“Quell’autobomba rubata a spinta” il racconto del pentito Spatuzza

 

“Io so di via D’Amelio perché l’auto imbottita di tritolo l’ho rubata io”. Comincia così la narrazione con cui Gaspare Spatuzza riscrive la strage di Borsellino e della sua scorta e scagiona otto palermitani condannati all’ergastolo per quel reato. Una testimonianza ricca di dettagli, compresa la descrizione di un misterioso cinquantenne, “non di Cosa Nostra”, che aspettava la Fiat 126 nel garage dove fu trasformata in autobomba: un uomo che potrebbe essere il collegamento con i servizi deviati.

 

Tutto cominciò con una soffiata. Ancora oggi non si sa esattamente da dove è venuta. Forse dal Sisde, il servizio segreto civile che l’ha trasmessa alla polizia di Palermo. O forse dalla polizia di Palermo, che l’ha trasmessa al Sisde. Era una soffiata fasulla. Sull’auto che aveva fatto saltare in aria Paolo Borsellino e sui mafiosi che l’avevano rubata. Dopo quasi vent’anni, è arrivato però Gaspare Spatuzza che ha riscritto la storia delle stragi siciliane. Lo  racconta lui come hanno ammazzato, il 19 luglio del 1992, l’erede di Falcone. Cancellando con le sue confessioni indagini pilotate e processi passati al vaglio della Cassazione, indicando depistaggi e piste ingannevoli. Un romanzo nero riscontrato punto dopo punto negli ultimi due anni.
In una drammatica narrazione Gaspare Spatuzza rivela come i boss – e probabilmente qualcun altro – prepararono ed eseguirono il massacro.

“Io so di via D’Amelio perché l’auto imbottita di tritolo l’ho rubata io…”. Comincia così il primo interrogatorio – il 26 giugno del 2008 – dell’uomo d’onore di Brancaccio con il procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari. Repubblica è venuta in possesso delle 1138 pagine della richiesta di revisione con la quale la magistratura di Caltanissetta ha chiesto la “sospensione della pena” per otto imputati ingiustamente condannati all’ergastolo, otto palermitani trascinati nel gorgo delle investigazioni da falsi collaboratori di giustizia e da un’inchiesta poliziesca che oggi è sotto accusa. Se quasi vent’anni fa, poliziotti e pubblici ministeri si erano fidati (dopo quella soffiata “inquietante”, come la definiscono i procuratori siciliani) del picciotto di borgata Vincenzo Scarantino che li ha portati verso il nulla, adesso Gaspare Spatuzza spiega come andarono veramente le cose. E parla soprattutto di sé. Di quando lui – e non Scarantino, il bugiardo – rubò quella Fiat 126 che poi servì per l’attentato. Di come la portò in giro per Palermo. Fra garage e magazzini, dalla foce del fiume Oreto fin sotto la casa della madre del magistrato.

Tutte le falsità del pentito Scarantino si erano concentrate proprio sul furto di quella 126. Ecco la nuova versione di Gaspare Spatuzza. Con un disegno di suo pugno del luogo dove rubò l’auto. Con tutte le foto del percorso dell’utilitaria attraverso Palermo: dal box dove fu custodita al box dove fu imbottita di esplosivo.
Parla Gaspare Spatuzza: “Io fui incaricato di un furto di una Fiat 126 da Fifetto Cannella, per ordine del boss Giuseppe Graviano. In quel momento ho pensato subito al giudice Rocco Chinnici, anche lui saltò su una 126… ma non sapevo ancora a cosa mi stavo prestando… L’ho rubata io insieme a Vittorio Tutino, nella notte fra l’8 e il 9 luglio, dieci giorni prima della strage. Poi, l’ho tenuta in diversi magazzini”.

