CHI HA TRADITO E VENDUTO ALLA MAFIA PAOLO BORSELLINO?

 

CRONACA DEI 56 GIORNI DALLA STRAGE DI CAPACI ALL’ATTENTATO DI VIA D’AMELIO – DALLE RIVENDICAZIONI DELLA FALANGE ARMATA ALLE INFORMATIVE DEI CARABINIERI NASCOSTE DAL SUO CAPO PIETRO GIAMMANCO, DALLA CACCIA AI DIARI DI FALCONE A QUELL’INCONTRO A ROMA CON… – E POI IL TRITOLO CHE ARRIVA A PALERMO, IL TAM TAM DI RADIO CARCERE CHE DÀ “BORSELLINO MORTO“, UN MISTERIOSO INCONTRO A VIMINALE… 

 

 

 

Una pioggia violenta lava Palermo, il cielo è nero, la piazza vuota. Dentro la chiesa Paolo Borsellino è in ginocchio davanti a un prete, si sta confessando. Esce per ultimo dalla basilica di San Domenico, si guarda intorno, è fradicio d’acqua, cerca con gli occhi gli uomini della sua scorta e poi si ripara sotto la pensilina del 101, l’autobus che scende da via Libertà fino alla stazione.
È lunedì 25 maggio 1992, Giovanni Falcone non c’è più da trentasei ore. E il suo amico, il fratello, quello che tutti indicano come l’erede, è sotto un temporale d’estate, disperato come lo sarà sempre nei cinquantasei giorni che seguiranno.
Solo, sta andando incontro alla morte. Basta mettere in fila le date e gli avvenimenti per intuire che Paolo Borsellino doveva saltare in aria, basta ricordare come è stato tradito da alcuni suoi colleghi per capire che non aveva altro destino. La cronaca dei fatti, nuda, scarna, a volte spiega tanto.

ANDREOTTI È COLPITO I funerali di stato sono finiti, la rivolta dei poliziotti sedata, il becchino ha già seppellito Giovanni Falcone. Il presidente del Consiglio Giulio Andreotti non è a Palermo, ma fa sapere di una telefonata anonima dopo il “botto” di Capaci: «È un regalo di matrimonio di Salvino Madonia».
Salvino Madonia, uno dei quattro figli del patriarca della Piana dei Colli don Ciccio, che si è sposato all’Ucciardone proprio il giorno della strage, il 23 maggio. Il capo del governo parla anche di altre due telefonate, una alla redazione Ansa di Genova e un’altra alla redazione Ansa di Bari.
La rivendicazione dell’uccisione del giudice, firmata Falange armata, una sigla al tempo molto misteriosa, miscuglio di spioni e boss della Cupola. Andreotti dedica poche parole alla strage: «Non facciamo certo discriminazioni fra le vittime, ma quando cadono uomini come Falcone, siamo colpiti in modo tutto particolare».

IL PRESIDENTE Alla fine della giornata non è lui, come aveva lungamente sperato, il nuovo presidente della Repubblica. L’omicidio nel marzo precedente di Salvo Lima, il suo console siciliano, l’ha messo fuori gioco per sempre. Dopo 15 scrutini segreti e 15 fumate nere dal 13 maggio, i deputati e i senatori finalmente eleggono il capo dello stato.
È Oscar Luigi Scalfaro, ex magistrato, un democristiano più volte sottosegretario e ministro. Il “botto” ha avuto un effetto politico “stabilizzante”, il terrorismo mafioso unisce i due rami del parlamento che si ritrovano insieme per resistere alla minaccia eversiva.
Nel mio taccuino segno alcune parole: il botto di Capaci, la bomba di Capaci, l’inferno di Capaci, segno anche “la disgrazia di Capaci”, come mi dirà qualche giorno dopo Antonina Brusca, dama di carità di San Vincenzo e madre di Giovanni, il mafioso che il 23 maggio era sulla collinetta con un radiocomando fra le mani.

