sarà a breve colpito e si dà molto da fare. Nella riunione della direzione distrettuale antimafia di Palermo del 14 luglio, cinque giorni prima della sua morte, chiede conto della mancata considerazione di mafia appalti. E fa notare che agli atti manca una sua indagine sugli appalti a Pantelleria, che avrebbe potuto confermare il contenuto della nostra informativa.
Nessuno gli dice che il giorno prima i due sostituti procuratori Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato avevano chiesto l’archiviazione del dossier.

Perché mai nessuno glielo ha detto? Lo vorrei sapere anche io. Diciamo che non erano favorevoli a questo tipo di indagine.
Un fatto grave. Non il solo. Pochi giorni dopo Borsellino incontra a Roma l’onorevole Carlo Vizzini. Anche in quell’occasione si parlò di mafia e appalti.
Al punto che Vizzini disse che secondo Borsellino il dossier mafia-appalti era la causa della morte di Falcone.
Arriviamo al 18 luglio, quando Giammanco consente a Borsellino di interrogare il pentito Gaspare Mutolo. Fino ad allora non glielo aveva consentito.

Il 19 Borsellino viene ucciso. Era domenica. Alle 7.15 di mattina Giammanco gli telefona e gli dice che consentirà di fare le indagini anche nella provincia di Palermo.
Fino ad allora gli aveva assegnato solo le province di Trapani e Agrigento, sollevando la perplessità di tutti noi. Aveva istruito il Maxi-processo con Falcone, e Giammanco non gli aveva assegnato la provincia di Palermo.
La domanda che si pongono tutti è: Giammanco lunedì avrebbe visto Borsellino. Perché lo ha svegliato la domenica?
Il 22 luglio, tre giorni dopo la morte, firmò la richiesta di archiviazione di mafia-appalti e la invia al Gip, che la firma il 14 agosto.
Noi ci chiediamo: Giammanco è vissuto fino al 2018, perché nessuno gli ha mai chiesto niente di questi fatti? Mi perdoni se uso una parola un po’ impegnativa: è allarmante tutto ciò.

Troppi punti oscuri, come è possibile che siano rimasti tali per decenni? Il problema è che non si tratta neanche solo di questa vicenda.
Mentre la procura di Palermo sottovalutava mafia-appalti, noi aprivamo un’inchiesta a Catania, perché un anonimo aveva segnalato alcuni appalti.
Il capitano Giuseppe De Donno interrogò l’autore della segnalazione: il geometra Li Pera, che era uno dei cinque arrestati di mafia appalti.
Fece un’ampia descrizione di come venivano condizionati gli appalti e precise accuse di corruzione nei confronti di quattro magistrati: Giammanco, Lo Forte, Pignatone e De Francisci, tutti di Palermo.

Aspetti: Li Pera accusava i magistrati di essere corrotti? Sì, esatto. Sulla base delle sue parole, il pm catanese che si occupava dell’inchiesta, Felice Lima, fa 23 richieste di custodia cautelare.
Le presenta al suo procuratore, che si rifiuta. Prende l’indagine, la spezza in tre parti: gli appalti locali restano a Catania, le ipotesi di corruzione dei magistrati vanno a Caltanissetta e la parte che riguarda la mafia va a Palermo. Lima sarà sottoposto a indagine disciplinare e per evitare di essere trasferito passerà al tribunale civile. De Donno venne segnalato alla magistratura romana competente, ma sa cosa disse la procura generale?

Cosa? Che De Donno aveva fatto quello che avrebbe dovuto fare. E basta.

Come finisce l’inchiesta nei confronti dei magistrati? Furono indagati e prosciolti dalla procura di Caltanissetta: era la parola di Li Pera contro la loro. Non poteva che andare così. Ma vede, ci fu ancora un’altra inchiesta abortita.

