Ci sono saliti in tanti e molti altri lo faranno. Chissà chi ha avviato l’ingranaggio. Non c’è tempo di porsi domande.
La grande giostra gira veloce. E la velocità confonde, risucchia la netta differenza fra i figli del dolore, che ne avrebbero volentieri fatto a meno, e chi sgomita per trovare posto e ingrassare l’amor proprio.
Fra chi si impegna perché ci crede davvero e chi cerca solo uno strapuntino di notorietà. Fra magistrati e investigatori animati da spirito di servizio e carrieristi.
Il risultato è che 31 anni dopo la strage di via D’Amelio si sono smarrite troppe cose.
La verità, innanzitutto. A volte anche il decoro e il senso della misura, sentimenti che il rispetto per i defunti avrebbe dovuto suscitare.
Si fa fatica a stare dietro al turbine degli accadimenti.
Spunta ogni giorno un nuovo super testimone, un nuovo verbale, un nuovo decreto di perquisizione.
In Procura, a Caltanissetta, competente per le indagini sulle stragi di mafia, prima o poi finirà lo spazio fisico dove archiviare tonnellate di carte.
La giostra è stata soprattutto giudiziaria.
Il resto è venuto da sé. Unica eccezione la fermata, seppure tardiva, per far scendere i saltimbanchi della giustizia spacciati per collaboratori.
Il prezzo pagato è stato altissimo in termini di credibilità.
Si è scoperto che erano stati condannati degli innocenti rimasti a lungo in carcere. E’ potuto accadere perché non uno ma un centinaio di magistrati, fra giudici (compresi quelli popolari) e pubblici ministeri, hanno preso per buone, senza mai dubitarne, le dichiarazioni dei falsi pentiti.
Molti di loro oggi si indignano parlando di depistaggio, continuano a imbastire processi (e quando li perdono ripiegano su quelli mediatici che funzionano sempre laddove le chiacchiere valgono più delle prove), danno la caccia ai fantasmi pur di non ammettere di avere preso un clamoroso abbaglio collettivo.
Tra il 1996 e il 2021 sono stati celebrati cinque processi (Borsellino, Borsellino bis, Borsellino Ter, Borsellino quater e quello di revisione a Catania).
Tra primo grado, appello e Cassazione significa dodici dibattimenti che si sono spesso sovrapposti non solo per il tema trattato, ma anche temporalmente.
Solo negli anni più recenti i magistrati hanno aperto gli occhi dopo che per una lunghissima stagione la loro posizione si è appiattita sui racconti dei pentiti.
Avrebbero potuto smascherare e zittire sul nascere Vincenzo Scarantino e soci. E’ andata diversamente. Le sentenze sono state un inno alla loro attendibilità.
I giudici del primo processo, celebrato davanti alla Corte di assise presieduta da Renato Di Natale, ritennero provato che un balordo di borgata come Scarantino fosse in realtà un killer di mafia.
Per accreditarsi, infatti, non raccontò solo della strage, ma disse di avere commesso una sfilza di omicidi. Poteva, d’altra parte, un malacarne stare al fianco di Totò Riina in uno dei momenti più drammatici della storia d’Italia e di Cosa nostra? Per rendere credibile se stesso, ancora prima del suo racconto, Scarantino, sconosciuto ai mafiosi e all’intelligence (?) antimafiosa, si inventò di avere ammazzato una decina di persone. Alzò la manina e si autoaccusò.
Anni dopo avrebbe detto di averlo fatto sotto tortura del capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, il super poliziotto che guidava il gruppo investigativo sulle stragi e che dopo la morte è diventato l’uomo dei misteri. Da solo, o con complici rimasti nell’ombra, così dicono le più recenti ricostruzioni, La Barbera avrebbe ideato il depistaggio obbligando a suon di botte e soprusi i collaboratori di giustizia affinché recitassero un copione.
La verità è che per un paio di decenni gli unici a mettere in guardia dalle bugie di Scarantino sono stati gli avvocati degli imputati. Si poteva mai dare ascolto a chi difendeva i carnefici?
18 dic 2023 IL FOGLIO RICCARDO LO VERSO