L’FBI IN SICILIA Il conto alla rovescia forse può iniziare il 26 maggio, un martedì. Il nuovo capo dello stato è a Palermo, scende a Punta Raisi e va subito a pregare sul curvone dove il cratere butta ancora fumi e veleni. Poi è a villa Withaker, sede della prefettura. In quelle stesse ore, dall’altra parte dell’Atlantico, sta partendo una squadra di agenti speciali dell’Fbi, destinazione Sicilia. Indagano anche loro sull’attentato.
A Washington annunciano una commemorazione al Congresso, repubblicani e democratici firmano una risoluzione: «L’uccisione del giudice italiano Giovanni Falcone è un delitto commesso anche contro gli Stati Uniti d’America». Mercoledì, 27 maggio. Vado a Caltanissetta perché è quella procura della repubblica che, per competenza, indaga su Capaci. Scopro che il procuratore capo Salvatore Celesti non è mai andato sul luogo del massacro, investiga “in differita”.
Celesti è in scadenza, sono i suoi ultimi giorni a Caltanissetta. Per sostituirlo c’è solo un pretendente, Gianni Tinebra, un magistrato che da quasi un quarto di secolo è nello stesso distretto giudiziario.
La Sicilia intanto è stordita dalla strage, l’Italia è stordita dalla strage, noi che viviamo a Palermo siamo in stato di tranche. Vediamo tutto e vediamo niente. Giovedì 28 maggio. A Roma, il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti candida a sorpresa Paolo Borsellino a capo della neo procura nazionale antimafia. Borsellino non ne sa niente, è disorientato, impaurito: quella candidatura lo fa diventare ancora di più bersaglio dopo l’uccisione di Falcone. Due giorni da brivido.
Perché il nome di Borsellino viene scaraventato all’esterno? Il procuratore scrive una lettera a Scotti e declina l’invito, dice che il suo posto è a Palermo. Tutta Italia crede però che lui, solo lui andrà alla Superprocura.

FANTASMI AL PALAZZO DI GIUSTIZIA Il mese di giugno inizia male. Ci sono pentiti che non vogliono più parlare «perché non si sentono tutelati dallo stato», fra loro anche Totuccio Contorno e Antonino Calderone.
A Palermo intanto rafforzano la scorta a Borsellino. Un’altra auto blindata, una vigilanza più intensa intorno alla zona rimozione sotto la sua casa in via Cilea e davanti alla chiesa di Santa Luisa di Marillac dove il procuratore va almeno una volta la settimana.
Gli agenti che lo proteggono chiedono al questore Vito Plantone e al prefetto Mario Iovine di trasformare via Mariano D’Amelio, la via dove abita la madre di Borsellino, in una grande area protetta.
Non ricevono risposta. Palermo è terrorizzata. Al palazzo di Giustizia arrivano tre o quattro magistrati da altre procure per seguire, indirettamente dal capoluogo siciliano, le indagini sull’uccisione di Giovanni Falcone.
Vengono da Catania e da Messina, si aggirano come fantasmi nei lunghi corridoi della procura, non conoscono le strade della città, non conoscono le mappe criminali – organigrammi, composizione delle famiglie, capi e sottocapi – non conoscono la mafia. Noi giornalisti facciamo la spola fra Palermo e Caltanissetta, riempiamo pagine di niente, titoloni a sei colonne, il vuoto dentro gli articoli. Notizie che si rincorrono, si scrive tutto e il contrario di tutto.

IL PATTO DISATTESO Sono più concrete le informazioni che vengono dalla politica, Vincenzo Scotti e Claudio Martelli stanno preparando un “decretone” di misure contro la mafia: è lo stato che reagisce alla strage. Protezione e aiuto economico ai mafiosi che collaborano, aboliti i benefici di legge ai boss che non parlano, l’introduzione del 41 bis, il carcere speciale. È ancora tutto sulla carta: non se ne farà nulla sino a dopo il 19 luglio. Ma c’è chi intuisce che sta succedendo qualcosa di importante, qualcosa che può portare un grave danno a Cosa nostra.
E così si rifà viva la fantomatica Falange armata: «I politici hanno ottenuto quello che volevano, noi no. Certe cose non sono state rispettate». Nel disordine di quei giorni nessuno fa caso più di tanto alla Falange armata e a quella telefonata anonima, la voce di un uomo con un marcato accento catanese. Ma quali “cose” non sono state rispettate? C’è stato un patto? Ci sono state promesse?