Ce la racconta? Nell’89, De Donno aveva lavorato con il dottor Alberto Di Pisa, che indagava sugli appalti gestiti da Vito Ciancimino e Salvo Lima, insieme all’imprenditore Francesco Vassallo.
A un certo punto Di Pisa ordina la perquisizione del Comune di Palermo.
Nella cassaforte del sindaco viene trovata una lettera protocollata del commissario antimafia, Riccardo Boccia, che avverte lo avverte del fatto che dietro agli appalti assegnati ad alcune ditte c’era l’ombra di Ciancimino.
La lettera era siglata dal sindaco Leoluca Orlando: viene chiamato da Di Pisa, ma nega.
Allora scatta l’indagine. Vengono fuori le cosiddette “lettere del corvo”.
Cinque scritti in cui si accusavano Giovanni Falcone, Giuseppe Ayala e il prefetto Gianni De Gennaro di aver fatto rientrare il pentito Totuccio Contorno solo per fargli fare delle vendette.
Gli accertamenti si concludono nella individuazione, diciamo così, estemporanea, del dottor Di Pisa come autore di queste lettere anonime.
Viene trasferito a Messina: in primo grado viene condannato, in appello assolto perché non ha commesso il fatto. Un’altra inchiesta svolta da noi va per aria.

Insomma: fino a quando si trattava di indagare la mafia e basta non c’erano problemi. Laddove entravano in gioco pezzi di politica e di imprenditoria vi fermavano. Non è così? È la constatazione che facemmo subito.

E avete mai capito perché? C’era qualcuno che volutamente vi bloccava? Vede, non è una questione semplice: noi non vogliamo accusare nessuno di essere in combutta con la mafia.
Ma in una società, come quella siciliana, la medio-alta borghesia, fatta da magistrati, imprenditori, professionisti, politici, è una fascia ristretta.
Ci sono conoscenze, amicizie, relazioni, interessi. Finché si va a colpire il mafioso, sono tutti d’accordo.
Quando si va a colpire il notissimo imprenditore, la cosa comincia a diventare difficile.
Noi abbiamo buttato un macigno nello stagno e c’è stata una risposta di difesa psicologica.
Non siamo stati creduti. Forse non erano anche i tempi giusti per fare questo tipo di indagine.
Ma questa non è una giustificazione per nessuno.

Avete precorso i tempi? Forse. Sicuramente abbiamo superato il limite di tollerabilità investigativa. Non ci è stato concesso di andare oltre.


Ne ha fatto le spese la verità, però. E non solo. Esatto, la tesi della famiglia di Paolo Borsellino, dell’avvocato Fabio Trizzino, ma anche nostra è che Giovanni Falcone era il nemico numero uno della mafia e prima o poi lo avrebbero ucciso. Borsellino, invece, è morto per mafia-appalti.

 

E quando parlava della sua procura, la stessa che ha affossato mafia appalti, la definiva “nido di vipere”. Perché? Lo disse ai suoi colleghi. Antonio Ingroia ha ricordato di quanto fossero vaghe le risposte dei colleghi sul nostro rapporto.
A uno dei colleghi disse esplicitamente che non gliela raccontavano giusta sulla fine che aveva fatto il nostro rapporto, sul quale era veramente determinato ad andare avanti. Lo considerava un salto di qualità nella lotta alla mafia.

In un passaggio del libro dite che da un lato avevate il nemico, la mafia, dall’altro soggetti che non erano formalmente oppositori, ma che vi ostacolavano. Percepivate di essere scomodi quindi? Nessuno ci ha mai detto apertamente che il nostro rapporto era una schifezza. Anzi, ci dicevano che eravamo bravi. Peccato che poi ci siano stati ritardi, omissioni, che non ci hanno fatto andare avanti. Ora ci sorrido, all’epoca non sorridevo affatto.

Dopo la morte di Borsellino, ormai è certificato dalle sentenze, c’è stato un depistaggio. C’era qualcuno che voleva nascondere qualcosa? Sa, c’è una differenza tra il confronto che c’era tra Falcone e Giammanco e quello che ci fu tra Giammanco e Borsellino.
Nel primo caso, si trattava di un conflitto che riguardava un approccio diverso rispetto ai problemi della giustizia.
Falcone decise quindi di andare a Roma.
Borsellino, invece, è stato ostacolato scientemente. Lo sostengo io, ma anche la sua famiglia.

