Un altro attentato allora volevamo farlo nella casa a mare di Borsellino, a Marinalonga, nei pressi di Carini. Era vicino del nostro Angelo Siino, sembrava cosa facile anche lì. Andò Di Maggio a casa di Siino a fare una serie di appostamenti, per capire se si poteva fare la cosa.
Il residence, infatti, aveva una sola uscita, e in pratica dalla rete metallica della villa di Siino si vedevano proprio tutti gli spostamenti e i movimenti di Borsellino, le occasioni in cui si allontanava dai due che gli facevano la scorta, tutte le volte che usciva con il vespino.
Tanto che Di Maggio ci aveva preso gusto, sembrava un lavoro facile; e tra un bagno e una mangiata di pesce questo vai e vieni da casa di Siino era durato due settimane. E Di Maggio poi aveva riferito tutto.
Ma siccome Siino conosceva il dottore Borsellino, l’ha visto e l’ha messo in guardia.
Siino infatti pensava: qui, se succede qualcosa, il primo che si inculano sono io. E allora, mentre c’era Di Maggio, chiamò Borsellino nel bungalow di suo fratello e cercò di parlargli per avvisarlo.
Ma la cosa fu tragica, perché Siino era convinto di poter parlare molto in amicizia, di dirgli: «Ma chi glielo fa fare, ma perché sta facendo tutte queste cose», «Ma dottore, perché…». E invece Borsellino impazzì e si mise a urlare: «Ora lei mi deve dire chi la manda, che cosa vuole dire!».
E Siino: «Dottore, non c’è nessuno motivo… era per parlare».
Morale: Borsellino si infuriò, e anche Siino ci rimase male. Ma come, pensava, io ti sto dicendo questa cosa, di stare attento, anche perché qui a Marinalonga non hai nessun tipo di scorta, e tu reagisci così? Siino dopo l’incontro si pigliò di confusione.
Lui non era cosa di fare mediazioni e sensalie, ogni volta combinava danno. E qui il danno era grosso. Perché aveva fatto saltare l’attentato al giudice, e come ringrazio quello lo aveva sicuramente già segnalato.
Convinto che lo arrestassero, per sì e per no, Siino fece la cosa che sapeva fare meglio: tagliare la corda. E se ne andò con la barca in Tunisia.
Anche perché, pensava, se davvero fanno a Borsellino, è meglio che mi levo dai piedi. E saltò anche questo progetto.
In qualche modo avevamo capito che se dovevamo liberarci del dottore Borsellino, l’attentato, alla fine, avremmo dovuto farlo noi, senza delegare ad altri. La cosa non ci calava molto, perché significava uscire dalla nostra invisibilità, ma Borsellino era procuratore a Marsala, a casa nostra, e se avessimo aspettato che se ne ritornava a Palermo, gli amici di lì non ce l’avrebbero mai perdonato.
Dal libro “Matteo va alla guerra”, di Giacomo di Girolamo