LENZUOLA E CAMPANE Nel caldo insopportabile dello scirocco Palermo il 9 giugno si sveglia con le lenzuola bianche che scendono dai balconi dei palazzi. È una rivolta di massa. Dietro al “Comitato dei lenzuoli” c’è Giuliana Saladino, intellettuale raffinata, giornalista del quotidiano L’Ora per tre decenni, autrice di memorabili inchieste sul malaffare siciliano.
Il Comitato chiede all’arcivescovo, il cardinale Salvatore Pappalardo, di far suonare le campane di tutte le chiese della città alle 17.58 del 23 giugno, un mese dopo Capaci.
Ci sono mafiosi che non vogliono parlare più e ci sono mafiosi saltano il fosso. Uno è della provincia di Caltanissetta, si chiama Leonardo Messina, è a conoscenza di tanti segreti. Il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti torna sulla strage di Capaci: «È stato un delitto di mafia che ha trasceso i confini nazionali, il modo in cui è stato perpetrato, le tecniche che sono state usate: tutto punta verso una matrice non esclusivamente siciliana».

SOLO NELLA SUA STANZA Paolo Borsellino ogni mattina è nella sua stanza al secondo piano del palazzo di Giustizia di Palermo. È barricato, stravolto, schiacciato. Un giorno lo vado a trovare. La porta si apre, ha ancora il telefono in mano: «Ho appena parlato con Antonio Di Pietro sull’informatizzazione della Giustizia, io sono il referente qui a Palermo».
Gli chiedo se i suoi colleghi di Caltanissetta l’hanno già chiamato come testimone per dire tutto ciò che sa su Giovanni Falcone. Risponde: «No, sto ancora aspettando».
Sono passati più di 20 giorni dall’attentato e nessuno, fra i procuratori che indagano sulla strage ha ancora trovato il tempo di interrogarlo. Perché? Non è lui, più di chiunque altro, a custodire le confidenze e i segreti di Falcone? Tutti la pensano così, tutti tranne i magistrati della procura di Caltanissetta.

OBIETTIVI In un’atmosfera cupa che non annuncia niente di buono al comando generale dell’Arma dei carabinieri viene trasmesso un rapporto con oggetto “Minacce nei confronti di personalità e inquirenti”. È firmato dal generale Antonino Subranni, l’ufficiale che guida il Ros, il raggruppamento operativo speciale. Nel dossier vengono indicati i possibili obiettivi: l’ex ministro dell’Agricoltura Calogero Mannino e il ministro della difesa Salvo Andò, il capitano dell’Arma Umberto Sinico e infine lo stesso Paolo Borsellino. Sono numerose le fonti “ascoltate” dal Ros, dentro e fuori Cosa nostra. È venerdì 19 giugno.

CACCIA AI DIARI DI FALCONE Il giorno dopo, sabato 20, Giuseppe Ayala, amico di Falcone, pubblico ministero al maxi processo e da qualche mese parlamentare eletto fra le fila dei repubblicani, rivela: «Falcone aveva un diario dove scriveva tutto».
È caccia al diario. Chi ce l’ha? È nelle mani degli inquirenti? È sparito? A Roma intanto viene nominato il presidente del Consiglio, è il socialista Giuliano Amato, sarà lui a guidare un governo in mezzo fra la Prima e la Seconda Repubblica dopo il terremoto di Tangentopoli e il cratere di Capaci.
Il 24 giugno Paolo Borsellino entra al mattino presto in procura ed esce di sera. Il 24 giugno Il Sole 24 ore, a firma Liana Milella, pubblica alcuni stralci dei diari di Falcone.
Sui contrasti il procuratore capo Pietro Giammanco, sull’emarginazione subita dai suoi colleghi, sulla lentezza delle indagini sui cosiddetti “delitti politici”.
Si eseguono perizie sui computer di Falcone: alcuni file sono stati cancellati, altri «consultati da ignoti». Dalle carceri si diffonde un tam tam: «Borsellino è morto».
Sempre più sospettoso e sempre più isolato, il magistrato chiede di parlare, «ma fuori dalla procura» con il colonnello Mario Mori e con il capitano Giuseppe De Donno del Ros dei carabinieri.
L’appuntamento è alle 15.30 del 25 giugno alla caserma Carini, la postazione dell’Arma dietro il teatro Politeama. Cosa si dicono? Per quale ragione Borsellino vuole un incontro clandestino con i due ufficiali? Secondo le successive testimonianze di Mori e di De Donno per parlare dell’inchiesta “Mafia e appalti”, una contestatissima indagine che aveva provocato una divisione fra il Ros e la procura di Palermo, inchiesta sottovalutata se non addirittura insabbiata per i due ufficiali, inchiesta ancora tutta da sviluppare per i magistrati.