Il pentito racconta come preparano la strage, giorno dopo giorno: “Cannella, mi disse che avrei dovuto rubare proprio una 126. Era prima di mezzanotte. L’abbiamo trovata in una stradina che collega via Oreto Nuova con via Fichi d’India… io rimango in macchina… vedendo che lui, il Tutino, aveva perso del tempo… cerco di andare a vedere cosa stava combinando… quindi scendo dalla macchina e gli dico: ‘Ma che fai?’… e lui mi dice: ‘Mi viene difficile a rompere il blocca sterzo’… rimango lì con lui che poi è riuscito a romperlo ma non ce la facciamo a metterla in moto perché aveva rotto tutti i fili, quindi decidiamo di portarla via a spinta”.

L’auto che ucciderà il procuratore Borsellino, dieci notti prima era una carcassa che neanche partiva.
Ricorda ancora Spatuzza: “La macchina era sul rossiccio e tra l’amaranto e il sangue di bue… comunque era di un colore rosso spento… quindi attraversiamo verso Brancaccio e la portiamo in un magazzino di Fondo Schifano. Percorriamo via Fichi d’India, San Ciro, via San Gaetano fino al capannone dove io avevo già iniziato la ‘macinatura’ dell’esplosivo che era nascosto in alcuni fusti di metallo”. Poi Spatuzza e Tutino avvertono Fifetto Cannella e Giuseppe Graviano: “Abbiamo la macchina”. Poi ancora Spatuzza incontra da solo il suo boss,Giuseppe Graviano, quello che lui chiama “Madre Natura”. Dice: “Mi fa un sacco di domande: mi chiede di questa 126… dove l’avevo rubata, se era intestata a persone di nostra conoscenza e gli ho detto di no, se qualcuno l’aveva già cercata e gli ho detto ancora di no. Gli ho spiegato che c’era la frizione bruciata, e per bruciare la frizione in quel genere… sicuramente la macchina era di una donna perché le donne portano i tacchi… quindi hanno il problema di staccare la frizione. E poi gli ho anche detto che ci ha… il problema della frenatura… che freni non ce ne ha… lui mi dice: ‘Puliscila tutta e di levare tutti i santini e anche l’immagine di Santa Rosalia’. Io quindi la pulisco tutta… levo tutti i segnali di riferimento che si poteva e ho bruciato i documenti, fogli, tutto quello che esisteva l’ho bruciato… anche un ombrello”.

Dopo due giorni Gaspare Spatuzza sposta l’auto in un altro suo magazzino di corso dei Mille, dove poi porta un meccanico. “Sono andato a cercare a questo Maurizio Costa e gli ho detto che dovevamo fare un lavoretto nella 126, gli ho spiegato che si doveva fare la frenatura ma non gli ho detto altro. Gli ho fatto capire che l’auto era di un latitante e gli ho fatto capire anche che non doveva parlare. Quindi sono andato a comprare i ganasci, olio e altri pezzi. Ho speso quasi centomila lire”. Spatuzza riceve da Vittorio Tutino due batterie e un antennino da collegare a un telecomando. E anche l’ordine di rubare due targhe di altre Fiat 126 per metterle sopra all’autobomba. Il boss Graviano gli raccomanda di rubare le targhe il sabato mattina, il 18 luglio. Così il furto, probabilmente, verrà denunciato solo il lunedì successivo. Dopo la strage.

E’ a quel punto che venerdì 17 luglio, verso le tre del pomeriggio, una Fiat 126 color amaranto scivola per le vie di Palermo carica di tritolo. Alla guida c’è Gaspare Spatuzza, accanto a lui Fifetto Cannella. Appena s’infila in corso dei Mille, Spatuzza incrocia con lo sguardo Nino Mangano, il capo del mandamento di Brancaccio che gli fa da battistrada su un’altra automobile. Spatuzza è sorpreso, poi capisce che è lì un po’ per controllarlo e un po’ per proteggerlo. Corso dei Mille, via Roccella, via Ventisette Maggio, piazza dell’Ucciardone dove c’è il vecchio carcere. Proprio, in quella piazza, c’è un posto di blocco della Guardia di Finanza. La staffetta Mangano avverte Spatuzza, che svolta all’improvviso verso il Borgo Vecchio. Si ferma a un chiosco, prende tempo. Quando Nino Mangano gli dice che la strada è libera, la Fiat 126 ritorna indietro, supera l’Ucciardone e punta verso la via Don Orione. Dopo poche decine di metri l’utilitaria sparisce dentro un garage di via Villasevaglios 17.