Giammanco non è mai stato chiamato a rispondere delle sue scelte? Neanche davanti al Csm? Su questo aspetto no. Ma se lo immagina se nella posizione di Giammanco ci fossimo stati io o De Donno? Saremmo stati in galera da una vita.

Sono passati oltre trent’anni dalla morte di Falcone e Borsellino e dalla stesura del vostro dossier. Alcuni protagonisti non ci sono più. Sarà mai possibile capire cosa è successo? Chi ha davvero bloccato mafia appalti? Dal punto di vista giudiziario è sempre più difficile.
Ritengo, invece, fondatamente, che quel complesso di vicende possa essere ancora valutato politicamente.
Lo chiedono i morti, lo chiedono i sopravvissuti. Lo chiede soprattutto lo stato di diritto.

A proposito di stato di diritto. Lei, De Donno e Antonio Subranni avete subito una vicenda giudiziaria lunghissima: imputati nel processo Trattativa, siete stati assolti definitivamente. Cosa ha significato per lei essere accusato di essere in combutta con la mafia, dopo averla combattuta per anni? Era scontato che la mia attività di ufficiale di polizia giudiziaria fosse valutata in maniera puntuale e pregnante.
Perché con i miei atti colpivo la libertà delle persone. Ma adesso, ma anche all’epoca, c’era una cosa chiarissima: noi stavamo dalla parte delle istituzioni, non della mafia. Quell’inchiesta per noi è stata davvero offensiva.
Dopo, però, ci siamo difesi. E lo abbiamo fatto con grinta.
Io ho subito tre processi, con tre ufficiali diversi, ero sicuro che alla fine avrei vinto. Noi eravamo dalla parte della legge.

I pm palermitani, però, pensavano l’esatto contrario. Il loro approccio, per tanti anni, è stato ideologico. Nel magistrato questo atteggiamento è assolutamente da evitare.
Le toghe dovrebbero applicare le leggi, non interpretarle in maniera ideologica. Qualcuno se lo è dimenticato.

Gli avvocati difensori, peraltro, sostengono che si trattasse di inchieste senza prove. Hanno creato panzane che non stanno né in cielo né in terra, ma che sono andate avanti per anni.
Penso alla Trattativa, ma anche a Sistemi criminali: qualcuno le tira ancora fuori.
Solo che le inchieste non sono come la politica: se un magistrato mi accusa, deve portare i documenti, altrimenti è un superficiale, non è professionale. Anzi, ancora peggio: è un ideologizzato. Sa, peraltro, cosa è devastante?

Cosa? Ci sono trent’anni di giornalate, di servizi televisivi in cui non si raccapezza più nessuno. Non si sa più distinguere il dato di fatto dalla suggestione.
Io sarò sempre, fino a che morirò e anche dopo, quello che ha fatto la trattativa con Ciancimino. Anche se non è vero. C’è una parte della pubblica opinione che pensa che io sia veramente quel bandito che ha preso Totò Riina perché glielo hanno consegnato Bernardo Provenzano o Nitto Santapaola.
Ma secondo lei se avessi avuto la possibilità di contattarli, non li avrei arrestati?

Quale era il messaggio che volete mandare con il libro? Intanto volevamo che la gente sapesse cosa è accaduto. Noi l’abbiamo concepito dopo l’assoluzione del processo Trattativa: non ci sono i nostri giudizi, solo i dati di fatto.
Ogni lettore, poi, valuterà. Speriamo che, almeno da un punto di vista politico, queste vicende vengano riprese. E qualcuno approdi a un risultato.

In commissione parlamentare antimafia sono in corso molte audizioni sulla morte di Borsellino. Una risposta potrebbe arrivare da lì? Ancora non siamo stati convocati, ma speriamo di essere sentiti presto.

HUFFPOST Federica Olivo  30