IL MISTERIOSO INCONTRO IN CASERMA Il 25 giugno 1992 Mori e De Donno non riferiscono a Borsellino che, qualche giorno prima, avevano avuto un faccia a faccia con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. I due ufficiali, attraverso Ciancimino, volevano catturare Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra all’epoca latitante da 24 anni.
In realtà nessuno sa nulla di cosa sia veramente accaduto nel primo pomeriggio del 25 giugno in una stanza della caserma Carini: le versioni sono troppo contrastanti e traballanti. Per i magistrati palermitani quell’incontro sarà la “prova” dell’inizio della famosa trattativa fra stato e mafia, che sfocerà in un processo con una sfilza di condanne in primo grado e una sfilza di assoluzioni in appello per gli uomini delle istituzioni.

L’ULTIMO DISCORSO Il 25 giugno, di sera, succede anche altro. Alla biblioteca di Casa Professa, a Palermo, in un dibattito organizzato dalla rivista Micromega, c’è il sindaco Leoluca Orlando, ci sono l’avvocato Alfredo Galasso e Nando dalla Chiesa, arriva anche Borsellino. È il suo ultimo discorso pubblico.
Dice: «In questo momento, oltre che magistrato, io sono testimone e avendo vissuto a lungo la mia esperienza accanto a Giovanni Falcone e avendo raccolto comunque come amico tante sue confidenze, prima di parlarne qui devo riferirle all’autorità giudiziaria».
È passato più di un mese da Capaci, Borsellino manifesta la sua ansia di raccontare ciò che sa. Ma i procuratori di Caltanissetta ancora non lo hanno chiamato.
In famiglia Paolo Borsellino si sfoga. Confida alla moglie Agnese: «Ho capito tutto». Allude alla morte di Giovanni Falcone. E poi aggiunge: «Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».
Il 28 giugno è domenica e Paolo Borsellino e sua moglie sono a Fiumicino, aspettano l’aereo per Palermo. Con loro c’è Liliana Ferraro, che era la vice di Falcone agli Affari penali del ministero della Giustizia.
A Fiumicino c’è anche il ministro della Difesa Andò, vede Borsellino, si avvicina. Gli chiede cosa ne pensa delle ultime minacce arrivate – un’altra informativa del Ros – contro lo stesso Andò, contro Borsellino, contro il sostituto procuratore Antonio Di Pietro.

L’INFORMATIVA NASCOSTA Borsellino è furioso: nessuno l’ha avvertito. L’informativa è finita sulla scrivania del suo capo Pietro Giammanco ma il suo capo non l’ha avvisato.
Lunedì 29 giugno di primo mattino Borsellino entra nella stanza di Giammanco e urla, sbatte i pugni sulla sua scrivania.
Il procuratore capo fa il vago, dice che la competenza per quelle minacce è della procura di Caltanissetta, farfuglia qualcosa.
Paolo Borsellino si sente in trappola. «Lo arrestano, vedrete che prima o poi l’arrestano», ripete ossessivamente fra le mura di casa come ricorda la figlia Lucia a Piero Melati nel libro Paolo Borsellino per amore di verità scritto per Sperling & Kupfer e appena uscito. Parlava di Pietro Giammanco?

