Gli errori dei pm (da Boccassini a Di Matteo) sul depistaggio Borsellino

 

Il tribunale di Caltanissetta ha assolto i poliziotti che si occuparono della gestione del falso pentito Scarantino. Ma l’elenco delle cantonate prese dai magistrati durante le indagini è infinito

Il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana rimane senza colpevoli, almeno sul piano processuale. Martedì sera, il tribunale di Caltanissetta ha dichiarato prescritte le accuse nei confronti dei poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei, accusati di aver depistato le indagini sulla strage di via d’Amelio del 17 luglio 1992, in cui morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Il terzo imputato, Michele Ribaudo, è stato assolto. I tre poliziotti (che facevano parte del “Gruppo Falcone-Borsellino”, guidato da Arnaldo La Barbera) erano accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra e, in particolare, di aver contribuito a “costruire” il falso pentito Vincenzo Scarantino, le cui dichiarazioni portarono alla condanna all’ergastolo (poi annullata) di sette persone innocenti, che non avevano avuto alcun ruolo nella strage.

In precedenza, nel febbraio 2021, a Messina era stata archiviata, su richiesta della stessa procura, l’inchiesta nei confronti dei due pubblici ministeri Carmelo Petralia e Annamaria Palma, all’epoca dei fatti in servizio a Caltanissetta, che con i poliziotti si occuparono più da vicino della gestione di Scarantino, il piccolo picciotto semianalfabeta del rione Guadagna che riuscì a convincere i magistrati di essere stato l’uomo incaricato da Totò Riina di commettere una delle stragi più importanti della storia d’Italia.

I verdetti giudiziari non impediscono affatto di valutare la vicenda da un punto di vista non processuale e di concentrarsi sui tanti errori, acclarati, commessi negli ultimi trent’anni da molti pubblici ministeri, alcuni dei quali piuttosto noti.

Su Petralia e Palma, all’epoca dei fatti pm a Caltanissetta, è stata la stessa gip di Messina a sottolineare che, pur in mancanza di condotte penalmente rilevanti, “ci furono molteplici irregolarità e anomalie nella gestione del collaboratore Scarantino”. Basterebbe citare il mancato deposito dei verbali di confronto tra Scarantino e i collaboratori di giustizia Cancemi, Di Matteo e La Barbera del gennaio 1995, da cui emergeva tutta l’inattendibilità dello stesso Scarantino.

La prima a occuparsi della gestione di Scarantino dal 1993, in stretta collaborazione con il procuratore capo Giovanni Tinebra (morto nel 2017), fu però Ilda Boccassini, che per due anni esercitò le funzioni in Sicilia prima di fare ritorno a Milano. Fu Boccassini ad autorizzare nel 1994 ben dieci colloqui investigativi della polizia con Scarantino, quando già era iniziata la collaborazione con i magistrati. In seguito, prima di tornare a Milano, Boccassini lasciò due relazioni al procuratore Tinebra in cui mise in discussione l’attendibilità di Scarantino, relazioni che vennero di fatto ignorate da Tinebra e dai colleghi. Negli anni successivi, Boccassini non intraprese comunque alcun’altra iniziativa per segnalare l’errore che, a suo dire, i pm stavano commettendo dando retta a Scarantino.

Ci sarebbe poi da ricordare Gian Carlo Caselli, allora procuratore capo a Palermo. Nel luglio 1995, quando la moglie di Scarantino accusò La Barbera di avere fatto torturare il marito per convincerlo a riempire i verbali sulla strage di via D’Amelio, Caselli intervenne in difesa del superpoliziotto, convocando i giornalisti e parlando di notizie “inquinate e inquinanti” e di “una campagna di delegittimazione contro i collaboratori di giustizia”. Di nuovo, nessuno osò mettere in dubbio le rivelazioni del “pentito”.

Anche Nino Di Matteo, il pm simbolo del processo sulla “trattativa stato-mafia”, ritenne attendibili le rivelazioni di Scarantino, persino quando quest’ultimo nel 1998 decise di ritrattare denunciando le pressioni dei poliziotti. In una requisitoria, il pm antimafia affermò infatti che “la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni”, sostenendo che il passo indietro del falso pentito fosse dovuto alla mafia. Il depistaggio Borsellino probabilmente non avrà mai colpevoli, ma gli errori dei pm sono evidenti.