C’è uno scivolo di cemento, c’è un cancello di ferro e poi una saracinesca. Quando sale, Gaspare Spatuzza infila il muso della Fiat 126 lì dentro, dove ci sono ad aspettarlo due uomini. Uno è Renzo Tinnirello della “famiglia” di corso dei Mille, l’altro è Ciccio Tagliavia di Brancaccio. Ma alle loro spalle, nell’ombra, c’è anche uno sconosciuto, un uomo di una cinquantina d’anni che non è un mafioso. Nel 2009 Gaspare Spatuzza aveva indicato quell’uomo, con nome e cognome, come un appartenente ai servizi segreti. Nel 2010 ha fatto marcia indietro, parlando solo “di una certa somiglianza”. Spento il motore della Fiat 126, Tinnirello dice a Spatuzza di pulire lo sterzo per cancellare le sue impronte digitali. Poi Tinnirello e Tagliavia imbottiscono l’auto e preparano l’innesco. Gaspare Spatuzza torna verso la sua Brancaccio, passa dall’Ucciardone (“il posto di blocco della Finanza non c’era più”) e intuisce – dalla vicinanza con la casa della madre di Paolo Borsellino – a cosa servirà quella Fiat 126.

Era dalla prima settimana di luglio che erano cominciati gli appostamenti in via Mariano D’Amelio. Il primo sopralluogo. Poi, il secondo sopralluogo “circa una settimana prima della strage”. Li avevano fatti Fabio Tranchina e Giuseppe Graviano. Il boss aveva chiesto a Tranchina  di procurarsi anche un appartamento lì vicino (“senza agenzie, mi raccomando…”) ma poi aveva visto un giardino dietro la casa della madre del magistrato e aveva deciso di piazzarsi lì con il telecomando. Sabato 11 luglio il boss Salvatore Biondino e i due cugini Salvatore Biondo e Giovan Battista Ferrante (uno detto “il  lungo” e l’altro “il corto”) provano il telecomando in campagna. Lunedì 13 luglio i Ganci della Noce contattano Antonino Galliano e lo avvertono di “tenersi pronto per pedinare” Borsellino la domenica successiva. Il 16 luglio Salvatore Biondino dice a Giovanni Brusca che è “sotto lavoro” ma che non ha bisogno di aiuto per la strage. Il 17 luglio Biondino chiama Ferrante e gli ordina “di tenersi libero per domenica che c’è da fare”. Sabato 18 luglio Raffaele Ganci informa Salvatore Cancemi che, il giorno dopo, Borsellino morirà.

Alle sette del mattino di domenica 19 luglio i mafiosi delle “famiglie” della Noce, di San Lorenzo e di Porta Nuova sono “in osservazione” intorno a via Mariano D’Amelio. Alle 16,58 il procuratore salta in aria con cinque agenti della sua scorta. Sono stati solo i mafiosi? Scrive il procuratore Sergio Lari nella richiesta di revisione del processo Borsellino presentata, qualche giorno fa, alla procura generale di Catania: “Dopo diciannove anni, potrebbe sembrare singolare, se non addirittura anomalo, che siano state avviate nuove indagini destinate a mettere in discussione ‘verità’ che ormai sembravano acquisite”. E, riferendosi alle false piste, il procuratore scrive: “Bisogna comprendere se con i depistaggi si volevano coprire la responsabilità di ‘soggetti esterni’ a Cosa Nostra riconducibili ad apparati deviati dei servizi segreti, ovvero ad altre Istituzioni o a organizzazioni terroristico-eversive”.