L’INTERROGATORIO Luglio. Il primo giorno del mese c’è il nuovo governo, al posto di Vincenzo Scotti all’Interno arriva Nicola Mancino. Borsellino è a Roma. C’è un nuovo pentito da ascoltare, è Gaspare Mutolo, l’ex autista di Riina. Alla fine del 1991 Mutolo aveva chiesto di parlare Falcone.
Ma Falcone, direttore degli Affari penali è fuori ruolo, non può interrogarlo. Così Mutolo dice: «Mi fido solo di Borsellino». La richiesta di Mutolo è sempre sul tavolo del procuratore capo Giammaco che, ancora una volta, non avverte Borsellino e delega altri magistrati per l’interrogatorio del pentito. Borsellino lo viene a sapere qualche giorno dopo. È un altro scontro con il suo capo, Giammanco alla fine cede e consente che Mutolo parli anche con Borsellino.

IL PENTITO L’interrogatorio si apre alle 15 nella sede romana della Dia, la direzione investigativa antimafia. Con Borsellino e il procuratore aggiunto Aliquò ci sono il colonnello dei carabinieri Domenico Di Petrillo e il vicequestore Francesco Gratteri.
Il pentito ha già anticipato che farà rivelazioni su due personaggi famosi a Palermo, il primo è Domenico Signorino, uno dei due pubblici ministeri al maxi processo, il secondo è Bruno Contrada, il numero tre del Sisde, il servizio segreto civile. Mentre Mutolo svela i misteri di Palermo, Borsellino riceve una telefonata dal Viminale.
Interrompe l’interrogatorio e, con Aliquò, va verso il centro di Roma dove si è appena insediato il nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Lì, al Viminale – e questa è la versione di Mutolo – avrebbe incontrato “casualmente” il capo della polizia Vincenzo Parisi con accanto proprio Bruno Contrada, uno dei nomi appena fatti dal pentito. Un avvertimento? Mancino non ricorda di avere mai incontrato Borsellino quel giorno.

GLI ULTIMI GIORNI L’aria di Palermo si fa sempre più velenosa. Il 2 luglio un anonimo molto informato spedisce otto cartelle a 39 indirizzi, vertici dello stato, uomini politici e giornalisti. Si riferisce di summit fra ministri e latitanti, di un pentimento di massa dei mafiosi, di quello che avverrà nei prossimi mesi in Sicilia e in Italia.
Ci sono notizie vere mischiate a notizie false: è un’operazione di intossicazione. Il giorno dopo la Falange armata rivendica l’anonimo: «Se questo deludente risultato hanno sortito quelle otto cartelle, allora vuol dire che ulteriori segnali forti, chiari, devastanti necessariamente si impongono».
Sabato 4 luglio Paolo Borsellino va a Marsala per l’ultimo saluto ai giovani sostituti che hanno lavorato al suo fianco, martedì 7 luglio il premier Giuliano Amato dice che «l’assassinio di Falcone è avvenuto a Palermo ma probabilmente deciso altrove perché la criminalità è un fenomeno internazionale con più teste in più paesi», lunedì 13 luglio a Palermo arriva il tritolo per uccidere Paolo Borsellino.
Lui ascolta ancora il pentito Mutolo, torna a Palermo e mette in cassaforte i verbali. Poi passa in procura – è il 17 luglio – e saluta uno per uno una mezza dozzina di giovani sostituti.
Il giorno dopo, il 18 luglio, bacia il portiere del suo palazzo. Non l’aveva mai fatto.
La mattina di domenica 19 luglio si sveglia presto. Una telefonata con la figlia Fiammetta che è in vacanza in Thailandia, il pranzo a Marina Longa nel villino del suo amico Pippo Tricoli, poi si congeda da suo figlio Mandredi e da Angese: «Vado a prendere mia madre, devo portarla dal dottore». Attilio Bolzoni per www.editorialedomani.it 18.7.2022

 

 

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